Diario di un viaggio nella tormentata città dei muri e dei cancelli, delle bandiere e dei murales, del lino e delle corde da marinai, dei cantieri navali e degli operai che hanno forgiato i giganti del mare, di Van Morrison e di George Best. Che prova a rinascere, senza poter dimenticare i giorni dei “troubles”, che ancora ne segnano la vita.

One day we’ll return here,

When the Belfast Child sings again

Brothers, sisters, where are you now

As I look for you right through the crowd

All my life here I’ve spent

With my faith in God, the Church and the Government

But there’s sadness abound

Some day soon they’re gonna pull the old town down

(Belfast Child, Simple Minds, 1989)

 

Parte I

Prologo

Miei cari lettori, mi corre prima di tutto l’obbligo di spiegare questo titolo. Anche perché chi di voi mi conosce, e sa come la penso sulla questione dell’Irlanda del Nord, potrebbe pensare che ho deciso di passare alla lotta armata, come si diceva una volta. Aderendo magari a quei gruppuscoli che si sono staccati dall’IRA storica, perché contrari al processo di pace in ogni forma, e cercano ancora di portare avanti la lotta. Si fanno chiamare “Real IRA”, se non sbaglio.

Niente di tutto ciò. Sarebbe fortemente stridente con la mia ben nota indole pacifica, del resto.

No, solo la I è maiuscola, se ci fate caso; si tratta di un’altra Ira, un’Ira che piace sicuramente di più a noi ascoltatori di Radio Popolare: Ira Rubini. È lei che ci guiderà in questo viaggio nella Belfast vecchia e nuova. Lei, che ogni giorno ci guida, con il suo programma “Cult”, tra teatro, cinema, arti visive, musica, letteratura, filosofia, sociologia, comunicazione, danza, fumetti e graphic-novels… qui non ci guiderà solo con la sua voce, ma sarà proprio qui con noi, in carne ed ossa, a calpestare con noi le strade di questa città così complicata, che non è certo di quelle che si fanno amare a prima vista. Ma con lei, ne sono certo, potremo apprezzarla e perfino provare a capirla.

Per me, anche stavolta, non è una prima volta. Sono già stato in Irlanda parecchi anni fa, nell’agosto del 2000. E da allora sono sempre rimasto molto legato all’Irlanda, per vari motivi, e ho sempre sognato e progettato di tornarci, senza mai riuscire a realizzare il proposito. Sono stato anche a Belfast, 16 anni fa. Ma so che la città, da allora, è parecchio cambiata, anche se non in tutte le zone. E poi quella volta, a dire il vero, ci passai solo una giornata, prendendo un treno da Dublino la mattina presto e tornando alla base la sera tardi.

Una giornata, però, che è difficile dimenticare. Quel giorno Belfast si era svegliata con i blindati dell’esercito britannico nelle strade, per la prima volta dopo gli accordi di pace del Venerdì Santo del 1998. Era successo che la sera prima c’era stato un violento scontro a fuoco tra due bande paramilitari protestanti, gli UVF (Ulster Volunteer Force) e gli UFF (Ulster Freedom Fighters), che poi è l’altro nome dell’UDA (Ulster Defense Association), quello che hanno adottato quando come UDA sono stati messi fuori legge. Già da qui si capisce che questa città è complessa, se qualcuno aveva dei dubbi. Qui non si sono sparati solo tra protestanti e cattolici, ma ogni tanto anche tra diverse fazioni della stessa confessione (soprattutto i protestanti unionisti, ma a volte è capitato qualche regolamento di conti anche tra cattolici). La sparatoria aveva lasciato due morti sull’asfalto. Lessi su un giornale locale che si trattava di una vecchia faida che periodicamente tornava a riacutizzarsi, e che la polizia cercava un certo “Mad Dog” Adair, che era il gentiluomo che aveva dato inizio alle danze, quella sera. Non era stato lui a sparare i colpi fatali, anche perché i due morti erano uomini suoi, ma di sicuro la prima provocazione era partita da lui. Pochi giorni dopo fu arrestato, e condannato a due anni di carcere.

Va da sé che quel giorno il clima in città era piuttosto cupo, credo più del solito anche se per me era la prima volta che ci mettevo piede e non avevo termini di paragone. Restando nel centro, in realtà, non si percepiva nulla di particolare, sembrava una tranquilla giornata d’estate. Ma muovendosi verso West Belfast si vedevano i primi blindati, e i soldati armati di mitra a presidiare le strade.

West Belfast è la zona più “calda” della città, quella che si divide tuttora tra la parte cattolica, intorno a Falls Road, e la parte protestante unionista, intorno a Shankill Road. Entrambe le parti hanno le loro bandiere e i loro murales. Allora, in alcuni punti, persino la cordolatura dei marciapiedi era dipinta, in verde-bianco-arancio nella parte cattolica e in bianco-rosso-blu nella parte unionista.

L’idea con cui ero arrivato era, dopo un giro delle principali attrattive del centro, di andare a West Belfast a piedi o, vista la distanza, con un autobus pubblico. Visto che però il clima era quello, decisi per prudenza di andarci con un tour organizzato. C’era poca gente che voleva farlo quel giorno, ma io non volevo rinunciare. Trovai un pullmino, semivuoto, che partiva da una strada del centro. La guida ci raccontò brevemente quello che era successo e ci spiegò che, su indicazione della polizia, lui doveva consigliarci di non scendere neanche per fare le foto durante le soste. Era solo un consiglio, anche piuttosto eccessivo in realtà. Cosa avrebbe potuto succedere a dei turisti con l’esercito nelle strade? Ma nessuno si sentiva di trasgredire, forse anche per non far perdere tempo al gruppo, e così feci anch’io. Quindi ho un sacco di foto dei murales scattate da dietro i vetri del pullmino. Questa volta sarà sicuramente diverso, potremo fare un tour più lungo e prenderci i nostri tempi.

Il gruppo, questa volta, è più piccolo rispetto agli altri viaggi che ho fatto con la radio. Siamo 12 persone, compresa Ira. Forse l’interesse per Belfast non era alle stelle e, in più, qualche traversia con i prezzi dei voli ha portato a chiudere presto le iscrizioni. Ma tra queste 12 persone ci sono alcune delle mie più care amiche, e questo non può che far nascere il viaggio sotto i migliori auspici. L’organizzazione, come sempre, è a cura di ViaggieMiraggi, ma questa volta non avremo un loro accompagnatore/trice. Sarà Ira il nostro unico punto di riferimento.

Insomma, rendiamo merito a Claudio Agostoni, che ci ha messo l’idea iniziale, ma questo per noi sarà il viaggio dell’Ira, che per la prima volta accompagna un viaggio di Radio Pop e che non vediamo l’ora di conoscere.

E ora può cominciare il racconto.

 

15/9/2016 – Giorno 1: Nel quale, non senza difficoltà, arriviamo a Belfast

Il viaggio, per me e per le amiche con cui ho appuntamento alla Stazione Centrale di Milano per prendere il pullman che porta all’aeroporto di Orio al Serio, comincia subito, per la circostanza fortunata che Ira ha deciso, evidentemente, di prendere lo stesso pullman. Siamo noi, ovviamente, a farci riconoscere: per noi è soprattutto una voce, nessuno di noi la conosce personalmente, ma abbiamo già avuto occasione di vederla dal vivo e così, quando non senza sorpresa la vediamo salire, spolverino nero e sciarpa rossa, la invitiamo a sedersi vicino a noi. E subito scatta quella magia che sembra unirci alle voci della nostra radio, per cui iniziamo a chiacchierare come se ci conoscessimo da sempre.

Ira conosce benissimo il mondo anglosassone, ha vissuto a Londra e parla inglese come i madrelingua, anzi forse meglio di parecchi che ho conosciuto. In realtà, non so esattamente quante lingue parla. Lei è nata a Bruxelles, è di madre tedesca, che però le parlava in francese, ha vissuto lì da piccolissima, poi a Milano, poi da giovanissima è andata a vivere a Londra con quello che allora era suo marito. Ci ha raccontato che, quando lo disse a suo padre, lui alzò gli occhi dal giornale solo brevemente e le chiese: “Hai di che pagare l’affitto?”. “Sì” – disse lei – e lui: “Allora va bene”.

Ira, per altro, è un nome russo, perché nella sua famiglia ci sono anche delle ascendenze russe.

Ci racconta anche dei ritardi nella definizione del nuovo palinsesto e delle interminabili, a volte un po’ folli, riunioni di redazione a Radio Popolare, e ci sembra di vederli. Parliamo delle nostre trasmissioni e dei nostri conduttori preferiti, di quello che ci piace (tanto) e quello che non ci piace (poco) della nostra radio. Parliamo dei bellissimi e intensi 3 giorni di festa per i 40 anni della radio lo scorso giugno, e della necessità di ripetere una festa come quella, anche un po’ più piccola, ma una volta l’anno.

Così il viaggio verso l’aeroporto, sotto la pioggia, scorre via veloce. All’aeroporto il gruppo si riunisce, alle 8, al check in di Ryanair. Il nostro volo dovrebbe partire poco dopo le 10. Abbiamo così l’opportunità di conoscere anche gli altri compagni di viaggio, tra cui Marcello, che sarà il mio compagno di stanza. Qualcuno fa notare che, in qualche punto, dal tetto piove dentro. Forse è un segnale che il viaggio di andata non sarà dei più fortunati… in effetti piove sempre più forte, anche se da dietro le vetrate si capisce relativamente. In attesa dell’imbarco, incontriamo due giovani ascoltatrici della radio, che vanno anche loro in Irlanda. Regaliamo loro qualche gadget, in cambio della promessa che faranno il possibile per abbonarsi e, chissà, per partecipare anche loro a qualche viaggio in futuro.

Intanto, però, notiamo un primo spostamento dell’ora di partenza del nostro volo, poi un altro. Un quarto d’ora, poi mezz’ora, poi un’ora. Comincia a serpeggiare una certa preoccupazione. Si viene a sapere che il nostro aereo, quello che ci avrebbe dovuto portare a Dublino, non è riuscito ad atterrare per il maltempo. Dopo aver girato un po’ intorno all’aeroporto, per non restare senza carburante è dovuto atterrare a Verona. Ora dovrà tornare qui, e questo chiaramente non sarà indolore. Il nuovo orario di partenza è fissato per le 14, con quasi 4 ore di ritardo. Speriamo che almeno questo venga rispettato, perché perdere un intero giorno su un viaggio di 4 non è il massimo. Un po’ per scaramanzia, valutiamo anche l’ipotesi peggiore e decidiamo che, se non dovessimo riuscire a partire entro stasera, sarebbe il caso di rinunciare e riprogrammare il viaggio in un altro momento, per quanto difficile possa essere. Ma qui il tempo sta migliorando, gli aerei ricominciano ad arrivare e a decollare. Forse il nostro ha beccato proprio il momento peggiore, ci rendiamo conto che è uno dei pochi che hanno un ritardo così grande.

Alla fine le nostre scaramanzie funzionano e, abbastanza puntuali nel nostro ritardo, riusciamo a partire. Abbiamo perso qualche ora, ma pazienza.

Sul pullman che ci porta dal gate all’aereo Marcello ricorda un episodio divertente che gli è successo a Caracas, dove il pullman girava per la pista con l’autista che chiedeva in giro quale fosse l’aereo dove doveva portare i passeggeri, e io commento che… succede nei peggiori aeroporti di Caracas. Siamo già in sintonia.

Il volo è tranquillo e, dopo poco più di due ore, atterriamo a Dublino. Da qui abbiamo un bus per Belfast, che avevamo prenotato e che ovviamente abbiamo perso. Ma le regole della compagnia di trasporti ci consentono di prenderne uno successivo se il ritardo, come in questo caso, è dovuto a cause di forza maggiore… aerea. Purché ci sia posto per 12 persone, che per fortuna c’è. Ce la facciamo per un pelo, il bus è completamente pieno. Molti probabilmente si dirigono a Belfast per la Belfast Culture Night che è in programma domani sera, una specie di notte bianca nordirlandese.

Sul bus Ira chiacchiera per tutto il tempo con una gentile signora irlandese, ma purtroppo sono troppo indietro per riuscire a captare qualcosa. Dato che il bus era già quasi pieno, ci siamo dovuti disporre in ordine sparso. Riesco solo a sapere che, dopo l’annuncio della Brexit, pare che nel nord ci sia una corsa, per chi ha i requisiti, ad accaparrarsi anche il passaporto della Repubblica d’Irlanda, che diventa ormai un passaporto per l’Europa. In passato, naturalmente, era il passaporto britannico ad essere più desiderabile, ed ora ecco che gli scherzi della storia offrono questo curioso contrappasso.

A Belfast fa abbastanza fresco ma non piove, smentendo le fosche previsioni meteo con le quali siamo partiti. Il Travelodge hotel, dove ci sistemiamo, è in Brunswick Street, in pieno centro, a due passi dalla City Hall. È estremamente essenziale ma, ci dicono, è quello che era possibile trovare nel weekend della Culture Night senza muoversi con mesi di anticipo. Ad ogni modo sono solo tre notti, anche se le comodità non abbondano non importa.

Si è fatta una cert’ora e così, prima di cena, c’è solo il tempo per un giro veloce nei dintorni e una prima puntatina al pub.

Davanti alla City Hall, Ira ci fa un interessante discorsetto introduttivo sulla storia della città, che è relativamente recente, anzi molto recente rispetto agli standard italiani ed europei. A parte qualche insediamento più o meno stabile in epoche più lontane, la fondazione risale al ‘600 ma allora Belfast era solo un villaggio di qualche centinaio di abitanti. Lo sviluppo vero della città arriva solo con la rivoluzione industriale, che nell’800 trasformò Belfast più di ogni altro luogo in Irlanda. La vocazione industriale della città si sviluppò intorno al tessile soprattutto, all’inizio (ancora oggi il lino di Belfast è famoso), poi alla produzione di corde, in particolare corde da marinai, e infine ai cantieri navali, che sono stati la gloria della città tra la seconda metà dell’800 e la prima metà del ‘900. Sappiamo già che il Titanic è uscito dai cantieri di Belfast, della Harland & Wolff, e in questi giorni visiteremo il nuovo museo interattivo dedicato allo sfortunato transatlantico, che ebbe vita breve ma che è diventato immortale nel mito. La storia industriale della città, ci fa notare Ira, è quella che in fondo ne segna anche la storia politica e sociale, e che porta ai “troubles” degli anni ’70 e ’80. Sì, perché dall’800 in poi l’industria attira persone da tutta l’Irlanda cattolica e la città, nata come insediamento protestante presbiteriano, si trova a dover fronteggiare un impetuoso aumento della popolazione cattolica. Cattolici che vivono in condizioni di sfruttamento e discriminazione, situazione che enfatizza i contrasti e fa aumentare la diffidenza della maggioranza protestante e unionista. Tutto questo, nei quartieri più poveri, diventerà il brodo di coltura della violenza e del settarismo.

Mentre Ira ci spiega questi fatti, siamo distratti dal viavai di limousine, uomini in abito scuro e donne che zompettano gaie ma con passo un po’ incerto su tacchi altissimi, fasciate in abitini un po’ improbabili e a volte troppo stretti. Scopriamo che la City Hall ospita una serata dedicata ad una di quelle cerimonie tipiche del mondo anglosassone, la premiazione dei cittadini e delle cittadine che più si sono distinti, nell’ultimo anno, nelle varie categorie professionali. Quelle che abbiamo proprio davanti a noi, per esempio, sono le migliori estetiste della città! La vena caustica di Ira ha subito modo di esercitarsi, ma in effetti bisogna ammettere che, anche ad essere più indulgenti, sono davvero piuttosto buffe.

Il pub che scegliamo per la nostra prima birra non può che essere quello che è probabilmente il più famoso e il più carico di storia di tutta Belfast: il Crown Liquor Saloon, che si trova anch’esso a breve distanza dal nostro albergo. Già da fuori è molto bello, decorato com’è con una miriade di piastrelle di differenti forme e colori e con i vetri a mosaico. Ma l’interno è un gioiello di stile vittoriano, conservato com’era alla fine del XIX secolo, con marmi e legno di mogano e con, in ogni sedile, le placche di ottone che servivano ad accendere i fiammiferi.

La curiosità che si trova su tutte le guide, anche sulla mia vecchia Lonely Planet in inglese del 1998 (allora non esistevano in italiano), è che i primi proprietari erano una coppia di coniugi divisi dalla fede religiosa e anche sul nome da dare al locale. Prevalse lei, che da brava unionista lo volle chiamare “Crown”, ma lui, cattolico e nazionalista irlandese, scelse un modo sottile di prendersi la sua rivincita: fece disegnare una corona proprio sul pavimento, anch’esso a mosaico, dell’ingresso, in modo che tutti la calpestassero entrando e uscendo. E ancora oggi è così.

La prima birra, almeno per me, ma per quasi tutti, non può che essere una Guinness. Sì, è vero, è di Dublino, ma cosa c’è che rappresenti di più l’Irlanda nel mondo? Eppure, lo racconto perché forse non tutti lo sanno, la tradizione della birra scura viene dall’Inghilterra. La birra più classica irlandese, puramente irlandese, era la rossa. Ma nel 1759 il signor Arthur Guinness, che era un mercante e che faceva la spola tra Dublino e Londra, si rese conto che, tra i facchini che lavoravano al mercato della frutta di Covent Garden, a Londra, la birra più popolare era proprio una scura, una corposa stout. E, va da sé, quei facchini erano in gran parte irlandesi. Per questo il signor Guinness decise di provare a produrre quel tipo di birra in Irlanda ed ebbe, diciamo… un certo successo. Ed è sempre per questo che, ancora oggi, la birra scura si chiama anche “Porter Black”, la nera dei facchini, o semplicemente “Porter”. Oggi, bè, oggi sì, si può dire che la birra più tipica irlandese sia la scura.

Certo, ha un gusto particolare, non a tutti piace. E molti pensano, erroneamente, che sia forte. Le signore preferiscono, a stomaco vuoto, optare per la mezza pinta, ma per me una Guinness deve essere una pinta. E vai col primo brindisi.

Per la cena ci trasferiamo da Acton & Sons, che è un po’ il nostro ristorante di casa. È attaccato all’albergo, con il quale comunica attraverso una porta. È qui che verremo a fare colazione domani mattina. Stasera c’è un “Thursday Special” al quale è difficile resistere: Rump & Ribs (bistecca di controfiletto e costolette di maiale) per 2 persone a sole 25 sterline. Parecchi di noi, me compreso, ne approfittano. Non è proprio un piattino leggero, anche perché la porzione, anche per due, è abbondante, ma soprattutto le costolette sono molto saporite. E con un bicchiere di Belfast Blonde, una “Ale” locale leggera e profumata, vanno giù ancora meglio.

Anche il clima nel gruppo, come sempre, è già ottimo e l’affiatamento cresce.

Dopo cena altra breve passeggiatina e a nanna, ché stamattina è stata per tutti una levataccia e un po’ di stanchezza inizia ad affiorare.

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16/9/2016 – Giorno 2: Nel quale scopriamo tutto, ma proprio tutto, di Van the Man e respiriamo l’atmosfera della Notte Bianca di Belfast

Abbiamo appuntamento abbastanza presto, perché il programma della mattinata è piuttosto denso.

La colazione la facciamo, come detto, da Acton & Sons. Il buffet non è ricchissimo, diciamo che è quella che qui chiamano colazione “continentale”: pane, burro, marmellata, yogurt e cereali. Niente a che vedere con la colazione tradizionale “Irish”, che prevede il classico Eggs & Bacon con l’aggiunta della salsiccia.

A servire la colazione c’è un ragazzo molto giovane, con i capelli rossi e un sorriso un po’ sdentato che certo non aiuta la comprensibilità del suo eloquio. Io riesco a capirlo abbastanza bene, però, devo dire, anche se l’accento di qui è molto tosto e io sono più avvezzo a quello di Dublino, che è un po’ più vicino a quello “British”, per ovvie ragioni geografiche e storiche: Dublino è sempre stata la città che ha subito maggiormente l’influenza inglese. Per quanto, in realtà, anche per capire i dublinesi bisogna farci un po’ l’orecchio. Stamattina indosso una vecchia maglia biancoverde del Celtic, la squadra cattolica (e con radici irlandesi) di Glasgow. L’ho comprata proprio lì nel 2002. E subito il ragazzo mi dice che il Celtic è anche la sua squadra. È andata bene, in effetti avevo più o meno il 50% di possibilità. Qui, da sempre, il campionato di calcio scozzese è più seguito di quello nordirlandese, il cui livello qualitativo è obiettivamente bassino. E ci si divide, su base confessionale, tra le due squadre di Glasgow: i cattolici tifano Celtic, i protestanti Rangers. È stato particolarmente così durante gli anni dei “troubles”. Allora, anche nella Repubblica, ogni bravo ragazzo irlandese cattolico aveva nella sua cameretta un poster del Celtic. Oggi non è più così sentito, ma questa maglia vuole ancora dire qualcosa, anche per questo ragazzo. Che, però, poi mi chiede se è originale o se è una replica. Certo che è originale, rispondo, in che senso? “Sai” – fa lui – “è di tanto tempo fa…”

Ha capito dallo sponsor che la maglia ha parecchi anni, probabilmente lui l’ha vista solo nei vecchi filmati in TV… insomma, per lui è come se fosse una maglia d’epoca. La cosa mi lascia un po’ sconcertato, ma devo incassare. Spiego che l’ho comprata nel 2002, e aggiungo: “Se per te 14 anni è ‘a long time’…”. Ma è chiaro che lo è. Mi son preso del vecchio, insomma.

Comunque, me lo sono fatto amico. Ma Ira mi chiede se ho intenzione di girare per tutta Belfast con quella maglia. Pensavo di sì, rispondo… dici che non è il caso?

Lei spiega che indossare questa maglia è una scelta di campo, vuol dire esporsi, prendere una parte e quindi essere preparati ad affrontare qualche reazione ostile dalla parte avversa. Lo so benissimo – dico io – e infatti non mi sogno di metterla domani, quando andremo a West Belfast, ma pensavo che oggi, stando in zone relativamente centrali e tranquille, non avrei avuto particolari problemi.

Fai come vuoi, dice lei, ma non ne sarei così sicura. A questo punto ci ripenso, e decido di seguire il suo consiglio. Quando, dopo colazione, saliamo brevemente in camera per lavarci i denti, me la tolgo e metto quella di Radio Popolare, quella dell’anno scorso col disegno di Zerocalcare. Preferisco non correre nessun rischio, anche perché se fossi da solo potrei scegliere di prendermi tranquillamente gli eventuali insulti e se ho voglia anche rispondere, ma essendo in gruppo veramente non è il caso. Non dimentichiamo che questa città è ancora divisa da una barriera, chiamata ironicamente Peace Line, lunga 14 km. A Berlino il muro è caduto, qui ancora no.

Per prima cosa, facciamo una breve visita alla City Hall, che è doverosa ed è comunque un buon punto di partenza. L’edificio, costruito tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, è veramente schizofrenico, come dice Ira. Lo stile principale vorrebbe essere neoclassico, ma all’interno ci sono marmi italiani per renderlo più sontuoso, ci sono vetrate gotiche, dipinti naif, c’è davvero un po’ di tutto. Probabilmente i vari mecenati che l’hanno finanziato, ricchi imprenditori della città, o magari le loro signore, avevano idee diverse e non una grande cultura. Ha, in fondo, un suo stile nel non avere stile, o nel mescolare diversi stili un po’ a caso. È comunque un modello interessante, che racconta la storia di un’epoca e di una città. E la piccola collezione di vetrate che riproducono simboli della città o ricordano momenti storici è da vedere. Davanti all’ingresso principale, una statua della Regina Vittoria.

Ci spostiamo poi verso il mercato coperto, il St. George’s Market. Ma prima, Ira fa un veloce collegamento telefonico con la radio, precisamente con la trasmissione Moby, condotta da Disma Pestalozza.

Gironzoliamo per una mezz’oretta all’interno del mercato, curiosando e assaggiando scones (piccole focaccine ripiene), soda bread (pane fatto col bicarbonato di sodio al posto del lievito) e formaggi locali. Facciamo anche un incontro assolutamente inaspettato: quattro ragazze della nazionale italiana di calcio femminile, che devono giocare stasera in Irlanda del Nord per le qualificazioni agli Europei. Scopriremo poi che si sono imposte con un netto 3-0: Brave!

Ma ora è il momento di partire per il Van Morrison Trail, una delle tappe più attese di questo viaggio. Per farlo ci spostiamo nella parte Est di Belfast, dove “Van the Man” è nato e dove ha mosso i primi passi artistici.

A farci da guida per questo tour è Al, un personaggio davvero incredibile. È completamente pazzo, a dire il vero, e forse è interessante proprio per questo. È un uomo sulla cinquantina abbondante, anche se per fare il brillante sostiene di avere 35 anni. Si presenta con un giubbotto di jeans “griffato” Van Morrison e un cappello tipo pescatore che, scopriremo poi, è identico al copricapo preferito del suo mito. Ha un passato da elicotterista della RAF (Royal Air Force), per la quale è stato in missione in Afghanistan e in Kosovo. Ora, invece, fa il volontario in una struttura che assiste anziani e disabili mentali e, per il resto, si dedica a tempo pieno a una passione musicale che appare veramente totalizzante. In una pausa del tour mi ha detto che per rilassarsi e sentirsi bene, in una bella giornata come questa, il suo ideale sarebbe girare in macchina per il quartiere con il finestrino abbassato, il braccio fuori e la musica di Van a palla. In effetti la giornata si è messa, almeno per il momento, al bello; le previsioni negative della vigilia, per ora, sono dimenticate, anche se si sa che qui il tempo è molto variabile. Il cognome di Al è Bodkin, che può riferirsi a un grosso ago o a un pugnale, il che, considerando il suo passato, ci fa pensare che sia preferibile non contrariarlo.

Solo l’anno scorso, che per altro era un anno speciale perché Van Morrison ha compiuto 70 anni, è andato a 14 concerti. Tra l’altro, ci racconta Ira, alla grande festa per i 70 anni di Van c’era anche Claudio Agostoni. Forse è lì che è nata l’idea…

Girando per il quartiere, tra le casette basse di mattoni rossi tipiche di qualsiasi periferia “working class” del Regno Unito, si nota pressoché ovunque una selva di Union Jack. Non sapevo, devo ammetterlo, che East Belfast fosse così fortemente caratterizzata in questo senso: è una zona completamente, e ostentatamente, unionista, dove ancora oggi si sente il bisogno di marcare il territorio esponendo le bandiere. Visto dove è cresciuto, anche Van deve essere di famiglia unionista, ci viene da dedurre. Aveva ragione Ira, comunque, devo ammettere anche questo: con la mia maglia biancoverde mi sarei sentito un po’ a disagio.

La casa natale di Sir George Ivan “Van” Morrison, davanti alla quale Al ci scatta una foto di gruppo, ora appartiene ad un’altra famiglia, che sembra per il momento restia a cederla per consentire che venga trasformata in un museo. Per ora, solo una targa ricorda che la casa, negli anni ’50, ebbe un illustre inquilino.

Per chi non lo conoscesse, Van Morrison è un cantautore che, dopo gli esordi votati al blues-rock con il gruppo dei Them, ha portato avanti una lunga e gloriosa carriera solista mantenendo sempre un legame con la passione giovanile per la musica nera, sconfinando spesso nel jazz e con qualche riferimento anche alla musica tradizionale irlandese. Secondo Rolling Stone, è 42° nella classifica dei migliori artisti di sempre.

Noi, grazie ad Al, e alla traduzione di Ira, abbiamo la possibilità di esplorare ogni anfratto di quello che è il suo mondo fisicamente ma anche musicalmente, quel miglio quadrato della sua Belfast a cui spessissimo ha fatto riferimento nelle sue canzoni, rendendo famose stradine di cui a volte nemmeno gli stessi abitanti di Belfast conoscevano l’esistenza. Molti artisti americani hanno cantato la Route 66, lui ha cantato questo suo piccolo mondo di periferia, trovandoci anche degli spunti poetici.

La sua prima band, all’inizio degli anni ’60, si chiamò The Monarchs perché il suo amico George Jones, anche lui membro della band, prese “in prestito” una targa della Royal Mail, per la quale in quel momento lavorava, da un furgoncino della posta e la appiccicò sulla batteria di quel primo sgangherato complesso. I Monarchs, per altro, ebbero un certo successo riuscendo anche a fare un tour delle basi NATO in Germania.

Il vero successo, però, venne coi Them, anche grazie a un’intelligente campagna pubblicitaria che giocava sul nome “Loro” con claim tipo “Who are Them?”, “Who knows Them?”, “They are Them”, ecc. Soprattutto venne con la canzone Gloria. Scopriamo che Gloria era una cugina di Van, parecchio più grande di lui, con la quale fin da bambino aveva un rapporto un po’ speciale, forse la vedeva come la sua ragazza ideale, o qualcosa del genere.

È interessante anche la storia che c’è dietro Brown Eyed Girl, un altro dei pezzi-mito di Van. In realtà doveva essere Brown Skinned Girl, il che cambierebbe completamente il senso: non ragazza dagli occhi scuri, ma dalla pelle scura. Ma pare che, per un errore di battitura del producer americano (forse un errore voluto, ci viene da pensare, chissà), divenne Brown Eyed Girl. Il nuovo titolo “sbagliato” piacque a Van, che abbandonò quello originale. Se volete ascoltare il pezzo, cliccate qui sotto.

Brown Eyed Girl

Bright Side of the Road, che farebbe pensare a chissà quale significato, in realtà si riferisce ad una panetteria, dove Van ha lavorato da giovane, che aveva un lato più buio e un lato illuminato dal sole.

Durante il trail possiamo vedere il parchetto dove Van giocava da bambino, la sua scuola, la chiesa dove si sono sposati i suoi genitori e infiniti altri luoghi che lo hanno influenzato, che sono finiti nelle sue canzoni e da lì nell’immaginario di tanti, soprattutto del nostro Al che veramente rasenta l’ossessione. Il suo più grande rammarico è non avere una foto con Van, perché pare che lui ami farsi fotografare solo con le donne.

Facciamo una piccola pausa nel parco di Orangefield, durante la quale ci offre dei dolcetti ripieni di marmellata e ricoperti di cocco che si chiamano snowballs e che, manco a dirlo, erano tra i preferiti del Van bambino. Ci racconta anche dei funerali della madre di Van, dove Van ha cantato, e di tanti altri eventi che per lui sembrano epocali ma che, per la maggior parte di noi, non sono poi così degni di attenzione. Ogni tanto, infatti, ci guardiamo smarriti. In realtà, nessuno di noi è un grande fan di Van, e temiamo che Al l’abbia capito. Del resto, siamo il suo primo gruppo italiano. Non gli diamo grandi soddisfazioni neanche quando tenta di farci cantare e/o ballare sulle note del suo mito. All’inizio del tour, aveva annunciato con piglio piuttosto solenne che aveva con sé “la musica di Van”, indicando il grosso zaino che portava sulle spalle. Al che, tutti ci eravamo immaginati una mega sound-machine portatile con la quale avrebbe fatto tremare i vetri delle finestre. In realtà, quando arriva il momento, estrae da quello zaino un minuscolo i-pod, che si sente anche male. Lui si giustifica dicendo che è colpa di un gruppo di australiani che ha voluto a tutti i costi fare il tour sotto la pioggia, così l’aggeggio si è bagnato e… comunque sia, il momento ha veramente del surreale, anche perché noi, che chiaramente non sappiamo le parole di Brown Eyed Girl, non sentendo bene non riusciamo neanche ad andare a tempo, pur leggendo il testo da un cellulare, e l’esecuzione risulta obiettivamente penosa. Tant’è vero che il povero Al, che probabilmente aveva in programma altri tentativi in altri luoghi, non ci riprova più.

Per riparare, cerchiamo di essere “nella parte” almeno quando Al ci chiede di inscenare il furto della targa di Cyprus Avenue, la strada che dà il titolo a un altro dei classici di Van. Anche qui c’è una storia curiosa, nel senso che il nome vero di questa strada doveva essere “Cypress Avenue”, Viale dei Cipressi, anche se cipressi non ce ne sono. Ma un impiegato trascrisse male, dato che “Cyprus” e “Cypress” hanno più o meno lo stesso suono, e così divenne Viale Cipro. Bè, fatto sta che pare che la targa della strada sia spesso oggetto di furti o tentati furti da parte di fanatici di Van, e così anche noi, grazie alla riproduzione che Al si porta nello zaino, possiamo fare la foto mentre tentiamo di trafugare la targa. Devo dire che Franca, con gli occhiali scuri e il cappuccio della felpa alzato, era perfetta nella parte.

Veniamo a sapere anche di un periodo travagliato nella vita di Van. Nel 2009, a 64 anni, ha avuto un figlio dalla sua tour manager, ma il bambino è morto di diabete infantile all’età di un anno, e dopo pochi mesi anche lei è morta per un tumore alla gola.

Con questa nota triste salutiamo Al, che nonostante tutto mi ha colpito per l’enorme passione con cui fa questo lavoro, anche se per una parte del gruppo il tour è forse risultato un po’ lungo. Io, personalmente, lo consiglio comunque. Per chi volesse prenotare un tour con Al, cercate “Irish Heartbeat Tours” su facebook.

Ci concediamo un veloce pranzetto e poi ripartiamo, in taxi, verso il Belfast Castle, che si trova su una collina a nord del centro cittadino. Ovviamente, dobbiamo dividerci tra tre taxi. Il tassista che capita al mio gruppetto non è particolarmente loquace, un altro invece racconta alcune cose interessanti. Ad esempio che qui non si può essere atei e basta; si può essere atei cattolici o atei protestanti. Ecco, se io vivessi qui sicuramente sarei un ateo cattolico.

Il castello richiama in maniera evidente lo stile dei castelli scozzesi, anche se con alcune incongruenze (ad esempio le finestre troppo grandi), che fanno capire che in realtà è stato costruito alla fine del 1800. Un precedente castello, del 1600, fu distrutto da un incendio.

È piacevole passeggiare nei giardini, e cercare di individuare i 9 gatti che sono stati disseminati qua e là, in varie forme. Ira ci racconta della sua gatta Pashtun, che è convinta di essere la proprietaria di casa e che, con magnanimità, consente anche a lei di starci, ma non sempre ammette l’ingresso di visitatori. Se il nome della gatta vi sembra insolito, sappiate che ha anche un pesce di nome Sushi…

Prima di cena, l’idea sarebbe di curiosare un po’ tra i vari eventi della Belfast Culture Night, che in realtà è iniziata già dal primo pomeriggio. Il programma sembra ricco e vario, con un sacco di proposte che includono musica di vari generi, teatro, letteratura, arte, eventi dedicati ai bambini e altro ancora. Il tempo che resta però non è molto, e così riesco solo ad avere un assaggio dell’atmosfera e ad assistere allo spettacolo di un gruppo che fa musica tradizionale, con il pubblico che improvvisa danze irlandesi. È bello comunque vedere un clima di festa, tanta gente nelle strade, trampolieri che distribuiscono palloncini bianchi ai bambini… qui siamo in centro, è vero, ma è sempre Belfast.

Al rientro in albergo, scopriamo che una nostra compagna di viaggio, Patrizia, ha avuto purtroppo un piccolo incidente, una caduta che le ha lasciato qualche segno ma che speriamo non la limiti troppo nel godersi il resto del viaggio. Paola, che è un medico, tra l’altro proprio del Pronto Soccorso (lavora al Fatebenefratelli), l’ha già assistita egregiamente. Ci auguriamo tutti che non serva, ma con Ira decidiamo che se domani mattina sarà necessario portarla all’ospedale Ira andrà con lei e io, per quanto posso, farò da traduttore per il gruppo durante il tour guidato dei murales di West Belfast.

Per la cena ci siamo organizzati in un altro ristorante molto vicino al nostro albergo, dove mi gusto un buon agnello con salsa di peperoni.

Dopo di che, con quelli del gruppo che ne hanno voglia, ci dirigiamo verso il quartiere della Cattedrale, dove si concentravano la maggior parte degli eventi della Culture Night, per vedere se c’è ancora qualcosa. Purtroppo, nonostante siano da poco passate le 22.30, stanno già sbaraccando e non c’è quasi più nessuno in giro, se non qualche gruppetto di ragazzi ubriachi. L’unica “proposta” nella quale ci imbattiamo è una specie di concerto abbastanza improvvisato di un gruppetto che suona qualcosa tipo revival punk o post punk. Ci fermiamo giusto un paio di minuti per pura curiosità, ma non vale proprio la pena.

Diciamo che forse non è proprio una notte bianca  come la intendiamo noi: finisce tutto un po’ presto. Ma per questa città, dove per tanti anni la sera era meglio non mettere neanche il naso fuori di casa, è già molto.

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(continua…)