Lisbona nera con Radio Popolare e ViaggieMiraggi, per scoprire che la capitale portoghese non è solo fado, azulejos e bacalhau.

 

Di nuovo ti rivedo,

città della mia infanzia spaventosamente perduta…

Città triste e allegra, eccomi tornato a sognare…

Io? Ma sono lo stesso che qui è vissuto, che qui è tornato,

e che qui è tornato a tornare, e a ritornare,

e di nuovo a ritornare?

(Fernando Pessoa, Una sola moltitudine)

 

Giovedì 23/6/2016

Il volo TAP 819 scende sull’aeroporto di Lisbona bucando una coltre bianca di nuvole basse. Siamo in ritardo di quasi un’ora. Per arrivare qui abbiamo fatto un lungo giro a causa dell’ennesimo sciopero dei controllori di volo francesi. C’è chi dice che abbiamo sorvolato l’Africa, si spargono voci incontrollate. Protestano contro la Loi Travail, l’equivalente del nostro Jobs Act. A proposito, come si vede che sono francesi: per loro è la Loi Travail, mica il Jobs Act. E hanno ragione, non si capisce perché da noi non possa essere chiamata riforma del lavoro. Certo, poi loro sono anche quelli che dicono “l’ordinateur” e “la souris”, ma in questo caso hanno ragione da vendere. Ad ogni modo, chiunque protesta contro la Loi Travail ha tutta la mia solidarietà, anche i controllori di volo, ma certo che il volo è diventato un po’ lungo.

Siamo qui con il solito gruppo di Radio Popolare, e con l’organizzazione di ViaggieMiraggi, per esplorare la Lisbona nera, a caccia dei colori, dei suoni e dei profumi che vengono direttamente dall’Africa lusofona, dalle ex colonie portoghesi: Angola, Mozambico, Capo Verde. Ci accompagna, manco a dirlo, Claudio Agostoni (a cui si deve anche l’idea), questa volta con Rossana, la gentile signora. E per ViaggieMiraggi una new entry: Simona Barranca, che nella vita lavora per il COE (Centro Orientamento Educativo) e si occupa soprattutto dell’ufficio stampa del Festival del cinema africano, asiatico e dell’America Latina. Ma qui, eccezionalmente, sarà il nostro angelo custode e la nostra guida quasi… indigena, nel senso che qualche anno fa ha vissuto qui per un anno, quando stava lavorando ad un progetto europeo. Del Festival, come altri del gruppo, sono assiduo frequentatore, per cui non vedo l’ora di conoscerla.

Nel gruppo, come sempre ormai, ci sono anche tanti amici con cui ho condiviso già molti viaggi e altrettante avventure. Non li elenco per non far torto a tutti gli altri; mi limito a citare Giuseppe, che ancora una volta sarà il mio fedele compagno di stanza… spesso dico che siamo una coppia di fatto, ormai. E quindi non posso non nominarlo.

Per me è un ritorno: conosco già un po’ Lisbona, per averci passato una settimana nell’estate del 2001. Una settimana in cui sono stato di base qui, con qualche puntatina a Porto, Coimbra ed Evora, per poi spostarmi in Algarve per un’altra settimana. Ho il ricordo di una città fascinosa e di grandi contrasti: orgogliosamente antica e insieme profondamente moderna, piena di vita e insieme malinconica. In quell’occasione ho imparato anche due parole due di portoghese, di purissima sopravvivenza, che proverò a rinverdire in questi giorni.

Le previsioni meteo per questo weekend erano più che buone, per cui questa inaspettata cappa di nubi che nasconde il cielo di Lisbona genera qualche malumore. Saranno malumori di breve durata, come le nubi, che si andranno a diradare in men che non si dica, lasciando al sole il posto che gli spetta, a far brillare le acque del Tago al tramonto.

Il menù del viaggio è già ricco, ma per di più arriviamo nel mese di giugno, che a Lisbona è tradizionalmente il mese delle feste, alla vigilia della festa di San Giovanni.

Per la prima volta nel gruppo di Radio Pop (almeno che sappia io, però di viaggi ne ho già fatti diversi) ci sono due minorenni: Corrado, 16 anni e una testa di dreadlocks, e Chiara, 15 anni. Spero che noi… diversamente giovani riusciremo a non farli annoiare troppo, ma entrambi hanno un forte interesse per l’arte, soprattutto nelle sue forme meno tradizionali, che in questa città troverà facilmente libero sfogo. Ad esempio, nel percorso verso l’albergo, possiamo subito ammirare tre giganteschi graffiti che occupano praticamente ciascuno un intero palazzo. Sono opera di Blu, lo street artist salito recentemente agli onori delle cronache per aver cancellato tutti i suoi lavori a Bologna per protesta contro la decisione di un’istituzione culturale bolognese, che progettava di “staccarli” dai muri per portarli in un museo e farne una mostra. Senza il suo consenso, ovviamente, dato che per lui la sua arte nasce dalla strada e per la strada e non può essere portata in un museo, per di più con il contributo di una fondazione bancaria, per renderla fruibile solo a pochi e a pagamento.

Il nostro albergo, l’Hotel 3K Madrid, si trova nella zona di Marquȇs de Pombal ed è anonimo ma confortevole. Arriviamo che è ormai quasi ora di pranzo, pur essendo partiti all’alba. Ci dividiamo in due gruppi, uno guidato da Claudio verso un ristorante di pesce buono ma non vicinissimo e l’altro, con Simona, per chi preferisce restare in zona in attesa di prendere possesso delle camere, che non sono ancora pronte. Io mi aggrego a quest’ultimo e, su indicazioni del personale dell’hotel, ci dirigiamo verso un posto chiamato Santa Marta, dove troviamo cordialità e un primo assaggio dell’onnipresente bacalhau, un piatto che è talmente tipico della tradizione portoghese da essere soprannominato amigo fiel, amico fedele. Si dice che i portoghesi scoprirono il baccalà all’inizio del XVI secolo, quando i loro pescherecci iniziarono a pescare il merluzzo nelle acque di Terranova, occupata nel 1500. Spinti dalla necessità di conservare i merluzzi durante il lungo viaggio di ritorno, i marinai impararono a salarli e ad essiccarli al sole, scoprendo così il cibo ideale sia per gli esploratori (che a quell’epoca veleggiavano fino alle coste dell’India) sia per il popolo che rimaneva in patria e amava il pesce, ma non disponeva di frigoriferi.

Per trovare il posto dobbiamo chiedere un po’ in giro e Simona, che parla perfettamente portoghese, ne approfitta per iniziarci alle delizie della lingua lusitana, che in questo caso vale la pena di usare. Sì, perché in portoghese “dov’è” si dice “onde fica”, che è più o meno come dire “dove rimane”. Ricordavo questo verbo ficar, che è molto usato in portoghese ma ovviamente all’orecchio italiano suona un po’… particolare. È facile prevedere, dall’ilarità generale, che diventerà un tema dominante di questo viaggio. E Simona, come le faccio notare, dovrà assumersene la responsabilità.

Anche durante il pranzo si crea subito un clima conviviale molto piacevole, non solo tra noi del gruppo “storico” ma anche con quelli con cui stiamo facendo ora conoscenza.

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Dopo pranzo l’appuntamento è nella Praça do Comercio, nota anche col vecchio nome di Terreiro do Paço. Le nubi si sono definitivamente diradate e il sole del pomeriggio è abbagliante come lo ricordavo.

Un tempo, gran parte dei visitatori arrivavano a Lisbona dal fiume e approdavano in questa enorme piazza, circondata da porticati settecenteschi. Ma ancora oggi, con la statua equestre di Dom Josè I al centro e l’Arco da Vitoria da cui si accede a Rua Augusta, Praça do Comercio si presenta un po’ come la porta di ingresso in città.

Qui, in occasione degli europei, è stato allestito una sorta di “villaggio” dove i lisboetas vengono a guardare le partite in compagnia e quindi la piazza presenta un volto un po’ diverso dal solito.

Qui si trova anche il ben allestito museo di storia della città, che con Claudio e pochi altri andiamo a visitare per un utile ripasso delle varie fasi della lunga storia di Lisbona e dei principali avvenimenti che l’hanno segnata. Su tutti spicca il catastrofico terremoto del 1755, che ha cambiato il volto di questa piazza e di gran parte della città. Qualcosa di così spaventosamente grande che ha influenzato anche la storia del pensiero, al punto che Voltaire scrisse il Candide a seguito di questo terremoto, per confutare la teoria di Leibniz del migliore dei mondi possibili: un mondo in cui succedeva una tragedia di quella portata non poteva essere il migliore dei mondi possibili.

Saliamo sull’Elevador de Santa Justa, un ascensore in ferro battuto con gli interni in legno, progettato da un allievo di Gustave Eiffel ai primi del ‘900. Non sale molto in alto, non più di una trentina di metri, e forse ammirarne da sotto l’eleganza neogotica è più gratificante della stessa vista che si gode da sopra, ma è comunque un classico da non mancare.

E poi il cuore della Baixa di Lisbona: Praça Dom Pedro IV, che per i lisboetas è e sempre sarà il Rossio, con la sua pavimentazione ondulata a mosaico fatta di ciottoli di pietra calcarea bianca e di basalto grigio. La attraversiamo e passiamo davanti alla sua affascinante vecchia stazione per andare a prendere l’aperitivo in un posto chiamato Wine & Pisco, che è simpatico anche se l’atmosfera non è proprio tipicamente portoghese, già dal nome. Il duo che suona per noi (uno dei due componenti è il referente di ViaggieMiraggi per Lisbona) ha un repertorio country-blues comunque gradevole.

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La cena è organizzata in un locale, con una grande tavolata. Cibo non indimenticabile, per la verità, ma serve a conoscersi ancora meglio e il gruppo infatti è sempre più affiatato.

La serata è fresca e ventilata come sanno essere le serate di Lisbona.

Data la levataccia di stamattina, siamo tutti stanchi ma Claudio decide di accompagnare chi se la sente alla seconda tappa del percorso di scoperta della street art lisboeta. E stavolta è davvero qualcosa di sorprendente: un garage a tre piani con le pareti completamente ricoperte di murales dei soggetti più vari, da quelli più figurativi a quelli più astratti: vedute inframmezzate da volti, strani personaggi, animali più o meno verosimili di un moderno bestiario, un autoritratto dell’artista. Veramente insolito.

E come non concludere la prima serata con un bicchierino di Ginjnha, il tipico liquore lisboeta alla ciliegia? Noi ce lo beviamo in maniera piacevolmente informale, in piedi da Eduardino, un piccolissimo localino a due passi dal Rossio che promette (e mantiene) una Ginjinha senza rivali.

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Venerdì 24/6/2016

La mattinata è libera ma Simona accompagna un gruppetto di noi a Belém, sullo sferragliante tram 15 che parte dal Terreiro do Paço. Lei abitava proprio da queste parti, sul percorso di questo tram, in una graziosa stradina in salita che ci mostra non senza emozione: per lei Lisbona è una città del cuore, forse LA città del cuore, e non lo nasconde.

Alla fine ci ritroviamo in parecchi, qui a Belém. La prima tappa non può che essere il Mosteiro dos Jeronimos, vero gioiello dello stile manuelino, uno stile riccamente decorativo e pieno di simboli marinari che rappresenta una vera specificità portoghese e che ha il suo apice durante il regno di Manuel I, all’inizio del ‘500, nel periodo a cavallo tra il gotico e il rinascimentale.

Io naturalmente l’avevo già visto, ma noto che lascia a bocca aperta praticamente tutti quelli che lo vedono per la prima volta.

Il monastero fu costruito in onore di Vasco da Gama, al rientro dalla spedizione verso l’India durata due anni e partita proprio da qui l’8 luglio 1497. Manuel I lo fece erigere proprio nel punto dove sorgeva la cappella dove Vasco da Gama e i suoi ufficiali avevano trascorso la notte in preghiera alla vigilia della partenza e volle che fosse dedicato alla Vergine Maria di Betlemme (Belém in portoghese), da cui il nome dell’intero quartiere.

I monaci dell’ordine di San Gerolamo avevano il compito spirituale di dare conforto e coraggio ai marinai, e naturalmente di pregare per il sovrano.

All’interno della chiesa si trova la tomba di Vasco da Gama, di fronte a quella del poeta nazionale portoghese Luìs de Camões.

Anche il chiostro è spettacolare, soprattutto il refettorio dove splendidi pannelli di azulejos illustrano le opere di misericordia. Anche i più atei e miscredenti tra noi (ed io tra questi) colgono l’occasione per rispolverare lontani ricordi di catechismo o, più facilmente, andarle a cercare su Wikipedia.

Da qui, passando davanti al monumento a forma di caravella stilizzata dedicato ai grandi navigatori portoghesi (Henrique il Navigatore, Vasco da Gama, Fernão de Magalhães che noi chiamiamo Magellano), raggiungiamo la Torre di Belém.

La torre, simbolo di Lisbona, fu costruita come fortezza per proteggere l’ingresso del porto. Prima che la linea costiera scivolasse verso sud, la torre sorgeva infatti in mezzo al mare e il monastero si trovava sulla riva.

Quale posto migliore che la terrazza in cima alla torre per una foto di gruppo? Qui, però, c’è una scena divertente perché io mi attardo a fare delle foto e tutti gli altri iniziano a chiamarmi per la foto di gruppo… ma io oggi indosso una vecchia maglia della nazionale portoghese, la numero 7 di Figo, che comprai ad Albufeira 15 anni fa, per cui quei simpatici burloni dei miei amici anziché chiamarmi per nome mi urlano “Figo! Figo!” e io, distratto, ovviamente non mi giro. Poi mi dicono “Si giravano tutti tranne te”… e io: “E certo, secondo voi sono abituato a sentirmi chiamare figo? Ma mi avete guardato bene?!?”.

Per un pranzo che è più uno spuntino dolce la meta non può che essere una: l’antica pasticceria di Belém, dove è nato il pastel di Belém, un pasticcino alla crema che è un’altra delle icone di Lisbona. Sembra che sia stato creato dai monaci del monastero nell’800, secondo una ricetta che è tuttora segreta, per quanto ovviamente molte altre pasticcerie in città lo propongano. Per bilanciare un po’ il dolce, ci aggiungo qualche pastel… de bacalhau, ovvero qualche polpettina di baccalà impanato, e il gioco è fatto. Siamo pronti a ripartire.

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Per il pomeriggio l’appuntamento è con la visita della Mouraria, guidata da Duarte, in rappresentanza dell’associazione “Renovar a Mouraria”. È molto preparato, ha la battuta pronta e parla un ottimo italiano.

Ci racconta la storia del quartiere, che nel medioevo era una sorta di ghetto dove i musulmani erano stati confinati dopo la riconquista, avvenuta a metà del XII secolo (il Portogallo prese quelli che sono praticamente i suoi confini attuali più di un secolo dopo, nel 1297). Essendo rimasto quasi intatto anche dopo il terremoto del 1755, il quartiere ha mantenuto in buona parte la sua antica struttura fatta di stradine strette, piazzette, vicoli e ripide scalinate.

A partire dal 1974, anno della rivoluzione dei garofani e inizio del processo che in breve tempo portò all’indipendenza di tutte le colonie portoghesi, la Mouraria ha cominciato ad accogliere di nuovo persone di altre culture e religioni, tra cui molti musulmani, tenendo fede al suo nome e forse al suo destino, ed è sicuramente il quartiere più multietnico del centro di Lisbona. Ora, dopo anni di degrado, il quartiere sta rinascendo, anche grazie al lavoro dell’associazione. Io stesso, che ho passeggiato per queste vie 15 anni fa, non le riconosco più.

La storia del quartiere è anche legata a doppio filo a quella del fado: la musica iconica del Portogallo, che parla di amore, saudade e anche di rivolte popolari, è nata proprio in questo quartiere, non a caso conosciuto come il berço (la culla) do fado. A testimonianza di questo, ad accogliere il visitatore c’è anche una sorta di monumento alla guitarra portuguesa a 12 corde, strumento del fado.

Nelle strade di quello che nel XIX secolo era uno dei quartieri più degradati di Lisbona, l’artista Maria Severa Onofriana, figlia di una popolana conosciuta come A Barbuda, intonò i primi versi di fado. Diventata popolare semplicemente come A Severa, morì ad appena 26 anni di tubercolosi in un miserabile bordello di rua do Capelão, dove lavorava come prostituta. D’altra parte il fado si diffuse proprio nei postriboli e nelle taverne, ben prima di raggiungere i salotti buoni di Lisbona. A conferma dell’anima musicale della Mouraria il fatto che qui sono nati anche Fernando Maurício, considerato il re del fado castiço, quello più popolare, la grande Argentina Santo e Mariza, la più famosa fadista contemporanea.

E noi, dopo aver passato in rassegna sui muri del quartiere le immagini di tutti i più grandi fadisti, a cominciare da quelli già citati e dalla leggendaria Amàlia Rodrigues, per pura combinazione abbiamo anche la possibilità di scambiare due parole col papà di Mariza, che vive ancora qui nel quartiere.

Segue la breve visita a un negozio di sartoria gestito da migranti originari della Guinea Bissau, dove mi faccio degli amici sempre grazie alla mia maglia di Figo, che suscita curiosità.

Succede anche che la visita si interrompa per qualche minuto perché tutti gli occhi sono fissi su una finestra, dove vediamo eseguire un’operazione di trasloco un po’… insolita, come dire. Stanno cercando di issare una libreria legata con una corda a sola forza di braccia. All’inizio è una persona sola, ma chiaramente non ce la fa, così arriva un altro a dargli manforte e piano piano… la parte più complessa dell’operazione è girarla a mezz’aria per farla passare dalla finestra; partono le scommesse: ce la fanno o non ce la fanno? Alla fine ce la fanno, e scatta l’applauso. Dal punto di vista della sicurezza sul lavoro, la procedura è discutibile, ma bisogna riconoscere l’abilità, non era facile.

L’associazione, nata nel 2008, fa molte cose per rinnovare il quartiere, com’è nella sua ragione sociale. Accoglie i migranti, prima di tutto; offre assistenza per i documenti e le pratiche amministrative, organizza corsi di lingua portoghese per stranieri gratuiti o a prezzi agevolati e svolge diverse attività a carattere sociale e culturale. Assiste nello studio bambini fino a 12 anni, organizza corsi di yoga, danza per bambini, balli latini. Offre terapie alternative attraverso il progetto Saúde Para Todos, un servizio accessibile a tutta la popolazione, indipendentemente dalle risorse di ciascuno.

Nella sede dell’associazione, inaugurata nel 2012, c’è uno spazio caffetteria con cibi dal mondo preparati dagli abitanti del quartiere. E poi cicli di cinema, proiezioni di partite di calcio, karaoke, feste popolari (come in questi giorni) e chi più ne ha più ne metta.

A conclusione del giro, Duarte ci porta a visitare un luogo fortemente simbolico, anche se non fa strettamente parte del quartiere: la chiesa di São Domingos, dove iniziò la strage degli ebrei nel 1506, anno già segnato da una grande peste. Allora viveva qui una numerosa comunità ebraica, i cui membri erano però stati costretti a convertirsi al cattolicesimo per ordine di Manuel I. La storia racconta che tutto iniziò per un raggio di luce che filtrava dalle finestre della chiesa illuminando il crocifisso. Mentre i fedeli gridavano al miracolo, un ebreo convertito ebbe il coraggio di dire che forse era solo un effetto di luce, nulla di così prodigioso. E questo fu il pretesto per scatenare la furia che portò al massacro di circa 4000 persone.

Ma non è il solo fatto tragico nella storia di questa chiesa, che venne poi distrutta dal terremoto del 1755, ricostruita e colpita poi da un grande incendio nel 1954. Le conseguenze dell’incendio sono ancora visibili nelle strutture annerite, lasciate volutamente a monito.

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Con un nutrito gruppetto, decidiamo di cenare al ristorante mozambicano Cantinho do Aziz, alla Mouraria. Ma prima ci concediamo un aperitivo in un baretto proprio di fianco, che ha i tavolini all’aperto su una tranquilla terrazza. Ci rilassiamo dopo una giornata piuttosto lunga e si crea, in breve tempo, un particolare clima di condivisione in cui si raccontano esperienze più o meno problematiche, come cercando conforto nel sentire che tutti hanno i loro momenti difficili, ma allo stesso tempo c’è grande allegria e serenità. Forse in questo del buon vinho verde non è del tutto estraneo. La Mabi, che è psicologa, lo definisce quasi uno stato di grazia, e dice che sembra uno dei suoi gruppi di auto-aiuto…

Ci trasferiamo da Aziz, per scoprire che lui non c’è più. Ora è il figlio a mandare avanti la baracca. Il posto non brilla certo per organizzazione, ma onestamente mi sarei preoccupato del contrario. Non è quello che cerchiamo.

Il cameriere, il buon Sebastião, è un personaggio decisamente molto simpatico e molto mozambicano. Da come gesticola, tra l’altro, scopriamo che evidentemente in Mozambico per dire che è buono si toccano l’orecchio… Noi saremmo tutti decisi a prendere un piatto che ci hanno suggerito, il makoufe, a base di gamberi, granchio e verdure. Ma pare di capire che non ce ne sia per tutti, per cui lui cerca amabilmente di convincerci a provare anche qualcos’altro, a condividere… solo che ci mette qualche “fica” di troppo per un gruppo con un tasso alcolemico già non trascurabile. A un certo punto dice anche “fica feliz”… e da lì rapidamente si va verso una certa degenerazione, diciamo così.

La lingua portoghese, del resto, è ricca di parole per noi un po’ strane. Ad esempio, prosciutto si dice “presunto” e un abitante del Minho, una regione del nord del Portogallo, uomo o donna che sia, si chiama “minhota”…

Il cibo è buono, alla fine, e ci divertiamo anche. L’unico problema è che loro alle 9 hanno già un’altra prenotazione per il nostro tavolo e quindi ben presto le attenzioni di Sebastião perché noi si finisca e si prenda dolce e caffè il più rapidamente possibile diventano un po’ pressanti. Gustarsi il tutto con un po’ più di calma sarebbe stato meglio, ma non per questo mi sento di non raccomandare il posto, tutto sommato.

La serata dovrebbe continuare in un locale di fado vadio, il fado vagabondo, quello più autentico. Ma per arrivarci dobbiamo passare da Praça da Figueira e qui, purtroppo, succede qualcosa di davvero spiacevole: alla Mabi, senza che se ne accorga, aprono lo zaino e sottraggono il portafogli con soldi e documenti. Ce ne rendiamo conto solo quando qualcuno nota lo zaino aperto e una sciarpa che penzola fuori.

Dopo una mezz’oretta abbondante passata in attesa che lei e Claudio finiscano di fare la denuncia al posto di polizia più vicino (Claudio ci racconterà poi di un poliziotto che sembrava Mourinho, ma forse è solo la nostalgia di un nerazzurro doc come lui), riusciamo a ripartire verso il Bairro Alto, prendendo la funicolare che i lisboetas chiamano Elevador da Gloria.

Il posto si chiama Tasca do Chico o Tasquinha do Chico. Il secondo nome è più appropriato, date le dimensioni. È così piccolo e stipato di persone che gli avventori vengono fatti entrare a ondate. Ogni tre-quattro pezzi c’è una pausa, un bel po’ di gente esce e altrettanta ne entra. Il chitarrista è seduto su uno strapuntino tra la folla, la cantante si esibisce nel poco spazio libero al centro del locale. Io purtroppo non capito molto bene, sono in piedi al bancone e non vedo praticamente niente. D’altronde è la tradizione di questi posti, che per contro ti permettono di assaporare del fado autenticamente popolare per il costo (tra l’altro basso) di una semplice consumazione. L’alternativa sarebbe uno di quei locali-trappola per turisti dove si cena a lume di candela, si ascolta non sempre con la dovuta attenzione e si spende molto di più, senza che necessariamente la musica sia di migliore qualità. Un’alternativa che decisamente a noi non piace. Oltretutto, come dice giustamente Claudio, tre pezzi di fado sono più o meno “la sua misura”, andando oltre molti rischierebbero veramente l’overdose di malinconica saudade.

 

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Sabato 25/6/2016

Oggi dobbiamo alzarci prestino perché è il giorno della visita a Cova da Moura, e dobbiamo prendere un treno dalla stazione del Rossio.

La nostra fermata, come da programma, è quella dopo lo stadio del Benfica, periferia nordest di Lisbona. Ma, com’è come non è, la porta non si apre, perdiamo troppo tempo e non riusciamo a scendere prima che il treno riparta. Ci tocca scendere alla successiva e riprendere il treno in direzione opposta. Per fortuna i treni sono piuttosto frequenti e il ritardo non è drammatico.

Alla stazione ci aspettano in tre: Inȇs, che sarà la nostra guida, Lieve, una signora che parla portoghese con uno strano accento e che conosceremo meglio dopo, e Federico, un fotografo freelance italiano che sta passando un periodo nel quartiere (è qui da un mese e mezzo) per realizzare un lavoro che poi vorrebbe in qualche modo pubblicare.

Prima di entrare nel quartiere, che si trova su una collina, Inȇs ci mostra l’imponente Aqueduto das Aguas Livres, costruito tra il 1728 e il 1835, che passa di qui e che si estende per 18 km sostenuto da 109 archi di pietra grigia.

Ci accoglie nel quartiere un mural di Bob Marley affiancato ad un leone, che richiama forse la forte identità africana del bairro. Delle 6000 persone che attualmente vivono qui, circa il 75% sono capoverdiani. Altre nazionalità fortemente presenti sono quella angolana, quella mozambicana, della Guinea Bissau, ma sono anche presenti in piccole percentuali cinesi ed europei dell’Est. E naturalmente portoghesi.

L’urbanizzazione dell’area è abbastanza recente: fino alla metà degli anni ’70 qui non c’era niente, poi con l’ondata migratoria dalle ex-colonie di quegli anni il quartiere si è andato formando, inizialmente con le modalità classiche della favela: case autocostruite alla bell’e meglio, allacciamenti di corrente abusivi, niente acqua corrente, niente fognature. E, ovviamente, disoccupazione, degrado e criminalità. Negli anni, poi, però, le cose sono cambiate, anche se gli abitanti lamentano che l’immagine del quartiere sia ancora quella di un posto da non frequentare. Federico, tra l’altro, ci racconta che lui ha tentato di farsi spedire qui del materiale per il suo lavoro ma il corriere si è rifiutato di entrare nel quartiere, per cui lui è dovuto scendere fino alla strada, fuori dal quartiere, per andare a prendere il pacco.

L’impressione che abbiamo noi entrando, invece, è di un posto tranquillo e accogliente. Forse troppo tranquillo, ma c’è da dire che ieri era la festa di San Giovanni e forse molti hanno fatto tardi, per cui l’atmosfera è sonnolenta e c’è poca gente in giro. Certo, si vede che le case sono “self-made” e che il quartiere è cresciuto in maniera disordinata, c’è ancora qualche allacciamento elettrico un po’ artigianale, ma le strade sono pulite e non si vede nulla che faccia pensare al degrado. Per quanto noi possiamo essere accompagnati e in una situazione “protetta”, credo che davvero il quartiere sia cambiato.

Molto di questo cambiamento si deve all’associazione “Moinho da Juventude”, mulino della gioventù. Il nome si deve a un vecchio mulino che i fondatori sognavano di recuperare, ma poi in realtà per carenza di finanziamenti il sogno finì nel cassetto. Il nome però è rimasto.

L’associazione è stata fondata nel 1984, e qui con noi c’è una delle fondatrici, attualmente vicepresidente. Scopriamo che la signora Lieve in realtà si chiama Godelieve (ma qui tutti la chiamano Lieve, è decisamente più facile) ed è belga: ecco perché parla quello strano portoghese. Lei è una psicologa, ha sposato un portoghese delle Azzorre e insieme si sono stabiliti qui negli anni ’70. Lei in quel periodo supportava le donne di Cova da Moura, che stava nascendo, nelle loro attività sindacali. Doveva essere una sistemazione provvisoria e invece…

Il marito di Lieve purtroppo è mancato due anni fa, ma lei continua, instancabile, ad essere una delle anime dell’associazione, che nell’89 è stata riconosciuta come IPSS (Instituição Particular de Solidariedade Social), qualcosa di simile alle nostre ONLUS.

L’associazione è nata, inizialmente, da una libreria informale per bambini e dalla lotta delle donne per migliori condizioni di lavoro e per l’assistenza sanitaria. Qui la maggior parte degli uomini lavorano nei cantieri, le donne nelle pulizie, come domestiche o nei ristoranti. Il livello di scolarizzazione non è molto elevato. Sul fronte sanità tuttora la situazione non è ideale: qui non c’è nemmeno un minimo presidio, per qualunque cosa gli abitanti devono uscire dal quartiere e andare all’ospedale, che non è vicinissimo.

Una delle attività principali, e storiche, dell’associazione, è quella delle amas. Ama è un’espressione difficilmente traducibile in italiano con una sola parola, che si usa per quelle donne che si prendono cura di qualcosa o di qualcuno, in questo caso dei bambini. Sono una specie di mamme collettive, che aiutano quelle donne che sono in difficoltà nella cura dei figli per ragioni di lavoro o di altra natura. Ogni ama cura 3 o 4 bambini da 5 mesi a 3 anni d’età. Le amas sono retribuite dall’associazione, e chi non può permettersi di pagare il servizio in denaro ripaga la comunità facendo a sua volta dei servizi, come piccoli lavoretti.

C’è poi un nido più “classico”, un asilo per i bambini più grandi, un servizio di assistenza nello studio e attività nel tempo libero per i ragazzi in età adolescenziale. Qui il lavoro sui giovani è assolutamente vitale, perché il 50% della popolazione ha meno di 20 anni. Ma l’associazione organizza anche corsi per l’alfabetizzazione degli adulti.

Inȇs, intanto, ci mostra le targhe colorate (anche queste opera degli abitanti) che identificano le strade, generalmente con riferimento a quella che è (o era) la provenienza principale degli abitanti di quella via. E ci racconta qualche altra curiosità sul quartiere; per esempio, ci sono 35 parrucchieri e non è difficile capire perché, se si pensa a quanto sia importante la propria capigliatura per molti di questi ragazzi.

Inȇs è una studentessa universitaria e sta facendo una tesi su Cova da Moura, in particolare sul ruolo di leader e il concetto di leadership come è declinato qui. Ci dice che avrebbe potuto, naturalmente, scegliere un grande leader della storia, come Nelson Mandela o Martin Luther King, ma ha preferito lavorare su un esempio più vicino a lei e al suo quotidiano, come quello delle persone che per un motivo o per l’altro hanno un ruolo da leader nella sua comunità.

Un altro degli slogan dell’associazione è che è fondamentale creare dei link, dei collegamenti tra le persone, perché spesso chi de-linque lo fa proprio per mancanza di link, di legami con la sua comunità che gli trasmettano dei valori e gli permettano di non cedere alla disperazione.

Un altro dei servizi offerti è il GIP, il Gabinete de Inserção Professional, che ha già aiutato più di 1000 persone a trovare lavoro.

Non è un caso che, un paio di mesi fa, anche Laura Boldrini sia venuta in visita qui e abbia indicato Cova da Moura e il Moinho come esempio di come, anche nei quartieri più difficili, si possano ottenere grandi risultati lavorando con passione e determinazione nel sociale.

Tutto bello, insomma: l’unico neo, se vogliamo, è che tutta questa autoorganizzazione supplisce ad una sostanziale assenza delle istituzioni statali e locali portoghesi, che hanno lasciato questo quartiere all’abbandono per decenni. Da qualche mese in Portogallo, con Antonio Costa, c’è praticamente il governo più a sinistra d’Europa, insieme con quello di Syriza in Grecia. Ma non so se questo cambierà le cose, qui credo che siano le istituzioni locali a contare.

Cova da Moura è piena di murales molto belli e colorati, ed è il giusto coronamento del nostro percorso nella street art lisboeta. Qui Martin Luther King convive con i Puffi, ma soprattutto i murales ci ricordano che un altro mondo è possibile, se la gente lo vuole; mai questa frase mi è sembrata così vera come qui. Un’altra frase che credo rappresenti molto bene lo spirito di questo posto è: “Il mio villaggio è tutto il mondo, tutto il mondo mi appartiene. Qui mi incontro e mi confondo con gente di tutto il mondo, che a tutto il mondo appartiene”.

La mattinata si conclude con un altro momento emozionante: l’esibizione del gruppo di donne capoverdiane Finkapè, che interpreta il Batuque, un genere tipico del loro paese e che ci raccontano sia addirittura terapeutico, nel senso che consente alle donne di esprimersi, di sfogare le loro ansie quotidiane e di mantenere salde le loro radici culturali. È una bella immagine vedere insieme tre generazioni: la madre che trasmette il suo patrimonio culturale alla figlia, e la nipotina, che avrà più o meno 5 anni, che vuole già suonare anche lei.

Il Batuque era vietato in Portogallo durante il regime di Salazar, perché ritenuto troppo africano e quindi potenzialmente fomentatore di rivendicazioni indipendentiste. Il recupero del genere è iniziato dopo la caduta del regime e l’indipendenza di Capo Verde.

La musica in sé è molto semplice: le donne, vestite in modo tradizionale, cantano in creolo e suonano degli strumenti a percussione fatti di panno e rivestiti di pelle, che tengono in grembo. Ma è quello che ci si sente dentro che colpisce, non solo noi evidentemente se questo gruppo ha già suonato più volte in contesti internazionali. Ecco un assaggio:

Poi, a un certo punto, una di loro si alza e inizia a ballare, cercando di coinvolgere anche noi, prima di tutto le donne, ovviamente. E sarebbe difficile non farsi coinvolgere.

Pranziamo in uno dei ristoranti africani di Cova da Moura, tappezzato di poster del Benfica tricampeão. Il piatto forte è la Cachupa, una specialità capoverdiana che è uno stufato di carne con miglio, fagioli, patate e manioca, gustoso e molto nutriente.

E così, con un lauto pasto, si conclude la nostra Sabura, la nostra visita guidata. Anche queste visite fanno parte di un progetto che mira a combattere l’immagine stereotipata del bairro, che è tuttora diffusa in città.

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Con un po’ di dispiacere lasciamo Cova da Moura per tornare verso il centro di Lisbona. Nel pomeriggio ci sta ancora una capatina al mercato delle pulci chiamato Feira da Ladra, che si tiene nel piazzale dietro la chiesa di São Vicente de Fora, all’Alfama, e una visita veloce al Castello di São Jorge.

L’Alfama è un altro dei quartieri più antichi e ricchi di fascino di Lisbona, fatto di strette viuzze e scalinate, becos e travessas. Il suo nome deriva dall’arabo alhama (sorgente, bagno) e si riferisce probabilmente alle sorgenti di acqua calda nei pressi di Largo das Alcaçarias.

Il castello, eretto dai Visigoti nel V secolo, fu fortificato dai mori nel IX secolo, saccheggiato dai cristiani nel XII secolo e convertito poi in residenza reale e in prigione. Della struttura originale oggi rimane ben poco, e quel poco è ricostruito, ma la vista da quassù è notevole.

Prima di cena ci concediamo un altro aperitivo rilassante nello stesso posto di ieri sera, che ci era piaciuto parecchio.

La cena la risolviamo in stile street food mangiando ai tavoli davanti a uno dei tanti banchetti allestiti per le feste, dove sono le sardine a farla da padrone. Per noi, che siamo arrivati da Milano già con l’idea di abbuffarci di sardine, data anche la piacevole esperienza marsigliese dello scorso febbraio, il momento è finalmente arrivato. Intanto, i televisori trasmettono il quarto di finale degli europei Portogallo-Croazia, che si trascina stancamente sullo 0-0.

Prendiamo il tram per spostarci alla LX Factory, fulcro di un progetto di rivalutazione dell’intero quartiere di Alcantara, e proprio mentre attraversiamo Praça do Comercio, dove è allestito il maxischermo, il Portogallo segna con Quaresma, ex Inter soprannominato il Trivela e cacciato con ignominia. Un po’ esultiamo anche noi, mentre sul tram uno strano personaggio ci racconta di aver imparato l’italiano dai film di Totò e dal finestrino vediamo, letteralmente… attaccato al tram, un altro tipo ancora più strano che se la viaggia a sbafo con disinvoltura: che dire, un vero portoghese (nel senso… italiano del termine)!

La struttura LX Factory è nata prendendo il posto dell’ex complesso industriale dedicato alla stampa dei giornali. Il sito occupa una superfice di 23.000 metri quadri, in una delle aree produttive storiche nel quartiere di Alcantara, proprio sotto il ponte “25 de Abril”.

Nel 2008, dopo anni di totale abbandono, la rivoluzione dell’area ha avuto inizio, trasformando e mutando completamente il volto e il fine della struttura. C’è un corridoio centrale con due strutture enormi ai lati, che per anni hanno ospitato macchinari, operai, ferro e materie prime da trasformare. Oggi le materie prime sotto forma di idee vengono trasformate da designer, progettisti, grafici in siti web, progetti grafici, giornali o complementi di arredo.

Noi passiamo un po’ di tempo tra la libreria e un negozio di design, ma, forse anche per la concomitanza con la partita, non c’è molto movimento. Qui quasi tutti finiscono la serata, ma noi che non abbiamo ancora voglia di andare a dormire, dopo aver tentato inutilmente di entrare al deposito dei tram, dove c’è una festa privata, finiamo al food court di Time Out Lisbon, al Mercado da Ribeira, a farci un Jalisco Sour preparato con meticolosa maestria da una giovane barmaid con il piercing al naso e all’ombelico.

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Domenica 26/6/2016

Per passare quest’ultima mezza giornata abbondante che abbiamo a disposizione, con un gruppetto ci dirigiamo in metro verso la stazione di Oriente, che dà accesso al Parque das Nações e a tutto il quartiere nato dall’area Expo ’98.

Io ero già stato qui 15 anni fa, ma mi rendo conto che non avevo guardato bene la stazione progettata da Santiago Calatrava. In effetti è un’opera notevole, sia per la funzionalità che per l’estetica, con i suoi archi a sesto acuto e la sua tettoia che ricorda un palmeto. Puntando direttamente all’Oceanario, che pure è bellissimo, non avevo neanche avuto molto una visione complessiva della zona, che è un buon esempio di come un’area expo possa essere riutilizzata in modo proficuo e resa fruibile alla città. Il confronto con la nostra area expo, di cui tuttora non sappiamo cosa sarà, fa male.

Passeggiamo lungo il fiume e ci facciamo un giro sul teleferico (la funivia: ormai ogni grande città europea che si rispetti deve averne una) che va verso la Torre Vasco da Gama, con il Ponte Vasco da Gama, il ponte più lungo d’Europa, sullo sfondo.

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Per il pranzo, preferisco tornare all’Alfama per respirarne ancora un po’ l’atmosfera prima della partenza. Con Lucia e Vittorio, anche loro ormai veterani dei viaggi di Radio Pop, dopo un po’ di ricerche riusciamo a individuare un localino niente male: Claras em Castelo, ai piedi della salita per il Castello. Un posto tranquillo dove gustare un ultimo bacalhau com natas (baccalà alla crema), una fetta di torta all’arancia e un bicchierino di Porto bianco secco.

Una breve passeggiata, passando tra l’altro per Rua da Saudade, dove abitava Pereira in “Sostiene Pereira” di Tabucchi, un ultimo giro sul mitico tram 28 ed è ora di andare all’aeroporto.

Ma qui ci aspetta l’ultima sorpresa: la Mabi, senza documenti e solo con la sua denuncia fatta a Mourinho, arriva fino al gate ma lì uno zelante (forse troppo) impiegato della TAP non vuole imbarcarla. Sostiene che sarebbe dovuta andare in ambasciata a farsi rilasciare una specie di documento provvisorio che comprovasse la sua identità e che solo con la denuncia, contrariamente a quello che le aveva detto la polizia, non può partire. Pare che, per questi casi, le regole siano di recente cambiate. Tutto questo succede a pochi minuti dall’imbarco, con il volo che ha già più di un’ora di ritardo. La voce passa rapidamente di bocca in bocca e si scatena il pandemonio. Simona chiama l’ambasciata e pur essendo domenica riesce a parlare con il viceconsole, che si offre di garantire personalmente, ma l’impiegato si rifiuta di parlargli al telefono ed appare irremovibile. Si scatena una specie di gara di solidarietà; viene chiamato anche Vittorio, che si ferma qui ancora due giorni e potrebbe essere un punto d’appoggio per la Mabi, che si ritrova sempre ovviamente senza soldi e senza documenti ed è abbastanza disperata. Parecchi del gruppo, a turno, vanno al banco e cercano in tutti i modi di fare pressioni. C’è chi propone “Se non parte lei non partiamo neanche noi”. Io, francamente, sono abbastanza rassegnato e mi limito ad offrirle un po’ di soldi in prestito per pagarsi un’altra notte in albergo e quello di cui avrà bisogno. Penso che, per quanto si tratti di un puntiglio piuttosto ottuso, data la situazione, difficilmente molleranno. Ma diversi, invece, continuano ad affrontare il personale a muso duro, sembra una specie di sit-in. Finché, improvvisamente, la situazione si sblocca. Arriva un’altra impiegata, una donna, e dice che sì, tutto sommato lei fa parte di un gruppo e quindi, vista la situazione, se il gruppo garantisce per lei può partire. Era così semplice, ci chiediamo? Sì, tutto qui. Questo ovviamente offre l’occasione alle donne del gruppo per rimarcare la saggezza e la praticità della donna contrapposta alla testarda insipienza dell’uomo, ma ci sta.

Tutto è bene quel che finisce bene. Ripartiamo da Lisbona stanchi ma soddisfatti, anche per questa ennesima dimostrazione che siamo un gruppo un po’ speciale: questo sarebbe stato vero anche se non fosse finita bene. E forse ripartiamo anche con un sottilissimo filo di speranza in più che un altro mondo sia davvero possibile.

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La vita è un viaggio sperimentale fatto involontariamente.

(Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine)

Grazie a Gabriella per le foto di gruppo