Crail, Scozia, Agosto 2002
Questo posto non è esattamente come me lo aspettavo. È questo che penso mentre guardo le poche barche malandate ormeggiate nel porticciolo di Crail. La Lonely Planet diceva che questo era un porto molto colorato e fotografato, il preferito dagli artisti… sì, è vero, diceva anche che ora ci sono meno barche da pesca di quante ce ne fossero un tempo (e lo vedo), ma che ciononostante si potevano ancora comprare aragoste e granchi freschi. Invece anche di quelli nemmeno l’ombra.
Tra l’altro, ricordo di aver visto una riproduzione di questo porto a Legoland, in Danimarca. Dove, per dire, non si trova Piazza San Pietro, o la Torre di Pisa…
Comincio a pentirmi di aver rinunciato agli eventi della giornata al festival di Edimburgo per venire fin qui. Siamo sulla costa orientale della Scozia, tra Edimburgo, appunto, e St. Andrews, che è stata la prima tappa della mia giornata. Ma anche lì, a dir la verità, niente di eccezionale. A parte che è la patria del golf, forse. Sembra che qui si giochi sin dal ‘400. Per gli amanti vale probabilmente la pena, ma io che ci sono andato a fare? Io odio il golf. Se c’è uno sport che non solo non mi diverte, ma mi irrita al solo guardarlo, è il golf. Del resto George Bernard Shaw disse: “Per giocare a golf non è necessario essere stupidi, però aiuta molto”.
Mi incammino piuttosto insoddisfatto per tornare alla fermata dell’autobus, in un tardo pomeriggio fresco e ventilato. Sulla strada entro in un market e mi compro una lattina di Tennent’s per ingannare l’attesa. Attraverso la strada e mi siedo su una panchina a pochi metri dal cartello della fermata.
Poco dopo arriva una signora sui 75 anni, con passo svelto. È vestita pesante per la stagione. Ha i capelli grigi ben pettinati, gli occhiali con la montatura stile anni ’60 e una borsa squadrata. Si piazza proprio di fianco al cartello della fermata. Mi lancia prima un’occhiata fintamente distratta, poi mi fissa un po’ e mi chiede:
“Stai aspettando l’autobus?”
“Sì” – rispondo.
“Allora non dovresti stare lì, la fermata è qui. Sai, te lo dico perché gli autisti vanno sempre di fretta, e se non vedono nessuno tirano dritto.”
Potrei rispondere che tanto c’è lei, o che la strada è dritta e non c’è quasi nessuno, per cui vedremo l’autobus quando sarà ad una distanza tale che avrò tutto il tempo di alzarmi e percorrere i 7-8 metri che mi separano da lei. Ma non mi sembra carino. Penso che forse ha solo voglia di chiacchierare un po’. Così mi alzo e mi avvicino.
“Tu non sei di qui, vero?” – mi chiede.
“No,” – confermo – “sono venuto a vedere il porto”.
“Eh, il porto… era molto più bello una volta, veniva molta gente. Adesso non è più così, turisti ne vengono pochi.”
“Lo vedo” – dico.
“Io sono di qui, invece, sai? Vivo in un piccolo cottage proprio qui vicino”.
Per dire piccolo usa un’espressione tipicamente scozzese: “A wee cottage”. Poi sorride: “Ma forse tu non sai cosa significa”.
“Oh si, lo so” le dico, anche se mi rendo conto di rovinarle un giochino collaudato che probabilmente usa mettere in atto con i turisti.
“E come lo sai?”
“Bè, è già più di dieci giorni che sono in Scozia, sa com’è… qualcosa si impara”.
È un po’ perplessa ma questo non frena la sua voglia di chiacchierare. Mi racconta di sé e della sua famiglia. Suo marito è morto dieci anni fa. Ha un figlio, che vive a Glasgow, e due nipoti, entrambi maschi. È un po’ preoccupata per il più grande, che ha 16 anni. Dice che studia poco e che secondo lei frequenta cattive compagnie. Colpa della madre, naturalmente, che non lo sa educare. Suo figlio, poveretto, lui è troppo preso dal lavoro. Ma il piccolo, che ha 12 anni, per ora cresce bene, è gentile, ubbidiente e studioso.
“Spero solo che non si guasti anche lui, sai, con l’esempio del fratello…”
Non so come, andiamo a finire a parlare del problema della casa a Glasgow. Mi spiega che c’è una grave carenza di alloggi con affitti a buon mercato, e molti hanno perso la casa. Le confermo che sì, io ho fatto solo due giorni a Glasgow ma, per quel poco che posso aver capito, ho visto parecchi homeless in giro. E poi ricordo di aver letto qualcosa in proposito.
“Letto qualcosa?” – mi fa – “E dove?”
“Sui giornali” dico io.
“Tu leggi i giornali scozzesi?” mi guarda stupita.
“Bè, sì” – rispondo – “quando sono in viaggio mi piace leggere i giornali del posto, se capisco la lingua ovviamente. Mi sembra di capire di più del paese che sto visitando, ma forse è solo un’impressione”.
A questo punto è sempre più incuriosita. “Ma tu di dove sei?” mi chiede.
Faccio per dire che sono italiano e subito mi interrompe:
“E dove hai imparato l’inglese?”
“Le basi a scuola” – dico io – “e poi l’ho un po’ migliorato viaggiando. Sa, io viaggio quasi sempre da solo, e così sono costretto ad usarlo. Non ho nessuno che parla per me. Credo sia molto utile per imparare, almeno per me funziona.”
“No” – scuote la testa – “tu mi prendi in giro, tu sei inglese”. Agita il ditino con aria di bonario rimprovero: “Non prendermi in giro, sai?”
Mi viene da risponderle che stiamo chiacchierando amabilmente, non vedo perché passare agli insulti così di punto in bianco. Lo ammetto, in generale non mi piace generalizzare (scusate il gioco di parole) ma per gli inglesi non ho grandissima simpatia. Però poi penso che non sono sicuro che capirebbe la battuta, anche se in quanto scozzese dovrebbe. Ma sto già rischiando, allora preferisco andare più sul tranquillo:
“Non mi permetterei mai…”
Mi squadra di nuovo e dice:
“Italiano… ma allora devi essere un meraviglioso cantante!”
“Ehm… cantante di opera intende, presumo.”
“Ma certo, di opera, come Pavarotti!”
“Sì” – cerco le parole – “bè, in realtà no, non so cantare… come dire, è un po’ un luogo comune… sarebbe come dire che tutti gli scozzesi suonano la cornamusa.”
Storce un po’ il naso ma forse l’ho convinta. Non volevo offenderla, anzi, mi fa anche un po’ tenerezza. È normale, probabilmente non è mai uscita dalla Scozia e poco anche dal suo villaggio, è già tanto che abbia associato istintivamente l’Italia al bel canto e non alla pizza, alla pasta o alla mafia…
“E allora cosa fai per vivere?” mi chiede.
“Sono un ingegnere” rispondo.
Agita ancora il ditino: “Non prendermi in giro!”
Passo mentalmente in rassegna il mio abbigliamento: scarpe da ginnastica, jeans scoloriti, maglietta del Fringe Festival di Edimburgo appena comprata ma già un po’ sgualcita e sudaticcia, cappellino verde militare, zaino e, giusto a completare il quadro, lattina di birra in mano. Deduco che sì, in effetti forse non è esattamente l’immagine dell’ingegnere che ha lei… e ora come faccio a convincerla? Provo a spiegarle che lavoro faccio?
Per fortuna l’autobus per Edimburgo arriva e mi toglie dall’imbarazzo. Ci sediamo vicini e continuiamo a chiacchierare. Idea. Apro il portafogli e le mostro la carta d’identità:
“Here. Ingegnere. Look, this is the italian word for engineer.”
Non sembra ancora del tutto convinta, ma mi sorride.
“Non so se mi hai convinta, ma sei simpatico. Ora, tra pochi minuti sono arrivata, ma mi ha fatto piacere parlare con te. Sai che farò? Stasera racconterò a mio marito che alla fermata dell’autobus ho conosciuto un ragazzo italiano molto gentile e simpatico, e che mi sono divertita a parlare con lui.”
“A… suo marito? Ma…”
“Lo so cosa stai per dire. Ma non era morto? Certo che lo è. Ma io parlo col suo ritratto, con la sua foto. Ci parlo tutte le sere, sai? Gli racconto come è andata la giornata, dove sono andata, cosa ho fatto, chi ho incontrato, tutto. Penserai che sono una vecchia un po’ matta, ma parlargli mi aiuta molto. Mi sembra di averlo ancora un po’ qui con me.”
Vorrei dirle che ho conosciuto scozzesi ben più matti di lei: non dimentichiamo che questo è il paese dove si fanno i Mars fritti, per dirne una… ma sorvolo.
“Non penso affatto che sia matta, signora, anzi: è stato un grande piacere anche per me parlare con lei.”
Mi fa un altro grande sorriso e poi, alla prima fermata, scende salutando l’autista.
Mentre l’autobus si allontana la guardo dal finestrino. Mi fa un cenno, rispondo al suo saluto e poi lentamente il mio sguardo si perde tra le colline ricoperte di erica. Cerco di immaginare come può essere il ritratto di suo marito. Penso che era un uomo fortunato, chissà se lo sapeva. E penso anche che fare incontri come questo è uno dei motivi per cui vale la pena di viaggiare.