Viaggio nella Cuba che aspetta la fine del bloqueo con un misto di speranze e paure

CAPITOLO III: Trinidad e Santa Clara

 

04/01/2016 Trinidad

La giornata inizia con una piacevole e rilassata colazione con Giuseppe, Laura ed Eddi su quella che è già la “nostra” terrazza e che lo sarà per i prossimi tre giorni. Dopo di che siamo pronti per partire alla scoperta della città, di cui ieri sera abbiamo avuto un’idea solo parziale.

Trinidad è una città coloniale perfettamente conservata, dove sembra che tutto si sia fermato al 1850. Costruita sulle enormi fortune accumulate con la produzione di zucchero nella vicina Valle de los Ingenios all’inizio del secolo XIX, continua tuttora a esibire la ricchezza del suo periodo di massimo splendore nei sontuosi palazzi coloniali adorni di affreschi, porcellane, lussuosi arredi spagnoli e lampadari.

La nostra visita inizia, appunto, dal museo dell’architettura trinitaria (gli abitanti di Trinidad si chiamano trinitari), che ha sede in due palazzi del ‘700 ed è dedicato all’architettura delle residenze nobiliari dei secoli XVIII e XIX. Tra le tante cose interessanti ci sono una doccia con idromassaggio d’epoca e un impianto della fine dell’800 con cui si ricavava acetilene dalla reazione tra carburo di calcio e acqua. Il gas prodotto era poi utilizzato sia per l’illuminazione che per la cucina.

Il cuore del centro storico è Plaza Mayor, la piazza principale, che colpisce per la sua quiete, oltre che per l’imponenza dei palazzi che la circondano.

Da lì ci spostiamo però in un quartiere che, pur essendo a breve distanza, ci consente di vedere un’altra faccia di Trinidad, decisamente diversa. Come succede in tutte le città dell’America Latina, i contrasti sono forti. Qui non ci sono strade, non ci sono fognature, l’elettricità arriva in modo un po’… artigianale (anche se a dire il vero ho visto di peggio in alcune città dell’Argentina e del Cile). Eppure le case sono tutte autorizzate, non sono insediamenti abusivi, non ci troviamo in uno slum. L’atmosfera è quella, certo, di un quartiere popolare, ma la gente, che pure non è sicuramente abituata a vedere turisti da queste parti, quasi non fa caso a noi, impegnata nelle sue attività quotidiane. All’Avana e anche qui, in altre zone, succede spesso che per strada persone ti avvicinino chiedendo caramelle per i bambini, penne o saponette. Ma in questo quartiere no. La gente, evidentemente, è abituata ad affrontare la lucha quotidiana senza bisogno di piccoli espedienti.

Ci fermiamo per il pranzo da “El Rapido”, il fast food cubano. Qui per la prima volta abbiamo occasione di provare la pizza cubana e di capire cosa intendevano esattamente i ragazzi della compagnia di Teatro Espontaneo quando, in proposito, dicevano: “Farà anche schifo, ma è la nostra pizza”.

Poi si parte in pullman per un’escursione verso il parco del Ranchon El Cubano, una quindicina di km fuori città. Lasciato il pullman nel parcheggio del Ranchon, un’oretta di trekking in mezzo al bosco ci porta a una splendida cascata che si getta in una piccola piscina naturale d’acqua verdissima. A fianco della cascata, sulla sinistra, c’è una piccola grotta.

David dà subito il buon esempio spogliandosi e tuffandosi direttamente dal sentiero, da un’altezza di 4 o 5 metri. Paola ed io lo seguiamo a ruota, ma abbiamo bisogno di un ingresso in acqua un po’ più… comodo, che per fortuna c’è, scendendo a piedi un po’ più in basso.

Pian piano si lanciano un po’ tutti e andiamo a nuotare sotto la cascata, per goderci un fantastico idromassaggio naturale, e nella grotta. L’acqua è freddina e comincia anche a scendere qualche goccia di pioggia, ma non ce ne accorgiamo neanche. È meraviglioso.

La sera si mangia ancora tutti insieme, stavolta a casa di Toni. La cena trascorre in allegria. Scherziamo con David su tanti argomenti, tra cui il Monopoli, che lui definisce un gioco capitalista, ricordando i tempi in cui militava nella gioventù comunista. Quelli erano tempi in cui si poteva rischiare l’espulsione, come successe a lui, soltanto per aver preso le parti del capitalismo in una specie di gioco che avevano messo in scena durante una riunione. Era soltanto un espediente dialettico, spiega lui, per ragionare insieme; bisogna conoscere anche gli argomenti dell’altra parte per capire come controbatterli. Ma tanto bastava per essere sottoposto a una specie di processo.

L’episodio fa sorridere, ma fa anche un po’ pensare. Mi torna in mente una frase di un altro libro di Galeano che sto leggendo in questi giorni, nei pochi momenti liberi. Si intitola “Dias y Noches de Amor y de Guerra”. È una raccolta di aneddoti e brevi racconti, in parte autobiografici e in parte riferiti da amici e compagni, tutti relativi al periodo delle dittature militari in America Latina, tra gli anni ’70 e ’80. Galeano parla di una battuta di humor “nero”, così la definisce, che circolava in quegli anni: “El poder es como un violín. Se toma con la izquierda y se toca con la derecha”. Il potere è come un violino. Si prende con la sinistra e si suona con la destra. Non voglio applicarla tout court a Cuba, sarebbe eccessivo e semplicistico. Ma è certo che la repressione del dissenso, in questi anni, è stata controproducente, oltre che sbagliata in sé.

Dopo cena, è il turno del locale afrocubano. Si chiama Palenque de los Congos Reales. Il piatto forte è lo spettacolo di rumba, con percussioni dagli intensi ritmi africani e ballerini dai fisici statuari che sono anche un po’ acrobati, un po’ giocolieri, un po’ mangiafuoco. Onestamente, però, ci sembra fatto un po’ troppo a misura di turista, soprattutto quando si chiamano sul palco persone del pubblico e si gioca con i serpenti. Mi pare che privilegi l’aspetto spettacolare ai danni della musica, almeno stasera.

Quando forse finalmente la musica sta per iniziare, va via la luce, come del resto è già successo diverse volte oggi, anche nel tardo pomeriggio. Aspettiamo un po’, ma poi la stanchezza prevale e ce ne torniamo a casa.

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05/01/2016 Trinidad – Playa Ancon

Il risveglio, anche qui come a Viñales, è spesso al canto del gallo. Ma in realtà qui i galli, forse confusi dai black out, cantavano anche ieri sera…

Dopo colazione, si parte per Playa Ancon, una delle spiagge più belle della costa meridionale, a cui sarà dedicata la mattinata. La spiaggia, in effetti, è bella e ci assiste abbastanza anche il meteo, che pure stamattina presto non prometteva niente bene.

Ci facciamo tentare da un giro in barca per fare un po’ di snorkeling sulla barriera corallina. Per me è un’esperienza nuova e, tutto sommato, positiva, anche se chi l’aveva già provato in passato dice che forse non è il posto migliore per farlo e neanche la giornata migliore: l’acqua è un po’ torbida e non si vede tantissimo. Io poi ho l’ulteriore problema che, essendo molto miope, se metto la maschera devo togliere gli occhiali e quindi se i pesci non mi si avvicinano a 1 cm dal naso faccio fatica a vederli… solo dopo scoprirò che David aveva una maschera graduata, peccato. Comunque un bel po’ di pesci tropicali tigrati riesco a vederli. C’è chi dice di averne visti altri, di altri colori, ma io mi accontento.

Nel pomeriggio andiamo a visitare uno zuccherificio storico della Valle de los Ingenios, a San Isidro.

Come tanti zuccherifici a Cuba, chiuse alla fine dell’800 pochi anni dopo l’abolizione della schiavitù, che data al 1886. La lavorazione della canna era in gran parte basata sullo sfruttamento della schiavitù. Non poter più contare su una manodopera gratuita che lavorava fino a 20 ore al giorno mise in grave crisi le aziende, che non riuscirono a trovare il modo di evolversi e sopravvivere.

Oggi la prima cosa che si vede entrando è una imponente torre campanaria che serviva proprio per dare l’allarme in caso di fuga di uno schiavo, richiamando l’attenzione dei cacciatori di schiavi che partivano all’inseguimento.

Poi c’è la ceiba, un grande albero con enormi radici e una foltissima chioma, tipico dell’America centro-meridionale. La tradizione, qui, vuole che se si gira tre volte intorno alla ceiba toccandola ed esprimendo un desiderio, quel desiderio si realizzerà. È un rito propiziatorio a cui ci sottoponiamo volentieri.

Le altre parti del vecchio zuccherificio sono praticamente in rovina, ma si possono ancora vedere i resti della casa padronale, delle baracche degli schiavi e del rudimentale impianto di depurazione dell’acqua, che veniva poi riutilizzata proprio per le baracche degli schiavi.

Il torchio era mosso inizialmente dalla forza umana, solo più tardi dai buoi. Il succo veniva messo a raffreddare e solidificare in recipienti a forma di cono, da cui veniva poi estratto il cosiddetto pan di zucchero.

Ritorno a Trinidad e visita al Museo Historico Municipal, ospitato in un palazzo appartenuto a un latifondista tedesco di nome Kanter, spagnolizzato in Cantero, ragion per cui ancora oggi è chiamato Casa Cantero. Justo Cantero, nel XIX secolo, divenne proprietario di vaste piantagioni di canna da zucchero avvelenando un vecchio mercante di schiavi e sposandone la vedova. Le sue ricchezze, così disonestamente acquisite, sono evidenti negli eleganti arredi delle sale, dove sono esposti anche reperti delle varie rivoluzioni cubane. Varrebbe la pena di vedere il museo anche solo per la vista a 360° sulla città che si ammira dall’alto della torre.

Prima di tornare a casa, Eddi ed io ci compriamo il classico berretto verde con la stella rossa. Dovevo sostituire quello perso durante l’epico ritorno a cavallo dalla piantagione di tabacco. Oggi, poi, è nato un bambino nella famiglia che ospita Elena e Paola, quindi c’è anche da comprare un regalo per lui.

Tornando, con Laura, Eddi, Elena e Paola facciamo anche un incontro molto divertente. Ci fermiamo per qualche minuto ad ascoltare un gruppo di musicisti di strada e loro, per ringraziarci dell’attenzione, ci invitano a suonare con loro, a turno, uno strano strumento a percussione che si rivelerà poi essere una mandibola di cavallo. È un momento veramente da ricordare, per la genuina atmosfera di festa che si respira. Non so se può rendere l’idea, ma qui trovate una piccola testimonianza filmata:

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Dopo la doccia, usciamo per andare alla Casa de la Musica a comprare qualche cd. Qualcosa troviamo, ma a dire il vero mi aspettavo un po’ di più: non c’è molta scelta e la commessa non sembra neanche morire dalla voglia di vendere. Tra l’altro, l’impianto stereo è rotto e non si può ascoltare nulla. Per fortuna, Giuseppe si è fatto dare delle indicazioni da Boris, il nostro padrone di casa, e così seguiamo i suoi consigli: Los Van Van, un classico di sempre, e Pupy y los que son son, un gruppo con origini un po’ più recenti.

Ma resto un po’ deluso, perché non c’è nulla di Habana de Primera, il gruppo capeggiato dal trombettista Alexander Abreu, che conosco da anni e che è tra i più popolari di Cuba, e nemmeno di Silvio Rodriguez, che certo non sarà modernissimo ma facendo un parallelo Italia-Cuba è come dire De André.

Regalo a Boris una maglietta di Radio Popolare e un paio di bermuda. Spero che possano essere un buon ricordo per lui, per la sua famiglia o per qualcuno a cui vorrà regalarli.

Cena a casa nostra, stasera, e poi usciamo per l’ultima serata cubana. C’è già un pizzico di malinconia, anche perché il primo posto dove andiamo a bere qualcosa, Las Ruinas del Teatro Brunet, è praticamente deserto, forse per l’ora o per la serata infrasettimanale. Lo scenario, che come dice il nome è costituito dalle rovine di un vecchio teatro, è bello, ma il locale è vuoto. Ne approfittiamo per provare in coro una strofa di Hasta Siempre Comandante, la più famosa e iconica canzone dedicata al Che, che Carlos Puebla scrisse per salutarlo al momento della partenza per la Bolivia. In questi giorni qualcuno del gruppo mi ha chiesto di scrivere il testo su un foglietto, che poi fotograferemo con i cellulari perché nessuno può usare internet qui, e io ho diligentemente eseguito. Ci sarebbe l’idea di cantarla domani, quando visiteremo il mausoleo del Che a Santa Clara. In realtà, detto tra noi, la prova non viene benissimo. Meno male che non c’è nessuno nel locale.

Dato che neanche i cocktail sono troppo buoni, ci trasferiamo, almeno quelli che ne hanno ancora la forza e non sono spaventati dalla levataccia di domattina, alla Casa de la musica. Sì, lì non c’è solo il negozio di dischi, per fortuna. È anche, e prima di tutto, un locale all’aperto che ruota attorno all’ampia scalinata accanto alla Iglesia Parroquial nei pressi di Plaza Mayor. L’ambiente, come tutte le sere, è molto vivo e frequentato non solo da turisti, ma anche da molta gente del posto, che si alza dalla scalinata o dai tavolini per scatenarsi nelle danze. Ci godiamo un po’ di musica molto popolare a base di salsa e reggaeton e poi, anche per noi, arriva il momento di tornare verso casa e verso qualche ora (poche) di sonno.

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06/01/2016 Trinidad – Santa Clara

Ci consoliamo dell’alzataccia guardando una magnifica alba accendere il cielo di Trinidad mentre aspettiamo la colazione.

Salutati Boris, Kenia e tutti gli altri trinitari che ci hanno ospitato in questi giorni, saliamo sul pullman diretti a Santa Clara.

Ma prima di arrivarci ci fermiamo a visitare un altro vecchio zuccherificio che si trova sulla strada, nei pressi di Trinidad. Ci arriviamo che non sono nemmeno le 8, e questo sembra cogliere un po’ di sorpresa il piccolo villaggio che sorge intorno allo zuccherificio e che a quest’ora si sta ancora svegliando. In pratica, costringiamo la gente del posto a preparare in fretta e furia le bancarelle e a ripulire il trapiche (il torchio, ndr). Sì, perché nell’altro zuccherificio ce l’avevano raccontato ma si poteva solo immaginare com’era, non si era conservato. Qui invece lo possiamo proprio vedere, dal vivo. E non solo. Possiamo anche gustarne il frutto appena spremuto. Non dal torchio antico, naturalmente, ma da quello, più piccolo, che serve al baracchino locale per produrre il guarapo: così si chiama qui il succo di canna, che per una volta assumiamo… senza alcol! È ovviamente dolcissimo, ma ci serve per addolcire un po’ l’amaro in bocca che  ci provoca l’imminente partenza.

Ed ecco Santa Clara, la città che Che Guevara liberò nel dicembre del 1958, alla testa di un piccolo gruppo, facendo deragliare un treno blindato con una ruspa e qualche molotov fatta in casa.

Oggi Santa Clara ospita all’interno di un mausoleo i suoi resti, ritrovati in una fossa comune in Bolivia nel 1997. Il Che è raffigurato in una statua di bronzo e nella pietra del monumento sono incise le sue parole. Quelle di alcune sue frasi celebri e quelle della lettera che scrisse a Fidel per salutare lui e tutta Cuba prima della partenza per l’avventura boliviana. David e io, per l’ultima volta insieme, la traduciamo per il gruppo. Poi entriamo nel mausoleo, che contiene 38 nicchie scavate nella pietra dedicate agli altri guerriglieri, le cui spoglie furono ritrovate insieme a quelle del Che. Ricordo alcuni di quei nomi: sono i nomi che ho letto nel diario boliviano tanti anni fa, ai tempi dell’università. In silenzio, ciascuno di noi può vivere il suo personale momento di riflessione.

Visitiamo anche l’annesso museo, dove sono raccolti molti cimeli e molte immagini del Che: foto con il mate, foto delle trasformazioni prima della partenza per il Congo prima e per la Bolivia poi. Foto da giovane, in viaggio con la Poderosa caricata all’impossibile per le strade dell’America latina. È forse l’immagine di lui che mi piace di più. Sarà una visione ingenua e romantica, ma che ci volete fare, sono fatto così.

Ci sono anche le ceneri di Alberto Granado, l’amico che lo accompagnò in quel viaggio e che poi lavorò a Cuba come ricercatore. E ci sono gli strumenti con i quali Ernesto si improvvisava dentista per i compagni di lotta sulla Sierra Maestra, il suo inalatore per l’asma, una macchina fotografica Zenit, alcune armi e l’originale della lettera a Fidel.

A volte penso che lui, il Che, non vorrebbe questo culto della personalità che si è sviluppato negli anni intorno alla sua figura. Ma di sicuro sarebbe felice nel vedere per quante persone è stato ed è una fonte di ispirazione. In fondo era questo che lui pensava, guardava anche al di là della sua vita, nella consapevolezza che probabilmente non sarebbe stata lunga. Si augurava di poter trasmettere a chi sarebbe venuto dopo di lui quello che per lui era il modo di essere rivoluzionario. Il rivoluzionario, diceva, è colui che sente nel più profondo qualsiasi ingiustizia, commessa contro chiunque, in qualunque parte del mondo.

L’emozione, comunque, è forte. Per me e per tanti nel mondo il Che rappresenta l’utopia. E l’utopia è fondamentale per andare avanti.

Come quelli che erano con me a Cuba, anche voi, che ora state leggendo queste note, sarete già sfiniti dalle mie citazioni di Galeano. Ma qui un’ultima è d’obbligo, non se ne può fare a meno. Diceva Galeano che l’utopia è come l’orizzonte: se ti avvicini di un passo, lei si allontana di un passo; se ti avvicini di due passi, si allontana di due passi; se ti avvicini di dieci passi, si allontana di dieci passi. E allora, ti chiedi, a cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a continuare a camminare.

Purtroppo siamo in ritardo, non c’è tempo per una foto di gruppo e neanche per cantare Hasta siempre Comandante, ma forse è meglio così, visto com’era andata la prova di ieri sera…

Andiamo di corsa verso l’aeroporto, con una sola breve sosta che però basta per un’ultima Piña Colada, che poi mi hanno detto sia stata davvero speciale, forse proprio perché era l’ultima. Io purtroppo me la sono persa, avevo altre necessità organiche e anche poca voglia: ero già un po’ triste per la partenza. Un altro motivo per tornare.

All’aeroporto, saluto Ronald con un “vamos Barça” e David con un abbraccio e con la promessa di rivedersi presto. Si sta già parlando di un nuovo viaggio alla scoperta dell’Oriente cubano, fino a Santiago e forse a Baracoa. Sempre da fare, possibilmente… antes que lleguen los yanquis!

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Un grazie a Elena, Franca, Laura ed Eddi, che mi hanno permesso di usare alcune delle loro foto, e a tutti quelli che hanno fatto questo viaggio con me, vivendolo o solo… leggendolo.