Viaggio nella Cuba che aspetta la fine del bloqueo con un misto di speranze e paure

CAPITOLO I: L’Avana

 

28/12/2015  Milano – L’Avana

Anche questo nuovo viaggio inizia la mattina presto. Sono le tre di notte e non ho praticamente dormito. Per raggiungere l’aeroporto di Linate a quest’ora antelucana abbiamo organizzato un car sharing autogestito con il mio amico Giuseppe, che sarà il mio compagno di stanza come a Sofia. La macchina è sua; purtroppo ha avuto una disavventura stradale con un gruppetto di balordi pochi giorni prima della partenza ma, nonostante la botta evidente sopra la ruota posteriore destra, regge. Ogni tanto fa qualche rumorino inquietante, ma va. Con noi ci sono anche Giordana e Paola. Sembriamo tutti dei morti di sonno, ma un po’ di entusiasmo c’è: si va a Cuba!

Nel parcheggio dove abbiamo deciso di lasciare la macchina incontriamo un altro gruppetto di aficionadas dei viaggi di Radiopop: Alma, Franca ed Elena.

Sì, anche questo viaggio è organizzato da Radio Popolare, sempre con il fondamentale supporto di Viaggi e Miraggi.

Il viaggio stavolta è più lungo, sia in termini di distanza che di giorni, e il gruppo più piccolo: 15 persone in tutto. All’aeroporto troviamo anche gli altri, anzi le altre: Liliana, Mara, Luciana, un’altra Franca e Daniela. Le prime tre le conosco già bene, fanno parte anche loro del gruppo “storico” che ha già fatto diversi viaggi insieme. Franca e Daniela invece, mamma e figlia, le ho viste solo all’incontro pre-viaggio di una decina di giorni fa. Ma so che anche loro hanno già partecipato al viaggio in Marocco, in un gruppo diverso dal mio. Daniela, per fortuna, ci abbassa un po’ l’età media. Non so come si troverà lei con tutti questi “vecchi”, piuttosto, ma se ha deciso di ripetere l’esperienza forse pensa di potercela fare. Glielo auguro.

Insomma la presenza femminile nel gruppo, lo avrete capito, è decisamente preponderante. Negli sguardi che ci scambiamo noi maschietti affiora un tantino di malcelata apprensione.

A rappresentare la radio c’è Eddi Berni con la moglie Laura. Sono contento di conoscere anche loro. Negli altri viaggi con Claudio Agostoni mi sono sempre trovato bene, come anche con Danilo De Biasio nell’eccezionale, irripetibile maratona in pullman Milano-Sarajevo, ma è sempre bello dare un volto a un’altra voce familiare.

Per Viaggi e Miraggi c’è Paola, stavolta, a farci da angelo custode. Anche lei l’ho conosciuta di persona solo dieci giorni fa. Lei ha dormito qui in aeroporto, ma non si direbbe. È una ragazza energica e al tempo stesso rassicurante. È di Padova, ma la sua mamma è palestinese. La sua cadenza dolcemente veneta contrasta un po’ con quei tratti che credo abbia preso dalla mamma: un certo portamento fiero e un po’ di luce del deserto che mi sembra di scorgere nei suoi occhi. Forse è solo suggestione, ma questo non fa altro che rendermela subito simpatica. Per essere qui con noi ha lasciato, per la prima volta per parecchi giorni, la sua piccola Nora di due anni. Per lei è lavoro, certo, ma visto che ha già questo pensiero speriamo di non darle altri grattacapi.

Voliamo con KLM. Il primo volo verso Amsterdam scivola via veloce, ma è il secondo, Amsterdam-L’Avana, che ci preoccupa: sono più di dieci ore. Alla fine, però, dormicchiando, mangiucchiando e guardando un film a spizzichi e bocconi, anche questo passa. Capitando vicino a Daniela e Franca, posso conoscerle un pochino meglio e ridere un po’ con loro: Daniela è molto offesa con la KLM perché le hanno dato un giochetto da bambini per passare il tempo in aereo, una specie di puzzle da colorare o qualcosa di simile. Lei, che ha già la laurea triennale in scienze agrarie, si sente giustamente sminuita. Può sembrare forse un po’ più piccola della sua età, ma non fino a questo punto!

All’arrivo Paola di VeM (è brutto, ma in qualche modo dovrò distinguerla, c’è un’altra Paola nel gruppo) tenta di scambiare la sua valigia con quella di una hostess, che però se ne accorge e la blocca prima che il piano vada a buon fine. Lei sostiene che sia solo uno sbaglio, che si sia confusa tra due valigie molto simili, ma non ci toglie del tutto il sospetto che volesse vedere come le sta quel tailleurino azzurro…

Riusciamo a disbrigare tutte le formalità, anche se a ritmi latinoamericani il giusto, e usciamo finalmente a respirare l’aria calda di un pomeriggio d’inverno tropicale (qui il fuso è -6 rispetto all’Italia). Ci siamo già liberati in fretta e furia di giubbotti, felpe, maglioni e tutto quanto ci ricorda l’inverno milanese. Li abbiamo ficcati nelle valigie o negli zaini e li rivedremo soltanto tra dieci giorni.

Ora è il momento di conoscere David, che sarà per noi guida e mediatore culturale. È un ragazzone (ha 42 anni, ma ne dimostra meno) dal sorriso aperto e cordiale, che porta i dread, ma non troppo lunghi, e parla un ottimo italiano, soprattutto per uno che lo studia solo da pochi mesi.

La sua formazione è da biologo. Ha lavorato come ricercatore nel settore, occupandosi prevalentemente dell’alimentazione del bestiame, ma poi ha preferito dedicarsi all’informatica, che gli sembrava aprire migliori prospettive per lui e per la sua numerosa famiglia, che ama molto. È stato programmatore e webmaster, ma ora è pienamente coinvolto nel progetto di turismo responsabile che Viaggi e Miraggi sta cercando di portare avanti a Cuba. È lui che organizza tutti i trasporti e le sistemazioni, che saranno sempre in “casas particulares”, cioè case private che affittano camere, che sono onnipresenti nell’isola e riconoscibili dall’insegna con il simbolo azzurro sulla porta.

A differenza di molti suoi coetanei, ha deciso di rimanere a Cuba perché ama profondamente anche il suo paese. Ma ci racconterà poi che anche lui, a un certo punto, ha vacillato.

Nel parcheggio dell’aeroporto ci aspetta il nostro pullman, che a sorpresa è un pullman nuovo, grande e con tutti i comfort. Ci aspettavamo un pullmino e invece… l’autista si chiama Ronald, come Ronaldinho, dice, e non a caso. È un grande tifoso del Barcellona, come si vede dal gagliardetto che ha appeso in pullman. Non poteva, quindi, dire “come Ronaldo del Real Madrid”. Mi diceva, a proposito, un amico che si è trasferito all’Avana da circa un anno, e che incontrerò in questi giorni, che da un po’ di tempo la TV cubana trasmette regolarmente le partite della Liga spagnola e che quindi la passione per il calcio sta dilagando, andando ad affiancarsi a quella, più tradizionale, per il baseball (anzi, “beisbol”). Come è naturale, i cubani si sono divisi nel tifo tra le due squadre spagnole più prestigiose e vincenti, appunto Real Madrid e Barcellona. Ronald, come me, tifa Barça e, anche in questo caso, mi risulta subito simpatico.

Nel tragitto dall’aeroporto al centro città passiamo, per ora fugacemente, da Plaza de la Revoluciòn, che ci fa provare la prima emozione, la prima sensazione di essere veramente qui: l’edificio con l’immagine stilizzata del Che è un’immagine familiare a molti, anche a chi non è mai stato qui prima. Ora non c’è tempo di fermarsi, ma ci torneremo con più calma.

La zona dove si trovano tutte le nostre casas particulares è proprio al confine tra due quartieri: Centro Habana e Vedado. Dovremo dividerci, perché ogni casa può affittare al massimo due camere, ma staremo comunque molto vicini.

Le casas sono soggette ad autorizzazioni e ad una regolamentazione molto rigida: devono pagare tasse (che per gli standard cubani sono piuttosto elevate), a seconda della posizione, per ogni camera in affitto e per gli eventuali altri servizi che offrono (ristorazione, parcheggio, ecc.); devono tenere un registro dei clienti, segnalando ogni nuovo arrivo entro 24 ore.

La casa che viene assegnata a me e a Giuseppe è quella di Nilda, una simpatica signora di 75 anni (è stata lei a dichiarare l’età, giuro che io non gliel’ho chiesta) che ci accoglie con calore. Ci mostra diligentemente tutte le dotazioni della camera e si sofferma soprattutto su due cose: la doccia e le chiavi.

La doccia, effettivamente, per le nostre abitudini è un po’ atipica: è riscaldata con una resistenza che scalda direttamente l’acqua nel tubo, per cui quando si apre il rubinetto bisogna anche azionare una leva tipo elettroshock, che a volte fa scintille. Diciamo che da noi non sarebbe esattamente a norma (eufemismo) ma qui a volte è così, mi avevano avvertito anche altri che erano stati in casas particulares. L’impressione non è il massimo, ma in realtà se si vince un po’ di diffidenza iniziale funziona e non succede niente, o almeno a noi in 4 giorni non è successo niente.

Per le chiavi il problema è diverso, ma c’è sempre un rischio: in questo caso quello di confonderle. Sì, perché le chiavi sono tre e praticamente identiche, se non per piccoli dettagli: Quella del portone sulla strada ha un piccolo 1 inciso sopra, quella della porta di casa è un po’ annerita e quella della camera ha un segno fatto col pennarello indelebile. Basta memorizzare questo e il gioco è fatto.

Sono io a parlare per tutti e due perché Giuseppe non mastica molto lo spagnolo e la signora onestamente, tra i non molti denti che le sono rimasti e l’accento cubano, non è comprensibilissima per chi non ha l’orecchio un po’ allenato. Per fortuna io ho imparato lo spagnolo anni fa in Spagna, molto dalla strada e un po’ con lo studio, ma poi ho avuto occasione di parlarlo anche in Argentina e in Cile, per cui ho un minimo di dimestichezza con l’accento latinoamericano. Per farmi poi un’idea, per quanto vaga, delle specificità cubane, mi sono guardato “Fragole e cioccolato” in lingua originale e senza sottotitoli. A qualcosina è servito.

Le cose più importanti da sapere sono queste:

  1. Tutte le “s” prima di una consonante o alla fine di una parola sono sostituite da un brevissimo suono aspirato, quindi in pratica non si sentono.
  2. Se sapete un po’ di spagnolo e avete, faticosamente, imparato a pronunciare la c o la z in “gracias”, “entonces”, “azul” ecc. con la lingua tra i denti, dimenticatelo: a Cuba non serve. Come in tutta l’America Latina, vige il seseo, cioè questi suoni si pronunciano come una normale “s” sorda italiana.
  3. La 2° persona plurale non esiste: al posto di “vosotros” si usa “ustedes”, cioè la forma di cortesia della 3° persona (come dire “loro”), e i verbi variano di conseguenza.
  4. L’intercalare “vale” (va bene), usato ossessivamente in Spagna, qui non c’è: è più o meno sostituito da OK, che si pronuncia “Okà”.
  5. Ci sono poi altre differenze di vocaboli. Solo qualche esempio: per “panino” non si usa “bocadillo” ma “sandwich”, per “succo” non “zumo” ma “jugo”, per dire che una cosa è piccola spesso si usa “chico/chica”, con eventuali altri livelli di diminutivi: chiquita, chiquitita ecc. In generale si usano molti diminutivi.

Ci sono anche delle parole specificamente cubane. Quella che mi piace di più, non so perché, è guagua, che significa autobus… non lo so, mi piace il suono. Ho letto che, originariamente, viene dalle Canarie ed è una riproduzione onomatopeica del suono del clacson.

Chiedo scusa per la lunga digressione (soprattutto a chi queste cose le sa già), ma credo che possa essere interessante per chi andrà, per avere una migliore comunicazione con i cubani, che credo sia una delle maggiori ricchezze che ci si può portare a casa dal viaggio. Poi, è chiaro che sulle cose essenziali tra latini in qualche modo ci si capisce sempre.

Tornando alla nostra Nilda, dopo averci dato le istruzioni essenziali ci lascia soli in modo che possiamo riposarci, farci la doccia ecc., ma poco dopo ricompare a sorpresa mentre mi sto cambiando. Essendo a torso nudo, mi sento un po’ in imbarazzo e cerco di coprirmi, ma lei mi dice di non preoccuparmi, che potrei essere suo figlio, e Giuseppe suo fratello. Ora che siamo di famiglia, mi sento anche di chiederle un consiglio per la montatura degli occhiali di Giuseppe, che si sono rotti in aereo per un piccolo… incidente mentre cercava di fare una foto. Lei dice che ci può consigliare un posto per comprare della colla qui vicino, o anche un ottico, ma tutto domani, perché ora sono tutti chiusi.

Usciamo per la cena e per esplorare un po’ i dintorni. La cosa che mi colpisce subito è che, proprio sull’angolo di casa nostra, su un edificio campeggia un dipinto murale del Che. L’avevo già adocchiato prima ma, con lo zaino pesante sulle spalle, era difficile fermarsi per fare la foto.

Ci siamo dati appuntamento per ritrovarci e andare a cena in una piccola piazzetta. Bè, neanche a farlo apposta, come se fosse un allegro comitato di accoglienza, si ritrovano qui a chiacchierare e a improvvisare balli intorno a una radio anche un piccolo gruppo di cubani di tutte le età. Il primo impatto con la città non potrebbe essere migliore.

Ceniamo in un locale un po’ fighetto ma anche un po’ “vorrei ma non posso”. David lo definisce di terza generazione, in questo senso. Prima c’erano solo i ristoranti statali; poi, all’inizio degli anni ’90, sono nati i primi privati, quelli di prima generazione appunto, che erano piccoli, con 4 tavoli al massimo. Nel 2011 inizia la seconda generazione, sono autorizzati anche ristoranti un po’ più grandi. E ora siamo alla terza, con questo tipo di locali ancora più grandi, gestiti da cooperative. Il cibo è passabile, non è un granchè come atmosfera. Ma per la prima sera va bene anche così, siamo tutti stanchi, non dormiamo da più di 24 ore e vogliamo solo andare a nanna.

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29/12/2015  L’Avana

La giornata inizia con una ricca colazione in un’altra casa, quella di Marisol, che impareremo a conoscere perché, in tutti i 4 giorni di permanenza all’Avana, sarà il posto della nostra colazione conviviale, tutti e 15 insieme.

La colazione di Marisol è stellata, come ha avuto modo di dire Claudio Agostoni, che ha dormito anche lui qui, in una puntata di Onde Road. Un bel piatto di frutta: una banana, papaya, guayaba (un frutto tropicale molto diffuso a Cuba)… e succhi di frutta tropicale, uno diverso ogni mattina. Caffè, latte, tè, biscotti, yogurt, pane a volontà da mangiare con la marmellata o con una gelatina di guayaba, che ha una consistenza simile alla cotognata, per dare un’idea. E per finire una bella frittatina.

Così ritemprati, smaltita un po’ la stanchezza del viaggio, possiamo partire alla scoperta dell’Avana, partendo dal Vedado, che è un po’ il “nostro” quartiere. È un quartiere che nacque alla fine dell’800, ma il cui vero boom edilizio è degli anni ’20 del ‘900. La sua planimetria a griglia quasi perfetta lo fa somigliare alle città americane (o “norteamericane”, come si dice qui).

Con David che ci fa da guida, possiamo apprezzarne le architetture art deco, ad esempio il palazzo chiamato Serrano, che somiglia abbastanza all’Empire State Building, con il suo fratellino più piccolo noto come Serranito.

Qui si trova anche Coppelia, la gelateria resa famosa da “Fragole e cioccolato”, ma che è sempre stata popolarissima tra i cubani. Tanto che, già alle 10 del mattino, le code sono lunghissime.

E poi, come non parlarne, ci sono le macchine: quelle incredibili vecchie macchine americane che ormai fanno parte dell’iconografia di Cuba. Non ci sembrerebbe di essere qui, se non le vedessimo. Chevrolet, Dodge, Cadillac: tutte risalgono a prima del 1959. Qualcuna è tenuta che sembra uscita ieri dalla concessionaria, con le cromature tutte luccicanti al sole caraibico. Altre sono un po’ più in disarmo, ma comunque vanno. Come camminino non si sa, con quei motori di altre macchine, presi chissà dove, e con pezzi di aspirapolvere come ricambi. Un miracolo dell’arte di arrangiarsi, della fantasia e della capacità di adattamento dei cubani. Uno spiacevole effetto collaterale è che l’aria dell’Avana è inquinata: il livello di PM10 è forse superiore a quello di Milano di questi giorni, solo che qui non ci sono centraline dell’ARPA a misurarlo…

Attraversiamo un bel mercato popolare, per poi dirigerci verso il Malecon, il mitico lungomare dell’Avana. Lungo la strada, approssimandoci all’ambasciata USA recentemente riaperta, notiamo moltissimi cartelli con la scritta “Se llenan planillas”. Sono piccoli o piccolissimi uffici che forniscono assistenza per la compilazione dei moduli per ottenere i visti per andare all’estero, definitivamente o anche solo per un viaggio temporaneo. Tuttora i cubani per espatriare devono avere un “invito” da parte di un cittadino del paese di destinazione e fare una lunga trafila.

È qui che David ci confessa che anche lui, qualche anno fa, ha avuto un cedimento: non vedeva prospettive e aveva deciso di cercare, come molti suoi connazionali, di raggiungere gli Stati Uniti passando per un altro paese, nel suo caso l’Ecuador. Per motivi che tuttora non gli sono chiari, l’Ecuador non gli concesse il visto. Per fortuna, dice ora lui. Perché non era del tutto convinto di andarsene e ora, a conti fatti, è felice di essere rimasto.

Una breve passeggiata sul Malecon ci porta a una piazza dove si trova la tribuna anti-imperialista, costruita per ospitare le manifestazioni di protesta contro il nemico americano. Questo posto è chiamato dagli habaneros “protestodromo” e tuttora vi si tengono concerti e raduni.

Facciamo anche una puntatina all’Hotel Nacional, un altro pezzo di storia habanera, che è stato prima della rivoluzione il quartier generale cubano di vari mafiosi americani. Ora mantiene la sua eleganza un po’ kitsch e la sua bella terrazza sul mare; per curiosità proviamo a chiedere i prezzi: per una singola chiedono qualcosa come 300 CUC, che per un hotel così pretenzioso non è neanche tanto.

È il caso di ricordare, per chi non lo sa, che a Cuba circolano due monete: i pesos cubani, o moneda nacional, e i pesos convertibili, legati al dollaro e chiamati anche CUC (Cubanos Convertibles). Un CUC vale 24 pesos cubani. Gli stranieri pagano praticamente tutto in CUC, a meno che non riescano a mescolarsi con i cubani nei negozi o nei mercati popolari e non turistici. Per i cubani la moneta di tutti i giorni è il peso cubano, ed è anche la moneta in cui ricevono lo stipendio, salvo pochissime eccezioni. Ma per comprare certi generi considerati “di lusso” anche i cubani devono pagare in CUC. Una doppia economia, di fatto. Una doppia economia che esisteva, in realtà, anche prima che nascesse il CUC; allora era il dollaro la moneta forte. Il CUC era stato creato come espediente temporaneo con l’idea, in prospettiva, di arrivare gradualmente a parificare le due monete. Ora, però, il cambio Peso/CUC è fermo da troppi anni perché si possa pensare che la possibilità di una parificazione sia ancora concreta. Un discreto casino, insomma, un po’ come tutto a Cuba in questo periodo.

Ci spostiamo al Callejon de Hamel, un vicolo di Centro Habana pieno di murales realizzati da collettivi di artisti locali e di opere dell’artista contemporaneo Salvador Gonzales. C’è anche un piccolo spettacolo di Rumba, ma è probabilmente solo un assaggio dello spettacolo vero, che ha luogo la domenica mattina. Il posto è comunque interessante e sintomatico della vivacità artistico-culturale della città. I murales e le installazioni contengono versi di poeti cubani e/o trattano temi legati alla santeria, che mischia il culto dei santi cattolici con quello delle divinità della tradizione africana.

Da qui ci trasferiamo ad Habana Vieja, per cominciare a prendere confidenza anche con la parte più antica della città.

Per il pranzo ci fermiamo in Plaza Vieja, una piazza molto gradevole dove quasi tutti gli edifici sono già stati restaurati seguendo il cosiddetto Plan Maestro, un progetto che riguarda specificamente Habana Vieja e che prevede il restauro conservativo e il riutilizzo a fini sociali, ricreativi e culturali, anche in collaborazione con i privati, dei palazzi storici. Uno di questi, del 1700, è diventato ora il Cafè Bohemia, dove ci sediamo in maniera del tutto casuale per scoprire poco dopo:

  1. Che il proprietario è un romano con la moglie cubana; per ora fanno la spola con Santo Domingo, dove vivono, ma hanno intenzione di trasferirsi definitivamente qui.
  2. Che di qui era già passato Claudio Agostoni, che aveva intervistato il nostro per la recente puntata di Onde Road sull’Avana, quella dove parlava anche di Marisol. Se non è una carrambata questa…

È lui che, per intrattenerci in attesa dei sospirati panini e insalate (il servizio, per quanto lui tenti di velocizzarlo in nostro onore, segue comunque i suoi ritmi cubani), ci racconta del Plan Maestro e di tante altre cose. Il nome Bohemia è preso da quello di una rivista fondata nel 1908, che il suo suocero cubano ha diretto anni fa. La sua ambizione, quindi, è quella di creare un vero caffè letterario, che diventi un punto di riferimento per la vita culturale habanera. Per ora, di sicuro è letteraria l’ispirazione dei nomi dei panini. Come poteva non esserci un panino “Il vecchio e il mare”? Sembra che anche i nipoti di Hemingway, di passaggio all’Avana, l’abbiano voluto provare.

Ripartiamo camminando per le vie dell’Avana vecchia, fino alla piazza acciottolata dominata dalla seicentesca chiesa di S. Francisco de Asis.

Di fronte c’è la Lonja del Comercio, un ex mercato alimentare ristrutturato nel 1996 per ospitare gli uffici delle società straniere con joint venture a Cuba. Dalla terrazza si gode un bel panorama sulla città e sulla baia, che ci prepariamo ad attraversare.

Lo facciamo passando in pullman per un tunnel sottomarino lungo qualche centinaio di metri che sbuca dall’altro lato della baia, nella zona dove si trovano il castello del Morro e la fortezza di Cabaña. Qui c’è anche una grande statua del Cristo in marmo bianco, che ha una storia curiosa: il dittatore Batista la fece realizzare, come ringraziamento per essere scampato a un attentato, nel dicembre del 1958, poco prima della vittoria della rivoluzione. Se avesse tardato ancora pochi giorni… probabilmente ora la statua non sarebbe qui.

Ma soprattutto, siamo qui per ammirare da questa posizione privilegiata il tramonto sullo skyline dell’Avana e devo dire che lo spettacolo davvero non delude. Per fortuna ora fare le foto è una questione di pixel e di Megabyte, un tempo avremmo consumato rullini interi.

Il problema degli occhiali di Giuseppe, nel frattempo, è stato risolto da David con un po’ di colla, ma ora risultano un po’ storti sul naso, per cui lui preferisce usarne un vecchio paio che si era portato di riserva.

Prima di cena incontro fugacemente il mio amico ormai habanero di adozione. Scopro, non senza restare un po’ sorpreso, che ultimamente ha messo abbastanza la testa a posto. Ha conosciuto una cubana che stavolta ha intenzione di sposare, la cosa ormai è quasi ufficiale; poi sta cercando di aprire una specie di agenzia immobiliare… insomma, ha molti impegni che ci impediranno di rivederci in questi giorni, ma va bene così.

Dopo cena (le cene cubane non sono mai molto brevi, quindi vuol dire che sono già passate le 11) io, Giuseppe, Giordana e Luciana decidiamo di farci una passeggiata sul Malecon. Il sogno di Giuseppe sarebbe di percorrerlo tutto, ma tra andata e ritorno sarebbero una quindicina di km, quindi lo scoraggiamo subito. Lui è un grande camminatore, ma noi non ci sentiamo di seguirlo nell’impresa. Ci piace, però, l’idea di vedere il Malecon la sera e di respirarne l’aria frizzante insieme all’allegra folla di giovani che ogni sera lo popola. Per quello che possiamo vedere, in questo tratto tra il Vedado e Centro Habana ci sono pochissimi turisti: sono tutti ragazzi cubani che chiacchierano seduti sui muretti, bevono, suonano, cantano, qualche coppietta amoreggia… il tutto con un occhio (e un orecchio) al mare perché, per non farci mancare l’immagine dell’Avana che tutti abbiamo negli occhi, le onde si infrangono violentemente sugli scogli mandando spruzzi e qualcuna più capricciosa supera addirittura il muretto allagando un pezzetto di lungomare.

Forse troppo presi da questo spettacolo realizzato in compartecipazione dall’Oceano e dalla gente di Cuba, per tornare verso casa prendiamo la strada sbagliata e ci allontaniamo dalla nostra zona. Non riusciamo più a orientarci e siamo costretti a tirare fuori la guida, che per fortuna ho portato con me, per ritrovare faticosamente la via di casa. Mi rifiuto di prendere un taxi per fare pochi isolati, non per i soldi perché costa pochissimo e nemmeno perché non mi piacciano i taxi cubani, ma per principio. La luce però è poca e non sempre c’è il cartello col nome della strada… quando finalmente arriviamo è un po’ tardi, ma tutto sommato ne è valsa la pena.

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30/12/2015  L’Avana

Stamattina siamo a Miramar, un quartiere residenziale lontano dal centro storico, pieno di verde, con ampi viali alberati, molte sedi diplomatiche e qualche hotel di grandi catene internazionali, a poca distanza da altri che invece sono chiaramente di stampo socialista. Una zona “borghese”, usando questa parola con tutte le virgolette del caso. Forse è l’embrione di quello che nascerà quando il grande cambiamento alle porte sarà compiuto. È un’altra faccia dell’Avana che è importante vedere per completare il quadro. È qui, però, che David ci spiega che il periodo especial, iniziato dopo la fine dell’Unione Sovietica, non è ancora finito. Forse la fase più dura è alle spalle, ma non finirà davvero finché non finirà l’embargo, il bloqueo come dicono qui. E questo, al momento, dipende dai capricci della politica americana, con una campagna presidenziale che sta per iniziare. A dimostrazione di questo, entrando in un supermercato ci accorgiamo che anche qui, a Miramar, il panorama sugli scaffali è piuttosto deprimente, almeno se confrontato con quello a cui siamo abituati.

Arriva poi un appuntamento molto atteso: quello con il Museo de la Revoluciòn. Entrando, alcuni compagni di viaggio mi fanno notare il divertente “Rincon de los Cretinos”, dove la caricatura di Batista è affiancata da quelle di Reagan, Bush padre e Bush figlio. Non posso fare a meno di notare anche la didascalia di George W.: Grazie, cretino, per averci aiutato a rendere irrevocabile il socialismo. Letta oggi, fa un po’ sorridere.

Poi, sempre con l’aiuto di David, ripercorriamo tutte le fasi della rivoluzione, dall’assalto alla caserma Moncada, allo sbarco del Granma, alla Sierra Maestra, all’ingresso trionfale del Che a Santa Clara dopo l’attacco al treno. E poi la fase postrivoluzionaria, con la riforma agraria e la riforma urbana, la Baia dei Porci, l’inizio dell’embargo e tutti i tentativi di sabotaggio portati avanti negli anni dalla CIA, con tutti i mezzi compresa la guerra biologica condotta introducendo agenti patogeni in grado di distruggere i raccolti e di decimare le popolazioni di bestiame.

Quello che mi colpisce è che tutto finisce più o meno nel 1989. Forse è un caso, ma mi viene da pensare che quello che è successo dopo sia meglio non raccontarlo…

Dopo un pranzo da O’Reilly, dove i panini sono così così ma c’è un ottimo caffè con rum invecchiato e crema di latte, ci spostiamo verso la Plaza de la Catedral, dominata dal barocco della settecentesca cattedrale di San Cristobal.

Nelle immediate vicinanze c’è la Bodeguita del Medio e allora… come non passare di lì? È ovviamente strapiena e ormai completamente turistica, ma un salto a dare un’occhiata dentro bisogna farlo.

Con Nilda siamo sempre più in confidenza. Ha tutta l’aria di una di quelle vecchiette che sanno tutto di tutti, nel quartiere. Anche di noi, ora che ha visto i passaporti, sa qualcosa: almeno l’età. E ci tiene a sottolineare che, anche se Giuseppe ha solo 5 anni meno di lei, lui con il suo passo spedito sembra che abbia 30 anni, in confronto a lei che si trascina piena di acciacchi. Ci fa conoscere la nipotina di 9 anni e la cugina che vive con lei e che, poverina, ha quella brutta malattia che ti fa perdere la memoria, come si chiama… l’Alzheimer! E così, anche se è più giovane di lei di tre anni, a lei tocca accudirla. E poi, quando ce ne andiamo, mi saluta sempre con “Hasta ahorita”, che è un’altra espressione deliziosamente latinoamericana che mi piace un mondo. Adesso ho cominciato a dirlo anch’io, e lei mi sorride bonaria. Giuseppe dice che è furba, dietro quel sorriso, e probabilmente ha ragione lui.

La nostra serata inizia con un altro appuntamento che tutti aspettiamo, quanto meno con curiosità: quello con il Teatro Espontaneo, il progetto che stiamo finanziando con una quota del costo del nostro viaggio.

È una compagnia teatrale interdisciplinare, composta per lo più da musicisti, attori e psicologi che da anni forniscono servizi alla comunità, a istituzioni e a gruppi diversi, utilizzando il Playback Theatre, il Teatro Espontaneo e lo Psicodrama. Esiste dal gennaio 2001, ed è diventato un laboratorio per il recupero della spontaneità, offrendo a migliaia di persone di tutta l’isola spettacoli aperti e altre performance. I temi trattati emergono sempre dal pubblico e di frequente riguardano disagi individuali o sociali legati ai temi più vari, tra i quali: HIV, sessualità, condizioni economiche, disparità di genere, mutamenti socio-economici, desideri e aspirazioni individuali e collettivi.

La parte “psicologica” del lavoro consiste nel favorire processi terapeutici partendo da una pratica coerente con i metodi usati dalla compagnia anche per gestire i conflitti interiori, le dinamiche e i processi di gruppo e comunità.

Questa non è una serata di spettacolo “normale”, per quanto possa essere normale uno spettacolo così: non lo è mai, e meno male. Ma stasera non siamo neanche in un teatro, siamo in una casa, il che rende il tutto ancora più intimo e coinvolgente.

La compagnia è guidata da Carlos Borbòn, detto Carlitos, che è infermiere professionale, ma anche laureato in comunicazione audiovisiva e psicodramma.

Si comincia con un po’ di “riscaldamento”, fatto dagli attori e dai musicisti della compagnia, che ci raccontano con brevi monologhi le loro cose più banali e quotidiane, dai piccoli dolori alle piccole gioie, ai risvolti psicologici che può avere per una donna un nuovo taglio di capelli, soprattutto se un po’… radicale. David traduce; quando ha qualche piccola incertezza sulla parola italiana da usare mi guarda e intervengo io, il metodo l’abbiamo già collaudato e funziona. Ogni piccolo racconto viene poi interpretato e “drammatizzato” con una forma di teatro basata molto sulla fisicità e sull’espressività, anche al di là della parola.

Ma poi tocca a noi. Dobbiamo tirare fuori qualcosa di nostro, qualcosa di spontaneo, per dare a loro qualcosa su cui lavorare. Come sempre, in questi casi, rompere il ghiaccio non è semplice. Ci aiuta Paola raccontando, in spagnolo, la cosa più semplice e più naturale: che ha lasciato da pochi giorni la sua bambina ma già le manca tanto.

E poi… sorpresa. Si alza un ragazzino biondo con la maglia di Iker Casillas (portiere del Real Madrid, ndr). Scopriremo poi che ha 11 anni ed è il nipote di Carlitos (buon sangue non mente). Anche lui ci dice la prima cosa che gli viene in mente. E cosa può essere? Bè, è un po’… sollevato perché, ancora per qualche giorno, è a casa da scuola e pensa a godersi le vacanze! Ma lo fa con una naturalezza e una grazia che non possono che intenerirci e spingere anche noi a tirare fuori quello che abbiamo dentro.

Io mi alzo e, anch’io in spagnolo per facilitare il compito ai ragazzi, provo a dire quello che mi viene: e cioè che sono molto felice di essere qui, che è un viaggio che sognavo da tantissimo tempo e che per diverse ragioni, legate anche alla mia famiglia (un incidente domestico che ebbe mio padre un paio d’anni fa), non sono mai riuscito a fare. E che quindi non vedo l’ora di vivere tutto quello che questo viaggio potrà portare. Soprattutto mi preme dire che ringrazio loro per le emozioni che ci stanno regalando. Carlitos mi chiede cos’è esattamente che mi attira di Cuba. Accenno solo all’aspetto politico, perché in questo momento preferisco non enfatizzarlo troppo, e parlo di cose fondamentali come il sole, il mare, la musica… poi, a freddo, mi rendo conto che avrei potuto dire mille altre cose, e che forse anche enfatizzare l’aspetto politico non era poi così male; ma funziona così, devi dire quello che ti passa per la testa in quel momento, senza filtro, se no non vale.

Rimango stupito da come, con così poco, le ragazze e i ragazzi della compagnia riescano a interpretare perfettamente e con passione quello che volevo dire. Non hanno, e forse nemmeno gli servirebbero, grandi oggetti di scena o costumi. Fanno fondamentalmente tutto coi loro corpi, le loro voci e qualche strumento musicale.

E così, piano piano, diversi di noi si alzano e danno il loro contributo. Anche in italiano va bene, dove serve si traduce ma i ragazzi capiscono tutto al volo e le loro interpretazioni sono sempre essenziali, ma perfette e in un certo modo poetiche.

C’è chi è qui per celebrare i suoi primi 60 anni e c’è chi ci ricorda che il leit motiv di questo viaggio è… goderci gli ultimi scampoli di Cuba prima che arrivino gli Yankee!

E c’è chi ci commuove. Giordana, che dice che ha avuto dalla vita cose belle e cose molto meno belle, ma comunque si sente di dire… “Gracias a la vida”, come Violeta Parra. E così ci dà l’occasione di ascoltarne una intensa versione. E Paola, che parla degli amici che ha perso e di quelli che ha trovato.

La più fortunata è Alma, che con quel nome qui ha vita facile… e così il suo desiderio di un altro mondo possibile diventa un volo, la sua alma-anima è così piena di farfalle che il suo destino è proprio quello: volare. Guardate qui:

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Per finire, guidati dagli attori, ci disponiamo tutti in un cerchio di mani intrecciate, ci mettiamo in connessione con una mano e con l’altra buttiamo nel cerchio i nostri auguri per il nuovo anno: amore, pace, libertà, ron, cerveza…

Alla fine abbiamo tutti gli occhi che brillano, e non solo per l’allegro brindisi a base di rum (a stomaco vuoto) che ci facciamo. È stata un’esperienza davvero speciale. Avevo una vaga idea di cosa fosse, ma non pensavo potesse essere così coinvolgente, è veramente una specie di rito liberatorio.

Abbiamo anche portato a termine la missione di consegnare a Carlitos un paio di scarpe da parte di Alessandra, un’altra nostra amica viaggiatrice che lo ha conosciuto in occasione di un viaggio fatto da sola.

Andiamo a cena e poi alla Fabrica de Arte Cubano, un locale ricavato in una vecchia fabbrica di olio dismessa. Non solo per questo, è un locale che non sfigurerebbe a Berlino.

Ci sono vari bar, uno spazio per concerti, uno per la proiezione di film e diversi spazi dedicati a mostre di arti visuali e fotografia. In particolare, c’è un’interessante serie di opere del fotografo argentino-israeliano Enrique Rottenberg, che collabora attivamente al progetto della Fabrica de Arte. Mi racconta Carlitos che vengono qui anche lui e la sua compagnia a fare una performance alla settimana, pare con un buon successo.

Ci sono giovani cubani della nuova classe media, che possono permettersi un locale che per i più poveri è abbastanza inaccessibile, ma anche tanti stranieri. A me, ad esempio, capita di incocciare un valenciano con cui faccio una breve chiacchierata. Tutto nasce dal fatto che, casualmente, indosso una maglietta della Fiesta de las Fallas di Valencia. Lui mi dice: pensa, io sono valenciano… allora gli  racconto di quanto mi sia piaciuta la festa di 5 anni fa, ma lui mi consiglia un’altra festa, alternativa, che fanno lo stesso giorno in una zona meno centrale della città… rispondo che, perché no, potrei provare una volta o l’altra.

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31/12/2015  L’Avana

Oggi iniziamo la giornata prendendocela un po’ più comoda, con qualche spesuccia al mercato di San Josè. Non è troppo affollato ed è piacevole, anche se obiettivamente ne ho visti di più autentici; qui non vedo molti cubani in giro. È pieno di oggetti realizzati con materiali riciclati, di tutti i tipi: i cubani sono maestri del riciclaggio. Tra i souvenir più “classici”, l’oggetto forse più originale è una specie di scatolina magica di legno, che esiste in varie misure e colori e che si apre solo se metti le dita in due punti ben precisi, che però a causa dei disegni sulle scatole si fa fatica a ricordare. È facile confondersi, e così sembra che, una volta chiusa, non sia più possibile aprirla…

Dopo il mercato abbiamo un po’ di tempo libero. Con un piccolo gruppetto, vorremmo farci un altro giro nell’Avana vecchia e visitare il Museo de la Ciudad, che però sfortunatamente è chiuso. Probabilmente, per qualche ragione, qui oggi è considerata giornata festiva. Ripieghiamo su qualche acquisto dai librai ambulanti che stazionano in questa zona e che hanno molte cose sfiziose, dall’album delle figurine della rivoluzione cubana a poster di vari generi: ci sono delle belle locandine di film, cubani e non, che attirano molto Laura ed Eddi e un po’ anche me, ma alla fine preferisco andare un po’ più sul classico e comprare un manifesto più “politico”, con scritto “Aqui no se rinde nadie” (qui non si arrende nessuno, ndr). Mi piacerebbe appenderlo in ufficio, ma ultimamente da noi c’è stato un po’ un giro di vite sulle cazzate personali esposte, quindi penso che me lo terrò a casa.

Per il pranzo ormai s’è fatto tardi e così il tentativo di trovare un tavolo in un posto carino che si chiama “Jardin Oriental” o qualcosa di simile risulta infruttuoso. Anzi, rischiamo di essere coinvolti in una lite (per il tavolo, appunto) tra due coatti romani, al che ci diamo alla fuga e ripieghiamo su un più tranquillo ritorno dal nostro amico del Cafè Bohemia.

Poi, dopo aver visitato la Bodeguita del Medio, tempio Hemingwayano del Mojito, non può mancare un breve passaggio al Floridita, dove, per i pochi che non lo sapessero, Hemingway amava gustare il suo Daiquiri.

Dobbiamo però tornare a casa presto perché stasera la serata inizierà presto.

Inizia, precisamente, con la visita ad un altro quartiere generalmente non toccato dai giri più “mainstream” dell’Avana: 10 de Octubre. Si tratta di una zona che, prima della rivoluzione, era il regno dell’alta borghesia Habanera. Con la riforma urbana di Fidel nessuno poteva possedere più di una casa e quindi, negli anni, le vecchie dimore sono state assegnate a famiglie senza casa che, però, non hanno i mezzi per ristrutturarle. Così ora per la maggior parte sono ridotte quasi a dei ruderi, salvo alcune che sono finite in tempi più recenti in mano a persone della “nuova” classe media, che hanno un posto statale importante o lavorano per imprese straniere. E che hanno quindi i soldi per metterle a posto.

È qui che inizia ad accompagnarci Pablo Rodriguez Ruiz, antropologo all’università dell’Avana e autore di numerosi saggi sulla storia del popolo cubano. Io e Giuseppe gli veniamo subito segnalati da Paola come persone molto interessate alla storia di Cuba e con una certa “competenza”. In realtà è soltanto che io ho letto recentemente “Le vene aperte dell’America Latina”, di Eduardo Galeano, e l’ho consigliato a Giuseppe, che poi l’ha letto anche lui. Ma questo basta per avere qualche nozione base, come il punto di svolta determinato nella storia cubana dalla rivolta degli schiavi di Haiti del 1791. A seguito di quella rivolta, molti piantatori francesi si trasferirono a Cuba, che da allora (e fino a non molti anni fa) divenne il primo paese produttore di canna da zucchero al mondo. Con tutti i danni ambientali che la monocoltura della canna ha causato in termini di deforestazione ed erosione, i cui effetti sono ancora oggi visibili. Iniziamo quindi a chiacchierare piacevolmente con Pablo, che ci dà qualche piccola anticipazione di quello che verrà dopo.

Stiamo infatti per trasferirci a casa dei genitori di David, dove passeremo la serata dell’ultimo dell’anno. Ma prima c’è l’incontro con Pablo, che in realtà da programma era previsto per stamattina ma è stato spostato per motivi logistici.

Ci sistemiamo tutti in una stanzetta, chi sui letti e chi sulle sedie che riusciamo a portare. È un luogo un po’ insolito per una lezione, e anche un tempo, a poche ore ormai dallo scoccare della mezzanotte. In effetti Pablo preferirebbe non fare una lezione classica, ma partire subito rispondendo a qualche domanda da parte nostra. Più d’uno, però, manifesta la preferenza per una “spiega” iniziale sui punti essenziali della storia di Cuba e quindi lui si adegua. Un po’ a malincuore, perché gli sembra di massacrare la storia del suo paese condensandola in poche battute.

Fatto sta che più di tanto, evidentemente, non è condensabile e quindi mentre lui parla e David traduce, con qualche aiutino qua e là da parte mia, passa ben più di un’ora. Paola nota un vistoso calo dell’attenzione (per usare un eufemismo) e si fa portavoce del gruppo nel chiedere una pausa, che Pablo fatica un po’ ad accettare ma poi concede. Ed è salutare, devo dire. Riusciamo in qualche modo a concludere e a lasciare un po’ di spazio per qualche domanda. Si parla molto del ruolo della donna nella società cubana, e scopriamo che le differenze di salario a parità di lavoro sono minori che da noi. Un altro tema caro a Pablo è quello del razzismo, che è in aumento con la crisi, come un po’ dappertutto, in realtà. Per contro, una nota positiva è che i giovani non si sono allontanati più di tanto dalla politica e conoscono la loro storia.

Il punto chiave, però, è quello delle prospettive future. C’è chi dice che l’unico modo per non cadere nelle braccia degli americani sarebbe cadere nelle braccia dei cinesi, ma chissà poi se sarebbe meglio. Secondo Pablo, Cuba rischia, se il cambiamento non sarà gestito (e al momento non si sa bene chi potrà farlo, vista la gerontocrazia tuttora in sella), di cadere in breve tempo nel neoliberismo, con conseguente drastico aumento delle disuguaglianze (che già sono in crescita) e possibile svuotamento dell’isola. La sua ricetta per impedire tutto ciò consiste nell’appropriazione da parte dei lavoratori dei processi produttivi. Detto così, a dire il vero, risulta un po’ teoria, ma per spiegare i contenuti concreti dell’idea servirebbe un tempo che non potremmo sicuramente reggere, adesso.

Certo che, fa notare Eddi, quale altro gruppo se non quello di Radiopop potrebbe, con la mezzanotte che si avvicina a grandi passi, essere qui a discutere del futuro di Cuba con un antropologo?!? Bè, che dire? È proprio vero.

Ma ora è il momento di dedicarci alla festa. E la base di ogni festa cubana che si rispetti, capodanno compreso, è il lechon asado, il maialino cotto per un numero di ore indefinito, che alla fine è effettivamente di una tenerezza che tutti apprezziamo entusiasticamente. Vegetariani a parte, ma anche per loro c’è di che essere soddisfatti, con la miriade di frutti e tuberi tropicali che l’isola offre, e che sono tutti presenti, e con i diversi modi che esistono di friggere una banana. Ormai abbiamo capito che se fritte intere si chiamano Tostones e se fatte “a patatina” prendono il nome di chicharritas. Chi ci spiega i piatti, con grande gentilezza, è il papà di David, che però ammette di non essere lui il “cocinero” principale, ma rende merito alle sue figlie e a sua moglie. La mamma di David è una signora dolcissima e piena di vita, che scoccata la mezzanotte cerca di coinvolgere tutti nelle danze, anche chi come me è proprio negato. Lei invece, nonostante qualche acciacco che denuncia, se la cava alla grande ed è il centro della festa. Anche i nipoti di David, devo dire, sono uno spettacolo: uno di loro ha un paio di baffetti che sembra Lou Bega…

Ne ero sicuro, ma David ha davvero una famiglia meravigliosa. Famiglia di cui fa parte anche Carlitos, che anche stasera arriva qui a ballare con noi. Si capisce anche dai piccoli gesti il tipo di persona eccezionale che è.

Arriva però, purtroppo, anche il momento di lasciarli concludere i festeggiamenti in santa pace e di andarcene a nanna, anche perché domani mattina non troppo tardi dobbiamo partire.

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(Continua…)