Si può fare un reportage a fumetti? Sì, si può fare.
È quello che ha fatto, e che fa, l’americano di origine maltese Joe Sacco. “Palestina”, una delle sue opere più note, è un lucidissimo reportage a fumetti. Senza dimenticare che lo ha fatto anche il nostro Zerocalcare con Kobane Calling, che avevo proposto proprio qui un paio d’anni fa.
Joe Sacco ci ha messo qualche anno, dal 1991 al 1994, per mettere definitivamente su carta la sua personale visione, ma meglio sarebbe dire esperienza, di Palestina.
“Volevo verificare di persona le condizioni di vita dei palestinesi sotto l’occupazione israeliana. Anche se a Madrid era stato avviato il processo di pace… la possibilità di un trattato di pace accettabile tra palestinesi e israeliani sembrava remota”.
Sacco se ne va dunque a Gerusalemme Est, e da lì in Cisgiordania e nella striscia di Gaza. In solitaria. Lasciandosi letteralmente portare da quella preziosissima cosa che è il caso e da una forte disponibilità ad ascoltare, guardare, entrare in relazione. Da casa sembra essersi portato solo domande: domande vere, di quelle che vanno in cerca di una vera risposta, cioè di tante e contraddittorie e provvisorie risposte che poi uno deve aggiustarsi da sé fino a trovarci un senso; non domande finte, che in realtà sono giudizi già belli e pronti, che chiedono solo conferma e spesso neanche quella, perché non ne hanno bisogno.
Atterrare in Palestina venendo dall’America a stelle e strisce non è mica roba da ridere: uno si ritrova tra i piedi un mucchio di buoni sentimenti, parecchi sensi di colpa, una miscellanea di sentiti dire, luoghi comuni, cliché tardo-orientalisti e quel vago impulso alla fuga che è di chi, refrattario ai valori e alle ragioni dell’Impero, dall’Impero pur sempre proviene e con esso inevitabilmente rischia di essere identificato.
Un “excursus storico”, una cartina e uno sguardo. Questo è l’inizio.
La sua storia di Palestina Sacco dice di averla costruita intervistando tutti quelli che incontrava, facendosi raccontare non solo la loro storia, ma anche le tante storie che ognuno aveva a sua volta sentito raccontare da familiari, amici, conoscenti; e poi i sogni, i desideri, le paure, le fantasie, le piccole miserie, insomma la materia concreta della vita. La posizione dell’autore è però molto più di quella di un bravo intervistatore: il suo segreto consiste, probabilmente, nella capacità di diventare parte della scena al punto di far dimenticare la propria presenza.
Eppure in molte delle sue tavole Sacco include anche sé stesso, spesso per fare da detonatore a una conversazione o a una confidenza, altre volte per costruire un vero e proprio sottotesto, che è quello del diario personale, della riflessione sul “che cosa ci faccio qui“.
La sua forza è forse soprattutto questo: non ha paura di raccontarsi quando ha dei dubbi, quando è stanco, quando non ne può più di essere costantemente “assediato”, quando si chiede se quello che sta facendo ha un senso, se i palestinesi stessi sono sinceri nel rapporto con lui o non lo “sfruttano”, invece; nel disperato intento di dare visibilità alla loro storia, al loro grido di dolore, o per vendere i propri racconti dell’orrore per pochi soldi che aiutano a comprare medicine o latte in polvere.
E sono queste le pagine davvero irresistibili, perché mettono a tema – alla faccia di ogni correttezza politico-ideologica – la surreale doppia estraneità del pur motivato straniero in terra di Palestina: le sue caratteristiche somatiche, il suo abbigliamento, i suoi occhialini da intellettuale occidentale, l’inglese americano che parla, la sua macchina fotografica, lo inchiodano a una vistosa alterità. Scambiato spesso per quello che non è (israeliano, semplice turista), e come tale trattato, Sacco approfitta di questo per dire a sua volta quelle verità che spesso chi arriva in un luogo spinto dalla passione politica non ha più il coraggio di nominare o, forse, di vedere. Ma, con questo, non viene meno la sua empatia o la sua adesione alla causa palestinese. È quello palestinese, in fin dei conti, il punto di vista che vuole mostrare.
La penna di Sacco non disegna né scrive sotto ricatto politico, morale o affettivo. Ed è questo suo essere così sincera e così sinceramente fuori linea, così poco ansiosa di “servire” una qualche causa, a renderla credibile. E meritevole di essere letta.
Soprattutto ora, in vista del nostro prossimo viaggio in Palestina, dal 17 al 25 ottobre con Radio Popolare, ViaggieMiraggi e l’ONG Vento di Terra. E prossimamente, per chi vorrà, su queste pagine.
Perciò vi propongo un paio di piccoli assaggi. Qui si racconta come nacque la prima intifada, quella delle pietre, nel 1987.

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E qui, in un capitolo intitolato “Pressioni moderate”, si descrive una tipica storia di detenzione ingiustificata e tortura.

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Per chi volesse, il libro si trova nell’edizione Oscar Mondadori.