Capitolo 2: Shiraz e Persepoli

Quant’è bella Shiraz, al mondo non ha pari!

Preservala, mio Dio, da tutte le sciagure!

Scorra, scorra per sempre questo ruscello nostro,

che fa, con le sue acque, senza fine la vita.

Fra i sereni abitati e le liete radure

uno zefiro fresco che dell’ambra ha il profumo.

Vieni a Shiraz, tra la sua gente cerca,

così perfetta, grazie celestiali.

(Hafez. Divan, 274)

Venerdì 6 aprile 2018

Colazione presto e veloce questa mattina, dobbiamo prendere il volo per Shiraz alle 9.30.

Attraversiamo Teheran che si è appena svegliata verso l’aeroporto di Mehrabad, quello dei voli interni. Lungo il percorso, abbiamo l’opportunità di fermarci un minuto a scattare qualche foto alla Torre Azadì, la Torre della Libertà, uno dei monumenti simbolo della capitale. Questa imponente costruzione in marmo bianco è stata edificata nel 1971 su progetto di un architetto appartenente alla minoranza religiosa bahai, Hossein Amanat. Amanat fu poi condannato all’esilio dopo la rivoluzione perché negli anni ’70 i bahai erano troppo vicini allo Shah e perché l’Islam non ammette altri profeti dopo Maometto, quindi la religione dei bahai è considerata eresia. La torre oggi è un centro culturale. Alì la smitizza un po’ raccontandoci che, per la sua forma a Y rovesciata, è stata paragonata alle gambe di Farah Diba, l’ultima moglie dello Shah, che erano, sembra, un po’ storte.

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La compagnia è ancora la Mahan Air, la stessa del volo da Milano. Si parte alle 9.30 in perfetto orario, ma dopo pochi minuti cominciamo a sentire rumori sinistri e un po’ inquietanti. Soprattutto, un fischio continuo e decisamente più forte di quello che siamo abituati a sentire nelle fasi di decollo. Io sono seduto vicino a Marco e a Daria, che ho appena scoperto essere… la seconda moglie di Marco! Sentivo tra loro una confidenza che mi pareva eccessiva per essere due persone che si conoscono da due giorni; ho già detto che i gruppi dei viaggi della radio sono speciali per il senso di comunità che si crea fin da subito, ma così era troppo anche tenendo conto di questo… ora mi torna tutto un po’ di più. Effettivamente sono amici da ben prima di questo viaggio, al punto che lei, in circostanze che non mi sono state del tutto chiarite ma che non intendo indagare, è stata nominata seconda moglie. Be’, Daria, che è seduta tra me, che ho il posto finestrino, e Marco, che ha il corridoio, è fin da subito molto infastidita da questo suono. Io cerco di minimizzare, per tranquillizzare lei e me stesso. È vero che non è proprio una roba normale, ma siamo su un volo interno, l’aereo non è nuovissimo… dopo una ventina di minuti dal decollo, però, scopriamo che aveva ragione lei: non era per niente normale. C’è una grande virata, di cui lì per lì non capiamo la motivazione, e si torna indietro. In realtà c’è stato l’annuncio, anche in inglese, ma eravamo distratti per colpa mia (o forse merito mio, a conti fatti è stato forse meglio così), che stavo raccontando a Daria del mio blog. Ce ne rendiamo conto quando ci abbassiamo per l’atterraggio decisamente troppo presto e su una città così grande che non può essere che Teheran. Ora è chiaro a tutti, c’è un problema.
La mente va a quando, scoperto che c’era in programma un volo interno e ricordando che un paio di mesi fa proprio un volo interno di una compagnia iraniana è caduto, ero andato a verificare di che compagnia si trattava. Non era la Mahan, il che al momento mi era sembrata una buona notizia ma ora, se si ragiona sulla statistica, forse non lo è più. Per fortuna c’è Franca, che ci informa che ha fatto una specie di rito sciamanico con il quale si è messa in contatto con il suo spirito guida, il quale l’ha rassicurata: non è giunto il suo momento. “Ragazzi, è tutto a posto” – afferma sicura – “Finché siete con me non avete nulla da temere”. Noi abbiamo, lo giuro, il massimo rispetto possibile per il suo spirito guida, ma il gretto razionalista che è in me si rifiuta di prenderla come una certezza assoluta… fatto sta che, ormai lo avete capito perché se no non stareste leggendo questo diario, o avreste bisogno di un medium per farlo, l’atterraggio va a buon fine. Va detto che Franca ha una lunga frequentazione con l’Africa e gli africani, e ha fatto qualcosa tipo un corso per diventare sciamana, mi perdonerà se le parole non sono esatte. Tra l’altro, lei è la compagna di stanza di Daria, e non mi posso dilungare ma vi assicuro che la coppia formatasi per caso è davvero ben assortita. Comunque, così sono i gruppi di Radio Popolare, e questo in particolare.
Ci dicono che dobbiamo restare seduti, in attesa che si decida se l’aereo può essere riparato e ripartire o dobbiamo cambiare aereo. Tutti a questo punto saremmo più per la seconda ipotesi, e infatti così finisce. Un altro annuncio ci informa, porgendoci le sentite scuse della compagnia per il disagio, che a breve ripartiremo, ma su un altro aeromobile.
Prima di scendere, però, c’è un ultimo colpo di teatro. Il comandante esce dalla cabina di pilotaggio e si dirige verso di noi, che siamo un po’ sparsi ma il grosso è nella parte centrale dell’aereo. Forse perché siamo il solo gruppo di stranieri, ha deciso di spiegarci un po’ meglio quello che è successo. Inizia in inglese parlando di un problema idraulico. Spiega che non abbiamo corso nessun pericolo reale, è solo una questione di procedure di sicurezza: se a un certo punto un sistema non funziona e sei ancora in condizioni di tornare all’aeroporto di partenza, devi tornare, anche se i sistemi di comando e di sicurezza sono tutti ridondanti e quindi avremmo potuto comunque portare a termine il volo. Il rumore che sentivamo era dovuto al fatto che, con questo sistema idraulico automatico che non funziona, entra più aria nel carrello. Per essere sicuro che tutti capiscano, ripete più o meno lo stesso discorso in spagnolo, lingua che padroneggia bene e che gli sembra più comprensibile da parte di noi latini. È molto gentile, probabilmente sta facendo qualcosa che va anche al di là di quello che gli è richiesto dalla sua professione. Oltretutto è anche belloccio, ha (a detta della componente femminile del gruppo) un sorriso che conquista, è spiritoso, e quindi in breve tempo diventa un idolo. Per cui un po’ ci dispiace quando, alla fine, annuncia con l’ennesimo sorriso che ora tornerà a casa a dormire, perché se decollasse di nuovo supererebbe il numero massimo di ore di lavoro che può fare secondo le regole dell’aviazione civile. Molti (soprattutto molte) avrebbero voluto a questo punto fare l’altro volo con lui ai comandi, ma non si può.
Dopo un’attesa tutto sommato breve, poco più di mezz’ora, con un pullmino ci trasferiamo e saliamo sull’altro aereo. Il decollo, dopo questa esperienza, diventa un momento un po’ più critico del normale e così Daria, per tenerci tranquilli, dà la mano a me e a Marco (mettiamola così)… in realtà è più che altro un gioco, ma in questi casi tutto serve. La hostess, passando, vede che ci teniamo tutti e tre per mano e sorride. Loro sono del mestiere, ma non devono essere situazioni troppo piacevoli neanche per loro, che poi non hanno nemmeno la tranquillità che abbiamo noi, che sappiamo che lo spirito guida di Franca ci protegge…
Il volo stavolta scivola via senza problemi e senza rumori inquietanti e, sia pure ormai in forte ritardo, atterriamo al piccolo aeroporto di Shiraz.

Aereo Alberto
Qui ci viene a prendere il nostro nuovo pullman, che è giallo come il primo. Abbiamo però due nuovi autisti, che ci portano subito al nostro albergo, l’hotel Chamran, che è un grattacielo ultramoderno di 24 piani alla periferia della città. Onestamente, è un po’ un ecomostro, ma per una volta ci possiamo adattare. Se non altro, c’è un ascensore panoramico, che può essere sempre un’esperienza. Abbiamo solo il tempo di prendere possesso delle camere, poi dobbiamo uscire per cercare di recuperare un po’ del tempo perduto. Il programma delle cose da vedere e da fare qui, come in tutto il viaggio, è denso.
Shiraz, situata nel sudovest dell’Iran a 1500 m di quota, ha circa 1.700.000 abitanti. È una città che è cresciuta, negli ultimi anni, anche se oggi, persa ogni rilevanza industriale, religiosa o strategica, è diventata un centro solamente amministrativo. È stata capitale durante la dinastia Zand, nella seconda metà del 1700.
È nota come città dei fiori, del vino e della poesia. Poesia significa soprattutto Hafez, che qui nacque e che qui è sepolto, nel mausoleo che visiteremo più tardi. E il vino di Shiraz ha una tradizione antichissima, che si è dovuta interrompere con l’avvento della repubblica islamica nel 1979. Esiste un famoso vitigno che porta il nome Shiraz, che è diventato Syrah in Europa ma è tornato Shiraz in Australia. È un vino di colore rosso rubino dalle sfumature violacee e dal profumo intenso e fruttato con sentori di piccoli frutti neri e spezie.
Del vino di Shiraz parla anche questa canzone, interpretata da Yalda, la cantante italo-persiana di cui abbiamo già parlato:

Sharabe Shiraz – Yalda

La nostra visita a Shiraz comincia dalla Moschea Nasir ol Molk, nota anche come Moschea Rosa a causa del considerevole uso di questo colore per gli interni e nelle vetrate. La moschea è stata costruita durante l’era Qajar, tra il 1876 e il 1888.
Prima ancora di entrare, impariamo un’altra parola che ritornerà spesso durante tutto il viaggio, perché è legata ad un elemento architettonico presente in tantissime moschee iraniane. È la parola araba muqarnas, che indica una soluzione decorativa propria dell’architettura islamica, originata dalla suddivisione della superficie delle nicchie angolari raccordanti il piano d’imposta circolare della cupola con il quadrato o il poligono di base in numerose nicchie più piccole (8, 16, 32, ecc.) con la tecnica cosiddetta degli angoli falsi. Il muqarnaṣ si diffuse rapidamente in tutto il mondo islamico a iniziare dal XII secolo ma la sua origine, ci racconta Alì, viene dai Sasanidi. Viene usato, oltre che nelle cupole, in volte di ogni tipo e, come in questo caso, in nicchie di portali. Può essere realizzato in pietra, mattoni, stucco, legno o ceramica.
La moschea è caratterizzata dalle ampie vetrate colorate della sala di preghiera invernale. Al mattino la luce del sole, passando attraverso le vetrate, inonda di luce colorata l’interno della sala con un effetto spettacolare. L’effetto risulta amplificato soprattutto nelle prime ore del mattino o nei mesi invernali, quando l’altezza del sole è minore e i raggi penetrano sino al fondo del salone. Le colonne interne sono decorate da piastrelle policrome.
Essendo la prima sala di preghiera che vediamo, Alì si preoccupa di spiegare a tutti che cos’è il mihrab, la nicchia orientata in direzione della mecca che fa da punto di riferimento per la preghiera. Agli albori dell’Islam si pregava in direzione di Gerusalemme, poi, dopo la fuga di Maometto dalla Mecca a Medina nel 622 (data da cui si contano gli anni nel calendario islamico), un giorno l’arcangelo Djibril (Gabriele) apparve a Maometto e gli disse che da quel giorno i fedeli avrebbero dovuto pregare verso la Mecca. Questo mihrab è molto bello, decorato anch’esso a muqarnas.
Un altro gesto di cui bisogna spiegare il significato è quello di toccarsi la fronte con una pietra, usando quella pietra per poggiare la fronte a terra. Significa: veniamo dalla terra, e alla terra torneremo.
Ma non dimentichiamo che qui siamo nella principale roccaforte dell’Islam sciita, è necessario spiegare un po’ che differenze ci sono tra sunniti e sciiti. Il dissidio nasce quando Maometto, ancora in vita, nomina come suo successore Alì, suo cugino e genero, avendo sposato la figlia Fatima. I sunniti riconoscono questo episodio, ma non lo considerano una vera e propria investitura, solo un attestato di stima. E quindi, alla morte di Maometto, viene scelto come califfo Abu Bakr, con l’idea che per guidare la comunità serve un uomo saggio, dotto e rispettoso della Regola, ma non necessariamente imparentato con Maometto. Per gli sciiti, invece, il califfo doveva essere Alì e dopo di lui la sua discendenza, che attraverso Fatima discende anche da Maometto. Alì diventa poi il quarto califfo, ma viene assassinato. La rottura definitiva si consuma quando, nel 680, anche il secondo figlio di Alì, Hosein, che si era ribellato al potere sunnita, viene ucciso in battaglia a Kerbala, nell’odierno Iraq. Proprio per questo Kerbala è un luogo santo di grande importanza per gli sciiti, e per questo ogni anno l’uccisione di Hosein viene commemorata nella celebrazione chiamata Ashura, che è la più importante ricorrenza religiosa sciita.
Ecco perché il nome di Alì è così importante che, nelle decorazioni delle moschee sciite, è sempre associato a quello di Dio: in modi diversi e con diverse calligrafie, troveremo sempre Alì e Allah.
Per gli sciiti Imam non è semplicemente qualcuno che è in grado di predicare e di guidare una comunità religiosa; il titolo di Imam è qualcosa di estremamente importante, che si dà solo a personaggi di altissima rilevanza. Per esempio, Khomeini è chiamato Imam ma il suo successore, l’ayatollah Alì Khamenei, è tuttora la Guida Suprema della Rivoluzione, ma non è un Imam. A proposito, ayatollah significa “Segno di Dio”.
Nello sciismo si conoscono soltanto undici Imam, più un dodicesimo che è chiamato lmam scomparso o nascosto. La tradizione vuole che l’undicesimo Imam abbia avuto un erede ma che dopo la sua morte il figlio, all’età di soli cinque anni, sia sparito o sia stato nascosto per evitare che fosse perseguitato dai sunniti. Ma un giorno, quando sarà il suo momento, questo dodicesimo Imam tornerà per ristabilire il legittimo potere di Dio sulla terra. Questa figura messianica, quindi, nello sciismo, viene a coincidere con quella del Mahdi, ed è ovvio il paragone con il Messia tuttora atteso dagli ebrei o con la dottrina dell’Apocalisse e della seconda venuta di Cristo.
Ma a livello di teologia e morale? Alì spiega che la differenza più importante sta nel diverso atteggiamento nei confronti del peccato: per i sunniti Dio è così grande che può anche decidere di perdonare i peggiori peccatori, per gli sciiti chi commette peccati gravi non può che andare all’inferno, il concetto del perdono è meno presente nella morale sciita. E poi, c’è il fatto che gli sciiti credono in altri scritti di Maometto che si sarebbero tramandati, oltre al Corano che è ispirato direttamente da Dio.
E perché gli iraniani sono sciiti? Si trattò in realtà di una scelta politica, fatta nel 1501 dallo Shah safavide Ismail per distinguersi dagli ottomani sunniti, che erano allora gli invasori alle porte. Ma ora, dopo cinque secoli, lo sciismo è parte fondamentale dell’identità iraniana.

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Dopo la moschea, visitiamo l’Hammam-e-Vakil, che ora è un museo. Faceva parte del quartiere reale costruito durante il regno di Karim Khan Zand, il Reggente, nel 1700. Nelle diverse sale sono rappresentate, con dei manichini, scene di vita quotidiana dell’hammam in quell’epoca. Alcune non sono poi così diverse da quello che si fa in un hammam di oggi, ma altre sono decisamente più particolari. Ad esempio, all’hammam venivano spesso praticati salassi, che nella medicina di allora si credeva potessero curare un po’ tutto. La tecnica era di usare corna di animali bucate, con cui si succhiava fino a far gonfiare la parte, sulla quale poi si praticavano delle incisioni. Vista così, ti fa ringraziare di non essere nato allora. Il posto è bello comunque, ha un’atmosfera evocativa, nonostante i manichini.

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Passiamo davanti alla Fortezza del Reggente, che sembra un po’ il centro della vita cittadina. Oggi è venerdì, quindi un giorno di festa, ed è pieno di famiglie con bambini che fanno pic-nic (stiamo cominciando a constatare che è veramente una mania nazionale) o prendono semplicemente un gelato davanti alle mura, caratterizzate da una torre pendente.

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Notiamo anche, come già a Teheran, la presenza quasi ossessiva di gigantografie con i volti dei martiri della guerra Iran-Iraq degli anni ’80. Quella guerra, voluta da Saddam Hussein per approfittare della debolezza dell’Iran post-rivoluzionario e dell’appoggio dell’occidente, fu uno straordinario strumento di propaganda usato da Khomeini per compattare il paese contro il nemico esterno e contro il grande Satana americano. Il risultato furono otto anni di inutile guerra e un milione di morti, alcuni poco più che bambini, mandati a combattere convinti che sacrificando la propria vita per la patria si sarebbero aperte per loro le porte del paradiso, grazie alla chiave di plastica che portavano al collo. Carne da macello, niente di più. Le tracce di questo scempio sono ancora presenti in queste foto e nei nomi delle vie, che molto spesso sono quelli dei martiri.

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Decidiamo che è venuto il momento di rilassarsi un attimo e di prendere un tè, magari accompagnato da una fetta di torta, dato che dopo il pranzo-snack dell’aereo non abbiamo più mangiato niente. Alì conosce un posto con i tavoli all’aperto in una bella piazza con al centro una fontana, ma al momento è vuoto e non si vede in giro nessuno. Non è chiuso, ma il padrone deve essersi momentaneamente assentato. Ripieghiamo su un altro caffè sul lato opposto della piazza, che si chiama Joulep ed è comunque un posto gradevole. Ci serve una ragazza bellissima, che parla un ottimo inglese e che scopriamo essere un’architetta che per ora fa la barista. Il suo collega (o forse il padrone del bar) è un tipo che, per essere in Iran, è parecchio alternativo e in effetti il locale è abbastanza “occidentalizzato”, sia per l’atmosfera che per il genere di musica diffusa. Ha l’aria di una specie di piccola isola di tolleranza, tanto che per la prima volta in un luogo pubblico vediamo una ragazza che si toglie il velo. Si può scegliere tra infiniti tipi di tè semplici o aromatizzati, che si possono accompagnare con torte al cioccolato, alla carota o alle mele. Essendo il posto piacevole, la pausa si prolunga.
Uscendo sulla piazza, assistiamo ad una scena inattesa: Alì è sdraiato su una panchina vicino alla fontana e si sta facendo massaggiare una gamba da Alberto. Sì, perché non l’abbiamo ancora detto ma il gruppo dispone anche di un massaggiatore-shiatsuka, che lo fa principalmente per passione ma che, a detta di chi l’ha provato (e ce ne sono stati, nel gruppo) è molto bravo. Effettivamente dopo qualche minuto di trattamento Alì, che aveva sentito una fitta improvvisa e sembrava molto dolorante, si è rimesso in piedi e sembra in grado di proseguire, come si dice in questi casi. Bene, perché gli siamo tutti già affezionati e anche perché non avremmo un rimpiazzo… scherzi a parte, ci stiamo rendendo conto che, al di là della simpatia, è una fortuna avere una guida con una conoscenza così vasta della storia e della cultura del suo paese, ma anche così disponibile e paziente.

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Nel frattempo, un duo composto da un violinista e un percussionista suona al bordo della fontana, mentre i bambini giocano con l’acqua, e continua a manifestarsi la curiosità degli iraniani nei nostri confronti. Sono curiosi di noi almeno quanto noi di loro. Continuano ad avvicinarcisi persone, soprattutto giovani, che ci sorridono, ci salutano, ci chiedono di dove siamo e ci danno il benvenuto. Tra i tanti, una coppia di giovani architetti (sarà una coincidenza, ma pare che ce ne siano parecchi) che vuole venire a fare un dottorato in Italia. Parlano già un discreto italiano (anche se per la verità parla solo lei), perché hanno fatto un corso di italiano di sei mesi. Hanno già fatto le pratiche per il visto ma non sanno ancora quale università scegliere: vorrebbero un clima mite, una città tranquilla, ma anche una buona università. Hanno un po’ di riserve sulle università del Sud, perché hanno sentito che lì si parla un italiano un po’ difficile da comprendere per uno straniero. Cerchiamo di rassicurarli, dicendo che dipende, può essere vero che in alcune città si parla di più il dialetto, ma sicuramente non in università. Sanno anche che negli uffici pubblici pochi impiegati (o nessuno) parlano inglese, e su questo è difficile smentire. Anche la nostra Daria è architetta, quindi parte un breve conciliabolo sulle università italiane e alla fine gli viene consigliata Pescara, che sembra una buona soluzione di compromesso.

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Ci avviamo verso il mausoleo di Hafez, percorrendo un viale dove l’aria si riempie del profumo dei fiori d’arancio. Più ci avviciniamo, più l’atmosfera appare piacevole e festosa. Nel cortile d’ingresso, tra le aiuole fiorite, c’è tanta gente, famiglie con bambini ma anche molti ragazzi, soprattutto giovani coppie. Ovviamente, questo è un posto perfetto per gli innamorati. Sapendo cos’è questo paese, ci sembra già una bella cosa che possano venire qui insieme liberamente. Per quanto ne sappiamo, potrebbero essere anche coppie sposate, ma sicuramente non tutte. Anche la scalinata che porta alla tomba è coperta di vasi di fiori. I profumi si sovrappongono e si confondono.
Gli edifici attuali, costruiti nel 1935 e progettati dall’architetto e archeologo francese André Godard, lo stesso del museo archeologico di Teheran, sono nel sito di strutture precedenti, la più nota delle quali è stata costruita nel 1773. La pietra tombale risale proprio a quest’epoca. Otto colonne sostengono una cupola di rame a forma di cappello derviscio (non dimentichiamo che Hafez è considerato un poeta mistico). La parte inferiore della cupola è un mosaico decorato ad arabesco e colorato. Le colonne sono otto perché Hafez visse nell’ottavo secolo dall’Egira, secondo il calendario islamico.

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Hafez nacque a Shiraz tra il 1315 e il 1325 (la data esatta è controversa) e visse 75 anni. In quel periodo la città era sottomessa ad un principe sunnita vassallo dei Mongoli e protettore dei poeti. A seguito di una sfortunata impresa bellica, il mecenate fu sconfitto e fatto giustiziare dal principe Mobarez al-Din Kirmani, un personaggio descritto come un uomo ascetico e bigotto che fece chiudere le taverne e altri luoghi malfamati di Shiraz – un provvedimento lamentato dal poeta nei suoi componimenti – inaugurando un periodo di austerità di costumi. Successivamente, Hafez ottenne la protezione del principe e poeta Shah Shoja’, figlio gaudente del precedente monarca, da lui stesso spodestato e fatto accecare. Il poeta registra indirettamente anche questo avvenimento, gioendo per la riapertura delle taverne della città decretata dal nuovo signore.
Hafez frequentò soprattutto l’ambiente della corte di Shiraz, città da cui pare si sia allontanato solo per un breve periodo. Controversa è la questione del suo rapporto con l’ambiente delle confraternite sufi: benché egli amasse presentarsi, nel canzoniere, con un’identità sufi, queste confraternite sono, spesso e volentieri, “bacchettate” nelle poesie per la loro ipocrisia o malaffare. Forse insegnò materie religiose nella locale madrasa. In ogni caso, egli mostra nei suoi versi una straordinaria cultura religiosa, attestata peraltro dallo stesso nom de plume – Hafez – che significa «colui che ha memorizzato [il Corano]».
I suoi circa 500 poemi lirici (ghazal) sono notissimi in tutti i paesi di influenza persiana, fatti oggetto di studio da numerosi commentatori e spesso appresi a memoria anche dalla gente più umile e meno istruita. Il suo Divan (canzoniere), aperto a caso, è usato ancor oggi come popolare libro di divinazione.
Hafez nei suoi componimenti canta il vino, le gioie e le pene amorose; ma soprattutto canta le grazie di un misterioso e innominato “amico” (talora presentato nelle maschere di un bel coppiere, di un mago zoroastriano, di un “turco predone”, ma anche in quelle dell’assassino, del medico, del giocatore di polo ecc.) che tipicamente mostra crudeltà e indifferenza nei confronti della laude incessante del poeta-amante, risultando in sostanza inafferrabile.

Quanto Hafez si riferisse a un amore terreno o a uno divino (mistico) è oggetto di controversia tra gli studiosi; la critica iraniana, ovviamente, soprattutto al giorno d’oggi, tende a ridurre gli aspetti trasgressivi (vino, amore omoerotico) della poesia di Hafez, accentuandone la lettura in chiave simbolica e misticheggiante. In pratica, canterebbe l’amore per Dio. Mi sembra comunque una contraddizione incredibile che un poeta che scrive di queste cose e in questo modo, scagliandosi spesso e volentieri contro i censori e gli ipocriti, possa essere non solo tollerato, ma esaltato in questo paese. È questa la mia curiosità. Pensate solo a questo pezzettino, ma ce ne sono a decine così:
Se solo le porte delle taverne potessero essere riaperte,
se solo i nodi delle misure repressive potessero essere sciolti!
Tu sii paziente, per volere di Dio riapriranno,
riapriranno grazie alla purezza dei bevitori mattutini.
Stanno chiudendo le porte delle taverne,
ma tu, Dio, non concedere la tua approvazione,
perché così apriranno le porte dell’ipocrisia.
È anche vero che la contraddizione con i principi dell’Islam più radicale è un fatto che accomuna un po’ tutti i poeti sufi, anche il grande Rumi, per esempio. Forse, semplicemente, è una tradizione troppo radicata e troppo connaturata alla cultura persiana perché la Repubblica Islamica potesse permettersi di metterla al bando. Sarebbe stato troppo impopolare, e Khomeini era molto abile nell’andare incontro al comune sentire del popolo, guidandolo ma anche assecondandolo all’occorrenza.
Alì ci racconta, infatti, che nella casa di ogni iraniano non possono mancare due libri: il Corano e il Divan di Hafez. Hafez si recita sempre, ma ci sono due momenti dell’anno particolarmente dedicati alle sue poesie: Il nowrouz (capodanno persiano) e l’ultima sera d’autunno. Le sue sono poesie di difficile traduzione, molto legate alla musicalità della lingua persiana. Ma ci si può provare, esistono delle traduzioni anche in italiano. Questa, ad esempio, è la poesia preferita di Alì e, devo dire, anche la mia:

 

Ero perso con lo sguardo verso il mare
Ero perso con lo sguardo nell’orizzonte,
tutto e tutto appariva come uguale;
poi ho scoperto una rosa in un angolo di mondo,
ho scoperto i suoi colori e la sua disperazione
di essere imprigionata fra le spine
non l’ho colta ma l’ho protetta con le mie mani,
non l’ho colta ma con lei ho condiviso e il profumo e le spine tutte quante.
Ah, stenderei il mio cuore come un tappeto sotto i tuoi passi,
ma temo per i tuoi piedi le spine di cui lo trafiggi.
“L’idioma dell’Amore non si può veicolare con la lingua:
versa il vino, coppiere, e smetti quest’insulso parlare”.

 

Poi Alì ci ha letto anche questa, sia in versione originale che tradotta:

 

Venga, venga una lieta novella d’incontro, ed io lascio la vita!
Io volavo nei santi giardini, ecco, voglio fuggire la rete del mondo!
Sull’amore per te io lo giuro! Mi chiami tuo servo,
e rinuncio al dominio su tutte le cose che sono.
Oh, una pioggia da quella Tua nube che illumina i passi,
prima ch’io come polvere perso nel vento svanisca.
Al mio sepolcro tu vieni a posare col vino e il melode,
e risorgo danzando, al dolcissimo aroma che sale.
Orsù levati alto, mio idolo bello e soave,
ed io come il poeta abbandono la vita e le cose!
Sono vecchio, ma stringimi forte una notte sul seno,
ed io dal tuo abbraccio ancor giovane nasco nell’alba.

 

Ceniamo in un ristorante tradizionale. Si parte con un ricco buffet di antipasti, poi pesce del golfo persico e costolette di agnello, tutto accompagnato con riso.
Dopo di che si torna in albergo e si va a letto abbastanza presto, perché domani ci si prospetta un’altra giornata intensa, con la visita a Persepoli.

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Ma prima di andare a dormire voglio fare un piccolo esperimento… social. Premetto che io in genere uso pochissimo Instagram, mi dà l’idea di essere troppo dedicato agli appassionati di foto e soprattutto di selfie. Ma qui è il solo social network che funziona senza strani marchingegni, quindi voglio provare a postare qualche foto, le migliori della giornata, geolocalizzarle a Shiraz, mettere un semplicissimo hashtag #Iran, e vedere cosa succede. Be’, in pochi minuti arrivano 10-15 ragazzi iraniani a mettere like, faccine sorridenti, cuoricini e quant’altro. Alcuni commentano in inglese, altri in farsi, che purtroppo faccio un po’ fatica a capire, però usando il traduttore si scopre che sono apprezzamenti alla foto, ma spesso anche frasi di benvenuto e ringraziamenti per essere venuto a vedere le bellezze dell’Iran. Insomma, un’altra prova che c’è una grande voglia di contatto con il mondo esterno, che si esprime in tutti i modi, nella realtà reale come in quella virtuale. Alla fine del viaggio, ho messo insieme almeno una cinquantina di nuovi follower iraniani. Ce ne sono alcuni che sono “interessati”, e ci sta anche questo: account di hotel, locali, negozi, che vedono che sei lì e cercano di agganciarti. Ma per la maggior parte sono persone assolutamente disinteressate, che cercano proprio solo un contatto: un professore di fisica, un avvocato, un paio di fotografi, musicisti, blogger, un po’ di tutto.
E mi sembra abbastanza chiaro che questa sia una valvola di sfogo volutamente lasciata dal regime per fare in modo che i giovani (Instagram lo usano soprattutto i giovani, si sa) si distraggano, abbiano almeno un’illusione di libertà e non pensino a fare la rivoluzione. La recente breve stagione di proteste di piazza che è partita nel dicembre scorso è nata dalla situazione economica (la disoccupazione giovanile è superiore al 40%, per dirne una), ma la repressione violenta è iniziata quando si sono mossi gli studenti, che pur senza leader e senza una piattaforma politica di qualsiasi genere hanno cercato di muovere un po’ le acque. Della ragazza che si è tolta il velo e lo ha sventolato non si sa più niente o quasi, si sa che è in carcere e purtroppo è facile pensare che stia subendo violenze, molti lo pensano. C’è anche chi dice che la protesta sia stata fomentata da ambienti ultraconservatori, forse addirittura vicini all’ex presidente Ahmadinejad, perché all’inizio era diretta contro il Presidente Rouhani, che passa come un moderato (anche se ha un passato khomeinista), ed è partita dalla città religiosa e conservatrice di Mashhad. Difficile dire se sia andata così, è possibile ma poi forse la situazione è sfuggita di mano. Comunque sia, all’apice della protesta il governo ha bloccato proprio Instagram e Telegram, che è l’app di messaggistica più usata. Evidentemente volevano evitare che le immagini e le notizie girassero e alimentassero le manifestazioni, e l’obiettivo è stato raggiunto. Questo, e soprattutto la repressione, ha fatto sì che tutto finisse in un tempo abbastanza breve. Anche se, da quel poco che abbiamo potuto capire, una netta maggioranza delle persone è contro il regime. Ma da qui a muoversi concretamente il passo non è breve: i giovani appena possono preferiscono cercare di andare all’estero, anche questa è una cosa che stiamo constatando direttamente, parlando con loro.

 

Sabato 7 aprile 2018

A colazione con Ingela, non so bene come, finiamo a parlare di Israele e Palestina. Forse lo spunto viene dalla presenza, anche qui, di halva nel buffet. Lei mi racconta della sua esperienza giovanile in un kibbutz, negli anni ’70. Io durante il viaggio in Palestina lo scorso ottobre ho conosciuto un ragazzo italiano che ha fatto un pezzo di viaggio con noi e che stava facendo il servizio civile internazionale in un kibbutz. Lui è molto contento della sua esperienza di lavoro con dei ragazzi disabili, ma è rimasto invece piuttosto deluso dall’ambiente del kibbutz, che è molto diverso da quello che era negli anni ’70; molto di quel concetto di vita comunitaria oggi si è perso, purtroppo.
Partiamo in pullman: la prima tappa sarà alle tombe reali, poi Persepoli. L’intento è di arrivare abbastanza presto per schivare un po’ di folla. Parliamo del sito turistico più visitato del paese, anche in un momento di poca affluenza come questo gente ce n’è.

Il viaggio dura più di un’ora, quindi c’è l’opportunità per Alì di intrattenerci con qualche altra notizia sul paese. Ormai ha capito più che bene quali sono le nostre domande, riesce facilmente ad anticiparci.
La benzina, è facile immaginarlo, costa davvero poco: con un euro si fanno 6 litri.
L’università è quasi gratuita, ma a numero chiuso. I due terzi delle matricole sono ragazze, e questo è un dato che un po’ stupisce, ma fa parte delle contraddizioni iraniane. Le donne in realtà studiano e, almeno nelle città, spesso lavorano arrivando anche a occupare posti di responsabilità. Sono pagate meno degli uomini a parità di lavoro, ma questo, inutile dirlo, succede anche da noi.
I matrimoni, soprattutto nelle città, nella maggior parte dei casi non sono più combinati. La cerimonia è fatta da un mullah a casa della sposa, ed è il marito a dover pagare la dote. Se non lo fa rischia il carcere. Un uomo in teoria può avere fino a quattro mogli, ma oggi pochi ne hanno più di una, soprattutto per questioni economiche. Comunque, per sposare una seconda moglie il marito ha bisogno del consenso della prima.
Ma in caso di divorzio solo i figli hanno diritto al mantenimento, la moglie no. Ed è il marito a decidere se tenere i figli con sé o no.
Le ragazze possono sposarsi già a 9 anni, i ragazzi a 13. Nelle zone rurali e conservatrici, esiste ancora il fenomeno delle spose bambine. All’epoca dello Shah ci volevano 18 e 20 anni. Secondo una legge recente la ragazza dovrebbe avere almeno 15 anni, ma in realtà questa legge si può aggirare con il consenso del padre.
La cosa che forse meno immaginavamo è che gli sciiti hanno il matrimonio a tempo (sigheh), che può durare anche poche ore. È previsto negli altri scritti tramandati da Maometto in cui loro credono, a differenza dei sunniti. È un contratto di matrimonio in cui i contraenti stabiliscono la durata che può variare «da un minuto a 99 anni». In questo caso, l’uomo (sposato o no), e la donna non sposata (vergine, divorziata o vedova) possono concordare la durata del rapporto e l’importo della compensazione da versare alla donna. Questa disposizione non richiede testimoni e non richiede alcuna registrazione. Un uomo può avere un numero illimitato di sigheh e contemporaneamente può avere anche uno o più (fino a quattro) matrimoni permanenti, mentre la donna può essere coinvolta solo in un matrimonio e al termine non ne può contrarre uno nuovo prima di un periodo di attesa di tre mesi o di due cicli mestruali. Questo periodo obbligatorio di attesa si applica anche alle donne divorziate nel matrimonio permanente ed è destinato a determinare la paternità nel caso in cui la donna dovesse rimanere incinta. Per le donne è sempre meglio un matrimonio in piena regola e per molte il sigheh è un compromesso nella speranza di trasformare questa unione in un contratto a tempo indeterminato, infatti il sigheh è rinnovabile. La condizione di moglie temporanea è in genere tenuta nascosta agli estranei soprattutto tra i ceti più popolari, dove le tradizioni sono più radicate. Il matrimonio temporaneo garantisce maggiori libertà alla donna: vive a casa propria, esce senza chiedere il permesso e può lavorare, ma deve essere disponibile quando il marito la cerca. Negli anni passati erano soprattutto motivi finanziari che spingevano la donna ad accettare il sigheh. Ai nostri giorni, il matrimonio temporaneo viene utilizzato dai giovani per aggirare tutti i divieti delle leggi islamiche iraniane sui rapporti tra ragazzi e ragazze. Altrimenti, infatti, potrebbero convivere solo di nascosto. Per le coppie non sposate, può creare problemi anche tenersi per mano. È chiaro, però, che se poi una ragazza si vuole sposare di nuovo in maniera permanente con un altro dovrà “rifarsi” una verginità, ma per quello ormai c’è il chirurgo.

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E siamo alle tombe reali. Naqsh-e Rostam è un sito archeologico sulle montagne a circa 12 km a nord-ovest di Persepoli.
Il rilievo più antico di Naqsh-e Rostam è molto danneggiato e risale al 1000 a.C.; raffigura un uomo con uno strano copricapo e si ritiene essere di origine elamita. L’uomo con il copricapo strano dà il nome al sito: Naqsh-e Rostam significa infatti “Immagine di Rostam”, in quanto una leggenda locale voleva raffigurato l’eroe mitico Rostam, che secondo Alì e un po’ l’Ercole persiano. In questa località si trovano le tombe dei grandi re dei Persiani.
Quattro sarebbero le tombe di re achemenidi, scavate nella roccia. Sono tutte a notevole altezza dal suolo. Le tombe sono conosciute come le “quattro croci persiane”, per la forma della loro facciata. L’ingresso di ogni tomba è al centro di una croce, che si apre su di una piccola camera, dove il re giaceva in un sarcofago.
Una delle tombe è stata identificata da un’iscrizione che la accompagna e si tratterebbe della tomba di Dario I (che regnò dal 522 al 486 a.C.). Le altre tre tombe si ritiene siano quelle di Serse I (486-465 a.C.), Artaserse I (465-424 a.C.) e Dario II (423-404 a.C.). Una quinta incompiuta potrebbe appartenere ad Artaserse III, che regnò solo due anni, ma è più probabile che si tratti di quella di Dario III (336-330 a.C.), ultimo della dinastia achemenide.
C’è il cosiddetto “Cubo zoroastriano”, per lungo tempo ritenuto un tempio del fuoco. Le moderne ricerche invece propendono per l’ipotesi che sia stata la sede del Tesoro di Stato.

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Ci sono poi le tombe dei sasanidi.
Qui al fondatore della dinastia sasanide, Ardashir, è consegnato il diadema della regalità da Ahura Mazda, il Dio della luce e della Verità, il Dio dello zoroastrismo, l’antica religione persiana. Nell’iscrizione, dove appare per la prima volta il termine “Iran”, Ardashir ammette di tradire il suo re Artabano V (i Sasanidi erano stati infatti uno Stato vassallo della dinastia dei Parti Arsacidi), ma legittima la sua azione sulla base del fatto che è Ahura Mazda a volerlo creare nuovo regnante.

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Qui viene raffigurata la vittoria di Sapore (Shapur) su due imperatori romani, Filippo l’Arabo (che implora la pace) e Valeriano (che viene catturato, in ginocchio).

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In questo rilievo chiamato “La grandezza di Bahram II” vediamo il re, che è raffigurato con una spada di grandi dimensioni. Sulla sinistra ci sono cinque figure (forse i membri della famiglia imperiale), di cui tre con diadema. A destra tre cortigiani, che fanno un gesto tipico dell’impero persiano di quel periodo: l’indice piegato in giù, che esprime rispetto e sottomissione. Questo gesto è stato poi “adottato” all’interno del nostro gruppo per mostrare (con una certa ironia, chiaramente) la nostra sottomissione al nostro capo, cioè Marco, in varie situazioni in cui lui ci richiamava all’ordine. A un certo punto era lui a chiederlo, per chiudere ogni discussione. Detta così sembra una roba un po’ scema, e forse lo è, ma ci ha fatto molto ridere. Sapete quelle cose che vengono fuori per caso e che poi, ripetute n volte, fanno ridere anche solo per l’effetto tormentone? Ecco, quella cosa lì.

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Questo rilievo equestre, che si trova immediatamente sotto la tomba di Dario I, è diviso in due parti, una superiore ed una inferiore. Nella parte superiore il re sembra costringere un nemico romano a scendere da cavallo. Nella parte inferiore, il re combatte ancora con un soldato romano a cavallo. Entrambi i rilievi raffigurano un nemico morto sotto gli zoccoli del cavallo del re.

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Ripartendo in pullman verso Persepoli, Alì ci legge giustamente come introduzione il testamento di Dario, colui che fece costruire Persepoli.
V sec. a.C.
Susa, Iran
Il testamento di Dario I il Grande
a suo figlio Serse Re dei Re

Ora che sto andando via da questo mondo,
Ci sono 25 paesi sotto il mio Impero, e in tutti questi paesi vige la moneta iraniana, gli iraniani hanno grande rispetto per tutti e altrettanto le popolazioni di questi paesi verso di loro.
Serse! Figlio mio e successore, devi adoperarti come ho fatto io nel mantenere questi paesi!
Il successo per mantenerli è nei seguenti punti:
Non intervenire nei loro affari interni. Rispettare la loro religione e le loro usanze.
Adesso che vado via da questo mondo, tu avrai 12 Krur in oro nella tesoreria, questa quantità d’oro sarà solo uno dei tuoi poteri, perché il potere di un Re non è solo la spada ma anche la ricchezza.
Perciò ricordati, tu dovrai aumentare i tuoi beni e non diminuirli, non dico che, nel momento necessario, non devi usarli, ma nella prima occasione quello che hai tolto devi rimetterlo al suo posto.
Tua madre Atusa, figlia di Ciro, ha dei diritti sulla mia spalla, perciò dalle la sua comodità e la sua soddisfazione.
Sono 10 anni che m’impegno a costruire i granai. La tecnica della loro costruzione, fatti in pietra e in forma cilindrica, l’ho imparata in Egitto. Dato che i granai sempre si svuotano,  sono stati creati i setti, così i cereali rimangono sani per diversi anni e tu dovrai continuare a costruirli dopo di me, finché avrai le scorte per almeno 2 o 3 anni per tutto il paese e così ogni anno che avrai i cereali nuovi dovranno essere immagazzinati, quando si sente il loro profumo. In questa maniera non avrai preoccupazione se capiterà che per 2 o 3 anni ci saranno le carestie.
Mai dovrai dare ad amici e a conoscenti i lavori del paese; per loro, il vantaggio di essere amico con te è sufficiente. Se li impegnerai nei lavori amministrativi e loro faranno degli errori, opprimeranno la gente, o faranno dei lavori illegittimi, tu non potrai punirli perché sono tuoi amici e sarai costretto a sopportarli.
Il canale che volevo fare tra il Nilo e il Mar Rosso non è finito! Ha la massima importanza nel commercio e nella guerra, tu dovrai finirlo! (è il canale di Suez, lo finiranno gli europei… giusto qualche anno dopo, ndr)
Le tasse di pedaggio di questo canale non dovranno essere esagerate in modo che i capitani preferiranno attraversarlo.
Ho mandato un esercito alla volta dell’Egitto per dare un ordine e una sicurezza al territorio, ma non ho fatto in tempo a mandare un altro esercito verso la Grecia, tu dovrai farlo!
Con la massima potenza attacca in Grecia, e fai capire loro che il Re della Persia è capace di punire i traditori e di creargli dei disagi.
Un’altra raccomandazione che ti faccio, è di non avere mai intorno a te bugiardi o lusingatori, perché tutti e due sono un disastro per il regno! Manda via i bugiardi senza pietà!
Mai dovrai permettere ai governatori di predominare sul popolo! Per non far prevalere i governatori ho fatto la legge delle tasse, così diminuisce il rapporto diretto tra l’agente del Governo e il tuo popolo!
Riguardo all’Educazione io ho cominciato, tu continua!
Lascia che i tuoi cittadini riescano a leggere e a scrivere! Più si sviluppa la loro istruzione ed il loro giudizio, più tu regnerai con sicurezza e popolarità!
Segui sempre il monoteismo, però non obbligare mai i tuoi popoli a seguire il tuo credo!
Ricordati sempre che ognuno deve essere libero di scegliere quello che pensa e che preferisce.
Dopo il mio addio, lava il mio corpo, avvolgilo nel sudario e mettilo nella bara di pietra, poi nella tomba.
Però non chiudere la mia tomba! Ogni volta che vuoi, puoi entrare a vedere la mia bara in pietra, capirai e ti accorgerai che io, tuo padre, ero un Re potente e capace, che regnava su 25 paesi del mondo!
Perciò tutti, anche tu, morirete… perché il destino dell’uomo, di un Re di 25 paesi o di un raccoglitore o venditore di prugnoli è lo stesso! Nessuno rimarrà per l’eternità!
Ogni volta che entrerai nella mia tomba e vedrai la mia bara non avrà predominio l’Egoismo.
Quando vedrai la tua morte vicino ordina di chiudere la mia tomba, e raccomanda a tuo figlio di lasciare aperta la tua per poter vedere la tua bara.
Mai, mai devi accusare e allo stesso tempo giudicare!
Se accusi qualcuno, prendi un giudice neutro che studia e decide per fare giustizia, perché se l’accusatore fa il giudice, è molto probabile che opprima!
Non abbandonare mai la costruzione della Prosperità; se non dai importanza a questo, piano piano si rovina il paese e rimane un rudere, perché la regola è questa: Se il Paese non va verso la Prosperità va verso la devastazione.
Fare i qanat, le infrastrutture stradali e l’urbanistica sono fatti da mettere nelle priorità!
Non scordare il perdono e l’amicizia!
Sappi che dopo la giustizia, la qualità più elevata del Re è il perdono e la generosità, però il perdono deve essere fatto quando qualcuno fa un errore verso di te, se invece l’errore o il peccato lo fa verso un altro, e tu lo perdoni, in questo caso, hai fatto un’oppressione e non la Giustizia! Non hai rispettato i diritti di un altro, allora non c’è più Giustizia.
Oltre a questo non dico più niente.
Queste dichiarazioni le ho fatte oltre a te alla presenza di altri, come testimoni al mio Testamento Storico,
ora andate via e lasciatemi solo
perché sento che la mia morte è vicina.

Segue un lungo applauso, ad Alì per avercelo letto e fatto conoscere, ma anche a Dario! Se si tiene conto dell’epoca, questo testo è un vero manifesto di tolleranza e di buon governo. Certo, era un monarca assolutista ma decisamente illuminato. Se i politici di oggi tenessero presenti almeno alcuni di questi principi, diciamo pressoché in coro, staremmo molto meglio. Insomma, in un attimo siamo tutti daristi, dariani o come si può dire, non importa. Comunque vogliamo fondare il partito di Dario! La Carta dei Valori è già lì pronta.

Ed eccoci a Persepoli.
I primi resti di Persepoli risalgono al 515 a.C. André Godard, l’archeologo francese che scavò le rovine di Persepoli nei primi anni ‘30, credeva che non fosse stato Dario ad aver scelto il sito di Persepoli, ma che fosse stato lui a costruire il terrazzamento ed i palazzi, su una superficie di 125.000 mq. Dal momento che, a giudicare dalle iscrizioni, gli edifici di Persepoli vennero costruiti da Dario I, fu probabilmente sotto questo re, con il quale lo scettro passò a un nuovo ramo della casa reale, che Persepoli divenne capitale della Persia. Come residenza dei governanti dell’impero, tuttavia, era un luogo remoto in una regione montagnosa di difficile accesso e tutt’altro che conveniente. Le vere capitali del paese erano Susa, Babilonia e Ecbatana. Questo spiega il fatto che i greci non erano a conoscenza della città fino all’epoca di Alessandro Magno che la conquistò e saccheggiò. Qui, però, venivano ricevute le delegazioni delle diverse satrapie che facevano parte dell’impero e qui si svolgeva la festa di nowrouz.
Dario I ordinò la costruzione dell’Apadana e della Sala del Consiglio, del principale Tesoro imperiale e dei suoi dintorni. Questi edifici vennero completati durante il regno di suo figlio, Serse I. Inoltre la costruzione degli edifici sulla terrazza continuò fino alla caduta dell’impero achemenide.
Intorno al 519 a.C., ebbe inizio la costruzione di un’ampia scalinata. La scala doveva inizialmente essere l’ingresso principale alla terrazza posta a 20 metri rispetto al suolo. La doppia scalinata, nota come scala di Persepoli, venne costruita simmetricamente sul lato occidentale della grande muraglia. I gradini sono 111 perché 111 erano le stazioni della posta, le fermate sulla strada Reale che da Susa portava a Sard.

Il calcare grigio è la pietra principale usata per costruire gli edifici di Persepoli. Vennero usati anche legno di cedro, proveniente dal Libano, e mattoni crudi. Dopo che la roccia naturale era stata livellata e le depressioni riempite, venne preparata la terrazza. Il piano irregolare della terrazza, tra cui le fondazioni, funse da castello, le cui pareti consentivano ai suoi difensori di visualizzare qualsiasi sezione del fronte esterno. Diodoro Siculo scriveva che Persepoli aveva tre mura con bastioni, tutte munite di torri, per offrire uno spazio protetto agli uomini addetti alla difesa. Le prime mura erano alte 7 metri, le seconde 14 e le terze, che coprivano tutti e quattro i lati, 27 metri, anche se oggi non ci sono mura che si siano conservate. Gli operai che costruirono Persepoli non erano schiavi, erano pagati e avevano le ferie. Per l’epoca, un altro esempio di liberalità.
Persepolis è il nome attribuito alla città dai greci, il nome persiano era Parse. In epoca più tarda fu chiamata, in Iran, anche Takht-e Jamshid, (trono di Jamshid), perché se ne attribuiva la fondazione al mitico re Jamshid.
Dopo l’invasione della Persia, nel 330 a.C., Alessandro Magno inviò il grosso del suo esercito a Persepoli attraverso la via Reale e riuscì facilmente a prendere la città prima che il suo tesoro potesse essere messo in salvo. Dopo diversi mesi, Alessandro consentì alle sue truppe di saccheggiare Persepoli.

In quel periodo, un incendio bruciò i “palazzi” o “il palazzo”. Gli studiosi concordano sul fatto che questo evento, descritto nelle fonti storiche, si verificò presso le rovine che sono state ora ri-identificate come Persepoli. Non è chiaro se il fuoco sia stato un incidente o un atto deliberato di vendetta per l’incendio dell’Acropoli di Atene durante la seconda invasione persiana della Grecia.
Anche gli ayatollah volevano distruggere Persepoli, perché nella loro visione tutto quello che viene prima dell’Islam non ha valore. Ma dovettero rinunciare, perché il sito ha troppa importanza storica, avrebbero generato ulteriore riprovazione a livello internazionale; senza contare gli introiti di Persepoli come attrazione turistica, ai quali l’Iran non può certo facilmente rinunciare.
La Porta di tutte le Nazioni, riferita ai sudditi delle diverse nazioni che costituivano l’Impero, era una grande sala a forma di quadrato di circa 25 metri di lato, con quattro colonne e l’ingresso sulla parete occidentale.
Due androcefali con corpo di toro e teste di uomini barbuti si trovano sulla soglia occidentale. Altri due, con ali e teste persiane, erano all’ingresso orientale, a riflettere il potere dell’impero.
Il nome e la dedica di Serse I sono scritti in tre lingue: persiano antico, Elami e babilonese. L’incisione si trova sull’ingresso in alto:
“Ahura Mazda è un grande dio per aver creato la terra, il cielo, l’uomo e per lui la felicità, colui che creò Serse e lo fece diventare Re, Re dei Re, Re dei differenti popoli, Re di questo mondo vasto e immenso, sono figlio di Dario il Re, discendo dagli Achemenidi.”

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In direzione ovest-est nella parte nord della terrazza c’era il Viale delle processioni, ai cui lati si trovano capitelli a forma di aquila-grifone. Sono stati trovati a Persepoli, ma non montati su colonne. Probabilmente erano stati scartati perché non perfetti o perché il gusto era cambiato. Questo animale fantastico, chiamato Homa in farsi, è considerato di buon auspicio ed è quindi stato scelto come simbolo della compagnia aerea di bandiera iraniana.

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Il più famoso palazzo di Persepoli è l’Apadana. Il Re dei Re lo usò per le udienze ufficiali. La costruzione ebbe inizio nel 515 a.C., e suo figlio, Serse I, lo completò trent’anni dopo. Il palazzo aveva una grande sala a forma quadrata, e ognuno dei lati misurava 60 metri. C’erano 72 colonne, 13 delle quali si trovano ancora erette sull’enorme piattaforma. La sommità delle colonne era costituita da sculture rappresentanti animali come tori a due teste, leoni e aquile. Le colonne erano unite tra loro con travi di quercia e cedro.
Le pareti erano piastrellate e decorate con immagini di leoni, tori e fiori. Dario ordinò di incidere il suo nome e i dettagli del suo impero, in oro e argento, su piatti che vennero collocati in contenitori di pietra nelle fondamenta sotto i quattro angoli del palazzo. Due scalinate simmetriche vennero costruite sui lati settentrionale e orientale dell’Apadana per compensare una differenza di livello. La scala a nord fu completata durante il regno di Dario I, ma l’altra venne completata molto più tardi. Le rampe sono decorate con bassorilievi raffiguranti le delegazioni dei vari popoli, ciascuna delle quali porta animali e doni legati al suo territorio e alla sua cultura. Ci sono, ad esempio, i Medi, i Susiani, gli Armeni, i Babilonesi, i Lidiani, gli Assiri, gli Egizi, gli Ioni, i Parti, gli Indiani, i Traci, gli Arabi, i Drangiani (attuale Turkmenistan), i Libici, gli Etiopi. Le figure sono intervallate da cipressi, che segnano lo stacco tra una delegazione e l’altra.

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Il Tachara, o Palazzo di Dario, si trova a sud dell’Apadana. Le decorazioni della scalinata sud presentano una raffigurazione simbolica di Nowrouz: un leone che divora un toro; l’interpretazione più accreditata è appunto che il leone sia l’anno nuovo che scaccia il toro, che rappresenta l’anno vecchio. Quando il sole raggiunge la costellazione del toro e la supera, infatti, l’anno si rinnova.

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L’Hadish, o Palazzo di Serse, è costruito su un piano simile al Tachara ma due volte più grande. La sua sala centrale era costituita da trentasei colonne di pietra e legno. Queste erano realizzate con tronchi di alberi di grandi dimensioni e di grande diametro, delle quali non resta più nulla. È circondato ad est e ad ovest da piccole stanze e corridoi, e sulle porte vi sono dei bassorilievi. Sono rappresentate processioni reali con Serse I accompagnato da servitori che sostengono un baldacchino. La parte meridionale del palazzo è composta da appartamenti la cui funzione è controversa: una volta descritti come quelli della regina, oggi sono considerati dei negozi o appendici del Tesoro. Hadish è un’antica parola persiana che appare su una iscrizione trilingue in quattro copie sotto il portico e la scalinata: significa “palazzo”. Gli archeologi citano questo palazzo con il nome di Hadish, ma il nome originale non è noto. L’assegnazione a Serse è certa in quanto, oltre a queste quattro iscrizioni, il suo nome e il suo titolo si trovano incisi non meno di quattordici altre volte.

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Il palazzo delle 100 colonne, o anche Sala del Trono, ha una forma quadrata con lati di 70 metri: è il più grande dei palazzi di Persepoli. In occasione del suo primo scavo parziale, emerse che era coperto da uno strato di terra e di ceneri di cedro del Libano di più di tre metri di spessore. Gravemente danneggiati dal fuoco, solo le basi delle colonne e gli stipiti sono sopravvissuti.
Due tori colossali costituiscono le basi delle colonne principali, alte 18 metri, che sostenevano il tetto del portico d’ingresso, a nord del palazzo. L’ingresso avveniva attraverso una porta riccamente decorata con bassorilievi. Tra queste rappresentazioni, si descrive l’ordine delle cose, mostrato da cima a fondo: Ahura Mazda, il re sul suo trono, poi diverse file di soldati che lo sostengono, alternativamente medi (riconoscibili dai cappelli rotondi) e persiani. Il re detiene quindi il suo potere, che gli proviene da Ahura Mazda che lo protegge, e controlla l’esercito che porta il suo potere.
Il Tesoro, costruito da Dario il Grande, è costituito da una serie di camere situate nell’angolo sud-est della terrazza, che si estende su una superficie di 10.000 mq. Il tesoro comprende due sale più importanti il cui tetto era sostenuto rispettivamente da 100 e 99 colonne di legno. Sono state ritrovate delle tavolette di legno e d’argilla, che specificano l’ammontare dei salari e dei benefici pagati ai lavoratori che costruirono il sito. Secondo Plutarco, 10.000 muli e 5.000 cammelli furono necessari ad Alessandro Magno per trasportare il tesoro di Persepoli.
Uscendo, scopriamo che Silvana ha trovato un ammiratore iraniano, probabilmente una guida, che in perfetto francese dice che somiglia a Mireille Mathieu. Dopo un po’ diventa Carla Bruni, forse in quanto italiana… purtroppo non ci possiamo fermare per vedere come va a finire. Dobbiamo andare a pranzo. Ma comunque per noi, almeno per un paio di giorni, resterà Mireille.

Prima di riprendere il pullman, facciamo in tempo a fermarci in libreria. Oltre ad una guida di Persepoli, non resisto alla tentazione di comprarmi il Divan di Hafez in versione Persiano-Italiano. Così ora sapete il perché di tante citazioni…
Ci facciamo un ricco pranzo a buffet e ripartiamo in direzione Shiraz. Ci aspettano altri appuntamenti da programma.
Il primo è con il mausoleo di Shah-e Cherag, ovvero del fratello dell’ottavo Imam, vissuto nel secolo VIII. La prima cosa che ci chiediamo, e che chiediamo ad Alì, è proprio questa: ma l’Islam sciita è una religione così familista che non solo si venerano gli Imam, ma anche i parenti degli Imam? Parrebbe proprio di sì. E vedendo quanto è grandioso questo mausoleo, ci chiediamo anche allora come sarà quello dell’Imam. Alì ci informa che si trova a Mashhad, nel nordest dell’Iran. Che è appunto, insieme a Qom, la culla della religione sciita in Iran. Se qualcuno vorrà fare il viaggio nel nord, lo vedrà. Chissà, forse l’anno prossimo. Inshallah (a proposito, si dice anche qui).
Qui non si può entrare con la macchina fotografica (ma col telefonino sì) e le donne devono mettere il chador, gentilmente fornito dagli addetti dello stesso mausoleo. Per le donne del gruppo, è la prima esperienza. Al velo qualcuna si sta già un po’ adattando, ma qui si sale di livello. Non è nero, per fortuna. Non abbiamo capito se per alleggerire l’esperienza o per identificarle meglio, alle turiste straniere viene dato un chador bianco decorato con motivi floreali. Allegro, tutto sommato. C’è un ingresso separato per le donne, con una camera di… compensazione dove avviene la vestizione. Noi uomini siamo già dall’altro lato in attesa. Quando le signore sbucano, sembrano ovviamente un po’ a disagio ma divertite. Partono subito le foto e i selfie. La prima cosa che salta all’occhio è che Franca è l’unica che ha il chador più il velo in testa: Non hanno trovato un chador abbastanza lungo da coprirla tutta! Del resto, la ragazza in gioventù faceva pallavolo. La statura supera decisamente quella dell’iraniana media.

Il sito è il luogo di pellegrinaggio più importante della città di Shiraz. Aḥmad, il fratello dell’Imam, venne a Shiraz all’inizio del III secolo islamico (circa 820 d.C.), e vi morì. Verso il 1130 fu costruita la camera di sepoltura, con la cupola e a cipolla e un portico colonnato. La moschea è rimasta così per circa 200 anni, prima di ulteriori lavori avviati dalla regina Tash Khātūn durante gli anni 1344-1349 (745-750 del calendario islamico) di cui non è rimasto nulla. La moschea fu di nuovo impegnata in riparazioni nel 1506 e nel 1588, quando la metà della struttura crollò a seguito di un terremoto. Nel corso del XIX secolo, la moschea è stata danneggiata più volte e successivamente riparata. Infine, nel 1958 tutta la cupola fu rimossa e al suo posto venne inserita una struttura in ferro, che era più leggera e suscettibile di durare più a lungo. La nuova struttura fu posta con la forma della cupola originale e venne finanziata a spese del popolo di Shiraz. L’attuale edificio è costituito da un portico originale con le sue dieci colonne sul lato orientale, un ampio santuario con nicchie alte sui quattro lati, una moschea sul lato occidentale del santuario, e varie sale. Ci sono anche numerose tombe contigue al mausoleo. Due piccoli minareti, situati alle due estremità del portico a colonne, aggiungono imponenza al mausoleo, che fa parte della lista dei monumenti nazionali dell’Iran.
Noi, purtroppo, possiamo vedere solo i cortili e le strutture dall’esterno, dato che qui l’ingresso nella moschea è vietato ai non musulmani. Ci si avvicina un tipo un po’ strano che potrebbe essere un custode e che, quando gli diciamo che siamo italiani, cerca di comunicare snocciolando calciatori della Juve, magari non recentissimi: Michel Platini e Zinedine Zidane. Alì, invece, ci racconta una curiosità interessante: il turbante nero è riservato ai mullah (sacerdoti) che sono discendenti di Maometto; tutti gli altri portano il turbante bianco. Anche qui come in tanti altri posti, e qui era inevitabile, l’ayatollah Khomeini e l’ayatollah Khamenei con i loro turbanti neri (ora sappiamo perché) ci guardano severi e accigliati.

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Dobbiamo ancora vedere anche la Moschea Vakil, la Moschea del Reggente, per cui non abbiamo avuto tempo ieri.
Edificata tra il 1751 e il 1773, durante il periodo Zand, è stata restaurata nel XIX secolo durante il periodo Qajar.
La moschea ha solo due iwan, sui lati nord e sud di una grande corte aperta. Gli iwan e le corti sono decorati con tipiche piastrelle di Shiraz. La sua sala di preghiera invernale (Shabestan), con una superficie di circa 2.700 metri quadrati, contiene 48 colonne monolitiche scolpite a spirale, ognuna con un capitello a foglie di acanto. Il minbar (pulpito) di questa sala, tagliato da un unico blocco di alabastro e realizzato a Tabriz, è considerato uno dei capolavori del periodo Zand. Le esuberanti piastrelle decorative floreali risalgono in gran parte al periodo Qajar.

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Ci concediamo poi un bel giro al bazar, dove scopriamo cose interessanti come le mandorle verdi (qui si mangiano così) e un gelato fatto con amido di mais, limone e zucchero. Alì è in cerca di un particolare anello in osso di cammello e bronzo, che sa di poter trovare qui, e infatti c’è. Ma quello che si nota di più, girando per il bazar, unico in Iran per l’architettura in mattoni dipinti, è che è molto ordinato e composto, quasi silenzioso, soprattutto se paragonato ad un souk arabo. Ricorda più un bazar ottomano, anche nell’architettura. Non si sentono urla di venditori per attirare i clienti, né si vedono discussioni animate e contrattazioni all’ultimo sangue. A me piacciono anche i souk arabi, soprattutto quelli più autentici e non turistici, ma bisogna ammettere che forse al di là di tutto questa differenza culturale tra arabi e persiani esiste e si misura anche da queste cose.

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Un tè ai germogli rilassante al Joulep, che ormai è il “nostro” caffè a Shiraz, e poi via verso l’albergo a prepararci per una serata in famiglia.
Il padrone di casa è abituato per lavoro a conoscere stranieri, e spesso li invita a casa. Gli piace ospitare persone, e poter scambiare qualche idea con gente che viene da paesi lontani. Ma lascia volentieri che a fare gli onori di casa siano la moglie e i figli, una ragazza diciottenne e un ragazzo più grande. C’è anche uno zio, e ci sono un paio di altri ragazzi, un cugino e forse un amico di famiglia. E soprattutto c’è una zia di cui Alì ci ha già parlato, che è la persona più conservatrice della famiglia e che, come ogni zia che si rispetti, ha la tendenza a mettere becco in tutte le questioni, anche quelle che non la dovrebbero riguardare. Quindi un po’ la temiamo, più che altro temiamo che intimidisca un po’ i ragazzi e non li lasci parlare liberamente.
Ci servono il tè e dei dolcetti di benvenuto. Ormai abbiamo imparato a dire almeno “grazie” in farsi. Si può dire mamnoun o kheili mamnoun (molte grazie), ma c’è anche l’alternativa mersi, più facile da ricordare.
All’inizio le curiosità si concentrano sulla figlia diciottenne, che risponde con un sorriso un po’ imbarazzato. Lei studia ragioneria, ma ha fatto anche un corso da parrucchiera, per tenersi aperta un’altra strada. Nel tempo libero fa danza hip-hop, il che ovviamente ci incuriosisce molto: vorremmo sapere dove può praticarla, poi. Lei accenna a delle feste tra ragazzi, dove si può ballare, e subito la zia ci tiene a precisare che balla solo in casa e che sono feste “di famiglia”. Sì, me la vedo proprio che balla hip-hop per le vecchie zie… comunque, facciamo finta di crederci. Sappiamo, in realtà, che di feste private i giovani ne fanno, anche parecchie. C’è un po’ di tolleranza su questo, fa parte della politica di lasciare qualche spazio minimo di libertà, una modica quantità di briglia sciolta almeno nelle case. Per essere ancora più sicuri, però, in questi casi, è meglio allungare una mazzetta sottobanco al poliziotto di turno. Funziona così.
Viene fuori che i ragazzi possono uscire, le ragazze solo di nascosto. Mi torna in mente un passo del libro che sto leggendo in questi giorni, “Leggere Lolita a Teheran”, di Azar Nafisi. Racconta di una professoressa che, di nascosto, fa lezione di letteratura in casa a un gruppo di ragazze, le conforta e le sprona a leggere libri proibiti. C’è un pezzo in cui lei e le ragazze si confrontano sui loro sogni, e scoprono che tutte hanno sogni ricorrenti in cui sono senza velo in situazioni pubbliche, per propria volontà o per un incidente casuale; allora si sentono in pericolo, braccate dai guardiani della rivoluzione, e scappano, senza sapere dove. “Sogni illegali”, li chiamano. Quante cose sono ancora sogni illegali, per queste ragazze.
Ci interessa, su questo, sentire anche l’opinione dei ragazzi: per esempio, sposerebbero una ragazza che esce di nascosto? Che magari ha già avuto un ragazzo? Ovviamente, c’è un po’ di imbarazzo. La zia ci guarda un po’ in cagnesco. Il cugino, che fa palestra e si vede, ammette che non sposerebbe una ragazza che esce di nascosto e che potrebbe aver già avuto delle storie. Dice qualcosa tipo che non vorrebbe zappare un giardino che ha già zappato qualcun altro. È una frase che non vorresti sentire da un ragazzo, ma probabilmente questo retaggio culturale è duro a morire, a maggior ragione in questo paese. È anche una questione di reputazione, probabilmente. La reputazione è tutto, nessuno vuole che gli altri parlino alle sue spalle. Si può solo sperare, io ne sono abbastanza convinto, che non siano tutti così.

Come sempre anche loro hanno tante curiosità su di noi, e così anche qui facciamo un giro di presentazione e raccontiamo ciascuno due cose di sé stesso. La cosa che li incuriosisce di più, si capisce, è la nostra età. L’osservazione è, in genere, “Sembrate più giovani”. Non è solo l’aspetto, è anche quello ma più che altro li colpisce che persone che per loro hanno… be’, diciamo, una certa età (mi ci metto anch’io) abbiano ancora voglia di scoprire il mondo e si siano imbarcate in un viaggio comunque abbastanza impegnativo, in un paese lontano, di cui tanti hanno paura. Per loro viaggiare è ancora una cosa non comune anche da giovani, figuriamoci quando giovani non si è più o lo si è… diversamente.
Intanto, cominciano i preparativi per la cena. Questa volta la cena non è a buffet ma… a pic-nic. Che non si fa solo su un prato, sull’asfalto, sul cemento, ovunque. Un’altra abitudine iraniana che abbiamo scoperto è che, se ci sono tante persone a cena, si prende una bella tovagliona, la si butta sul pavimento e si fa pic-nic… in salotto. Ho saputo che in queste occasioni a volte spunta anche qualche bottiglia di alcolici, ma stasera no. C’è il riso con polpettine, e la crosta di riso. Ci sono le immancabili melanzane, il pollo e l’insalata di Shiraz (stasera abbiamo scoperto che ci si mette anche del succo d’uva non ancora matura).
Gli iraniani dell’Italia conoscono l’arte, l’archeologia, forse un po’ la cucina, e il calcio. Il calcio soprattutto, che in genere (almeno i maschi) conoscono meglio dell’arte e dell’archeologia (temo che qui quello che non è islamico si studi poco), è spesso un buon argomento con cui cercare di entrare un po’ in sintonia. Va così anche col padrone di casa, che avendo sentito che sono di Milano mi chiede: “Sei dell’Inter?”. Inorridisco. “No no, Milan! Milan AC.” “E il Real Madrid? Ti piace?”. Inorridisco di nuovo. “No, in Spagna tifo Barça.” Troviamo una specie di accordo solo sul Manchester United. Ci tiene a dire che lui ha giocato a calcio, e anche lo zio. Poi mi fa vedere sul telefonino foto di altri gruppi, e singoli, che ha ospitato. Parecchi italiani, e francesi. Finché spunta una foto di lui con un gruppo di amici iraniani che hanno appena fatto pic-nic in salotto, proprio come noi, e fumano il narghilè. Mi chiede se lo conosco e rispondo di sì, che ho già avuto occasione di fumarlo in Marocco, in Turchia e in Palestina. Bene, dice, allora poi ci facciamo una fumatina. Provo a chiedergli se è religioso praticante, ma non capisce la domanda o preferisce far finta di non capire. L’argomento in effetti è delicato e la domanda era troppo diretta, lascio subito cadere il discorso.

Tutto il cibo è davvero ottimo, e come sempre in grande quantità. È impossibile non avanzare qualcosa. Vorrei però far sapere alla cuoca che abbiamo davvero apprezzato. In queste occasioni nel mondo arabo si usa dire Hamdulillah, che letteralmente significa “Dio sia lodato” ma si usa in un’infinità di situazioni, quando sei contento perché qualcosa ti è andato bene, quando ti stanno trattando bene e vuoi esprimere soddisfazione e gratitudine. Chiedo ad Alì se si usa anche qui. “Si usa ma non è una parola nostra” mi risponde. Deduco che forse è meglio non usarlo e mi unisco semplicemente all’applauso.
Ci rilassiamo sui cuscini dopo l’abbondante cena e, come promesso, arriva il narghilè. Il padrone di casa e Alì aprono le danze, poi a turno in diversi ci facciamo qualche tiro. Quando arriva il mio turno, però, faccio un po’ fatica, il fumo non viene su bene. Non ci faccio una gran figura, dopo che ho fatto l’uomo di mondo, ma sono abituato col bocchino e senza ho un po’ di problemi a prendere confidenza con l’attrezzo. Alla fine ce l’ho fatta, comunque, bene o male. Marco ha una disinvoltura e un’eleganza decisamente superiore. Del resto, mi ha raccontato che da giovane ha passato un lungo periodo in Algeria, dove ha lavorato all’ambasciata italiana e dove ha rischiato di essere rimandato a casa per aver partecipato a una serata organizzata dal Polisario, il movimento del popolo Saharawi per la liberazione del Sahara occidentale dall’occupazione marocchina (che ancora continua, tra l’altro).
Alla fine anche l’ineffabile zia ci ha provato a fare la guastatrice, ma non è riuscita a fare più di tanto.
Anche qui la bella serata si conclude con sorrisi e foto di gruppo, poi si va via. Domani mattina presto dobbiamo partire per Yazd.

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(continua…)