Capitolo 5: Kashan e Qom
Coloro che indossano il saio, nel nome di Dio, lascia stare,
e mostralo, il volto, a chi nulla possiede ma ha gioia ribelle!
In quelle tonache, invero, è sozzura abbondante:
quant’è più beata la veste di quanti dispensano vino!
Tu di certo non puoi tollerare, ché sei di natura cortese,
la noia gravosa che dà una congrega di tonache rudi.
L’osservi tu stesso, a che cosa conduce un inganno bigotto:
ricolme, le brocche, del sangue d’un cuore, i liuti che piangono tristi.
M’hai fatto ubriaco. No, no, non sparir proprio adesso!
Dolce ambrosia mi desti: ora forse tu m’offri veleno?
Non mai scorsi un dolore sincero nei sufi che fingon sé stessi.
Sia tersa sempre la gioia di quelli che bevono il nero del vino!
Scotta, il cuore di questo poeta, sta’ attento,
nel petto suo che qual pentola bolle e ribolle.
(Hafez, Divan 379)
Venerdì 13 aprile 2018
Oggi comincia il lungo viaggio che ci riporterà a Teheran, il che purtroppo significa che cominciamo ad essere agli sgoccioli. Ma stasera arriveremo a Kashan, che non si può considerare una semplice tappa di avvicinamento. È una città che ha parecchie attrattive. E anche per arrivare lì, faremo una tappa interessante nel villaggio di Abyaneh, sui monti Zagros.
Lungo la strada, ai piedi di spettacolari montagne, Alì ci mostra una centrale nucleare. Viene immediato pensare all’accordo sul nucleare iraniano, e a tutto quello che si porta dietro. E chiedersi se anche qui non ci sia in corso qualche esperimento di tipo non proprio… civile.
Su un picco, in lontananza, si vede il mausoleo che Shah Abbas fece costruire per il suo falco.
Abyaneh è un piccolo villaggio situato a 2200 m di quota, ai piedi del Monte Karkas alto 3899 m, in una vallata con caratteristiche geografiche che hanno mantenuto questo villaggio pressoché isolato fino ad oggi. Ci troviamo 30 km a ovest della strada che unisce Esfahan a Kashan, nei dintorni di Natanz. Qui sorge questo antico villaggio fatto di case multipiano in argilla e legno, tra il rosso e il color ocra, con porte e finestre dalle belle forme geometriche. Oggi Abyaneh ha un centinaio di abitanti, prevalentemente anziani, ed è conosciuta in tutto il paese per la sua storia e le sue tradizioni.
L’abitato è orientato a est in modo da beneficiare del maggior numero di ore di sole e ridurre gli effetti dei venti invernali. Il villaggio ha 2500 anni di storia e ha preservato la sua cultura, che tuttora si manifesta in forme diverse, attraverso i costumi, il dialetto e le tradizioni. È stato registrato come patrimonio nazionale nel 1973, mentre il dialetto e le cerimonie tradizionali come la processione con la nakhl, la palma di Hosein, sono registrati come eredità culturale intangibile dal 2013.
Noi arriviamo in tarda mattinata, nel pieno di un giorno di festa (oggi è venerdì), e ce ne accorgiamo subito dal numero di turisti che affollano le stradine. Forse troppi, si perde un po’ l’atmosfera. Ma non possiamo farci niente. Tra questi, attira la nostra attenzione un gruppo di ragazze della scuola coranica della città santa di Qom, tutte in chador nero. Anche loro, però, ci salutano e ci sorridono. Qualcuna parla inglese, e scopriamo che vengono anche dall’estero, dal Belgio per esempio. La scuola di Qom è molto prestigiosa, probabilmente le famiglie iraniane religiose che vivono all’estero ci tengono a mandare lì le figlie.
Abyaneh si caratterizza per il colore ocra delle case, legato al terreno ricco di ossidi di ferro. Le abitazioni sono costruite con mattoni crudi, ottenuti da un impasto di acqua, paglia e terreno argilloso. Finestre e balconi mantengono ancora l’antico stile di un tempo.
Il villaggio è noto anche per i colorati costumi tradizionali indossati dalle donne del paese, le cui origini sono molto antiche. Una donna di Abyaneh indossa di solito una lunga sciarpa bianca (che copre le spalle e la parte superiore del tronco), sopra un vestito molto colorato con la gonna sotto il ginocchio. Il dialetto del popolo di Abyaneh ha conservato alcune caratteristiche dell’antica lingua dell’Impero dei Medi, ormai scomparsa in tutto il paese.
Una fortezza sasanide domina il borgo poco distante dal paese, mentre al suo interno si trova il Santuario di Zeyaratgah, con una vasca per le abluzioni. È presente anche l’antichissimo tempio del fuoco zoroastriano Harpak, che dovrebbe risalire all’era Achemenide (550-330 a.C.), rinnovato in epoca sasanide.
Dal 1995 è in corso un programma di restauro delle case, alcune delle quali sono in cattive condizioni. A partire dal giugno 2005, il villaggio è stato sottoposto anche a scavi archeologici.
Noi abbiamo un’oretta per passeggiare liberamente per queste stradine strette e ripide, arrampicate sulla montagna. Per Rita, la fotografa del gruppo, è un’altra occasione di sbizzarrirsi alla ricerca di un’inquadratura irripetibile. Quasi ad ogni angolo di strada donne in costume tipico espongono e vendono un po’ di tutto. Non mancano, però, anche le grandi foto dei martiri.
Sarebbe bello, forse, godersi la passeggiata in un clima più tranquillo e più vicino a quella che deve (o dovrebbe) essere la vita quotidiana del villaggio. Per contro, però, non mancano le occasioni di incontro con qualcuno dei tanti turisti iraniani che affollano il villaggio. Io ed Elena, per esempio, ci fermiamo cinque minuti a parlare con Sara, una ragazzina che non avrà più di quindici o sedici anni, e con il suo fratellino Arash, che ne ha circa dodici. Sono di Esfahan. Dopo le prime classiche domande (di dove siete, dove siete stati in Iran, vi piace il nostro paese), lei ci mostra sul telefono una foto del mausoleo di Hafez e da lì partiamo: le racconto che anche noi ci siamo stati, che mi è piaciuta molto l’atmosfera di quel luogo e che sto imparando ad apprezzare la poesia di Hafez. Lei sorride e, in un buon inglese, ci tiene a dire che ama molto Hafez e che ha partecipato a delle gare di poesia che fanno a scuola: dice che le fanno in quasi tutte le scuole del paese. I ragazzi devono recitare a memoria più poesie possibili; prendendo la parola o la sillaba finale della prima poesia, devono trovarne un’altra che cominci in quel modo, e così via. Poi ci dice cose belle di Kashan, che sarà la nostra prossima tappa, e ci racconta che suo fratello porta il nome di un eroe persiano, un mitologico arciere. La salutiamo perché dobbiamo andare, tra poco abbiamo appuntamento per il pranzo in un ristorante di Abyaneh, appena fuori dal centro storico.
A pranzo, come è ovvio, si parla di Siria e Iran, ma anche del nostro viaggio che volge alla fine: stiamo tutti realizzando che oggi è il penultimo giorno. Affiorano le prime tristezze, e si comincia a pensare a quello che ci aspetta al ritorno. Vanda, che oltre ad essere una grande cantante è una delle due psicologhe del gruppo, insieme a Rita, è un po’ preoccupata per i suoi pazienti. Il suo è sicuramente un mestiere delicato, non può assentarsi per troppo tempo. Ma tutti, chi più chi meno, abbiamo qualcuno o qualcosa a cui tornare, anche se qui stiamo bene.
Dopo pranzo si riparte e, nel tardo pomeriggio, raggiungiamo Kashan.
Kashan, situata a 1600 m di quota, è la prima di una serie di grandi oasi lungo la strada che porta da Qom a Kerman, al margine dei grandi deserti centrali dell’Iran. Il suo nome deriva dalla parola kashi che significa piastrella. Ha circa 250.000 abitanti.
I rinvenimenti archeologici sulle collinette di Tepe Siyalk, 4 km ad ovest di Kashan, rivelano come questa sia stata una delle prime zone di civilizzazione nella preistoria; i reperti la fanno risalire a 8000 anni fa. Manufatti del sito si trovano al Louvre, al Metropolitan Museum di New York e al Museo Nazionale dell’Iran a Teheran. Kashan risale al periodo elamita e nei sobborghi si erge ancora uno ziggurat che risulta essere più antico di quello di Ur.
Il terremoto del 1778 rase al suolo la città e gli edifici safavidi facendo 8000 vittime, ma Kashan si è rinnovata ed è oggi un punto focale d’attrazione turistica con le sue case storiche del XVIII e XIX secolo, esempi di architettura residenziale persiana tradizionale e dell’estetica Qajar.
Noi prendiamo alloggio all’hotel Noghli, che è ricavato in un’antica dimora tradizionale. Il pullman non può arrivarci, dobbiamo scendere e addentrarci a piedi nei vicoli della vecchia Kashan. La casa non è forse bella come quella di Yazd, e non è tenuta altrettanto bene, ma è sicuramente suggestiva. Le scale con i gradini alti, qui come in altre case antiche, creano qualche disagio, ma abbiamo scoperto che servivano per impedire agli scorpioni di entrare. Mentre arriviamo inizia a piovere forte, quindi ci chiudiamo nelle camere fino all’ora di cena.
Stasera ci attende l’ultima serata in famiglia. Arriviamo in pullman fino alla periferia della città, sotto una pioggia battente. Questa volta, curiosamente, a riceverci ci sono solo donne. Gli uomini non possono, o non vogliono, partecipare.
Anche qui ci apparecchiano un pic-nic in… salotto con ogni ben di dio. Dopo cena si chiacchiera, con le ragazze che, senza uomini, sembrano divertirsi come matte. Noi facciamo il solito giro di autopresentazione, ormai siamo allenati. Una delle prime domande che ci fanno è, come sempre, l’età. Le colpisce sempre molto vedere persone che dimostrano, sia per il fisico che per lo spirito, meno anni di quelli che hanno all’anagrafe. Sottolineano questa cosa con grandi sorrisi di approvazione e anche con qualche applauso, prima timido poi, visto che anche noi ci divertiamo, più convinto. Qui, poi, sullo spunto fornito da alcune delle donne del nostro gruppo, parte un giochino che consiste, sostanzialmente, nel cercare di indovinare loro le nostre età e noi le loro. Anche questo le diverte molto. Vorrebbero sapere anche cosa significano i nostri nomi. I nomi iraniani, infatti, nella maggior parte dei casi, hanno un significato, o almeno riprendono i nomi di personaggi della storia o della mitologia persiana. Per noi, cerchiamo di spiegare, non sempre è così. Io forse sarei uno dei pochi il cui nome ha un significato: Piero, in fin dei conti, deriva da Pietro, quindi roccia, solidità. E poi San Pietro, l’apostolo più vicino a Gesù. Potrei citare Gesù quando disse: “Tu sei Pietro, e su questa pietra costruirò la mia chiesa”, ma al momento purtroppo non mi viene in mente.
Comunque la serata è molto piacevole. Arriva anche una giovane mamma che, con molta naturalezza, permette alle signore del gruppo di spupazzarsi un po’ la sua bambina di pochi mesi. Si crea, come sempre, un bel clima. Vorrebbero anche far vedere un album di foto di un matrimonio, ma solo alle donne del gruppo. Nelle feste di matrimonio, donne e uomini stanno in due sale separate, e le donne, quando sono tra loro, si tolgono il velo. Per questo noi uomini non le possiamo vedere. Sarebbe un’altra bella occasione per capire ancora meglio cosa pensano, forse tra donne si creerebbe una sorta di intimità e si lascerebbero andare a qualche confidenza, ma è il tempo che manca, alla fine.
Noi non vorremmo venire più via ma purtroppo s’è fatto tardi, sia per noi che, soprattutto, per loro, le donne della famiglia. Un gruppetto, per la verità, se n’era andato già prima. Ci hanno raccontato che andavano a una festa, ma alcuni tra noi sospettavano che dovessero invece tornare dai mariti…
Sabato 14 aprile
Questa notte aerei americani, britannici e francesi hanno bombardato la Siria. Sono stati colpiti un centro di ricerca a Damasco e un sito di stoccaggio per armi chimiche a Homs. Questo attacco sarebbe una ritorsione contro Assad per l’uso di armi chimiche in febbraio e, sembra, ancora pochi giorni fa nella Ghouta orientale. Pare che i russi siano stati avvertiti dell’attacco. Anche per questo non ci sono state vittime, perché i siti erano stati già svuotati ed evacuati. Del resto, che per combattere l’uso di armi chimiche si vada a bombardare un deposito pieno di armi chimiche provocando un disastro ambientale di proporzioni bibliche sarebbe abbastanza curioso. Sembra più un gesto dimostrativo. Insomma, ci sono un po’ di punti oscuri. Ci chiediamo come gli iraniani vivano queste notizie, e come gli vengano raccontate. Molti le avranno viste sulle televisioni straniere, via satellite (esiste perfino un canale della BBC in farsi). Le parabole sarebbero vietate, in teoria, ma guardando i tetti delle città iraniane se ne vedono eccome. E anche quelli che non ce l’hanno, per quanto ho capito, non danno troppo credito all’informazione di regime.
Ma oggi è un giorno di festa, una festa religiosa che ricorda il giorno in cui Maometto iniziò la sua missione profetica. C’è parecchia gente in giro in città, e il bazar è bardato a festa con bandiere verdi.
Noi iniziamo la giornata con la visita alla moschea di Agha Bozorgh, che è nelle vicinanze del nostro albergo. Ma prima dobbiamo caricare i bagagli sul pullman. Ciascuno di noi si è preparato, oltre al bagaglio, una borsa o uno zainetto, con la roba che può servire durante il giorno. Qualcuno se lo porta dietro per la visita alla moschea, e gli altri li lasciano qui insieme ai bagagli grossi (alcuni, dopo lo shopping compulsivo di Esfahan, lo sono diventati davvero); ci penseranno gli autisti a caricare.
La moschea di Agha Bozorgh, conosciuta anche come la moschea del nonno, è stata costruita alla fine del XVIII secolo dal maestro Ustaz Haji Sya’ban-ali. La moschea e l’annessa scuola teologica (madrasa) sono state costruite per la preghiera, la predicazione e le sessioni di insegnamento detenute da Molla Mahdi Naraghi II, noto come Agha Bozorgh.
Notevole per la sua conformazione simmetrica, la moschea si compone di due grandi iwan, uno davanti al miḥrab e l’altro all’ingresso. Il cortile ha una seconda corte al centro che comprende un giardino con alberi e una fontana. L’iwan davanti al miḥrab ha due minareti e una cupola in mattoni, famosa per la sua simmetria architettonica.
Disposta su quattro piani, la moschea comprende un grande cortile interno sottostante con vasca per le abluzioni. Oltre ai due minareti sono presenti anche dei badgir, le torri del vento alte e slanciate.
Si dice che il numero di borchie che decora la porta di legno d’ingresso corrisponda al numero dei versetti del Corano, mentre le pareti sono ricoperte da iscrizioni del Corano e mosaici.
Torniamo al pullman e Franca vuole verificare che sia stata caricata la sua borsa “piccola” per il giorno. Inizialmente non si trova, ci sono attimi di concitazione finché finalmente salta fuori un borsone nero di tela che sembra un po’ troppo grande per una borsetta da donna. Al che Marco se ne esce, nel suo stile, con la battuta: “Franca, ma questa è la tua pochette?”, che suscita l’ilarità generale del gruppo.
Il pullman ci porta a vedere il giardino di Fin (Bagh-e Fin), uno storico giardino persiano. Fu completato nel 1590 ed è il più antico giardino oggi esistente in Iran. Qui venne assassinato Amir Kabir, il primo ministro della dinastia Qajar ucciso da un sicario inviato dallo Shah Nasser al-Din nel 1852.
Successivamente il giardino soffrì di un lungo periodo di completo abbandono e venne danneggiato più volte fino a quando, nel 1935, è stato indicato come bene nazionale dell’Iran. Il 18 luglio 2012 è stato infine riconosciuto come Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco.
Alì ci spiega a modo suo la differenza tra il concetto di giardino occidentale e quello che rappresenta invece il giardino nella cultura persiana. Prima di tutto la parola bagh è una parola che viene dall’arabo; in persiano, già lo sappiamo, si dice pardis, da cui paradiso. Da voi in occidente, dice, il giardino può essere un giardino condominiale, o di quartiere, o un parco, che comunque deve rispettare certi standard. Ci sono labirinti, immagini leggendarie, statue, grotte e quant’altro. Da noi, invece, gli elementi fondamentali sono quattro: la recinzione (da fuori non si deve vedere niente), l’acqua, un padiglione e gli alberi, in questo caso alberi di cipresso. Un ambiente più essenziale, più naturale, creato per rilassare e dare una sensazione di pace.
Effettivamente è un po’ questo l’effetto che fa questo posto. Noi ci immergiamo in questa sensazione anche prendendo un tè o un caffè. Anche il ritmo con cui arrivano le ordinazioni, in tono con il clima generale, è molto rilassato.
Il giardino copre una superficie di 2,3 ettari e ha un gran numero di giochi d’acqua, alimentati da una sorgente ubicata sulla collina. L’acqua viene distribuita con un ingegnoso e sofisticato sistema di canali sotterranei, che senza bisogno di pompe sfrutta al massimo la portata della sorgente, i dislivelli e le pendenze per far arrivare l’acqua a sgorgare nei vari bacini.
Anche qui non mancano gli incontri. In particolare, c’è un gruppo di ragazzi molto simpatici e che parlano bene inglese, forse perché stanno facendo un MBA (Master in Business Administration). Uno di loro ha la carnagione più chiara e, se vogliamo, un aspetto poco “iraniano”. Viene dal nord e discende da una tribù di origine turca. Infatti, ci racconta, parla anche turco e quando parla farsi lo fa con un accento diverso da quello della maggior parte degli iraniani. Gli altri lo guardano, annuiscono e ridono, probabilmente lo prendono un po’ in giro per questo. Il giochino si autoalimenta perché tutti quelli che arrivano e lo vedono gli dicono: “Ma tu sei inglese?”, “Però potresti essere anche greco!”, “Ma anche italiano, allora!”. Lui si diverte ad essere al centro dell’attenzione e continua a rispiegare la storia delle sue origini, mentre gli amici continuano a ridere e a prenderlo in giro. C’è un bel clima di festa e di serenità, e forse davvero anche l’ambiente del giardino in questo aiuta.
Noi però abbiamo ancora altre visite in programma. Kashan offre parecchio, e il tempo che abbiamo non è molto. Stasera dobbiamo arrivare all’aeroporto di Teheran, e abbiamo in programma di fermarci anche a Qom.
Non possiamo partire senza aver fatto almeno un breve giro nel bazar, ma soprattutto senza aver visto due belle dimore storiche. La prima è Casa Tabatabaei, che venne costruita verso il 1880 per la ricca famiglia del mercante di tappeti Seyyed Ja’far Tabatabaei.
Questa residenza è celebre per i raffinati stucchi dei suoi interni e i rilievi in pietra, nonché per le vetrate colorate e gli specchi. Si compone di quattro cortili, il più grande dei quali ha una vasca con una fontana, diverse pitture murali e include altre caratteristiche classiche dell’architettura residenziale tradizionale persiana, come il biruni (ossia una zona esterna adibita allo svago e agli ospiti), il daruni (la zona interna dove vivevano i membri della famiglia e il proprietario) e il khadame (gli alloggi della servitù).
Uscendo da qui, lo sguardo ci cade su un manifesto. Ci sono delle scritte in farsi che non riusciamo a decifrare, ma appare chiaro che ad essere rappresentata è la ragazza arrestata nello scorso dicembre per essersi tolta il velo in pubblico e averlo sventolato come una bandiera. È sull’orlo del precipizio della corruzione, e dietro di lei a spingerla ci sono il grande satana americano (rappresentato proprio da un diavoletto con la testa a stelle e strisce) e i soldi degli inglesi. Davanti a lei una parabola tenuta da una mano con una manica su cui c’è la bandiera israeliana, forse a dire che anche l’odiato nemico sionista beneficia della rappresentazione mediatica di un Iran dove le donne protestano. Insomma, il messaggio è palese: dietro a quella ragazza e alle proteste ci sono i nostri nemici di sempre, non fatevi ingannare. Non credo che una cosa del genere possa funzionare, è troppo forzata e la semplificazione è quasi infantile. Però è chiaro che la Suprema Guida, l’ayatollah Khamenei, raffigurato nella foto in alto a destra, ci prova.
La seconda residenza storica da non perdere è Casa Borujerdi, che fu costruita nel 1857 dall’architetto Ustad Ali Maryam per la moglie di Sayyed Jafar Natanzi, un ricco mercante di tappeti. La moglie proveniva dalla famiglia benestante Tabatabaei (proprietari della casa Tabatabaei); quando si innamorò di lei, Sayyed le fece costruire questa casa per assolvere le condizioni imposte dal padre, il quale voleva che la figlia vivesse in una dimora degna di quella da cui proveniva.
L’edificio si compone di un bel cortile rettangolare e di tre torri del vento, alte 40 metri, che svolgono un’efficace funzione di raffreddamento.
La casa dispone di 3 ingressi, e ha anche questa tutte le caratteristiche classiche dell’architettura residenziale tradizionale persiana, come la corte biruni (cortile esterno) e il giardino daruni (cortile interno). Nel cortile è presente una vasca con fontana alla cui estremità si apre un iwan con sala di ricevimenti decorata con elementi a muqarnas, specchi e vetrate.
Per costruire la residenza furono necessari 18 anni, durante i quali lavorarono 150 artigiani. L’edificio ospita oggi il Kashani Culture & Heritage Office.
Anche questa casa, come quella precedente, è affollata di gente, soprattutto iraniani, che girano per le stanze e i cortili, guardano, si fanno i selfie, cercano forse semplicemente di apprezzare il bello e respirare un po’ d’aria di festa. Molte donne indossano foulard firmati di grandi marche europee. Intorno alla vasca, alcune ragazze si adornano il capo velato con coroncine di rose. Kashan è la città delle rose, come Shiraz, ma con ancora più convinzione di Shiraz cerca di accreditarsi come tale. Tantissimi negozi, praticamente tutti, vendono acqua di rose e/o olio di rose, molti anche sacchetti di petali di rose seccati.
Andiamo a pranzo. Dopo quello che abbiamo mangiato ieri sera, molti vorrebbero fare un pranzo leggero; abbiamo detto diverse volte, in questi giorni, che sarebbe stato meglio mangiare leggero, anche solo frutta e verdura. Alessandro, che è stato il più assiduo nel dichiarare questa intenzione, è stato nominato per questo “Ministro della frutta e verdura”. Ma niente, anche oggi non ce la facciamo. Il ristorante ha annessa, manco a dirlo, una profumeria che vende oli ed essenze varie estratte dalla rosa, ma anche dal gelsomino. E qui, sorpresa: la commessa altri non è che la giovane mamma di ieri sera! Che, ovviamente, ci riconosce e ci accoglie con calore.
Dopo pranzo partiamo in pullman verso Qom, la città santa. L’accesso è interdetto ai pullman turistici, quindi dobbiamo parcheggiare e prendere un autobus locale, con il quale entriamo in città e che ci porta fin quasi all’ingresso del grande santuario.
Qom fu il cuore della Rivoluzione iraniana e rimane tuttora uno dei luoghi più conservatori del paese. È stata la residenza di Khomeini che per un periodo, dopo la rivoluzione del 1979, ha guidato l’Iran proprio da questa città. Ancora oggi Qom attira studiosi e studenti sciiti da tutto il mondo, oltre a migliaia di pellegrini.
Il santuario di Fatima al-Ma’sumeh è considerato per i musulmani sciiti il secondo luogo più sacro in Iran dopo Mashhad. Fatima era la sorella dell’ottavo Imam Ali al-Rida e la figlia del settimo Imam Musa al-Kazim. Nell’islam sciita, le donne sono spesso venerate come sante se sono parenti strette di uno degli imam duodecimani. Sì, insomma l’Islam sciita si conferma una religione… familista. Anche se la teologia sciita afferma formalmente che i parenti degli Imam, gli Imamzadeh, sono in possesso di uno status inferiore a quello degli Imam, nello sciismo popolare ancora si venerano fortemente gli Imamzadeh. All’interno del santuario sono anche sepolte tre figlie del nono Imam Muhammad al-Taqi.
La moschea è costituita da una camera sepolcrale, tre cortili e tre grandi sale di preghiera, per un totale di una superficie di 38.000 m2.
Fin dall’inizio della storia di Qom nel VII secolo, la città è stata associata allo sciismo e considerata un “luogo di rifugio per i credenti”. Dopo la morte di Fatima al-Masumeh e la costruzione del suo Santuario, gli studiosi cominciarono a riunirsi a Qom e la città guadagnò la sua reputazione per l’insegnamento religioso.
Fatima morì a Qom nell’816 d.C. viaggiando per raggiungere il fratello, l’Imam Alì al-Riḍa di Khorasan. La carovana venne attaccata a Saveh, e 23 membri della famiglia vennero uccisi. Fatima fu poi avvelenata, si ammalò e chiese di essere portata a Qom, dove morì.
Lo stile del Santuario si è sviluppato nel corso dei secoli. In un primo momento, la tomba era coperta da un baldacchino di bambù. Cinquant’anni dopo, fu costruito un edificio a cupola più durevole.
Nel 1519, Taj Khanum, la moglie di Shah Ismail I, fece impreziosire il Santuario con un iwan e due minareti, e ricostruire la camera di sepoltura con una cupola a ottagono. Durante la dinastia safavide, le donne della famiglia furono molto attive nell’abbellire il Santuario.
Dal 1795-1796, Fath-Ali Shah Qajar convertì due cortili safavidi in un unico grande cortile e, nel 1803, creò la cupola dorata, ricoperta con 190 kg d’oro. La gran parte di quello che si vede oggi è una struttura abbastanza recente, della prima metà del XX secolo.
Con la rivoluzione iraniana, Qom prese ancora più importanza come “luogo di nascita” di questo movimento. Khomeini ha studiato a Qom e vi ha vissuto all’inizio e alla fine della Rivoluzione. Khomeini ha anche ampliato il Santuario, aggiungendo più spazio per i pellegrini. Inoltre, la tomba di Khomeini utilizza elementi architettonici che sono simili a quelli del Santuario di Fatima al-Ma’sumeh, come la cupola dorata.
Gli Sciiti comunemente fanno un viaggio di pellegrinaggio ai santuari degli Imamzadeh perché ricercano cure per i loro disturbi, e soluzioni ai problemi, nonché il perdono dei peccati. Molti hadith, o insegnamenti, proclamano che coloro che fanno un pellegrinaggio al Santuario di Fatima al-Ma’sumeh saranno “certamente ammessi al cielo.”
L’economia di Qom fa affidamento su questo pellegrinaggio per il turismo che porta, e la città si è mantenuta conservatrice per garantire un ambiente pio per i pellegrini. Molti miracoli sono stati registrati in questo santuario, e sono documentati in un apposito ufficio all’interno del complesso. I pellegrini al Santuario seguono rituali tramandati da secoli, come il lavaggio rituale, il vestirsi con abiti profumati, ed entrare nel sito con il piede giusto.
Noi, anche qui come nel santuario di Shiraz, entrare nella moschea non possiamo, con nessuno dei due piedi. L’ingresso è vietato ai non musulmani. Ma possiamo entrare nel complesso e visitarne i cortili ammirando dall’esterno la magnificenza degli edifici.
E anche qui le donne devono mettere il chador, come a Shiraz un chador bianco a motivi floreali. L’ingresso per le donne è separato, entrano passando da una tenda blu, come fosse un sipario, e riappaiono “purificate”.
Per la visita, abbiamo a disposizione la nostra “Guida Suprema”, un giovane mullah che ci accompagnerà e sarà pronto a rispondere alle nostre curiosità. Si chiama Mohammad, ha 23 anni, la barba non troppo lunga per non incutere timore e il turbante bianco. Non è discendente, quindi, del suo illustre omonimo, almeno per ora. Se diventasse ayatollah, forse… una parentela anche alla lontana si fa sempre in tempo a trovare, credo. È sorridente e gentile nei modi, parla in un buon inglese con toni felpati, anche quando fa affermazioni decise, e gesti morbidi. Tutto in lui sembra costruito per dare agli stranieri l’immagine di un Islam dal volto umano, in contrasto con quella che passa nei media che alimentano la paura. Evidentemente è stato scelto per questo, sta studiando e lo sta facendo con impegno.
Ci racconta che è al sesto anno della scuola coranica, dove generalmente si entra dopo la scuola superiore ma a volte, come nel suo caso, anche prima. Scherza un po’ sul vestito da mullah che si è potuto comprare una volta raggiunto questo grado di studi e ci parla della scuola di Qom, che è un centro di eccellenza per gli studi coranici, oltre che essere il secondo luogo santo per gli sciiti. Al piano terra ci sono le classi, al primo e secondo piano i dormitori e le altre parti comuni. Gli studenti dormono all’interno della scuola soltanto se non sono sposati, altrimenti dormono fuori. Ci sono anche studenti stranieri che arrivano da 120 paesi, Italia compresa.
Richiama la nostra attenzione sulle bellezze architettoniche, prima di tutto la cupola dorata e poi il muqarnas luccicante che può sembrare argento ma in realtà è un mosaico di specchi. “Fatima al Ma’sumeh era la sorella dell’ottavo Imam, per noi è come la vostra Maria” – ci dice.
Il santuario, secondo Mohammad, attira dieci milioni di pellegrini ogni anno. I visitatori non musulmani, invece, sono 2000 al mese. Gli chiedo se esistono dati su quanti dei visitatori musulmani sono sciiti, perché vorrei capire quanto sia profonda la divisione anche nella possibilità di accedere ai luoghi santi. In Iran, va detto, ci sono chiese armene e sinagoghe, ma non ci sono moschee sunnite. Mi risponde che è impossibile dirlo con esattezza, perché non viene chiesto ai visitatori musulmani se siano sunniti o sciiti (ed è una risposta che ci sta), ma è sicuro che ci siano anche sunniti. Noi abbiamo visto due persone che dall’abbigliamento sembravano decisamente arabi, secondo lui hanno l’aspetto di arabi americani. Ma potrebbero essere arabi sciiti, non vuol dire. Mohammad ci ricorda, comunque, che anche “noi cristiani” abbiamo avuto guerre tra cattolici e protestanti, e non c’è il minimo dubbio. Dice che in tutte le religioni ci sono estremisti, ma i veri credenti perseguono come primo obiettivo la pace.
Nel frattempo ci concede, sempre con i suoi modi affabili, di fare una foto di gruppo con lui. Sicuramente è abituato a queste richieste, quindi le previene.
Alessandro chiede quanti degli 80 milioni di iraniani sono musulmani. Mohammad dice che sono praticamente tutti, è normale che sia così in un paese che da più di mille anni è un paese islamico. I non musulmani sono pochi, non arrivano al milione (il dato forse è un po’ sottostimato, ma anche questo ci può stare, da parte sua). Precisa, poi, che i visitatori non musulmani non sono ammessi nella sala di preghiera perché in passato, quando l’accesso era consentito, non erano abbastanza rispettosi. Anche ai musulmani, ci tiene a dire, non è consentito entrare con macchine fotografiche. È il luogo che lo richiede. Sì, solo che dare per scontato che un non musulmano non possa essere rispettoso non è il massimo, ma è inutile dirglielo. Alessandro lo incalza anche sulle motivazioni dell’intervento iraniano in Siria e lui non si fa pregare: Quando dei musulmani, o (azzarda) anche dei non musulmani, hanno bisogno di aiuto, è nostro dovere intervenire, contro gli estremisti. In effetti semplifica un po’, ma è così che in Iran viene presentata la cosa: Assad è il re buono che protegge il suo popolo, chi lo avversa sono gli integralisti di Daesh, o ISIS, IS, come vogliamo chiamarlo. L’Iran non è presente solo in Siria, ma anche a sostegno dei ribelli Houthi (sciiti) nello Yemen, teatro di un’altra guerra dimenticata che sta creando una delle situazioni umanitarie peggiori al mondo.
Qui la nostra guida si lascia prendere dalla discussione e va un po’ oltre, affermando che gli ayatollah iraniani sono da 40 anni un esempio di bontà e di saggezza per tutto il Medio Oriente. Alessandro non molla l’osso e chiede: “Ma allora perché un ayatollah iraniano non fa una pubblica dichiarazione contro Daesh, dicendo che viola i principi dell’Islam, come ha fatto il Gran Muftì d’Egitto, che è la massima autorità dell’Islam sunnita?”. La risposta, in sostanza, è che non ce n’è bisogno, perché nessun ayatollah iraniano ha mai ucciso nessuno, o predicato odio e violenza. E qui ci sarebbe molto da dire, ma servirebbe a poco. Tra l’altro, la nostra guida, gentilmente, ci sta accompagnando verso l’uscita, facendoci capire abbastanza chiaramente che il tempo che aveva da dedicarci è finito. È stato un confronto interessante, comunque.
Un confronto che, ancora una volta, ci fa capire quanta strada ha ancora da fare questo paese per liberarsi della teocrazia. Certo, Alì Khamenei è anziano e malato, ma anche quando non ci sarà più lui è difficile immaginarsi un cambio repentino di prospettiva. E cosa succederà, poi, con l’uscita degli USA dall’accordo sul nucleare iraniano? Difficile da dire, ma il rischio è che porti a un ritorno indietro, a una nuova fase di chiusura.
Da Qom, ormai, ci dirigiamo verso l’aeroporto di Teheran. Domani mattina prestissimo abbiamo il volo di ritorno. Resterebbe da raccontare una cena e una brevissima notte all’Ibis dell’aeroporto, ma credo proprio che non ne valga la pena. Non aggiungerebbe niente al racconto, che è già fin troppo lungo.
Sarebbe il momento di fare una sintesi conclusiva, ma sarebbe davvero impegnativo provare a riassumere in poche righe un viaggio così. Sono troppe le impressioni, le sensazioni, le voci, le immagini che ti restano, a volte contrastanti. È inevitabile che sia così, in un paese così complesso e per di più così grande (5 volte e mezzo l’Italia): in dieci giorni effettivi di viaggio abbiamo visto forse le città più importanti, ma ci manca molto altro. Abbiamo avuto l’opportunità di andare un po’ al di là della superficie, grazie all’insostituibile Alì e agli incontri che abbiamo avuto. Abbiamo scoperto che c’è un abisso tra la propaganda antioccidentale del regime e come la gente si comporta con gli occidentali, nella realtà quotidiana. Uno dei tanti paradossi iraniani è proprio questo, che il grande orgoglio nazionale spesso convive con un atteggiamento molto filooccidentale. Ma non è certo abbastanza per dire di conoscere l’Iran. E per di più io il dono della sintesi proprio non ce l’ho, l’avrete già capito se avete avuto la pazienza di leggere fin qui. Anzi, proprio per questo vi devo ringraziare di averla avuta.
Quale sarà il futuro dell’Iran, sia nel breve che nel lungo periodo, in questo momento ben pochi sono in grado di prevederlo, e io non sono certo tra questi. Preferisco lasciare il compito di concludere a quello che ormai è il mio poeta persiano di riferimento, Hafez. E non abbiate paura, questa sarà sicuramente l’ultima volta che lo citerò. Ma se leggerete questa poesia, credo che penserete anche voi che è stata scritta sette secoli fa ma, incredibilmente, sembra scritta oggi.
Tu lo sai quel che van declamando, e l’arpa, e il liuto?
Di nascosto bevete, altrimenti è scomunica certa!
No, non dite la cifra d’amore, e no, non l’ascoltate!
È difficile storia davvero che vanno narrando.
Cancellan la legge d’amore ed il lustro d’amanti,
al giovane pongon divieti e al canuto rampogne.
Ci ingannaron, qui fuori, in ben cento maniere diverse:
chi può dire che cosa decidan laggiù, al di là di quel velo?
[…]
Su uno stabile mondo non devi pertanto contare,
ché questa è officina ove mutano sempre le cose.
Versa vino, ché il prete e il poeta e il muftì e il censore,
se bene osservi le cose, son tutti finzione e null’altro.
(Hafez, Divan 195)
Come sempre grazie, mamnoun, mersi a Radio Popolare e a ViaggieMiraggi per l’organizzazione.
Grazie a Marco per come ha guidato il gruppo con innata eleganza e con illuminata (quasi persiana) regalità.
Grazie ad Alì per aver ispirato il titolo di questo racconto e molto di più: per tutta la sapienza e l’umanità che ci ha regalato.
Grazie a tutte/i quelle/i che mi hanno fornito delle belle foto (vedi sotto) e degli spunti, e grazie a tutto il grande gruppo degli iranisti provvisori.
Photo credits (in rigoroso ordine alfabetico): Alberto, Alessandro, Franca, Luigina, Rita, Vanda.
Caro Piero, sei diventato un giornalista. Stai facendo dei viaggi meravigliosi e sconosciuti, e descrivi ogni tappa. Ciao
"Mi piace"Piace a 1 persona
Piero, hai finito il racconto del nostro meraviglioso viaggio. Abbiamo aspettato le singole puntate con la sicurezza che tu ci avresti ricordato le tappe con accuratezza sotto tutti i punti di vista. Ti ringraziamo e mi raccomando di informarci sui futuri viaggi che farai sia per leggere le tue “guide” sia, chissà per farli insieme. A presto per la rimpatriata a Inverigo, dove con gioia incontreremo te e quasi tutti i partecipanti.
"Mi piace"Piace a 1 persona
Che dire? Grazie a voi. E’ stato un piacere anche per me ripercorrere tutte le tappe. Futuri viaggi? Bè’, ne ho uno in programma nel nord della Romania a metà giugno, ma credo che ormai purtroppo sia chiuso. Vi terrò informati sui prossimi… e per leggere quello che scrivo, se volete si può diventare follower del mio blog cliccando sul pulsantino “Iscriviti”, ovviamente è aggratis, e si riceve una mail ogni volta che pubblico qualcosa. A prestissimo 🙂
"Mi piace""Mi piace"
davvero affascinante il tuo racconto, quanto ad Israele il legame è complesso, la comunità ebraica iraniana in realtà è molto folta ma non condivide le idee sioniste, https://it.wikipedia.org/wiki/Ebrei_iraniani
"Mi piace"Piace a 1 persona
Grazie dei complimenti, prima di tutto. Quella che fai è una considerazione interessante. In effetti una delle cose che mi sarebbe piaciuto chiedere al rabbino di Esfahan, se ci fosse stata l’opportunità di incontrarlo, era proprio come vedono il sionismo
"Mi piace""Mi piace"