Lunedì 20 settembre 2021

Oggi si va alla scoperta di Fiume (Rijeka), la città forse più di tutte storicamente “contesa” tra quelle di quest’area geografica e quindi una città con una storia complessa e ricca di sfaccettature. La visiteremo in compagnia dello storico locale Ivan Jeličić.
Rijeka non è propriamente Istria, pur essendo all’Istria molto vicina. A differenza di gran parte della costa istriana o delle isole del Quarnero, la sua storia è slegata dalla Serenissima: a partire dal quindicesimo secolo diventa infatti dominio degli Asburgo (assieme a parte dell’entroterra istriano). Poco più di un borgo sino alla metà del settecento, si trasforma nei decenni successivi in una città moderna e multiculturale, propaggine marittima della mitteleuropa danubiana e porto principale dell’Ungheria. Assieme a Jeličić cammineremo per la città rintracciandone memorie materiali e immateriali, dal periodo austro-ungarico al travagliato ventennio interbellico sino alla Rijeka della Jugoslavia socialista e a quella contemporanea.
A guidarci nel percorso ci sarà anche l’app mobile “Rijeka-Fiume in flux”, nata all’interno dell’omonimo progetto di ricerca internazionale (di cui fa parte lo stesso Jeličić) teso a indagare gli effetti sulla città di Fiume dello spostamento del confine tra Jugoslavia e Italia dopo la Seconda Guerra mondiale. L’app mobile è frutto del lavoro pluriennale del team di ricerca: itinerari tematici, schede di approfondimento e materiale d’epoca accompagnano l’utente tra periodi storici, fatti e luoghi più o meno conosciuti del novecento fiumano. Il nome “Rijeka in flux” gioca ovviamente sul nome della città, che contiene già in sé il concetto dello scorrere, del flusso, al quale si associa il fluire degli eventi storici. Accanto all’app mobile, è stata sviluppata anche una mappa interattiva nata da un percorso di crowdsourcing che ha visto coinvolti, accanto ai ricercatori, alcuni “cittadini scienziati” (in particolare studenti e persone anziane che hanno messo a disposizione le proprie storie personali).
Il nostro percorso con Ivan inizia dal cimitero, e non deve stupire troppo che sia così, in una città dove anche la memoria è stata ed è spesso contesa. Fuori, una lapide ricorda il luogo dove nel settembre 1944 vennero fucilati 16 partigiani. La stella rossa ben in evidenza fa capire che risale al periodo jugoslavo. Ma il fatto che sia scritta anche in italiano e i nomi dei caduti, che sono italiani, croati e anche persone probabilmente con identità “mista” (nome italiano e cognome croato) dà una prima idea della complessità fiumana. L’intento di una lapide bilingue era probabilmente di far capire che la comunità italiana aveva tutte le possibilità di rimanere viva e di mantenere la propria identità, anche pubblicamente e politicamente, all’interno della nuova Jugoslavia socialista.
Questa lapide è interessante – dice Ivan – anche perché pare che sia una delle prime, se non la prima, lapide eretta a Fiume dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il bilinguismo è anche da collegare al fatto che in quel momento la comunità italiana era molto numerosa a Fiume. Ma sono importanti anche le parole usate: non si parla tanto di “lotta popolare di liberazione”, che era la terminologia ufficiale usata dalla Jugoslavia socialista, ma queste persone vengono inserite nella lotta per la causa del proletariato di tutto il mondo, quindi in un contesto internazionalista, elemento che più tardi andrà a scomparire. Si sottolinea anche l’unità dei croati e degli italiani per la solidarietà internazionale della classe lavoratrice, che è un elemento che caratterizza tutto il primo periodo del secondo dopoguerra. La lapide inizialmente era stata posta su uno dei muri del cimitero, poi rimossa negli anni ’90 anche per il cattivo stato di conservazione, ed è stata recentemente restaurata e ripristinata.

Negli anni ’90, con la Croazia indipendente, sono state diverse le memorie cancellate o diventate controverse: i martiri dell’Olocausto, ad esempio, nel periodo jugoslavo erano considerati parte della lotta di liberazione, successivamente no.
Nell’area metropolitana di Fiume oggi vivono circa 200.000 abitanti; la comunità italiana conta circa 10.000 persone, di cui 2000 a Fiume città.
All’interno del cimitero, dove sono ancora visibili alcune tombe ebraiche che appaiono peraltro in stato di abbandono, ci fermiamo davanti al monumento ai granatieri dell’esercito italiano della Prima guerra mondiale. Ivan spiega che è importante perché si inserisce nel contesto del primo dopoguerra in cui, dopo il 1918, diventa fondamentale creare una nuova narrazione di Fiume città italiana. In questa nuova narrazione lo spazio per chi aveva combattuto nelle file dell’esercito austroungarico era pressoché nullo (i caduti finiscono in un ossario comune), ma i granatieri diventano un simbolo chiave perché, all’interno delle truppe di occupazione, sono un corpo che si distingue per essersi molto affratellato con i cittadini fiumani. I granatieri, nel luglio-agosto del ’18, sono costretti ad andarsene da Fiume perché il contingente italiano è stato ridotto. Di quel momento sono celebri le immagini delle donne fiumane che chiedono ai granatieri di rimanere, immagini che faranno anche molto parte della retorica della celebre “impresa” fiumana di D’Annunzio; è con D’Annunzio, infatti, che i granatieri torneranno a Fiume.

L’impresa di Fiume fu un episodio del periodo interbellico, che consistette nell’occupazione della città di Fiume, contesa tra il Regno d’Italia ed il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, da parte di reparti ribelli del Regio Esercito italiano. L’intento fu quello di proclamare l’annessione della città all’Italia forzando in tal modo la mano ai delegati delle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale, all’epoca impegnati nella conferenza di pace di Parigi. La spedizione fu capeggiata dal poeta Gabriele D’Annunzio e organizzata da una coalizione politica guidata dall’Associazione Nazionalista Italiana, cui parteciparono esponenti del Mazzinianesimo, del Futurismo e del Sindacalismo rivoluzionario. L’occupazione iniziò il 12 settembre 1919 e durò 16 mesi con alterne vicende, tra cui la proclamazione della Reggenza italiana del Carnaro. Quando i ribelli si opposero al Trattato di Rapallo, il governo italiano sgomberò la città con la forza durante il “Natale di sangue” del 1920 per permettere la creazione dello Stato libero di Fiume, che era appunto sancita dal trattato.
Nell’ambito della Reggenza Italiana del Carnaro fu promulgata la Carta del Carnaro. La politica dannunziana a Fiume, anche per via di alcuni tentennamenti, non fu univoca. L’obiettivo di partenza era il ricongiungimento di Fiume all’Italia, ma vista l’impossibilità di raggiungere tale obiettivo si tentò di costituire uno stato indipendente fondato sui valori del sindacalismo rivoluzionario. La Carta del Carnaro contiene in effetti elementi di corporativismo, ma è fondamentalmente nazionalista.
Quello passato alla storia come il Natale di sangue (definizione dello stesso D’Annunzio) è lo scontro finale, iniziato il 24 dicembre, tra i legionari dannunziani e l’esercito italiano. Di fronte alla resistenza dei legionari, che si opponevano con mitragliatrici e granate, la Marina ebbe l’ordine di bombardare le posizioni ribelli. Le batterie della Andrea Doria bombardarono anche il palazzo del Governo, sede del comando di d’Annunzio. Il bombardamento proseguì fino al 29 dicembre e provocò morti e feriti anche tra la popolazione civile.
Il 31 dicembre 1920, d’Annunzio firmò la resa che portò alla costituzione dello “Stato libero di Fiume”. Nel gennaio 1921 i legionari cominciarono a lasciare la città su vagoni ferroviari predisposti dall’esercito. D’Annunzio partì il 18 gennaio, trasferendosi a Venezia.
Se ne è parlato, con Ivan, a proposito del luogo che si decise di trovare, alla fine, per onorare la memoria dei caduti di entrambe le parti. Tra il 1921 e il 1924, data della definitiva annessione all’Italia, Fiume resta indipendente. Le elezioni per l’Assemblea Costituente vengono vinte dal blocco autonomista, ma le schede vengono bruciate dai nazionalisti e dai fascisti. L’assemblea viene in qualche modo convocata, ma dopo un paio di mesi c’è un colpo di stato con cui la minoranza assume il potere; seguono scontri tra nazionalisti ed esercito italiano. Le persone morte in questi incidenti, che rientrano comunque tutte in una sorta di pantheon della causa di Fiume italiana, nel 1930 vengono sepolte in un ossario in cui ci sono sia legionari che reparti dell’esercito italiano morti durante il Natale di sangue, i morti del giugno del ’21, i morti del colpo di stato del ’22, soldati italiani morti durante la Prima guerra mondiale prima seppelliti in cimiteri limitrofi. Vi verrà poi sepolto anche un caduto della guerra civile spagnola, ovviamente di parte fascista.
Su D’Annunzio a Fiume ha scritto delle belle pagine Antonio Scurati nel suo libro “M – Il figlio del secolo”, il primo nel quale ha analizzato e raccontato la figura di Mussolini. Se non l’avete letto, ve lo consiglio.
Un altro personaggio di cui ci ha parlato Ivan è Bruno Mondolfo, un eroe fiumano morto negli scontri del 1921 di cui un reparto della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, a Fiume, continuò a portare il nome anche dopo il 1938, anno di promulgazione delle leggi razziali in Italia, nonostante fosse ebreo. Secondo Ivan questo fa capire quanto la componente ebraica sia stata integrata nel mondo fiumano di inizio ‘900.
Ci spostiamo davanti al Palazzo del Governatore, costruito tra il 1893 e il 1896, che all’epoca rappresentava il potere centrale ungherese. Costruito simbolicamente in cima a una collina, più in alto del palazzo del Comune, divenne un luogo conteso dopo il collasso dell’autorità ungherese a Fiume nel 1918 e poi, fino al 1945, fu sempre sede dell’autorità politica più importante. Dopo un breve periodo di occupazione da parte dei croati in nome della nascente Jugoslavia, ci fu l’occupazione italiana (il contingente italiano era il più numeroso tra quelli che componevano il comando interalleato che presidiò la città dal novembre 1918 all’agosto 1919 e che comprendeva anche reparti francesi, inglesi e statunitensi); D’Annunzio risiedeva anche lui qui, ed è rimasta famosa l’immagine dell’Andrea Doria che bombarda questo palazzo. Nel periodo dello Stato Libero di Fiume c’era il governo, nel periodo fascista il prefetto, poi dal 1945 il palazzo perse la funzione di governo e divenne prima un centro culturale e poi museo della storia del litorale croato. Tutti questi passaggi di potere sono segnati anche dalla lunga sequela di simboli che si susseguono, dallo stemma ungherese a quello della città con la bandiera jugoslava, poi la stella italiana e la stella rossa jugoslava. Oggi non c’è più nessun simbolo.

Il Palazzo del Governo

Prima di imboccare il Corso, ci fermiamo per un caffè seduti ai tavolini all’aperto di un bar, ma anche qui Ivan non si sottrae alle domande. Si parla della pandemia in Croazia e in Slovenia, paesi dove le percentuali di vaccinati sono molto basse, e si mette in relazione la situazione attuale con la crisi economica che è iniziata già prima dello scoppio dell’epidemia di Covid-19. Oggi il salario medio in Croazia si aggira sugli 800 euro, ma anche la Slovenia con 1000 euro non sta molto meglio. Sul piano politico, però, in Croazia è nata una speranza di cambiamento legata ad un movimento civico che ha ottenuto risultati importanti ed è riuscito, almeno a livello locale, a scalfire la supremazia dell’Hdz, il partito che domina la politica croata dagli anni ’90, conquistando anche Zagabria alle amministrative di maggio. Tomislav Tomašević, politologo e militante ecologista di 40 anni, è stato eletto sindaco, andando così ad occupare il trono su cui sedeva quasi ininterrottamente dal 2000 l’eterno e controverso primo cittadino Milan Bandić, morto d’infarto nel febbraio 2021. La svolta è radicale, come raramente avviene in Croazia. Se Bandić era diventato per molti il simbolo di tutti i mali della politica croata (un governante di lungo corso, passato da sinistra a destra, coinvolto in innumerevoli scandali di corruzione e persino arrestato nel 2014, prima di essere rilasciato su cauzione), Tomašević si impone oggi con promesse di trasparenza, inclusione dei cittadini nelle scelte della città e grande attenzione per l’ambiente. La coalizione rosso-verde che lo sostiene, raggruppatasi attorno al movimento Možemo! (letteralmente, Possiamo!), potrà contare sulla maggioranza quasi assoluta dei seggi in consiglio comunale. A Fiume ha vinto invece un candidato del Partito socialdemocratico (SDP), come da tradizione, mentre in Istria la Dieta democratica istriana, da sempre unico protagonista della politica locale, ha perso Pola, passata nelle mani dell’indipendente Filip Zoričić, e Pisino, dove l’ha spuntata la candidata di Možemo! Suzana Jašić.

Se volete approfondire, qui potete leggere su OBC un articolo di una nostra… “vecchia” conoscenza, Giovanni Vale:

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/Croazia-svolta-elettorale-210954

Un altro landmark importante della città è il cosiddetto grattacielo fiumano, un edificio emblematico situato alla fine del Corso, costruito tra il 1939 e il 1942. Il progetto voleva riecheggiare i grattacieli americani, ma alcuni lo vedono come una reazione alla costruzione del centro culturale di Sušak ed è per questa contrapposizione che diventò “il grattacielo di Fiume”. Dopo la Seconda guerra mondiale, il nome di Tito campeggiava su tutti i balconi del grattacielo. Vicino al grattacielo, c’è anche il palazzo della Jadrolinija, la compagnia navale croata, con le allegorie dei continenti. In questa piazza si celebra la designazione di Fiume come capitale europea della cultura 2020 (non certamente l’anno migliore per esserlo).

Il grattacielo fiumano

Sono singolari anche i cambi di nome di alcune vie e piazze cittadine, di cui Ivan ci racconta: da Piazza Elisabetta a Piazza Togliatti, da Via Mussolini a Via Marx ed Engels, nomi che ovviamente hanno caratterizzato il periodo della Jugoslavia socialista. Con l’indipendenza croata c’è stata ovviamente una fase di sfogo di sentimenti anticomunisti e antiserbi. Ad esempio, la targa dedicata ad un poeta macedone è stata vandalizzata solo perché scritta in cirillico. A Fiume funziona ancora, peraltro, una chiesa serba ortodossa.

La chiesa ortodossa serba

Scendiamo verso il porto, dove Ivan ci parla della famiglia slovena Skull, che giunse a Fiume a metà dell’Ottocento e aprì una fonderia di metalli che lavorava per il porto quando Fiume era il porto dell’Ungheria. Un membro di questa famiglia è ricordato per aver creato una scultura in metallo dell’aquila bicipite, che è il simbolo per eccellenza dell’autonomia fiumana. Uno degli operai della fonderia morì come volontario irredentista dell’esercito italiano durante la Grande Guerra. Al porto c’era un monumento che onorava gli eroi della Prima guerra mondiale, con un enorme leone di San Marco e i versi di Dante «Sì com’a Pola presso del Carnaro, ch’Italia chiude e i suoi termini bagna» con i quali il Sommo Poeta situava proprio qui, nel golfo del Quarnaro o Carnaro, davanti a Fiume, il confine dell’Italia che si sarebbe compiuta solo con la Prima guerra mondiale.

Sulla torre civica, che separa la parte nuova della città, a pianta più regolare, dalla parte medievale, si può vedere scolpita proprio l’aquila bicipite fiumana, assegnata a Fiume nel 1659 dall’Imperatore Leopoldo I d’Asburgo, ma anche (più in basso, sul portale) quella asburgica. L’aquila bicipite fiumana si differenzia da quella asburgica perché le due teste guardano nella stessa direzione e non in direzioni opposte. Un’aquila a una testa sola svettò sulla torre dell’orologio dalla metà del XVIII secolo fino alla costruzione di una nuova cupola nel 1890, quando fu sostituita da una bandiera. Ciò portò al riaccendersi delle tensioni tra i sostenitori dell’autonomia comunale e il governo ungherese, gli uni a rivendicare l’uso della bandiera comunale mentre gli altri di quella ungherese. I “privilegi” di avere scuole italiane e di poter usare l’italiano come lingua dell’amministrazione, peraltro, esistevano già in quel periodo.
Nel 1906 venne realizzata l’aquila bicipite fiumana in metallo, finanziata dalle donne fiumane con una raccolta di fondi. Nel 1915, l’aquila a due teste iniziò a essere percepita dagli irredentisti locali come un simbolo problematico in quanto, anche nella versione fiumana, ricordava l’Impero asburgico. Il 4 novembre 1919, durante l’occupazione di Fiume guidata da Gabriele D’Annunzio, due “arditi”, incitati dal poeta, salirono sulla torre e recisero una delle teste dell’aquila (la testa mozzata è stata ritrovata quasi cent’anni dopo al Vittoriale). Simbolicamente, nella nuova Fiume italiana, l’aquila bicipite fu trasformata nell’aquila imperiale romana con una sola testa.
Nel 1949 l’aquila a una testa, già danneggiata, fu distrutta perché considerata molto probabilmente un simbolo borghese e imperialista, inadatto al nuovo paesaggio urbano socialista, ma fu reinserita nel 1998. Una nuova scultura d’aquila a due teste alta quasi due metri e mezzo e del peso di 270 chili, opera dello scultore Hrvoje Urumović, è stata posizionata nel 2017.

La torre civica

Il delta del fiume Eneo segna il confine tra Fiume e Sušak, che prima del 1918 era il confine tra due province dell’Impero e alla fine della Grande Guerra diventa il confine tra Italia e Jugoslavia, o meglio tra la città contesa, rivendicata da entrambi gli stati, e la Jugoslavia. L’élite fiumana vuole a tutti i costi avere il delta, anche perché ci sono i magazzini utili per l’attività del porto. Invece, in base al trattato di pace del 1920, il confine viene posto sulla sponda di Fiume, in modo che il delta è già Jugoslavia. In mezzo c’è un isolotto artificiale, per cui da questa parte non scorre più il fiume ma il cosiddetto “canal morto”, mentre dall’altra parte dell’isolotto, quella che dà sulla sponda jugoslava, c’è la fiumara. Questo confine in mezzo alla città fa di Fiume, secondo molti, la prima città divisa del Novecento.
Nel sito di quella che oggi è Piazza Tito fu costruito, nel 1926, un ponte per l’attraversamento del confine con valichi di frontiera e stazioni doganali su entrambi i lati, rendendolo un potente simbolo della divisione dello spazio urbano. Il ponte fu minato durante la Seconda guerra mondiale e infine distrutto nel 1945. I detriti furono eliminati dalle nuove autorità comuniste e nel 1946 fu messo a punto un nuovo progetto che combinava le funzioni di ponte e piazza, evidenziando simbolicamente la riunificazione dello spazio urbano.
È interessante anche un’altra storia che ci ha raccontato Ivan, quella delle Mlekarizze, ovvero le venditrici di latte, icone di un’epoca passata di Fiume. C’era una via del latte che scorreva dai pascoli di Grobnik fino al centro di Fiume e che si è prosciugata alla fine degli anni ’90, quando l’ultima delle mungitrici scomparve. Prima che gli autobus collegassero la città con il suo entroterra, queste donne si recavano in città a piedi, con percorsi lunghi fino a 15 chilometri all’andata e altrettanti al ritorno. Oltre al latte, portavano anche legna in città, per venderla come legna da ardere. E poi a casa, per la stessa strada. Mlekarizze è un’italianizzazione della parola croata mlekarice, che deriva da mlijeko, cioè latte.

A due passi dal delta c’è anche un’altra icona del tempo che fu, il monumento alla Vittoria (o alla Liberazione), alto 16 metri e situato nella parte superiore della penisola. Inaugurato il 3 maggio 1955, nel decimo anniversario della liberazione di Fiume, il monumento raffigura due partigiani che affiancano una donna raffigurante la vittoria, posta in cima a un obelisco di pietra bianca a forma di lettera T di Tito. I bassorilievi alla base rappresentano da un lato il terrore fascista (un villaggio in fiamme, civili imprigionati e un plotone di esecuzione) e dall’altro i risultati positivi raggiunti dalla nuova società socialista (donne impegnate in arti e mestieri tradizionali, uomini al lavoro nei cantieri navali cuore dell’economia fiumana). Lo scultore Vinko Matković progettò la scultura ispirandosi ai principi del realismo socialista. In tempi recenti, il monumento è stato purtroppo imbrattato con scritte pro ustaša (i fascisti croati, ndr).

Il monumento alla Vittoria

Il nostro giro con Ivan finisce davanti alla targa commemorativa in Piazza Tito, che ricorda la visita fatta da Tito a Fiume il 23 ottobre 1946. Fu la sua prima visita in città nel dopoguerra, e per l’occasione fu inaugurato il nuovo ponte costruito per ricollegare le due città di Fiume e Sušak, che sarebbero poi diventate una sola città. Un estratto significativo del discorso di quel giorno è stato inciso sulla targa:
“In questo luogo storico, il confine artificialmente eretto è stato cancellato per sempre. Siate uniti, vivete nella fratellanza, nell’armonia e nell’amore poiché tutto ciò è pegno della nostra prosperità. È la garanzia che ricostruiremo la Fiume distrutta, erigeremo le nostre fabbriche, le nostre scuole, le nostre istituzioni culturali, la nostra vita migliore e più felice”.
Tuttavia, la targa fu apertamente contestata da alcuni dirigenti italiani del Partito perché solo in croato e non bilingue, in un periodo in cui il bilinguismo visivo era ancora parzialmente applicato nella parte occidentale della città. Cos’era successo? Si era aperta la contesa su Trieste, che aveva creato difficoltà nei rapporti tra Italia e Jugoslavia, con ripercussioni anche sul bilinguismo visivo. Scomparirono la maggior parte dei cartelli e delle scritte bilingui, soprattutto nella parte della città non ex-italiana, e per questo motivo non venne incisa anche la traduzione in italiano della frase di Tito.

Nei mesi successivi cominciò l’esodo, con il quale la popolazione della città cambiò radicalmente. Secondo alcune stime, si sarebbe perso fino al 90% della popolazione pre-bellica della città, e non solo italiana: anche molti croati istriani lasciarono Fiume, sostituiti da persone provenienti da altre zone della Croazia e della Jugoslavia.
Alla fine del nostro tour, siamo tutti stupiti dalla bravura di Ivan. Devo dire che, senza nulla togliere agli altri giovani e preparatissimi ricercatori che abbiamo conosciuto in questi giorni, lui è forse quello che mi ha colpito di più per la competenza, ma anche per la capacità di comunicare quello che sa. Quindi il consiglio non può essere che uno: se volete andare a Fiume (e vale la pena), scaricate l’app Rijeka in Flux: non potendo avere lui, vi sarà utilissima e troverete sicuramente il vostro percorso.

https://rijekafiumeinflux.com/it/pagina-iniziale/#more

Noi, dopo un pranzo libero e rilassato a Fiume, ripartiamo verso il museo etnografico dell’Istria, allestito all’interno del castello di Pisino.
Il castello, costruito in una posizione strategica rilevante e vicino a una spettacolare foiba, nel corso del medioevo proteggeva le importanti vie di comunicazione che portavano dall’Istria occidentale all’Istria orientale. Il castello originario era una costruzione semplice e forte di forma rettangolare, con una torre quadrangolare adiacente e con le mura che racchiudevano anche la cappella della Madre di Dio con il suo campanile. Lungo i secoli successivi, in seguito a ristrutturazioni, adattamenti e aggiunte, l’architettura è diventata quella di un pentagono irregolare con le ali intorno al cortile interno. Le maggiori ristrutturazioni furono eseguite nel XV e nel XVI secolo; nel XIX secolo, con l’abbassamento della torre, questa fortificazione imponente e chiusa perse il suo caratteristico aspetto medioevale. Le sale espositive sono dedicate a: Architettura e arredo della casa, Economia, Produzione tessile, abbigliamento e calzature, il vestire e gli oggetti personali, Cultura sociale e spirituale, Migrazioni, Arte popolare.

https://www.emi.hr/it/

Finita la visita al museo, si torna alla base. Questa sera Davorka ci aspetta all’agriturismo per un laboratorio di cucina: dovremmo provare a fare, con le nostre mani ma partendo dalla pasta sapientemente stesa da lei, due tipi di pasta: i fuži, che sono simili a dei maccheroni fatti arrotolando dei rettangolini di pasta, e i pljukanci, che sono tipo trofie, per intenderci. Ma non è tutto: sempre sotto la sapiente guida di Davorka, col suo irresistibile istroveneto (è bellissimo sentirla passare dal croato a frasi come “I vol provar qualchedun? Fasso veder come che se fa”), dovremmo provare a fare anche dei dolci tipici istriani che si chiamano “Cukerančići” (per chi non mastica la grafia slava, si pronuncia Zukerancici). Sono dei biscotti molto semplici, usati tradizionalmente per i matrimoni e altre feste familiari. Sul territorio di Pisino e dell’Istria centrale, si evidenziano delle caratteristiche che giustificano il titolo “Pazinski” (di Pisino). Nella preparazione dei “Pazinski cukerančići” si usa tradizionalmente l’ammoniaca (al posto del lievito in polvere o sodio bicarbonato) e i “cukerančići”, dopo essere stati infornati si immergono nel vino (malvasia) e nello zucchero granellato (noi abbiamo fatto proprio così, infatti). Nelle altre parti dell’Istria i “cukerančići” si immergono invece nella grappa e nello zucchero a velo. I “cukerančići” di Pisino si riconoscono anche per la loro caratteristica forma ramificata. Dal 2018 sono dichiarati parte del patrimonio culturale immateriale della Croazia.
Alla fine ci siamo cimentati un po’ tutti (chi più chi meno), anche i più negati in cucina, e il risultato non era male, fidatevi. Anche se molti di noi, prima di mettere… le mani in pasta, avevano fatto almeno un paio di giri di grappa istriana che ci era stata offerta come benvenuto (o forse proprio per quello!). Personalmente mi sono limitato alla pasta, ho preferito lasciare i biscotti a mani più sapienti delle mie; ma vi posso assicurare che in quei pochi fuži e pljukanci ci ho messo tutto l’impegno…

Martedì 21 settembre 2021

La giornata inizia con un episodio piuttosto curioso: durante la colazione all’agriturismo, veniamo a sapere che in una delle camere è stato trovato un ghiro morto nel bagno: probabilmente è caduto nella tazza e non è riuscito più a uscirne. Non una bella fine, decisamente. Pare che fosse già stato avvistato ieri, e stando a quello che dice Davorka ogni tanto succede che, se si lasciano le finestre aperte, qualche animale entri nelle stanze; siamo veramente in mezzo al bosco. Dato che nessuno ha idea di come si dica ghiro in croato… o in istroveneto, ci è voluto un po’ per farle capire di che animale stiamo parlando, ma alla fine ci siamo riusciti. Lei non sa più come scusarsi per quello che pensa sia stato un fastidio, ma in realtà a noi dispiace più che altro per la sorte del povero roditore.
È anche il momento dei saluti, oggi purtroppo è il giorno del rientro e quindi dobbiamo accommiatarci da lei, da suo marito e dal simpatico cagnone Orso.


Ma prima di puntare dritto verso casa abbiamo ancora in programma una mattinata in giro per i borghi dell’Istria interna, che sarà una degna conclusione del viaggio. Ad accompagnarci avremo un’altra guida istriana di nome Vukica, che si può tradurre grosso modo come lupetta.
La prima tappa è Roč (in italiano si chiamerebbe Rozzo, ma forse in questo caso è meglio Roč), un piccolo villaggio di circa 150 abitanti frazione di Pinguente. La sua particolarità è di essere considerato un po’ la culla del glagolitico in Istria. Il glagolitico è il più antico alfabeto slavo conosciuto. Venne creato dal missionario Cirillo, insieme al fratello Metodio, intorno all’862-863 al Monastero di Polychron per tradurre la Bibbia e altri testi sacri in antico slavo ecclesiastico. L’alfabeto glagolitico ha circa 40 caratteri, a seconda delle varianti. 24 caratteri glagolitici sono derivati probabilmente da grafemi del corsivo medievale greco, a cui venne dato un disegno ornamentale. Una teoria afferma che l’alfabeto glagolitico fosse basato sulle antiche rune slave che, come le rune germaniche, venivano usate solo nei testi sacri della religione slava precristiana.
Attualmente il glagolitico è utilizzato nella liturgia in Croazia, mentre intorno al X secolo presso gli altri popoli slavi che ne facevano uso fu sostituito dalla sua derivazione, il cirillico.
Qui a Roč, su una parete della chiesa di Sant’Antonio, si conserva una piccola iscrizione in pietra, il cosiddetto alfabeto glagolitico di Rozzo creato verso l’anno 1200. La chiesa fu costruita nell’XI secolo in stile romanico. Su tre croci di consacrazione sulla parete meridionale vi sono graffiti del periodo tra il XIII e il XV secolo, di cui il più significativo è appunto questo alfabeto glagolitico.
Rozzo diede inoltre i natali a Juri Žakan, autore del primo libro stampato in croato (il messale del 1483).

Da Roč ci spostiamo a Hum (in italiano Colmo), che invece è nota qui come la cittadina più piccola del mondo, con i suoi 23 abitanti. Difficile dire se sia proprio la più piccola, ma noi l’abbiamo presa così, francamente non ho verificato la fondatezza del dato. Ad ogni modo, secondo la leggenda fu fondata da dei giganti ai quali erano rimaste solo poche pietre dopo aver costruito le città della valle del fiume Quieto. L’aspetto odierno, nelle linee fondamentali, risale all’XI secolo, quando fu costruito il castello, e ha subito dei cambiamenti significativi nel XVI-XVII secolo, sotto il dominio veneziano. Visto che a Colmo si svolgevano tutte le attività amministrative e pubbliche, e che aveva il proprio conte, la città ottenne già allora l’appellativo di “più piccola del mondo”, che si è tramandato fino ai giorni nostri: questa è la spiegazione più esatta di questo “titolo”. Insieme a Rozzo e a Pinguente, anche Colmo era uno dei centri principali dell’alfabeto glagolitico in Croazia. Nella chiesetta romanica di San Gerolamo, del XII secolo, si conservano alcuni affreschi di grande valore, e precisamente tre cicli: Annunciazione, Visitazione e Passione di Cristo, creati sotto forte influsso dell’arte bizantina.

La chiesa di San Gerolamo di Colmo

Lasciata anche Colmo, abbiamo un tratto da percorrere in pullmino un po’ più lungo e Vukica ne approfitta per insegnarci e farci cantare una vecchia canzone popolare istriano-dalmata che si intitola Kad si bila mala mare (più o meno: Quando eri un piccolo mare). Vi risparmio la “nostra” versione, ma se volete farvi un’idea è questa:

https://www.youtube.com/watch?v=2csvg7_zY4g

L’ultima tappa è Montona (Motovun), che invece in Istria è nota come la città del tartufo, e noi ovviamente siamo qui per questo. Ma prima, ci facciamo un bel giro. Il paese, abbarbicato su una rupe carsica a 277 m di quota, è una meta attrattiva per i suoi monumenti medioevali ben conservati e per il panorama sulla valle del fiume Quieto. La chiesa tardo-rinascimentale di Santo Stefano fu probabilmente progettata dall’architetto Andrea Palladio e contiene numerose opere d’arte: le statue di marmo di Santo Stefano e San Lorenzo di Francesco Bonazzo, i dipinti del Cenacolo sopra l’altare di un ignoto artista veneziano. Il palazzo comunale è il più grande edificio laico in Istria del periodo rinascimentale.
A testimonianza del lungo periodo di appartenenza alla Repubblica di Venezia, sono presenti nella cittadina di Montona ben tredici leoni alati. Di questi, solo un leone ha il libro di S. Marco Evangelista aperto sul “Pax Tibi” ed è rivolto verso il mare che i cartografi e gli storici chiamarono anticamente Golfo di Venezia. Gli altri dodici leoni sono con il libro chiuso e sono rivolti ad Oriente, in quanto per secoli Montona fu un baluardo veneto contro le aggressioni esterne. I leoni con il libro chiuso simboleggiavano appunto uno stato di guerra o di tensione, e sono quindi legati a periodi storici in cui il timore di attacchi dall’esterno era molto forte.
Montona, tra l’altro, ha dato i natali al musicista ed editore musicale Andrea Antico da Montona, vissuto tra il XV e il XVI secolo, e al pilota Mario Andretti.

La chiesa di Santo Stefano

Una leggenda locale, rappresentata anche da un dipinto murale, è quella di Veli Jože, protagonista di racconti popolari e motivi folcloristici. La leggenda è stata poi rielaborata nel 1908 nell’opera letteraria dello scrittore croato Vladimir Nazor, che racconta di un gigante buono diventato simbolo popolare di potere e di forza.

Ma abbiamo detto che siamo qui per il tartufo e quindi chiudiamo in bellezza con un pranzo a base di polenta e tartufi, annaffiati da un buon terrano istriano.

Così si chiude anche questo viaggio di fine estate in Istria che non ha certo deluso le attese, anzi. Pur essendo a due passi dal confine (o forse proprio per questo), la regione è ricchissima di storia e di storie: ha vissuto e ancora in parte vive molte controversie e contrapposizioni, ma mantiene un grande patrimonio di lingue e culture diverse, che soprattutto la comunità italiana fa di tutto per preservare, pur senza alcuna animosità nei confronti dei propri vicini di casa. Abbiamo scoperto (o avuto conferma, perché già si intuiva dalla lettura di Tomizza) che insieme e al di là delle singole identità esiste un’identità istriana che ne è la somma e la sintesi, e proprio per questo è particolarmente affascinante. Quindi che dire? Non posso che ringraziare chi ha seguito fin qui e consigliare una visita in Istria, c’è molto da scoprire.

Grazie a:
La comunità italiana di Matterada, il Forum Tomizza, l’Ecomuseo della Batana di Rovigno, Marino Budicin, Alessio Giuricin, Giovanni Vale, l’Ecomuseo di Dignano e in particolare Helena, Anita Buhin, Eric Ušic, Tullio Vorano, Ivan Jeličić.
E ovviamente, come sempre, grazie a ViaggieMiraggi-Confluenze a sudest, nella persona del nostro amato pusher di Balcani Eugenio Berra, e a tutte le compagne e tutti i compagni di viaggio con cui non vedo l’ora di ripartire di nuovo.

Un grazie particolare ad Antonella e a Piera per i video della nostra bitinada di Rovigno.