Parte II

17/9/2016 – Giorno 3: Nel quale guardiamo la storia di questo paese dipinta sui muri, attraversiamo i cancelli che dividono i due cuori della povera, tormentata Belfast, viaggiamo virtualmente sul Titanic e prima ancora lo costruiamo.  

Per stamattina abbiamo un tour dei murales organizzato, con un pullmino che ci viene a prendere alle 8.30.

Per fortuna Patrizia ha passato una notte tranquilla e sta bene, compatibilmente con l’esperienza non certo simpatica che ha vissuto. Non c’è bisogno di portarla al Pronto Soccorso e questo si rivela una fortuna anche per me, perché appena facciamo conoscenza con Eddie, la nostra guida a West Belfast, mi rendo subito conto che il suo accento è davvero poco potabile. Per fortuna c’è anche Ira e non devo tradurre io, perché proprio non ce la farei. Capisco a grandi linee il senso del discorso (e non sempre), ma non riuscirei mai a tradurre parola per parola come fa lei. Al, in confronto, era una passeggiata di salute e mi aveva un po’ illuso. Avrei bisogno di vivere dei mesi qui per far davvero l’orecchio a una parlata così.

Il tour inizia dalla parte cattolica, che si snoda intorno a Falls Road, con una serie di murales che commemorano gli eventi che portarono all’indipendenza irlandese nel 1921. La scintilla che, cinque anni prima, diede inizio a tutto fu la cosiddetta Rivolta di Pasqua (Easter Rising) del 1916, di cui quest’anno ricorre il centenario. La Rivolta di Pasqua iniziò il 24 aprile 1916, il lunedì dopo Pasqua, mentre in Europa infuriava la Prima Guerra Mondiale, e fu soffocata nel sangue dagli inglesi nel giro di una settimana. I principali esponenti degli insorti furono tutti giustiziati; si salvò solo Eamon De Valera, la cui condanna a morte venne commutata in ergastolo grazie alla sua cittadinanza americana e che poi ebbe un ruolo centrale anche nell’indipendenza. Ma la Rivolta di Pasqua è un evento al quale gli irlandesi, soprattutto nella Repubblica ma anche qui, qui ovviamente solo per la parte cattolica, attribuiscono un’importanza enorme e che celebrano molto di più di quanto non facciano con la data dell’effettivo ottenimento dell’indipendenza. Questo perché rappresenta il momento fondativo della lotta, ma anche il momento più puro. Gli insorti del 1916, nell’immaginario collettivo irlandese, sapevano di avere pochissime possibilità di successo, quasi nessuna, ma si buttarono comunque nell’avventura per puro idealismo e nella speranza che, anche se fossero usciti sconfitti, quello sarebbe stato il seme che avrebbe fatto nascere nel popolo la volontà incrollabile di arrivare alla vittoria finale. Questo è il mito, la storia racconta anche che si aspettavano un intervento tedesco in loro favore, che per una serie di circostanze non arrivò. Nel 1921, invece, si arrivò alla libertà al prezzo di un compromesso, quel Trattato che sancì l’indipendenza, ma anche la perdita delle sei contee dell’Ulster e, peggio ancora, la necessità di un giuramento di fedeltà alla Corona da parte del neonato Parlamento irlandese. Il trattato divise gli irlandesi e scatenò una guerra civile che durò due anni e che fece molte vittime, tra cui lo stesso Michael Collins che aveva firmato quel trattato. È per questo che, ancora oggi, in Irlanda, quasi nessuno ricorda volentieri il 1921 ma tutti ricordano con grande trasporto emotivo il 1916. Ed è sempre per questo che, ovunque in Irlanda, si vedono strade, piazze e monumenti dedicati ai leader del 1916, soprattutto Padraig Pearse e James Connolly, mentre non vedrete mai nulla dedicato a Michael Collins o a De Valera, se non i monumenti delle loro tombe. Tutto questo, secondo me, racconta anche molto dell’anima e della cultura irlandese. Per un irlandese, è sempre degno di rispetto e di ammirazione chi perde ma combattendo fino alla fine, pur sapendo di non avere speranze, e mai chi vince scendendo a compromessi.

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W.B. Yeats, che sosteneva la causa irlandese e conosceva alcuni degli insorti, scrisse sugli eventi del 1916 una famosa poesia intitolata “Easter”, che finisce così. Scusate, la riporto in inglese, ma ho visto la traduzione italiana e proprio non rende.

 

Too long a sacrifice

 Can make a stone of the heart.

 O when may it suffice?

 That is heaven’s part, our part

 To murmur name upon name,

 As a mother names her child

 When sleep at last has come

 On limbs that had run wild.

 What is it but nightfall?

 No, no, not night but death.

 Was it needless death after all?

 For England may keep faith

 For all that is done and said.

 We know their dream; enough

 To know they dreamed and are dead.

 And what if excess of love

 Bewildered them till they died?

 I write it out in a verse

 MacDonagh and MacBride

 And Connolly and Pearse

 Now and in time to be,

 Wherever green is worn,

 Are changed, changed utterly:

 A terrible beauty is born.

 

Le vicende della guerra civile irlandese sono state raccontate anche da Ken Loach nel suo magnifico film “Il vento che accarezza l’erba”, usando in maniera mirabile il classico schema con cui si racconta la Storia con la S maiuscola attraverso una piccola storia di persone comuni.

Il fatto che ci troviamo nella parte cattolica è evidente anche da un particolare: per la prima volta, a Belfast, vediamo indicazioni, targhe e cartelli stradali anche in gaelico. L’uso del gaelico, naturalmente, caratterizza solo la comunità nazionalista repubblicana e negli anni dei troubles è stato profondamente legato alla causa dell’Irlanda unita. I terroristi dell’IRA imprigionati lo studiavano in carcere. Qui nessuno lo parla correntemente e anche nell’Eire, in realtà, le persone che lo parlano come prima lingua sono solo 100.000 circa, su 4,5 milioni di abitanti, concentrate sulla costa ovest. Il tentativo di recuperare l’antica lingua irlandese e di farne una vera lingua nazionale nasce in tempi relativamente recenti, con il rafforzarsi dei movimenti indipendentisti tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, e prende ovviamente sempre più forza con la nascita della Repubblica d’Irlanda. Ma nonostante gli sforzi, l’insegnamento nelle scuole, le radio e le televisioni in gaelico, ha avuto un successo solo relativo. Del resto, è una lingua estremamente difficile.

Addentrandoci nella zona di Falls Road, ci fermiamo prima di tutto davanti al mural forse più iconico di tutta Belfast, quello di Bobby Sands. Bobby Sands è il più famoso dei dieci hungerstrikers, i dieci detenuti che nel 1981 morirono per aver voluto portare lo sciopero della fame fino all’estrema conseguenza del sacrificio della propria vita. Morì a 27 anni, al 66° giorno di uno sciopero della fame iniziato per protestare contro le condizioni di detenzione dei prigionieri accusati di appartenere all’IRA nel carcere di Long Kesh e, in particolare, per rivendicare il proprio diritto allo status di prigionieri politici. Vale la pena di ricordare che Bobby Sands era stato condannato solo per possesso di armi; era stato accusato anche di aver partecipato a un omicidio, ma le accuse non furono mai provate. Diventò famoso come portavoce degli scioperanti, perché era il più “politico” dei dieci, e fu perfino eletto al Parlamento, anche se l’elezione rimase un fatto puramente simbolico. Le richieste che erano alla base dello sciopero erano state sintetizzate in cinque punti:

  1. Il diritto a indossare i propri vestiti e non l’uniforme della prigione. Per questo prima che alcuni di loro iniziassero lo sciopero della fame i detenuti che protestavano erano stati denominati “Blanket men”, perché dato il loro rifiuto dell’uniforme erano costretti a stare nudi, con solo una coperta per coprirsi.
  2. Il diritto a essere esentati dai lavori in carcere, sebbene i prigionieri fossero disposti a svolgere quelli necessari per il funzionamento e la pulizia dei settori della prigione in cui essi si trovavano. Inoltre, nello stabilire la quantità di lavoro da assegnare loro, si sarebbe dovuto tenere in considerazione il tempo necessario per lo studio.
  3. Il diritto di libera associazione con gli altri prigionieri politici durante le ore di svago.
  4. Il diritto a una visita e a una lettera o un pacco alla settimana, che era concesso agli altri detenuti.
  5. Il diritto ai benefici carcerari (riduzioni della pena) previsti per i detenuti comuni.

Non va dimenticato anche che alcuni detenuti erano stati condannati sulla base di confessioni estorte con torture fisiche e psicologiche. Grazie a una legge speciale del 1971, era possibile imprigionare un sospettato senza alcuna accusa specifica fino a 7 giorni: venivano chiamati “internati”. Ed è chiaro che in 7 giorni c’era tutto il tempo per ottenere qualsiasi tipo di confessione. Il caso più celebre, raccontato nel film “Nel nome del padre”, è quello dei quattro di Guildford, che fecero da innocenti 15 anni di carcere.

Può sembrare privo di senso, con gli occhi di oggi, morire per queste richieste ma allora i detenuti erano convinti che il loro gesto avrebbe fomentato gli animi della popolazione al punto da creare le condizioni per una rivolta generalizzata. E comunque il loro sacrificio non fu del tutto inutile se è vero, come molti sostengono e come ci conferma anche Eddie, che i primi colloqui di pace tra le due parti iniziarono, in maniera del tutto clandestina, proprio dopo la morte di Bobby Sands.

Gli elementi simbolici fondamentali del mural, che viene spesso ridipinto per mantenerne sempre i colori vivi, sono due ed entrambi spezzano la catena che circonda il ritratto: in basso l’allodola, che canta solo quando è libera e non quando è in gabbia, in alto la fenice che rinasce dalle proprie ceneri.

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Assistiamo per pochi minuti alla messa nella chiesa dove ancora oggi celebra un sacerdote che fu tra i protagonisti dei colloqui di pace, poi ci spostiamo al Clonard Martyrs Memorial Garden, dove sono ricordati tutti i caduti cattolici, militari e civili, nelle varie fasi della guerra di indipendenza prima e dei “troubles” poi. Nelle vicinanze del giardino c’è Bombay Street, dove nell’agosto del 1969 i paramilitari unionisti bruciarono quasi tutte le case e uccisero un giovane volontario dell’IRA, il 15enne Gerald Mc Auley, in uno degli episodi che diedero inizio alla fase più violenta degli scontri tra lealisti e nazionalisti.

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Da qui ci trasferiamo nella parte protestante attorno a Shankill Road, dove vediamo per primo il grande mural dedicato alla battaglia del Boyne del 1690, nella quale il protestante Guglielmo d’Orange sconfisse il cattolico Giacomo II Stuart, che era in quel momento il legittimo erede al trono d’Inghilterra ma era stato scacciato dal Parlamento inglese e si era rifugiato in Irlanda per mettere insieme un esercito col quale tornare a reclamare il trono. Quindi ci fu uno scontro tra le forze protestanti inglesi, guidate da un olandese, che prevalsero, e i cattolici irlandesi guidati da uno scozzese, James II. Non male, no? È per questo che ogni anno a Belfast si tiene una marcia “orangista”, come rappresentazione dell’orgoglio protestante lealista.

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Ma Eddie, che ormai abbiamo capito da alcune sue frasi essere un cattolico, anche se tenta di non essere troppo plateale nelle sue affermazioni e di mantenere una certa equidistanza, ci mostra un’altra cosa. Stanno lavorando sul mural in memoria di Steve “Top Gun” Mc Keag, un paramilitare unonista dell’UDA/UFF responsabile, da quanto ci dice Eddie, di 17 omicidi, per renderlo meno apertamente elogiativo. Adesso c’è scritto niente meno che “In Proud and Loving Memory”. Speriamo che sia un piccolo segnale di distensione.

È evidente, comunque, che i murales lealisti sono molto più militaristi di quelli cattolici. Sono quasi tutti ritratti di paramilitari, spesso rappresentati armati, con passamontagna e fucili puntati.

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Un simbolo che ritorna frequentemente nei murales unionisti è quello della mano rossa, che fa parte dell’antica bandiera dell’Ulster e nasce da una leggenda della dinastia O’Neill, che un tempo regnava sulla provincia. Secondo la leggenda due gruppi di guerrieri Vichinghi con due navi stavano per raggiungere la terra nordirlandese per fondare una città, ma erano in troppi. A quel punto decisero che il primo uomo che avesse tenuto in mano la terra di quel paese avrebbe avuto il diritto d’insediarvi il proprio gruppo. La prima nave sfidante stava davanti alla seconda e il suo equipaggio pensava di poter vincere la sfida. Ma un guerriero della seconda imbarcazione si tagliò una mano e la gettò sulla terraferma facendola volare sopra l’equipaggio della prima nave. Le dita insanguinate della mano tagliata si chiusero sulla terra. Così il secondo gruppo uscì vittorioso dalla sfida.

Nella stessa zona, per fortuna, ci sono due murales meno truculenti: quello delle donne, che chiedono uguaglianza e di poter far sentire la loro voce, e quello di “Lower Shankill Angels”, una serie televisiva su un gruppo giovanile interreligioso.

Ma la realtà di questa città è ancora difficile. La dimostrazione più concreta sta in quei chilometri di muri ancora in piedi, e nei 50 cancelli che, tuttora, ogni sera alle 21 vengono serrati. Da un recente studio dell’Università dell’Ulster è emerso che solo il 14% della popolazione non li vorrebbe più. Ancora oggi i muri e i cancelli vengono vissuti come una protezione necessaria contro tutto quello che può venire dall’altra parte: raid notturni, lanci di sassi, bottiglie, petardi. Decenni di violenze e 3500 vittime nella lunga storia del conflitto non si cancellano tanto facilmente. Tra le due comunità non c’è ancora un livello di fiducia sufficiente a superare questa situazione. I ragazzi vengono educati in scuole separate, i matrimoni misti sono ancora pochi.

Anche noi attraversiamo a piedi uno di quei cancelli per tornare nella parte cattolica, dove vediamo alcuni dei murales di carattere più internazionale, che riguardano i popoli considerati storicamente fratelli nella lotta, come i palestinesi, i curdi, i neri americani e sudafricani.

Davanti al cancello c’è una croce con una scritta che si riferisce a un versetto del Vangelo di Giovanni, il 3-16, che recita: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”.

C’è anche un mural ambientalista sul tema del cambio climatico, vicino a uno più classico contro l’odiata RUC (Royal Ulster Constabulary), la polizia locale formata prevalentemente da militanti lealisti.

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L’ultima tappa del tour è davanti al vecchio palazzo del Tribunale, ormai in disuso e parzialmente in rovina, che significativamente si trova di fronte alla prigione di Crumlin Road, attualmente visitabile come museo.

Salutato Eddie, la nostra prossima tappa è la Linen Hall Library, la più antica biblioteca di Belfast, fondata nel 1788. Ha una ricchissima collezione di testi sulla storia d’Irlanda e in particolare sulla storia del conflitto, che ovviamente non abbiamo tempo di leggere. Ma possiamo dare un’occhiata alla mostra permanente di manifesti dell’epoca dei troubles, che ci danno anch’essi uno spaccato storico interessante, chiaramente collegato ai murales che abbiamo appena visto. Quello che, personalmente, mi fa più impressione è quello che consiglia di evitare di chiacchierare inutilmente, in tutte le situazioni di socialità: in taxi, al pub, allo stadio… effettivamente, c’è stato un lungo periodo della storia di questo paese nel quale di certi argomenti si poteva parlare solo con persone delle quali ci si fidava completamente, e prestando attenzione a non avere altre orecchie intorno, perché una parola sbagliata alla persona sbagliata poteva costare la vita.

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Per il pranzo andiamo da Grannie Annie, un divertente locale in stile rustico con tavoli ricavati da vecchi bancali, camerieri vestiti anni ’20-‘30 e un’infinità di oggetti d’arte povera, di recupero o memorabilia d’epoca che adornano le pareti o perfino penzolano dal soffitto, sul quale c’è una specie di salotto arredato con sedie, tavolini e TV. L’insieme è veramente molto… creativo. Quale posto migliore per un Fish&Chips, dove tra l’altro la pastella del fish è fatta con la birra?

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Dopo di che, per il pomeriggio ci aspetta il museo del Titanic, aperto solo 5 anni fa nell’ambito del tentativo della città di riguadagnare un certo appeal turistico.

Da lontano, il nuovo edificio si presenta come l’insieme di tre prue di navi… e c’è chi si chiede: E le tre poppe? Avvicinandosi, si capisce che le prue sono quattro, in realtà.

Ma l’elemento “paesaggistico” che più caratterizzava, già ai tempi della costruzione del Titanic, quest’area, è dato dalle due grandi gru che si stagliano all’orizzonte: Sansone e Golia, sono chiamate. O forse Sansone e Dalila, ieri Al ci aveva detto così e non abbiamo ancora capito qual è la versione giusta.

C’è la fondata possibilità che il museo sia solo una pacchianata, ma si rivela invece un museo interattivo molto ricco e ben progettato, che forse meriterebbe anche più tempo di quello che possiamo dedicargli. Il percorso prevede diverse esperienze virtuali, con le quali possiamo essere trasportati, in maniera molto realistica, in tutti gli ambienti della nave e anche trovarci all’interno del cantiere mentre fervono i lavori per la costruzione del grande transatlantico che proprio qui prese forma grazie al lavoro di migliaia di operai. La costruzione durò 26 mesi e, durante i lavori del cantiere, morirono 8 operai, un numero tutto sommato piccolo considerando l’epoca e le condizioni di lavoro. Vennero usati, per costruire il Titanic, più di tre milioni di rivetti.

Si può “vedere” il varo, avere un’idea dei differenti tipi di cabine, dalla prima alla terza classe, ascoltare alcune storie dell’equipaggio e dei passeggeri e in qualche modo vivere con loro i drammatici momenti del naufragio, dopo lo scontro con un iceberg al largo di Terranova alle 23.40 del 14 aprile 1912. C’è il violino di Wallace Hartley, uno dei musicisti che continuarono a suonare anche mentre la nave stava affondando, una delle immagini più potenti che penso tutti associno immediatamente al Titanic.

E poi si può leggere quello che scrissero i giornali dell’epoca dopo la tragedia, con quelle che furono le conclusioni dell’inchiesta; pare che, ufficialmente, si possa dire che, considerate le condizioni del tempo e del mare, il Titanic andava troppo veloce. E leggere varie informazioni sui passeggeri e sul loro destino. La cosa che mi viene più immediato cercare è, sapendo che non c’erano scialuppe per tutti, quanti passeggeri si salvarono in rapporto alla classe in cui viaggiavano e quindi, in definitiva, alla loro classe sociale. Di quelli che viaggiavano in prima classe, sopravvissero il 62%. Di quelli che viaggiavano in terza, solo il 25%. Nel naufragio, complessivamente, persero la vita 1518 persone su 2223, compresi i 900 uomini dell’equipaggio.

Come non cadere anche nella tentazione di farci un “selfie” di gruppo sul ponte del Titanic?

Per finire, si può salire a bordo del Nomadic, il battello che venne usato per portare i passeggeri a bordo del Titanic dal porto di Cherbourg, che era troppo piccolo per far entrare i transatlantici. All’epoca, non dimentichiamolo, il Titanic era il più grande oggetto semovente costruito dall’uomo. Era lungo 269 metri e largo 28, con una stazza di 46.328 tonnellate. A bordo del Nomadic ci sono anche dei bei costumi d’epoca, con cui ci divertiamo a farci delle foto. Le signore, soprattutto, stanno benissimo con quei fantastici cappelli…

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Mentre ci incamminiamo sulla via del ritorno, mi rendo conto che questa zona della città, che ora si chiama Titanic Quarter, è molto cambiata, con il museo, che dovrebbe rilanciare la città come il Guggenheim ha rilanciato Bilbao, con il nuovo waterfront e con tutti gli altri edifici che sono stati costruiti. Tutta la zona centrale è molto cambiata. Ma se si va a West Belfast, lì non è cambiato niente, è identica a come me la ricordavo. È come se la città stesse andando a due velocità diverse: proiettata verso il futuro qui, con i piedi ben ancorati nel passato, e incapace di immaginare una vita senza quei muri rassicuranti, a West Belfast.

Mi sembra che anche la vecchia torre dell’orologio dell’Albert Memorial, che da sempre pende, adesso penda ora di qua, ora di là, tra queste due anime contrastanti.

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Forse tutto resta così complicato anche perché ora i protestanti hanno paura. Paura che i cattolici non siano più una minoranza, ma possano diventare maggioranza. Nei numeri, il rapporto tra le due comunità è cambiato, nel corso degli anni. I cattolici fanno più figli, si sa. È una cosa che gli unionisti, e gli inglesi, hanno sempre “rimproverato” agli irlandesi. Ai “Paddies”, come li chiamano loro (Paddy, diminutivo di Padraig-Patrick, è ovviamente uno dei nomi più diffusi in Irlanda). I Paddies che sono superstiziosi, emotivi, testardi, rissosi, chiacchieroni, cacciaballe, inaffidabili, chiassosi, pensano solo a cantare. E fanno un sacco di figli. Questo concentrato di stereotipi, almeno per l’ultima parte, ha un fondo di verità. E ora, a complicare le cose, ci si mette anche la Brexit. Nell’Ulster al referendum aveva vinto il Remain, con una maggioranza abbastanza netta. Il portavoce dello Sinn Fein, il partito che era il braccio politico dell’IRA, ha già chiesto un nuovo referendum, stavolta per la riunificazione dell’Irlanda. E se si facesse, gli unionisti non sono più sicuri di vincere. Di sicuro non si farà a breve, anche perché sarebbe difficile garantire che tutto si possa svolgere pacificamente. Nessuno sa quante armi ci siano ancora nelle cantine.

Per la cena decidiamo, dopo qualche discussione, di tornare da Acton & Sons, per andare sul sicuro. È sabato sera, il locale è pieno. Soprattutto si fa notare un gruppo di donne chiassose, che festeggiano un compleanno. C’è un solo uomo tra loro, non si capisce bene quale sia il suo ruolo. Ma quello che è certo è che fanno un gran casino.

Dopo cena, mi propongo per guidare un gruppo un po’ ridotto verso un’ultima razione di murales, ma decisamente diversi. Non lontano dalla cattedrale, c’è Commercial Court, un vicolo pedonale lastricato di ciottoli che è un po’ l’epicentro della movida di Belfast. Qui, sotto una grande volta che porta in un cortile, un enorme murale dipinto da Danny Devenney e Marty Lyons nel 2010 è diventato una sorta di Cappellla Sistina del pop (copyright di Claudio Agostoni). Sono rappresentati una cinquantina di artisti, non tutti irlandesi. John Lennon, Bob Dylan, Bono e The Edge degli U2, Rory Gallagher, Enya, Sinéad O’Connor. Ma anche l’attore e regista nordirlandese Kenneth Branagh, e i due più celebri calciatori nordirlandesi: George Best, il quinto Beatle, e il mitico portiere Pat Jennings, che giocò, mettendolo in difficoltà, contro il Brasile di Zico, Socrates e Falcao ai mondiali del 1982. A proposito di George Best, c’era la possibilità di fare anche un tour a lui dedicato, ma purtroppo non c’era il tempo per fare tutto… la prossina volta.

Per adesso, ci facciamo un giro al pub.

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18/9/2016 – Giorno 4: Nel quale, prima di prendere la via del ritorno, sfioriamo brevemente la sporca, vecchia Dublino imbandierata a festa.

Ci alziamo presto per prendere il pullman del ritorno a Dublino, dove dobbiamo prendere il nostro volo di rientro nel tardo pomeriggio. Ma, partendo alle 8.30, avremo la possibilità di goderci almeno una mezza giornata nella capitale d’Irlanda. Che è pochissimo, purtroppo, per una città che ha tanto da offrire, dove ogni pietra racconta una storia. Io ci passai una settimana, 16 anni fa. Ma un assaggio è meglio che niente, a chi non la conosce forse farà venire voglia di tornarci.

Ed eccola, Dublino. Dirty Old Town, diceva una vecchia canzone, che in realtà non si riferiva a Dublino ma a Salford, una città industriale inglese nei dintorni di Manchester. Ma che, nell’immaginario collettivo, è diventata una canzone irlandese, essendo stata portata al successo dai Dubliners. E quindi, ormai, tutti la associano a Dublino.

Noi ci arriviamo da nord, dal sobborgo di Drumcondra, e percorriamo O’Connell Street fino a raggiungere la fermata del bus, che è a due passi dal GPO, quel General Post Office che fu il quartier generale degli insorti durante la Rivolta di Pasqua. Ci fermiamo a depositare i bagagli in una sala Slot e videopoker che offre anche questo servizio (il posto è un po’ squallido ma è il più vicino alla fermata del bus, dove dovremo anche riprenderlo per andare all’aeroporto). Dopo di che, siamo pronti per questa breve toccata e fuga. Dublino ci accoglie sotto una lieve pioggerella, ma in fondo non ci possiamo lamentare. È la prima volta che piove, e stiamo per andare via. Per essere a metà settembre in Irlanda, non è male.

Ma ci accorgiamo subito che Dublino ci accoglie anche tutta vestita a festa, piena di bandiere e bandierine blucelesti e rossoverdi. All’inizio non capisco, poi vedo un manifesto gigante che annuncia “All Ireland Final” con due giocatori, spalla a spalla, vestiti con quegli stessi colori, e ho l’illuminazione: la finale del campionato di football gaelico! Sì, certo, è proprio questo il periodo. Qualcuno mi chiede: “Ma sei sicuro che non sia calcio? Mi hanno detto che è calcio…” e io: “No, ti hanno detto che è football, ma football gaelico. Ragazzi, fidatevi, una roba così qui non succede per il calcio, succede solo per il football gaelico”.

Il football gaelico, come definirlo? Spesso si dice che è una via di mezzo tra il calcio e il rugby, farebbe inorridire i puristi ma rende abbastanza l’idea. La palla è rotonda, come nel calcio, ma si gioca in 15 e si può giocare anche con le mani, come nel rugby. Si può portare la palla, ma solo per quattro passi, poi bisogna palleggiare, a terra o sul piede. Si può passare di piede o col pugno, ma quando il pallone è a terra può essere tirato su solo col piede. Il tackle è più duro che nel calcio, ma meno che nel rugby. Si segna in una porta da calcio, ma con i due pali più lunghi, come nelle porte fatte ad H del rugby. Il goal nella rete vale 3 punti (e si può realizzare solo calciando), metterla sopra la traversa vale un punto e si può fare anche con il pugno. Semplice, no?

Si vuole che il football gaelico, insieme con l’hurling, altro sport gaelico, sia l’evoluzione di antichi giochi celtici. Tutto fa parte del grande tentativo, iniziato con i primi fermenti indipendentisti, di recuperare il più possibile del patrimonio culturale, vero o presunto, degli antichi abitanti dell’Irlanda, per creare un’identità irlandese solida, completamente autonoma e distinta da quella anglosassone.

Il casino (che comunque c’è sempre, il giorno della finale) oggi è ancora di più, perché in finale c’è la squadra di Dublino, che è quella con i colori azzurro e blu. I rossoverdi sono della contea di Mayo, nordovest dell’Irlanda. E li vediamo, i tifosi di entrambe le squadre, con la maglia d’ordinanza e/o avvolti nel loro bandierone, che passeggiano e colorano la città in attesa dell’ora di andare allo stadio.

Stadio che è il leggendario Croke Park, famoso anche per essere stato teatro, durante la Guerra d’Indipendenza, della prima “Bloody Sunday” della storia irlandese, 50 anni prima di quella di Derry del 1972. Il 21 novembre 1920 la polizia ausiliaria del Regno Unito entrò sul terreno di gioco durante la partita di football gaelico Dublino-Tipperary e iniziò a sparare indiscriminatamente sulla folla, uccidendo 12 spettatori ed il giocatore Michael Hogan. L’azione violenta era stata condotta come rappresaglia per l’omicidio di una decina di ufficiali di polizia della cosiddetta Cairo Gang, avvenuto per mano della banda di Michael Collins il giorno prima.

Dopo una breve sosta in una cioccolateria, passiamo rapidamente davanti al GPO. Scopro, con una certa sorpresa iniziale, che ora qui (dal 2003, ho saputo poi) c’è un enorme spillone, un obelisco d’acciaio alto 120 m chiamato “The Spire”, la guglia. In effetti, avevo letto qualcosa da qualche parte. Il posto è quello dove c’era la colonna di Nelson, che poi fecero saltare con una bomba nel 1966 per festeggiare, manco a dirlo… i 50 anni della Rivolta di Pasqua. Il sito rimase vuoto per un po’ di anni, poi ci misero una statua di donna sdraiata in una fontana, che era poi il monumento ad Anna Livia, la personificazione del fiume Liffey. Che però, per lo spirito popolare dublinese, era diventata “The Floozy in the Jacuzzi”, la puttana nella Jacuzzi. E che è quello che io ricordavo di aver visto qui nel 2000. Ma, anche qui, la città è cambiata.

Già dal primo giorno di viaggio Ira mi sta chiamando, più o meno indifferentemente, Piero o Mario, e mi ha spiegato anche perché. C’è un suo caro amico che si chiama Piero, e Mario di secondo nome. I suoi genitori erano incerti sul nome, così glieli hanno dati tutti e due. Ma lui, per rispettare in pieno la volontà dei suoi, ha deciso di farsi chiamare, da tutti quelli che lo conoscono, Piero e Mario a giorni alterni, Piero nei giorni pari e Mario nei dispari, o viceversa. E quindi lei è abituata a considerare i due nomi sostanzialmente equivalenti. È un po’ folle ma mi piace, come spiegazione, che sia vera o no. Ma adesso, mentre lei spiega la storia del GPO e del Nelson’s Pillar, facendo dire qualcosa anche a me, mi accorgo che sono diventato anche Carlo! C’è chi dice che già da ieri ero anche Carlo, ma io non me ne ero reso conto. Diventa più complicato, perché Carlo è uno dei nostri compagni di viaggio, ma so già che ora che la cosa è stata… ufficializzata per tutto il giorno avrò tre nomi, e forse anche dopo.

Un’altra motivazione per cui vogliamo già bene a Ira sono le sue reiterate offerte di Toblerone, con le quali ha cercato di sostenerci nei piccoli momenti di sconforto di questi giorni e che, ne sono certo, resteranno un tormentone per un po’.

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Attraversiamo l’O’Connell Bridge per dirigerci verso il Trinity College, che sarà la meta principale di questa nostra breve incursione dublinese.

Qui, in questa università fondata da Elisabetta I nel 1592, hanno studiato, tra gli altri, Oscar Wilde e Samuel Beckett. Per secoli il Trinity è stato il centro della dominazione britannica dal punto di vista culturale. Fino al 1970 i cattolici non hanno potuto metterci piede, prima per la segregazione imposta dai britannici e poi per il divieto della stessa Chiesa Cattolica irlandese.

La sua maggiore gloria, e quello che lo rende così interessante anche per noi, è la Old Library, l’antica biblioteca che custodisce, come suo tesoro più prezioso, il Book of Kells. Il Libro di Kells è un manoscritto miniato che risale all’incirca all’800 d.C., giunto qui appunto dal monastero di Kells, contea di Meath, nel 1654. È da attribuire, presumibilmente, ai monaci della remota isola di Iona, al largo della costa ovest delle Highlands scozzesi. Contiene i quattro vangeli, e una infinita serie di illustrazioni superbamente decorate e con innumerevoli significati simbolici che lo rendono veramente unico. Come ricordavo, già poterlo vedere, anche se solo per pochi minuti, è una forte emozione. Ma fonte di altrettanta suggestione, se non di più, è la biblioteca nel suo insieme, alla quale la Rowling si è ispirata per la biblioteca di Harry Potter. La “Long Room” contiene 200.000 dei più antichi e preziosi volumi, insieme ai busti di tanti illustri scrittori e pensatori. Per il Library Act del 1801, nonostante l’indipendenza irlandese poi sopraggiunta, questa biblioteca è ancora una delle quattro che hanno diritto a ricevere una copia di ogni libro pubblicato nel Regno Unito. Naturalmente, non si trovano tutti qui, ma in varie sedi staccate fuori Dublino.

Nella Long Room si trova anche quella che è chiamata l’arpa di Brian Borù, l’eroe che sconfisse i danesi nella battaglia di Clontarf del 1014. In realtà, però, l’arpa è successiva e risale “solo” al 1400.

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Tutto molto bello, ma purtroppo si sta facendo tardi. Abbiamo tempo solo per un pranzetto veloce alla Food Hall di Marks & Spencer in Grafton Street, la via pedonale più trafficata di Dublino. Oggi non c’è tantissima gente, però, perché molti si stanno già portando nella zona dello stadio.

Dopo pranzo, suggerisco di tornare verso Halfpenny Bridge, e poi verso O’Connell Street, facendo una breve deviazione musical-popolare. Sì, perché ho letto che a breve distanza da qui, in Suffolk Street, è stata ricollocata un paio d’anni fa la statua di Molly Malone che prima era in Grafton Street e ne era forse il landmark più famoso.

Molly è un’icona cittadina, la protagonista della più nota canzone popolare dublinese, una sorta di inno non ufficiale della città. Non è realmente esistita, almeno non con quel nome, ma sicuramente ce ne sono state tante come lei, che ogni giorno andavano col loro carretto a vendere cozze e vongole al mercato del pesce. L’epoca è il 1700, e la canzone narra di lei che fa innamorare lui, ma poi improvvisamente muore di una febbre misteriosa, come avveniva a quell’epoca. Eccola nella versione classica dei Dubliners:

 The Dubliners – Molly Malone

Anche se la canzone esplicitamente non lo dice, nella tradizione popolare è sempre stata una che la mattina vendeva frutti di mare e la sera faceva la prostituta, come del resto fanno pensare i suoi abiti discinti. Tant’è vero che la statua è soprannominata “The Tart with the Cart”, la puttana col carretto. E si dice che porti fortuna toccarle il décolleté, che infatti è di un colore nettamente più chiaro, segno di usura.

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Poi ci sarebbe da raccontare una corsa in taxi verso l’aeroporto, perché col traffico caotico di questa giornata particolare anche gli autobus vanno un po’ a rilento.

Ma mi sembra bello chiudere così, con Molly Malone, che in fondo è una perfetta rappresentazione dell’Irlanda, perché la sua storia è una storia d’amore e di tragedia, e lei è insieme santa e puttana, pura e corrotta.

Yeats ha detto che essere irlandesi significa avere un perenne senso della tragedia, che ti sostiene nei temporanei periodi di gioia. Ecco, vorrei che, soprattutto per Belfast che ne ha ancora bisogno, il futuro fosse diverso, fosse più gioia e meno tragedia, visto che per quello ha già dato. Senza però, per questo, essere meno irlandese.

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Grazie a ViaggieMiraggi, in particolare a Elisa, che per l’ultima volta ha organizzato un nostro viaggio e ora si dedicherà a tempo pieno all’antropologia, anche se, come dire, anche noi eravamo un bel caso di studio. In bocca al lupo per tutto.

E grazie a Radio Popolare, soprattutto a Ira, che ha reso davvero speciale questo viaggio, insieme a tutte e tutti quelli che hanno partecipato.

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