Diario di un viaggio sul Danubio serbo a bordo del mitico battello di “Underground”, tra storie di guerra e di pace, moderni orrori e antiche civiltà, musica e letteratura, fumetti e sogni, monasteri e street art, sapori dolci e fuoco nella gola, cavolo cappuccio e fiumi di rakija.

Parte II

15/8/2016 – Giorno 5: Nel quale si parla di mille anni senza guerra e di rakija da Rakija

Partiamo dall’hotel in pullman per raggiungere il luogo dell’imbarco, ma c’è un contrattempo, forse il primo che ci è capitato finora: qualcuno ha dimenticato qualcosa nella camera d’albergo. Girare il pullman e tornare indietro sarebbe un problema non da poco, e causerebbe una bella perdita di tempo. Eugenio, che un attimo prima stava parlando al microfono per illustrare il programma della giornata, dice a Marko di fermare e farlo scendere. Senza dire altro si lancia in una lunga corsa, tra l’altro in salita, per tornare all’albergo, con un fiato notevole considerando le sigarette che fuma. Tutti lo guardiamo stupiti dai finestrini. Immediatamente Claudio ha l’idea: quando torna l’applauso non basta, dobbiamo dargli un premio, qualcosa tipo una medaglia. Del resto, è la prima cosa che ci viene in mente: ci sono le olimpiadi in corso di svolgimento… comincia una caccia febbrile ad un oggetto idoneo. Si trova una medaglietta con un quadrifoglio, e del filo da cucire per appenderla al collo. È fatta. Pochi minuti dopo risale sul pullman e scatta la premiazione, tra le risate generali.

Anche da queste piccole cose si capisce che il gruppo è sempre più unito e coeso, come dicono i bravi mister.

Appena saliti sul barcone, Mirjana ci dà il buongiorno, come sempre con un grande sorriso, e ci augura buon ferragosto. Le chiediamo se festeggiano anche loro il ferragosto e spiega che le date sono diverse perché gli ortodossi, per le feste religiose, seguono tuttora il calendario giuliano. Ma per lei, in qualche modo, è una ricorrenza: è il suo anniversario di matrimonio. Proprio il 15 agosto del 1981 si è sposata al consolato jugoslavo di Bari, dove suo suocero era viceconsole.

Stamattina la navigazione sarà più breve, giusto un paio d’ore per raggiungere il sito archeologico di Vinča, a 20 km da Belgrado.

Sin dai tempi degli antichi Greci, la storia dell’Europa è segnata da sanguinosi conflitti. Un continente sempre in ebollizione, un mosaico di piccoli Stati in lizza, continuamente pronti a difendere i propri domini contro tutto e a conquistarne di nuovi senza considerare i diritti altrui. Eppure sembra esserci stato un tempo lontano in cui le comunità agricole europee – o almeno una parte di esse – vivevano in pace, senza bisogno di mura di difesa, intrattenendo buoni rapporti di commercio e scambio. Un’epoca che ufficialmente è preistoria, ma che pare essere stata, per diversi aspetti, molto più civile di quelle che seguirono. Una di queste culture è quella di Vinča, che porta il nome di questo villaggio situato sulle rive del Danubio. Qui venne rinvenuto il più grande insediamento neolitico in Europa. La scoperta avvenne nel 1908, ad opera di un gruppo di archeologi guidato da Miloje M. Vasić, il primo archeologo professionista della Serbia.

Qui sono stati ritrovati reperti archeologici di oltre 8.000 anni fa, a testimonianza dell’esistenza di insediamenti umani nell’area in cui oggi sorge la città di Belgrado.

Le popolazioni di Vinča avevano già raggiunto un livello notevole nello sviluppo delle tecniche agricole: coltivavano frumento, orzo, veccia, noci e altri legumi. Avevano addomesticato tutti i tipi di animali presenti oggi nei Balcani, a parte il cavallo. Producevano ceramica, lavoravano la pietra e l’avorio. La metallurgia fu introdotta nell’Europa centro-orientale intorno al 5500 a.C.

Tra il 7000 e il 3500 a. C., gli abitanti di questa regione svilupparono un sistema sociale molto più complesso di quello dei loro vicini a nord e a ovest, costruendo degli insediamenti che spesso divenivano piccole città, e integrando i mestieri specializzati. Lo scambio commerciale fra comunità di diverse aree geografiche era molto attivo, come testimoniano i numerosi ritrovamenti di conchiglie, ossidiana e alabastro in differenti regioni della Vecchia Europa. E poi sembrano aver sviluppato addirittura un sistema di scrittura. Segni incisi su vasellame di terracotta scoperto a Vinča da anni suscitano nuove ricerche al fine di scoprirne il significato…

Indubbiamente questo sito deve essere interpretato come centro di un’unica, grande tradizione culturale che si evidenzia attraverso la tecnica di costruzione delle abitazioni private, la forma del vasellame, la simbologia, il culto, le statuette.

Il direttore del museo che visitiamo ci spiega tutte queste cose con competenza e passione, sottolineando soprattutto questo aspetto: proprio qui, nella “polveriera balcanica”, in questo territorio che noi oggi consideriamo, quasi per sua natura, instabile e abitato da genti bellicose e reciprocamente intolleranti (basti pensare all’uso che si fa del termine “balcanizzazione”), allora viveva un popolo che per almeno 1000 anni, all’incirca dal 5500 al 4500 a.C., non ha conosciuto la guerra. Le statuette caratteristiche della cultura di Vinča sono quelle di figure a braccia aperte, nella tipica posizione del benvenuto. A ulteriore testimonianza che si trattava di una cultura assolutamente pacifica. Fa pensare.

Il Convivium Slow Food Dorćol, che ci accompagna, ha organizzato per noi qui presso il sito archeologico un pranzo neolitico, ideato in collaborazione con il Museo della città di Belgrado e frutto dei diversi laboratori realizzati in loco al fine di ricostruire la dieta neolitica. Il menù è il seguente:

Pane di farina di grano germogliato

Patè di maialino

Insalata a base di orzo

Dolce di grano, miele e noci

Birra artigianale.

Mangiamo su tavoli di legno all’aperto, con due giovani “birrai” che ci spiegano le caratteristiche dei due tipi di birra artigianale che producono, una bionda leggera tipo Weiss e una rossa un po’ più corposa. Il patè di maialino ce lo portano in un tubetto, che certo non fa molto neolitico ma è più comodo e divertente.

Da Vinča ci trasferiamo in pullman a Kragujevac e ci sistemiamo nell’hotel dove passeremo la notte. In questa città, che ha sempre avuto una vocazione industriale, qualche anno fa è arrivata la Fiat (anzi la FCA) di Marchionne. Dopo gli iniziali entusiasmi, sono cominciate le proteste per i turni lunghissimi, i salari bassi e tutto quello che compone un quadro ai limiti dello sfruttamento. Proteste sopite grazie al classico ricatto occupazionale: se a voi non va bene, possiamo sempre trovare un altro paese dove il costo del lavoro è ancora inferiore. È così che funziona.

Noi, dopo una breve sosta, riprendiamo il pullman per un’altra delle tappe più attese: il presidio della rakija alla prugna Crvena Ranka di Gledić, nei dintorni di Kraljevo.

La rakija, ne abbiamo già parlato ampiamente, è la bevanda alcolica per eccellenza di tutti i Balcani: non c’è regione, villaggio, casa dei Balcani in cui manchi una bottiglia pronta a dare il benvenuto agli ospiti, ad accompagnare i pasti e a segnare il ritmo dei giorni e delle stagioni. La rakija per eccellenza, soprattutto in Serbia, è quella alla prugna, chiamata Šljivovica.

La regione Serba della Šumadija è da sempre rinomata per la qualità delle sue prugne. Ma è solo sulla dolce catena montuosa che separa le città di Kraljevo e Kragujevac, chiamata Gledić, che si coltiva un’antica varietà di prugne detta Crvena Ranka (lett. la rossa precoce). Anche queste rigogliose valli, come molte aree rurali dei Balcani, si stanno progressivamente spopolando per la mancanza di lavoro e prospettive di crescita. Tante, troppe, le case disabitate che s’incontrano sulla strada che porta sino all’omonimo villaggio, Gledić, un piccolo paradiso dove la natura e il lavoro dell’uomo convivono in armonia assoluta, in un susseguirsi di querceti, frutteti, ruscelli e piccoli appezzamenti dedicati al pascolo e all’agricoltura.

Un piccolo paradiso che, però, non è così semplice da raggiungere. Noi siamo diretti, in realtà, nei dintorni del villaggio di Gledić e più precisamente nel sobborgo di… Rakija! Sì, proprio così: la ragione, è evidente, sta nel fatto che in questa valle la produzione di rakija è estremamente radicata da tempo immemorabile.

Per questo il Presidio Slow Food si chiama… udite udite… Rakija iz Rakije, che significa “Rakija da Rakija”, in pratica rakija al quadrato!

Dopo un’ora di pullman, ci fermiamo a Gledić, da dove dovremo proseguire con altri mezzi. I… potenti mezzi che l’organizzazione ci mette a disposizione sono qualche jeep e due trattori attrezzati per trainare un carretto con dei sedili. Il gruppo si divide tra quelli che preferiscono la comodità della jeep e quelli che preferiscono provare anche l’esperienza trattore (io sono tra questi), che sembrerebbero in numero anche superiore ai posti disponibili, ma alla fine bene o male ci mettiamo d’accordo.

Il tratto da percorrere in trattore non è breve e c’è un piccolo incidente di percorso (un cellulare caduto e subito recuperato), ma il paesaggio bucolico che attraversiamo non è niente male.

Arriviamo alla fattoria di Dragana “Gaga” Veljović, costruita nella prima metà del novecento. Ad aspettarci un vero e proprio comitato di accoglienza, costituito da lei, i suoi familiari, tra cui una bambina che con un sorriso timido ci offre l’inevitabile primo assaggino di rakija, l’operatore di una TV locale che continuerà a fotografarci e riprenderci per tutta la sera e… uno strano personaggio in costume tipico. Il costume è composto da stivaloni, pantaloni verde militare infilati negli stivaloni stessi, camicia bianca e un copricapo che ricorda sinistramente quello dei četnici, i paramilitari serbi della seconda guerra mondiale tornati purtroppo in auge ai tempi delle guerre degli anni ’90. Diciamo che tutto l’insieme ricorda un po’ i četnici, ma il nostro per stemperare dispensa grandi sorrisi. Inizialmente si sparge la voce che sia il sindaco, poi viene degradato ad assessore e infine a consigliere comunale. Sicuramente fa scena.

Ma soprattutto non può mancare la banda, e che banda! Abbiamo tutta per noi la Danijela Orkestar, la prima e finora unica banda di ottoni serba guidata da una donna, appunto la bionda e talentuosa trombettista Danijela, astro emergente della musica tradizionale serba. Danijela ha solo 22 anni, e ha cominciato a suonare che era praticamente una bambina. Suona con i suoi fratelli, il più piccolo dei quali quando si è formata l’orchestra aveva circa 8 anni.

Ora sono qui, reduci dai successi di Guča, una cittadina della Serbia profonda dove proprio in questi giorni si svolge il più grande festival di musica balcanica. Ricordo che, quella famosa sera a Genova, io e la mia amica Lucia, che purtroppo per ragioni familiari non può essere qui con noi, avevamo tentato di convincere Claudio a buttare dentro in questo viaggio anche un paio di giorni a Guča. Poi, purtroppo, non si è potuto fare perché la logistica, per portarci 34 persone, sarebbe stata obiettivamente complicata. La ricettività del posto e dei suoi dintorni non è (forse non è ancora) così sviluppata. Sarebbe stato bellissimo, sono anni che ci vorrei andare. Vorrà dire che stasera avremo comunque per noi un piccolo pezzo di Guča.

Ecco qui, giusto per farvi un’idea del benvenuto:

Loro suonano e i locali, seguiti dai più coraggiosi di noi, si lanciano nel kolo, la tipica danza balcanica che si balla in cerchio.

Un po’ in disparte, vediamo anche Radojka, l’anziana zia di Dragana, che è oggi l’unica persona ad abitare permanentemente e mandare avanti la fattoria, animali compresi. È chiaro che stiamo un po’ invadendo il suo mondo. Lei sembra consapevole che è in un certo senso un male necessario, ma cerca di tenersi a debita distanza da tutto il casino che stiamo facendo.

Quando torna, temporaneamente, la calma ci portano a vedere gli alberi di prugne, che danno un raccolto ogni tre anni. Per avere una buona šliva ci vuole pazienza, non si può avere fretta.

Le prugne di Crvena Ranka sono raccolte a fine agosto e riposte a fermentare con il nocciolo in antichi tini di legno fino a due mesi, per poi essere sottoposte a una prima distillazione da cui si ottiene una rakija dalla gradazione alcolica di circa 30° e per questo detta morbida. La seconda distillazione, invece, avviene solo dopo un primo invecchiamento di due mesi in barrique di legno di quercia. Ci vogliono circa 100 litri di grappa morbida per ottenerne 50 litri di grappa cosiddetta ljuta (lett. “piccante” o “arrabbiata”), da cui si eliminano sia la parte iniziale (il primo litro, litro e mezzo, ricco di metanolo e dunque nocivo) che la coda (troppo acida, di scarsa qualità, che viene utilizzata per la produzione di distillati di seconda scelta). La rakija riposa infine dodici mesi in vecchie botti prima di essere imbottigliata, ma ci sono produttori che conservano bottiglie di annate vecchie fino a 25-30 anni. Il risultato è un liquore di alta qualità, dal colore giallo paglierino ma via via più dorato se invecchiato, dal gusto pulito e profondo, con un sentore di frutta e vaniglia.

Dopo aver visitato anche la piccola distilleria – ricavata probabilmente da una vecchia stalla adiacente la casa – dove più tardi faremo rifornimento di bottiglie, è il momento della cena. Il piatto forte è un fantastico maialino allo spiedo, con crauti in terracotta alla brace e kajmak di Kraljevo.

E, ovviamente, rakija. Anche se Eugenio, da quello che ci ha raccontato, ha raccomandato a Gaga di non esagerare stasera, visti gli effetti sul gruppo di un precedente viaggio, che aveva mostrato, diciamo così, di non reggere molto l’alcol, producendosi in scene di ubriachezza piuttosto sgradevoli. Infatti, la rakija viene servita in maniera ragionevolmente (e insolitamente) parca.

Durante la cena, almeno al nostro tavolo, tiene banco la storia del figlio della nostra compagna di viaggio Piera, che ha appena fatto sapere alla mamma via sms di aver preso una multa (si suppone pesante) per aver fatto un pezzo di strada contromano. E domani deve partire per una vacanza con gli amici in Svizzera…

La cena non è ancora finita, che già la Danijela Orkestar ricomincia a sfoderare il suo repertorio. Che, naturalmente, stasera non può non comprendere una “Bella ciao” alla Bregović. E, per chiudere, quando ormai molti di noi, me compreso, stanno già ballando (diciamo, nel mio caso, si stanno agitando in maniera totalmente incoerente), una scatenata Kalašnjikov. Il nostro cetnico, qualunque sia il suo ruolo istituzionale, si dimostra un grande ballerino e trascinatore di folle. A vederlo sembra proprio (per fortuna) più portato per questo tipo di Kalašnjikov, che prende in giro i signori della guerra.

C’è chi si sorprende nel vedermi saltare e ballare in questo modo perché, abbastanza inspiegabilmente, ha (forse aveva) l’immagine di me come una persona seria, ma io spiego che concordo con lo slogan del vecchio Goran (Bregović, è chiaro): Chi non diventa pazzo non è normale.

A concerto finito, mentre noi facciamo incetta di bottiglie, Claudio contratta con Danijela e la sua manager una prossima data nell’auditorium della radio che, ne sono certo, farà il pienone.

Il ritorno in trattore è decisamente più movimentato dell’andata. Dopo poche centinaia di metri, cominciamo a sentire preoccupanti scricchiolii. Il nostro “trattorista” scende un paio di volte a controllare, proseguiamo sperando che la struttura di legno regga in qualche modo ma alla fine… si ode un crack definitivo: ha ceduto un pezzo che sostiene i sedili. Tutti guardano Daniele, detto Dipa, che è un uomo, diciamo, di… sostanza. Lui non può negare, è possibile che il suo… peso specifico abbia qualche responsabilità nel cedimento strutturale, ma in qualche modo dobbiamo cercare di arrivare al pullman. Dopo un breve consulto, si va avanti con la seconda e terza fila in piedi (siamo in totale quattro file di tre). Io, che sono in prima fila, resto seduto ma con gli altri dobbiamo cercare di sostenere quelli della fila posteriore. Chiediamo al nostro pilota di andare più… polako che può e faticosamente giungiamo alla meta. Non è stato il viaggio più comodo della mia vita, ma sicuraente uno dei più balcanici. E qualcuno, di balcanico, ne ho già fatto…

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16/8/2016 – Giorno 6: Nel quale, sempre navigando, sogniamo a fumetti e ci troviamo nel piatto il siluro del Danubio

La prima tappa della giornata si svolge qui a Kragujevac ed è la visita al museo che ricorda la strage che qui si consumò il 21 ottobre del 1941. L’esecuzione di massa fu decisa come rappresaglia per le perdite tedesche in uno scontro che si era verificato qualche giorno prima contro i partigiani titini e i cetnici, allora ancora alleati. I cetnici, che erano un movimento monarchico fedele al re Pietro in esilio, a stragrande maggioranza serba, nelle fasi successive della guerra si schierarono invece in maniera più o meno aperta dalla parte dei nazisti, privilegiando la forte vocazione anticomunista che li caratterizzava. Il loro vero nemico divennero proprio i partigiani.

In quella battaglia erano morti 10 soldati tedeschi, e 26 erano rimasti feriti. Venne applicato, nel modo più rigido possibile, un ordine emanato pochi giorni prima dal comando nazista e si decise di uccidere 100 persone per ogni morto tedesco e 50 per ogni ferito, per un totale di 2300. La cifra reale, poi, andò anche oltre questo numero. Dopo aver ucciso già alcune centinaia di persone nei villaggi dei dintorni, accusati di dare appoggio e riparo ai “banditi”, il 21 ottobre i nazisti iniziarono la strage sistematica, che portò in 3 giorni 2854 persone davanti al plotone di esecuzione. Nel museo c’è una raccolta delle loro foto e delle loro ultime lettere. Erano quasi tutti uomini, sia ebrei che oppositori politici. L’unica donna fu uccisa perché accusata di collaborare con i partigiani. 300 erano studenti, 23 ragazzi tra i 12 e i 15 anni, prevalentemente rom che facevano i lustrascarpe. Guardiamo le loro foto in silenzio, è un momento che non può che toccare tutti.

Ci trasferiamo poi in pullman da Kragujevac a Smederevo, dove ci imbarcheremo per il tratto di navigazione di oggi. Durante il tragitto, Eugenio ci racconta due storie che riguardano questa zona.

La prima non la conoscevo ed è quella di Josef Schulz, un soldato tedesco che nel luglio del 1941 si rifiutò di partecipare all’esecuzione di un gruppo di 15 partigiani catturati e venne quindi fucilato insieme a loro. Il fatto avvenne a Smederevka Palanka, nei dintorni di Smederevo appunto, ed è stato per molti anni misconosciuto perché il comando tedesco aveva falsamente classificato la morte di Schulz come avvenuta in azione. Solo negli anni ’70 alcune testimonianze permisero di ricostruire la storia e la figura del soldato che disse “Io non sparo” divenne popolare.

La seconda invece la conosco, perché l’ha raccontata Paolo Rumiz nel suo “È Oriente”. È quella dell’acciaieria di Smederevo, per anni cuore dello sviluppo della città. La storia, a metà tra realtà e leggenda, narra che un giorno Tito venne a visitare queste colline e i funzionari locali gli magnificarono le splendide vigne, parlando di gròžde, che in serbo significa “uva”. Ma Tito, che era già sordo come una campana, capì gvòžge, che invece significa “acciaio”, e disse “Splendido! Facciamo al più presto una grande, immensa acciaieria”. Nessuno ebbe l’ardire di smentirlo. Sarebbe equivalso a fargli notare la sua sordità. La macchina del partito si mise in moto, e nel giro di soli due anni sorse dal nulla, sulla riva destra del Danubio, la più grande e inutile acciaieria d’Europa. Questa mi ricorda un po’ altre leggende che ho sentito, che ruotano intorno al fatto che Tito, secondo alcune testimonianze, pareva non padroneggiare perfettamente la lingua serbocroata e parlava con un accento strano. Da qui le congetture secondo cui sarebbe stato una spia russa del KGB, che aveva preso il posto del vero Tito. C’è chi dice che in questo modo avrebbe sempre lavorato per Mosca, sia pure in forma mascherata, chi che avrebbe fatto il doppio gioco fino a decidere, per sete di potere, di staccarsi definitivamente da Stalin, e che quindi lo strappo del 1948 sarebbe veritiero. Ma probabilmente sono solo leggende, e la pronuncia di Tito era semplicemente dovuta all’inflessione, poco conosciuta, della zona dov’era cresciuto (oggi nordovest della Croazia, ma la madre di Tito era slovena) e alle sue umili origini.

Anche oggi ci aspetta una lunga navigazione, ma per fortuna il sole continua ad accompagnarci, anzi oggi è ancora più forte, e neanche stavolta avremo modo di annoiarci.

Il paesaggio ci propone prima la quattrocentesca fortezza di Smederevo e poi quella di Golubac, costruita nel XIV secolo sulle rovine di una precedente fortezza ottomana, che è la più complessa e meglio conservata fortificazione medioevale serba.

Non lontano da Golubac sorge dal fiume la roccia di Babakay, alta più di 20 metri e menzionata in diverse leggende danubiane. Alcuni legano il nome della roccia alla parola slava “Baba” (donna anziana), mentre altri lo spiegano rimandando al termine turco “Babakay”, che letteralmente significa “pentiti”.

La leggenda più nota narra che un Aga turco, comandante di una guarnigione di confine, tornò un giorno da un lungo viaggio e scoprì che la più bella delle sue mogli era fuggita con un ungherese. Infuriato, chiamò il suo più fedele giannizzero, promettendogli dieci sacchi d’oro se gli avesse riportato la moglie, assieme alla testa del rapitore. Questi si mise subito a caccia dei due fuggiaschi, e seguendo le tracce di villaggio in villaggio scoprì che avevano passato la frontiera e si erano nascosti in una piccola fortezza cristiana. Il giannizzero e i suoi si mascherarono da contadini serbi e bussarono alla porta della fortezza chiedendo aiuto e gridando di essere stati derubati dai turchi, per provocare compassione e avere accesso all’interno. La porta gli fu subito aperta e, appena entrati, attaccarono i soldati e rapirono la donna, che nel frattempo era svenuta. Il giannizzero saltò a cavallo legando accanto a lei, sulla gola dell’animale, anche la testa del suo presunto amante.

Riportata a casa, la donna fu legata dal marito assetato di vendetta sulla cima di una roccia. “Pentiti!” furono le ultime parole che le disse prima di abbandonarla al vento e ai corvi. Tuttavia, come a volte succede, l’amore vince, e così la testa tagliata si rivelò essere non quella dell’amante, ma quella di uno dei soldati della fortezza. L’ungherese, mentre tra le mura infuriava la battaglia, era per caso nelle campagne circostanti e, una volta appresa la notizia, si mise ad inseguire i turchi, arrivando così alla roccia e liberando la sua amata.

Quando il giorno seguente l’Aga mandò un suo boia ad ammazzare la moglie, questi trovò solo la corda con cui era stata legata. Il boia era abbastanza intelligente da non confessare al suo capo la dolorosa verità, così gli disse che la donna si era buttata nel Danubio.

Alcuni mesi dopo, iniziò la battaglia di Carlowitz tra i Turchi e il Regno d’Ungheria. L’Aga, gravemente ferito sul campo, per uno strano scherzo del destino fu imprigionato nella tenda del suo rivale, dove scoprì la vera fine della moglie. Questo fatto accelerò sicuramente la sua morte, sopraggiunta poco dopo la terribile visione.

A non farci annoiare ci sono poi anche gli incontri, sia cultural-musicali che gastronomici.

Per quanto riguarda i primi, più tardi ci sarà Aleksandar Zograf ma per ora a tenerci compagnia c’è il gruppo di danze folkloristiche Lola. Eccoli in una delle loro migliori performance:

Per la parte Slow Food, invece, oggi è il pesce a farla da padrone, con un gustoso spezzatino che, ci viene rivelato, è fatto niente di meno che… con il siluro del Danubio! Il pesce da noi tanto bistrattato e criminalizzato come infestante e razziatore dei fiumi qui è apprezzato e spesso cucinato, avremo modo di scoprire. Il sapore è buono, non c’è che dire. Non è male neanche lo strudel di amarene, per non parlare della nostra quotidiana dose di rakija. Oggi Mirjana ci propone un “distillato” di mela cotogna selvatica. Anche la mela cotogna è un frutto ampiamente usato e apprezzato, qui nei Balcani.

Dopo l’ennesimo lauto pasto, siamo pronti per fare la conoscenza di Aleksandar “Saša” Rakezić, più noto con lo pseudonimo di Zograf. Saša è il più importante fumettista serbo. Nato nel 1963 a Pančevo, sobborgo industriale di Belgrado, si è affermato negli anni Novanta con fumetti sulla vita nell’ex-Jugoslavia (Life Under Sanctions) e per le sue cronache disegnate durante i bombardamenti della Nato. Le sue storie sono pubblicate in diversi paesi, tra cui Spagna, Francia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti. In Italia collabora con la testata Osservatorio Balcani e Caucaso (sul cui sito si possono trovare molte sue tavole) ed è una delle firme di punta di Internazionale.

Curiosamente anche lui, come Dušan Veličković, sceglie come sua forma espressiva prediletta una forma molto breve, storie che non durano mai più di due pagine. Ma non per questo sono meno incisive.

A me piace soprattutto per le storie dedicate alle città, ai fatti salienti della loro storia e alle sue impressioni di viaggiatore, come piccoli racconti di viaggio a fumetti; per quelle legate alla storia e all’attualità dei Balcani. Ma anche per il suo interesse per i sogni e le visioni ipnagogiche, allucinazioni che appaiono nella mente al momento del risveglio, o quando stiamo per addormentarci. Molta della sua produzione è basata su queste suggestioni, che hanno sempre incuriosito anche me. Purtroppo io, salvo casi rarissimi, non riesco a ricordare i sogni, né tanto meno a disegnarli…

Durante l’intervista mi diventa ancora più simpatico dichiarandosi fan di Alan Ford, che mi riporta all’infanzia (chi, oltre ai fumetti, si ricorda il cartone animato di “SuperGulp”? Fantastico!) e che scopro con piacere essere una leggenda in Serbia.

Oggi anche la nostra compagna di viaggio Alessandra ha avuto l’onore, anche se solo per pochi minuti, di stare al timone del leggendario Kovin: potrà raccontarlo ai nipotini.

Arriviamo nel tardo pomeriggio a Donji Milanovac, dove ci sistemeremo presso alcune famiglie locali. Io, Maurizio e Luciano siamo dagli Zeković, o meglio dalla suocera degli Zeković, che in questo momento si trova da dei parenti in Dalmazia. La signora Zeković ci accoglie gentilmente, ci fa vedere velocemente la casa, ci mostra il contenuto del frigo (succo d’arancia, birra e vodka) e ci consegna le chiavi. È appena tornata dalla spiaggia (il Danubio, naturalmente, è il loro mare, qui) e deve andare a casa a darsi una rinfrescatina.

La casa, quindi, è tutta per noi. Speravamo forse in qualche contatto in più con la famiglia che ci ospita, ma a volte va così.

Il paese ha tutta l’aria placida e un po’ sonnolenta di una località di villeggiatura per famiglie serbe. Non c’è molta gente in giro, quando usciamo per una breve passeggiatina prima di cena. Non vedo stranieri, a parte noi, e ciò non è detto che sia un male, anzi. Ci godiamo un bel tramonto.

Il Danubio è molto largo, qui. Sull’altra sponda, la Romania. Qui siamo già nel lungo tratto in cui il fiume fa da confine.

Anche la cena di stasera, neanche a dirlo, è a base di pesce. Si parte con una buona zuppa, poi un pesce alla griglia. Si sparge la voce che sia ancora siluro, ma è una voce non confermata. Il servizio non brilla per efficienza e rapidità, il che innervosisce non poco Eugenio, che è un perfezionista. Ma noi ce la prendiamo tranquillamente comoda, tanto qui, dopo cena, oggettivamente non c’è molto da fare. I suoni e le luci della Belgrado underground sono lontani.

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17/8/2016 – Giorno 7: Nel quale arriviamo alle Porte di Ferro

Per la colazione dobbiamo spostarci presso un’altra famiglia, i Popović. La strada non è molta, ma visto che non la conosciamo e sembra non sia semplice da spiegare, ci vengono a prendere.

Qui siamo un po’ più su, rispetto alla nostra casa. La tavolata è preparata su una bella terrazza in mezzo al verde, con vista sul fiume. Nel giardino c’è una casetta colorata per i giochi dei bambini. Con noi ci sono anche i compagni di viaggio che dormono in altre case, oltre a quelli che alloggiano qui, tra cui Alessia e Nello.

La colazione che ci offre Slavica, la signora Popović, non è male, anche se qualcuno lamenta che sia un po’ troppo “salata” per i nostri gusti, a base di formaggi, prosciutto e burek (sfoglie ripiene) anch’essi salati. C’è un tè alle erbe, che è praticamente una specie di tisana, ma sentiamo un po’ la mancanza del caffè, alla quale suppliremo più tardi in un bar nel centro del paese.

Per la mattinata ci dividiamo in due gruppi, perché la barca che deve portarci alle Porte di Ferro non è abbastanza grande per tutti. Un gruppo andrà subito in barca e poi al Centro Visitatori del Parco Nazionale di Djerdap, l’altro, del quale faccio parte anch’io, farà il contrario.

Iniziamo quindi con la visita al piccolo museo del Parco, con alcuni animali imbalsamati tra cui spicca il pesce siluro, ormai una delle icone di questo viaggio. Poi l’incontro con la direttrice, che ci fa un po’ di storia del parco e ce ne spiega le principali caratteristiche, anche con l’aiuto di un video. Sul filmato c’è una piccola nota polemica da parte di Mirjana, che sia pure col sorriso ci fa sapere che da mesi ha chiesto alla direzione del Parco di avere il filmato per poterlo tradurre e sottotitolare in italiano, ma non ha ancora avuto risposta. Per il momento, quindi, il video è sottotitolato solo in inglese.

Il parco nazionale di Djerdap, fondato nel 1974, è il più grande di tutta la Serbia. Abbraccia 63.608 ettari e corre lungo i cento chilometri della riva destra del Danubio: per questa ragione è spesso chiamato il “parco nazionale del fiume”. Il sito più importante è la maestosa gola di Djerdap, la più profonda gola fluviale d’Europa. E’ composta da tre valli e quattro canyon; quello di Veliki Kaza si erge a trecento metri di altezza sopra il Danubio. La gola di Djerdap è anche il punto dove il Danubio è più profondo (90 metri). In questo stesso tratto si trovano il punto più stretto (140 metri) e quello più ampio (7 chilometri) del fiume.

La centrale idroelettrica di Djerdap, costruita tra gli anni settanta e ottanta e conosciuta anche come “Porte di ferro“, formata da due dighe di diverse dimensioni, è la diga più grande di tutto il corso danubiano nonché una delle centrali idroelettriche più importanti d’Europa

Il Parco Nazionale è il più grande habitat naturale per la lince, specie molto rara in Europa, come pure per il lupo, lo sciacallo, il gatto selvatico, la lontra, lo scoiattolo, la volpe, la martora, il tasso, il camoscio e altri mammiferi (in totale circa cinquanta). Il Parco è anche una Important Bird Area (IBA), con le sue duecento specie di uccelli registrate, delle quali centotrenta nidificano in queste zone.

Dopo questa “introduzione”, siamo pronti per l’ultima navigazione di questo viaggio, che ci porta all’interno di questa zona davvero spettacolare dal punto di vista paesaggistico. È piuttosto evidente che la riva serba è ancora abbastanza ben preservata, mentre su quella rumena si notano parecchie aree costruite in maniera disordinata ed esteticamente discutibile. Notiamo anche che quasi tutte le imbarcazioni che navigano sul fiume sono rumene; pare proprio che da quella parte abbiano già scoperto e deciso di valorizzare le potenzialità turistiche di questo tratto di Danubio, forse addirittura un po’ troppo.

Tra l’altro, in un punto è scolpita nella roccia una colossale scultura alta 40 m che rappresenta il faccione di Decebalo, re dei Daci del I secolo d.C., fatta realizzare da un imprenditore rumeno piuttosto megalomane di nome Iosef Constantin Dragan. E infatti, l’iscrizione alla base dice: “DECEBALUS REX – DRAGAN FECIT”.

Sul lato serbo, invece, decisamente più discreta, c’è la Tavola Traiana. Di forma rettangolare, fu incisa nella roccia nel 101 d.C. ed è parte di un complesso di monumenti posti lungo la via romana che attraversava Djerdap. Fu innalzata per commemorare il completamento dei lavori per il difficile ultimo tratto di strada, e la costruzione di un canale vicino all’attuale diga di Djerdap, entrambi finalizzati alla guerra contro i Daci. Un’iscrizione scolpita in lingua latina è dedicata all’imperatore Traiano. La via romana fu sommersa dalle acque del Danubio durante la costruzione della centrale idroelettrica (1963-1972). La Tavola Traiana fu estratta dalla roccia, innalzata di cinquanta metri ed è ora visibile dal fiume.

Qui, nel parco di Djerdap, il Danubio è anche blu. Sicuramente più di quanto abbiamo visto finora. Il colore prevalente, fin qui, a causa del tipo di fondali, era più tendente al verdegrigio.

Su questa zona c’è un’altra storia che, secondo Eugenio, vale la pena di essere raccontata. È quella dell’isola di Ada Kale, un’isola che ora non c’è più. Fu sommersa nel 1970 durante la costruzione della diga di Djerdap. Aveva 600 abitanti, quasi tutti di origine turca. La storia è stata raccontata anche da Zograf, la potete trovare qui:

http://www.viaggiareibalcani.it/blob.php?id=1700

Pranziamo all’aperto, in un belvedere detto “del Capitano Miša”, con una splendida vista sul Danubio e delle gentili signore in costume tipico che ci servono, a buffet, un’infinità di specialità valacche. I valacchi sono i discendenti delle popolazioni di lingua tracica che furono romanizzate tra il primo e il sesto secolo nei Balcani e nel bacino del basso Danubio. Oggi vivono soprattutto in Romania, ma anche in queste zone confinanti della Serbia.

Qui c’è anche il laboratorio di Žika, uno scultore in legno che conosciamo grazie a Mirjana e che ha fatto, da sempre, la scelta di vivere a piedi nudi (in effetti i suoi piedi sono un po’… provati da questa scelta) per mantenere il più possibile vivo il contatto con la sua terra, che gli dà ispirazione e di cui deve costantemente “sentire” il respiro anche con i piedi.

Dopo il pranzo, anche questo luculliano, niente di meglio di una passeggiata nel bosco di Kovilovo fino a un altro belvedere. Purtroppo comincia a minacciare pioggia e dobbiamo tornare abbastanza di fretta.

Dopo un riposino nelle nostre casette (siamo riusciti ad arrivare appena prima che iniziasse a piovere), il programma prevede la visita al sito archeologico di Lepenski Vir, che si trova nella gola di Djerdap, sui terrazzamenti che scendono verso il Danubio. Anche qui, come a Vinča, ci troviamo nel centro di una delle più importanti culture preistoriche.

A Lepenski Vir le abitazioni avevano forma circolare, con un tetto a punta. Nel centro dell’abitato si trovava una piazza spaziosa, che era il luogo dedicato alle attività rurali. In base alla forma e alle proporzioni delle abitazioni, si suppone che i costruttori di Lepenski Vir avessero alcune nozioni di matematica. Intorno al focolare venivano collocate grandi sculture di pietra rotonde, che raffiguravano la forma della testa umana. Più tardi, le sculture hanno preso la forma della figura umana intera, per diventare dei veri e propri idoli.

Il museo che visitiamo è all’interno di una struttura megagalattica, che fa pensare che almeno qui un po’ di fondi siano arrivati. Ma, forse per l’ora forse per il tempo, siamo i soli visitatori. Ci fanno vedere uno stupendo film jugoslavo degli anni ’60 che racconta la scoperta del sito e che da solo varrebbe il prezzo del biglietto. Scopriamo che questa è stata la prima civiltà stanziale in Europa, e non è poco. Qui la vita media era di 45-50 anni, in certi casi fino a 70, quando nel resto d’Europa era intorno ai 35. Gli abitanti, poi, erano molto più alti della media europea. Il più alto scheletro trovato è di un uomo alto addirittura 2,03. Insomma, pare che anche qui a quell’epoca si vivesse davvero bene.

Praticamente annesso al sito archeologico, c’è il ristorante dove passeremo la nostra ultima serata serba.

Anche qui il buffet è ricco: Capretto alla brace, polenta bianca di mais, formaggio grigliato e… tanta, tanta rakija per affogare le prime tristezze di fine viaggio. Qui, evidentemente, Eugenio non ha dato indicazioni di razionarci il… carburante, forse perché è l’ultima sera, e quindi, a parte l’immancabile “aperitivo”, dopo cena continuano a girare vassoi colmi di bicchierini pieni fino all’orlo.

Nel frattempo, un ensemble di musica valacca sta già suonando e noi, chi più chi meno, ci lanciamo nelle danze. Anche qui, nel piazzale davanti al locale, il kolo impazza. Una delle cameriere tenta, con tutta la buona volontà possibile, di spiegarci i passi: in teoria sembra semplice ma, almeno per quelli completamente negati come me, il passaggio dalla teoria alla pratica non è affatto banale, a maggior ragione quando l’alcol in corpo è già parecchio… come sempre vado un po’ a caso, più che altro mi lascio trasportare.

Nelle pause della danza, comincia una gara di “shottini” (bicchierini da mandare giù in un sol colpo – one shot, ndr). Facciamo amicizia con un serbo che vive da tanti anni a Vicenza e ha un incredibile accento veneto, e questo non può che peggiorare la situazione. Ovviamente, non farò nomi né… numeri, non posso tradire i miei compagni (e le mie compagne) di bevute. Riusciamo comunque a finire la serata mantenendo un certo contegno, che è pur sempre qualcosa.

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18/8/2016 – Giorno 8: Nel quale si giunge all’epilogo

Il risveglio porta con sé un certo mal di testa, ma data la serata era abbastanza inevitabile. Niente di grave, comunque: butto giù qualcosa e passa subito.

Torniamo da Slavica per la colazione. Ormai la strada la sappiamo, possiamo andare anche a piedi: una passeggiatina e una boccata d’aria fresca non può che far bene.

La colazione, stamattina, è un po’ più scarsa rispetto a ieri, bisogna ammetterlo. Forse, ipotizziamo, ieri è avanzata parecchia roba e oggi Slavica è stata più parca. C’è il caffè, però, magari la qualità non è eccezionale ma c’è.

C’è anche il figlio di Slavica, che parla un ottimo inglese con accento americano: deve aver vissuto negli States. Anche lei se la cava con l’inglese, a dire il vero. Forse per compensare, ci offrono degli strani frutti di un albero che ha 300 anni e che sembra sia tipico di questa zona. Sono simili a dei piccoli fichi, ma non molto saporiti, in realtà.

Partiamo in pullman per tornare a Belgrado, dove questo pomeriggio abbiamo il volo di ritorno. Ci vogliono circa 3 ore – 3 ore e mezza. Arriviamo giusto per… l’ora di pranzo (tanto per cambiare).

Per chiudere in bellezza mangiamo in un ristorante che fa parte anch’esso della rete di Slow Food, a due passi dalla Cattedrale di San Sava. Il livello è piuttosto elevato, lo si capisce anche dal design raffinato degli arredi. Anche il cibo è veramente di livello; abbiamo mangiato bene ovunque, ma questo posto è certamente tra i migliori. Il menù comprende quella che forse è la più famosa specialità dei Balcani occidentali, i Ćevapčići (polpettine cilindriche di carne di manzo e agnello, condita di sale, spezie e aromi vari), serviti con cipolla, ajvar e kajmak. Il nome, forse non tutti lo sanno, deriva dalla parola ćevap, che poi è la versione serba del turco kebap.

Facciamo l’ultimo brindisi e salutiamo alcuni compagni di viaggio per cui, fortunati loro, il viaggio prosegue: Carla, che torna con Eugenio in Vojvodina; Sara e Daniele, che vanno in Bosnia Erzegovina.

E poi, dato che siamo qui, non possiamo non visitare San Sava, che tecnicamente non è ancora la cattedrale di Belgrado. Dovrebbe diventarlo, in un futuro al momento ancora imprecisato. Fuori è finita da molti anni, ma dentro è ancora un cantiere, anche se è già consacrata e usata come chiesa. È un po’ la “Sagrada Familia” di Belgrado.

La costruzione, iniziata nel 1894 qui nel luogo dove si dice che i turchi bruciarono le reliquie di San Sava, figlio di un condottiero del XII secolo e fondatore della Chiesa ortodossa serba, è stata ripetutamente bloccata dalle guerre. La grande piazza, con la statua del leggendario Karadjordje, è un punto di incontro dei belgradesi ed è stata teatro di tante manifestazioni.

E poi quella che è davvero l’ultima tappa, prima di dirigerci all’aeroporto, anzi già sulla strada per raggiungerlo. È Zemun, che quando la capitale era sotto il dominio turco era il punto più meridionale dell’impero austro-ungarico. Proprio qui, in un vecchio locale sul lungofiume chiamato Radetzky, è ambientato uno dei racconti che Dušan Veličković ci ha letto, quello che narra del suo incontro col figlio di Giangiacomo Feltrinelli. E quindi guardare il Danubio da qui è un po’ come chiudere il cerchio di questo viaggio così ricco di suggestioni.

Abbiamo tutti scoperto, o capito ancor di più, che i Balcani, come dice Paolo Rumiz, sono note bastarde, voci e frequenze che bucano i confini, ignorano i visti, i passaporti e le lingue, per andare dritti al cuore dell’uomo.

Mi torna in mente anche il finale di Underground, con la Jugoslavia che si stacca dalla terraferma e va alla deriva mentre Ivan, il matto che in fondo è il più savio, comincia a raccontare: “C’era una volta un paese…”. Vorrei tornare qui, un giorno, e vedere che quella deriva è finita, ma forse resterà solo un sogno, o una visione ipnagogica… tra l’altro, mentre scrivevo queste note, ho letto che in Serbia qualcuno ha proposto (seriamente, sembra) di erigere un monumento a Milošević. Spero proprio che l’idea non si concretizzi.

Eugenio ci ha già illustrato quello che potrebbe essere il viaggio dell’anno prossimo, che sarebbe poi la continuazione ideale di questo, fino al delta del Danubio, dove il Grande Fiume sfocia nel Mar Nero. Molti di noi ci stanno già pensando. E fino ad allora, che il grande signore Danubio ci protegga. Potrà sembrare un po’ blasfemo, ma… se c’è gente che ha venerato il Dio Po, perché non il Danubio, che, con tutto il rispetto, forse è anche un po’ più importante?

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Grazie a Rita e Giovanni per il video del kolo alla fattoria e per le foto… di cibo: ero quasi sempre troppo impegnato a mangiare per farle io (e poi le loro sono più belle!).

Grazie a Patrizia per la mia foto mentre discetto con Milan di calcio e antropologia balcanica.

E grazie a tutti quelli che hanno contribuito alla realizzazione del viaggio, organizzatori e partecipanti, per questa splendida settimana.

Questo diario è stato pubblicato, a puntate, anche sul sito di Osservatorio Balcani e Caucaso. Grazie a Eugenio Berra e alla redazione di OBC.