Viaggio nella Cuba che aspetta la fine del bloqueo con un misto di speranze e paure

CAPITOLO II: Viñales, un assaggio di Cienfuegos e un primo approccio con Trinidad

01/01/2016 L’Avana – Viñales

Ultima colazione da Marisol. A noi dispiace, e da come ci saluta forse un po’ anche a lei.

Poi si parte per Viñales, ma prima dobbiamo passare dalla Plaza de la Revoluciòn, è un appuntamento anche questo che non possiamo mancare. Data l’ora e anche il caldo, l’enorme piazza è semideserta. In effetti è un po’ strano, oggi è anche l’anniversario della rivoluzione e mi sarei aspettato qualche festeggiamento ufficiale. Ma David ci spiega che non è mai stato uso celebrare questo anniversario, la vera festa è il 1° maggio.

Ci spiega anche il perché della scritta “Vas bien Fidel” sotto il volto di Camilo Cienfuegos nel secondo mural più famoso della piazza (dopo quello del Che, ovviamente). Durante un comizio tenuto dal lider maximo sulla piazza poco dopo la vittoria, Camilo comparve tra la folla e, dato che era amatissimo, venne immediatamente acclamato. Fidel, che aveva (e credo abbia ancora, anche se ormai compare in pubblico solo per le visite dei papi) un ego piuttosto sviluppato, si vide un po’ rubare la scena e, tra il divertito e l’indispettito, chiese a Camilo come stava andando. Al che Camilo rispose, appunto: “Vas bien, Fidel”. Vai bene, Fidel.

Il viaggio dura circa tre ore, ma passa bene, e il panorama, soprattutto nell’ultimo tratto che attraversa la valle di Viñales con i sui caratteristici “mogotes”, colline calcaree tondeggianti come enormi covoni di fieno, è bellissimo.

Viñales, nonostante sia ormai abbastanza frequentata da viaggiatori in cerca di una Cuba un po’ diversa, mantiene l’aspetto di un placido borgo di campagna, con tante casette basse e colorate. Si respira subito il ritmo tranquillo della vita contadina.

Appena arrivati, io e Giuseppe ci sistemiamo da Dalia e Millo. Millo è il cognome, lui si chiama Juan ma, come succede a volte quando hai un nome così comune, tutti lo chiamano per cognome. Avremo modo di scoprire tante cose su di lui, perché… bè, diciamo che non è esattamente un tipo riservato.

Scambiamo le prime parole mentre ci mostra la stanza, che è molto bella e quasi lussuosa, rispetto a quella dignitosa ma povera della vecchia casa di Nilda. C’è anche un salottino attiguo, con le tendine di pizzo alle finestre e i dondoli, che sono una vera mania a Cuba, come in molti paesi dell’America Latina. Ogni cubano/a che si rispetti deve potersi riposare, fumare il sigaro, guardare distrattamente la vita nella strada davanti a casa dondolandosi sulla sua mecedora.

Subito Millo mi chiede se sono spagnolo, o se ho origini spagnole; è una cosa che mi capita abbastanza spesso, come sempre rispondo di no ma spiego che ho amici spagnoli e argentini e che, insomma, mi tengo abbastanza in allenamento. Capisco subito che è un, piacevolissimo, gran chiacchierone e non gli pare vero trovare un italiano che lo capisce senza difficoltà e risponde a tono.

L’unico problema, in tutto ciò, è che noi abbiamo a disposizione solo un misero quarto d’ora per cambiarci e prepararci per l’escursione a cavallo verso una piantagione di tabacco. Cerco di farglielo capire in tutti i modi, ma come sempre faccio fatica a tagliare corto, mi sembra di essere scortese con una persona che ci accoglie così bene.

L’irreparabile avviene quando mi chiede che lavoro faccio. Faccio l’ingegnere, gli dico, e mi occupo di ambiente… comincia a dire che è bello, sì, ma si può pensare all’ambiente solo quando si hanno i soldi. Quando si è un paese povero, come noi, è difficile pensare all’ambiente. Il che, di per sé, è incontestabile. Ma da qui parte un excursus sul denaro che parte dall’antico Egitto, dove i faraoni si facevano seppellire con i loro beni più preziosi, passando per i romani, che anticamente pagavano i soldati col sale (da qui nasce la parola salario)… e chissà dove arriverebbe se non lo fermassi ricordandogli che dobbiamo andare. Ma non c’è niente da fare, non vuole assolutamente che ce ne andiamo senza aver bevuto un caffè, che è il SUO caffè, nel senso che è lui che lo produce. Ci mostra orgoglioso i chicchi ancora da tostare, mentre io e Giuseppe siamo sempre più nervosi, ancora prima di averlo bevuto, il caffè…

Quando finalmente riusciamo a staccarci, andiamo alla piazzetta dove ci siamo dati appuntamento col resto del gruppo per andare a pranzo, ma non c’è più nessuno. Ronald, che è rimasto lì, chiama David e mi dice che il gruppo è in un posto a 3 isolati, vicino al parco, così partiamo a passo sostenuto per cercare di raggiungerli. In realtà il posto è più vicino, ma passando di fretta dall’altra parte della strada non li vediamo… finchè tornando incrociamo David. Insomma, la cosa ci causa qualche affanno, perché non vorremmo perderci l’escursione.

Quando finalmente ci sediamo a mangiare velocemente un panino con gli altri, spiego il motivo del ritardo dicendo che il padrone di casa è molto gentile ma l’ha presa un po’ alla larga, è partito dagli egizi. La cosa suscita risate, ma in realtà è una battuta solo in parte.

Saliamo a cavallo. Per me è la prima volta, sono andato due volte “a cammello” ma non credo che sia la stessa cosa. Avevo anche una mezza idea di farla a piedi, dato che si parlava di un’escursione di 4 ore, ma quando la cosa viene ridimensionata, nel senso che non si tratta di 4 ore consecutive, decido di provare.

Ci divertono i nomi dei cavalli: il mio si chiama Negrito, anche se non è proprio nero. In effetti, nel gruppo ci sono due negritos. Poi abbiamo Caramelo per Alma, Cuba Libre per Franca, e non può mancare allora Mojito per Eddi. Quello assegnato a Elena si chiama Mujeriego, donnaiolo.

Le istruzioni che i nostri accompagnatori ci danno su come usare le redini per condurre i cavalli sono essenziali, ma sostanzialmente andando così al passo, nemmeno al piccolo trotto, sembrano funzionare. Mujeriego in realtà sembra avere più fame di… biada che di puledrine. Indifferente agli ordini, si ferma continuamente a mangiare, creando qualche volta degli ingorghi. Come se non bastasse, a Elena arriva anche un calcio su un piede da un altro cavallo, per fortuna leggero.

Ma poi, a un certo punto, succede un incidente un po’ più serio: Paola (la nostra Paola stavolta, non Paola di VeM) cade da cavallo! Forse un movimento sbagliato, chissà. Il cavallo si imbizzarrisce, lei ha tolto un piede dalla staffa… Per fortuna anche in questo caso niente di rotto, solo qualche escoriazione e un bel po’ di dolori, ma sarebbe del tutto legittimo che a questo punto non ne volesse più sapere. Invece lei, coraggiosissima, risale subito in sella senza fare un plissé e ripartiamo.

Del resto Paola è anche un medico, lavora al Pronto Soccorso del Fatebenefratelli: non si spaventa per così poco.

Intanto anche Laura, finita fuori dal sentiero tracciato con il suo cavallo, si trova in serie difficoltà.

Insomma, senza perdite ma con qualche ferito arriviamo alla famosa piantagione di tabacco. Ci accoglie Oreste, che ha un nome italiano ma per tutti è Palillo (stuzzicadenti), perché è piccolo e magro. Ci spiega nei dettagli tutto il processo: semina, raccolto, essiccazione, lavorazione. Poi proviamo i sigari, un po’ tutti atteggiandoci. Ma soprattutto Franca, la mamma di Daniela, già molto abbronzata e con gli occhiali da sole, seduta a fumare il suo sigaro sembra veramente una cubana. E pensare che è di origine tedesca…

Dovremmo ripartire per continuare l’escursione fino a una grotta dove si può entrare per fare il bagno, ma tra un ritardo e un incidente il pomeriggio è già inoltrato. È ormai chiaro che torneremo al buio. Decidiamo di dividerci: i più coraggiosi (e Paola, nonostante la caduta, è sempre tra loro, eroica) proseguiranno; gli altri, me compreso, torneranno subito verso Viñales, nella speranza di fare almeno un pezzo del tragitto con un po’ di luce.

Chi è andato alla grotta ci ha poi raccontato che, nonostante tutto, è andata bene. La grotta era buia, ma lo sarebbe stata comunque, e il ritorno è stato tutto sommato tranquillo.

Per noi un po’ meno, forse perché siamo di più e i due accompagnatori, separandosi il gruppo, si sono dovuti dividere. E per uno è più difficile controllarci: non può stare davanti e dietro contemporaneamente. Con noi c’è David, ma neanche lui ricorda esattamente la strada.

Il primo tratto, in effetti, lo facciamo ancora con la luce fioca del crepuscolo, ma ben presto scende la sera: è inverno anche qui, nonostante tutto. E dobbiamo affrontare un guado, dei tratti un po’ accidentati, salite, discese, nel buio pressoché totale. Qualcuno ha qualche torcia, ma pochi: nessuno ci ha pensato, onestamente. E anche se ce l’hai nello zaino, non è banale tirarla fuori. La cosa più pericolosa è passare nei tratti in mezzo al bosco, dove ci sono rami all’altezza della nostra testa. Cerco di stare basso, ma nonostante questo ci rimetto il berretto verde militare con la stella, quello classico, appena comprato ieri come souvenir. È durato un giorno. Peccato, ma non ci penso nemmeno a cercare di scendere per recuperarlo, sarebbe impossibile e ho tutt’altri problemi, in questo momento.

Hai voglia a pensare che il cavallo sa dove va. Forse sì, ma non lo sai tu. A me poi, in realtà, berretto a parte, va anche bene, perché il buon Negrito è docile e molto tranquillo, ma non per tutti è così. Il povero Giuseppe, che fin dall’inizio aveva non poche difficoltà a controllare il suo cavallo, adesso ne ha più che mai.

Il momento più critico viene quando arriviamo a un bivio: Giuseppe, Elena ed io siamo davanti. Il cavallo di Giuseppe va deciso a destra; Mujeriego, con Elena che cerca disperatamente di tenerlo, va a sinistra. Mah, forse anche loro non hanno le idee così chiare. Forse, col buio, vogliono andare a casa; infatti, vorremmo tenerli fermi in attesa che arrivi l’unica persona che sa la strada, ma diventa un po’ difficile. Mordono il freno, come si dice. Accidenti, mi sembra di parlare di veri purosangue…

Il cavallo di Giuseppe sarebbe sulla strada giusta, per fortuna, ma pensa bene di girarsi nel senso opposto. Parte qualche bestemmia, comprensibilissima, che per fortuna sento solo io, altrimenti un tipo che è l’immagine stessa della bontà come Giuseppe rischierebbe di rovinarsela, l’immagine.

Alla fine, dopo minuti che ci sembrano probabilmente più lunghi di quello che sono, la guida arriva e riporta bene o male i cavalli in fila e sulla strada giusta.

Un ultimo tratto dove, per essere sicuri, cerchiamo di tenerci in contatto a voce, dato che il cavallo di Giuseppe corre sempre più degli altri, e arriviamo, finalmente.

Sono quelle cose che, quando le vivi, ti sembrano più brutte di quanto lo siano in realtà, ma poi, man mano che sedimentano nella memoria, diventano solo piccole avventure belle da raccontare. E infatti, già ora, mi sono divertito a scrivere queste righe.

La sera, a cena da Dalia e Millo, con David che abita qui anche lui, ci godiamo una principesca aragosta per rifocillarci dopo le fatiche della giornata. Ma ci sono tante altre cose buone. Tutto è accompagnato, come sempre a Cuba, da generosi piatti di riso e fagioli neri. Alcune volte questo piatto è chiamato “Moros y Cristianos”. Ma noi che siamo guajiros (la parola cubana per contadini) lo chiamiamo Congrì, precisa Millo con aria solenne.

Dopo cena, andiamo a sentire un po’ di musica nella piazza principale. C’è un gruppo che suona salsa e reggaeton per i ragazzi; un altro fa dell’onesto son nel locale attiguo, che è comunque un posto popolare chiamato Polo Montañez in onore di un eroe guajiro locale.

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02/01/2016 Viñales – Cayo Jutias

Anche qui la colazione, che facciamo nelle nostre casas, è molto ricca.

Nella piazzetta dove ci troviamo per prendere il pullman c’è una lapide con la bandiera cubana, cinque nomi e in mezzo una stella con la scritta “Volvieron!” (sono tornati). È un omaggio ai cinque eroi, come li chiamano qui. Sono cinque uomini dell’intelligence cubana che sono stati in carcere negli Stati Uniti per anni, accusati di spionaggio, e che Obama ha liberato circa un anno fa nel quadro del processo di normalizzazione dei rapporti USA-Cuba.

Oggi ci dirigiamo verso la spiaggia di Cayo Jutias. La jutia è un roditore tipico di Cuba e soprattutto di questa zona, una specie di grosso topone. Ma in spiaggia non ce ne sono. La spiaggia è stupenda, almeno per me che, lo confesso, non avevo mai visto una vera spiaggia tropicale.

Il cayo è un piccolo isolotto coperto di mangrovie e collegato alla terraferma da una breve pedraplén (strada rialzata). Sono 3 km di spiaggia di sabbia bianca, che si possono percorrere a piedi nudi tra le mangrovie ammirando i colori del mare, che ha diverse gradazioni di turchese.

Qui siamo lontani dai grandi resort. La spiaggia è tranquilla e poco affollata, soprattutto in questa stagione. Per i cubani d’inverno non si va al mare, fa troppo freddo. Se si pensa che in questi giorni le temperature arrivano a superare i 30°, è l’ennesima conferma che tutto è relativo…

Un altro punto forte della spiaggia è il suo baretto, dove ci facciamo un panino allietati dalla musica di un gruppetto scalcinato ma simpatico. Un piccolo assaggio:

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Ma il vero personaggio di spessore è il barista, che fa una spettacolare Piña Colada. Varrebbe la pena già così, ma lui ci aggiunge un tocco di classe: il rabbocco. Sì, perché lui tiene sul bancone lo shaker ancora mezzo pieno e tiene d’occhio i bicchieri in modo che, quando cominciano a svuotarsi… tac, è subito pronto il rabbocchino. In pratica, al prezzo di 3 CUC che già sarebbe ridicolo per una, te ne puoi bere due! Andrebbe importato subito da noi.

Il posto è cosi gradevole che anche chi normalmente non è molto abituato a bere cocktail, soprattutto a pranzo… ne ordina un altro giro con disinvoltura.

Ci godiamo il relax sulla spiaggia, i bagni… Giuseppe, che è più avvezzo alle montagne e non è un grande nuotatore, ha diversi maestri (e maestre) improvvisati che fanno a gara per aiutarlo a vincere la sua diffidenza. Poi, come è suo solito, si dedica all’attività di flaneur, che resta la sua preferita, e percorre la spiaggia più volte in tutta la sua lunghezza.

Tornati a Viñales, dopo una doccetta e un breve riposino, ci troviamo in un bar segnalato da David per farci un’altra Piña Colada, se possibile ancora migliore della prima della giornata. Qui la particolarità è che il rum è a parte, così facciamo girare la bottiglia e ognuno può dosare a suo piacimento la parte “alcolica”… ma a dire il vero anche gli astemi o quasi, per una volta, fanno uno strappo più o meno grande alla regola.

Per cena stasera abbiamo come piatto forte il maialino avanzato da capodanno, che Dalia ci ha offerto un po’ timidamente ieri sera ma che abbiamo accettato con entusiasmo. Infatti, è ancora molto buono.

Ma soprattutto c’è Millo che tiene sempre banco. Stasera ci racconta in pratica tutta la storia della sua famiglia, che conosce a menadito. Il suo bisnonno, che era nato intorno al 1848, arrivò a Cuba dalle Canarie nel 1859. Io, che conosco bene Fuerteventura, vorrei sapere da quale isola, ma questo non me lo sa dire. Quello che è certo è che ci fu, in quel periodo, una vera e propria ondata migratoria dalle Canarie verso Cuba e Puerto Rico, che si verificò a causa di alcuni prolungati periodi di siccità con conseguenti carestie, aggravate dalle conseguenze della guerra tra Spagna e Marocco per il possesso di Ceuta e Melilla, che rendeva difficili gli scambi commerciali sia con il Marocco sia con la madrepatria. Per non morire di fame, molti canarios si decisero a migrare verso il nuovo mondo, portandosi dietro parole come guagua (ricordate?) e in generale la loro cultura.

Arrivato a Cuba, il giovane lavorò alla costruzione delle ferrovie, che furono le prime in America Latina. E qui, con sapiente colpo di teatro, Millo tira fuori da una credenza un vecchio chiodo arrugginito che sostiene sia stato usato per una traversina della ferrovia, di cui poi il bisnonno fu anche macchinista.

Ebbe una lunghissima vita e molti figli. Morì, sembra, a 112 anni. Anche qui, ci sono le prove: una vecchia foto in bianco e nero del vegliardo ormai ultracentenario negli anni ’50. Millo, che ha 67 anni, dovrebbe aver fatto in tempo a conoscerlo, da bambino.

Mentre ceniamo, sono presenti nella stanza tre generazioni: lui, il figlio Manuel e il nipote adolescente. Manuel, che è ingegnere informatico, sta cercando di riparare il caricabatterie del telefonino di Giuseppe. Sì, perché nel frattempo c’è stata anche quest’altra piccola sfiga: il caricabatterie non funziona. Così, mentre il vecchio conciona, il figlio è lì che salda, con gli occhiali protettivi, per provare a rifarlo funzionare. Purtroppo l’operazione non ha successo: servirebbe un diodo, che però dovrebbe andare a prendere al suo negozio a Pinar del Rio; ma è sabato sera, domani mattina noi partiamo e, come se non bastasse, lui non ha benzina nella macchina. Giuseppe decide, a questo punto, di regalargli il caricabatterie: per questi giorni si arrangerà in qualche modo.

Preferisce, invece, continuare a sollecitare Millo con domande, che io devo tradurre, per capire come ha scoperto le sue origini. È convinto in questo modo di rompermi le palle e quindi un po’ si trattiene, visto che a dire il vero il nostro anfitrione va a ruota libera anche senza bisogno di molte domande; ma in realtà io mi diverto un mondo.

Ero nervoso solo quando sapevo di avere pochi minuti prima dell’escursione, ma ora sono a mio agio. Con Millo e Dalia ormai ci diamo del tu, anche perché ho capito che loro lo preferiscono: se usi “usted” è come se percepissero non tanto rispetto, ma più freddezza, che è una cosa che ai cubani non piace mai. È un po’ diverso, rispetto a noi. Ogni tanto un usted mi scappa ancora, ma cerco di starci attento.

Sto veramente capendo, ancora più di ieri, che tipo è Millo. Lui, di base, è un contadino e un meccanico di trattori, e lo rivendica con orgoglio. Con Giuseppe sono riusciti anche a intavolare una conversazione sui motori, proprio quelli per i trattori. Ma ha comunque una cultura di base più che buona, frutto forse del sistema educativo cubano, che è il migliore dell’America Latina, e della sua grande curiosità. Ha voglia di sapere il più possibile, su tutto, e di sorprendere i suoi interlocutori. Mi racconta anche, ad esempio, che 2 o 3 anni fa, per pura voglia di imparare, si è messo a studiare inglese, e sostiene di averlo imparato in tre mesi. Del resto, l’ho visto di sfuggita sfoggiarne qualche parola con due ragazze australiane, oggi pomeriggio.

Mi fa venire in mente quella canzone di Guccini che parla dei saggi ignoranti di montagna, che sapevano Dante a memoria e improvvisavano di poesia. In fondo questi personaggi ci sono anche da noi, è che non sempre abbiamo la voglia di cercarli.

Anche Manuel si intende di motori. Ci racconta che ha montato sulla sua vecchia macchina americana un motore Peugeot, e che ha visto una Peugeot in vendita a 361.000 pesos cubani, quasi 14.000 euro. Dice che si tratta di una cifra sostanzialmente impossibile da possedere, legalmente, per la stragrande maggioranza dei cubani e si domanda quindi chi mai comprerà quella macchina. Che, infatti, rimane lì.

David invece, sempre per farci capire le differenze, ci parla dei costi di internet: qui devi pagare 30 CUC al mese per avere una connessione vecchia, lentissima, che esclude il telefono com’era da noi 20 anni fa.

Dopo cena facciamo ancora un giro nella piazza della musica, ma poi ci rintaniamo in un bar per l’ultimo cocktail della giornata.

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03/01/2016 Viñales – Cienfuegos – Trinidad

Seconda (e purtroppo ultima) colazione da Dalia e Millo. Tra le tante cose buone, qui, spicca l’ananas, dolcissimo e profumato, sia a fette che sotto forma di succo. Forse per questo la Piña Colada viene così buona.

Ma la colazione è anche l’occasione per gli ultimi fuochi di Miilo. Gli argomenti di conversazione sono i più vari, tutti magari appena sfiorati ma tanti. Quando stai cercando di rispondergli su un argomento lui è già passato a un altro, è fatto così. Alcune chicche in ordine sparso.

Arte italiana: non poteva mancare, in nostro onore. Ci lanciamo in un confronto tra Leonardo e Michelangelo, che lui chiama, naturalmente, Miguel Angel. La sua preferenza va a Leonardo, per il genio multiforme. Però certo che la Cappella Sistina… quello è un vero capolavoro. Qui Giuseppe si inserisce ricordando che noi, a Milano, abbiamo il Cenacolo leonardesco e rinfocolando quindi il dibattito. Non arriviamo a una parola definitiva su chi sia stato il più grande, anche perché nel frattempo, passando per Galileo, siamo arrivati alla Torre di Pisa. Cadrà, un giorno, o no? Gli spiego che alcuni anni fa è stata sottoposta ad un lungo lavoro di restauro e quindi conto che ancora per un bel po’ regga… almeno lo spero.

Il genio italiano, però, si è espresso anche attraverso il pensiero filosofico. Giordano Bruno, per esempio. Millo conosce la data esatta del rogo di Piazza Campo dei fiori: giorno, mese e anno. Un italiano che si rispetti, dice, non può non conoscere Giordano Bruno. Come un cubano non può non conoscere Josè Martì. Certo, qualcosa so di Giordano Bruno, ma ad esempio la data esatta del rogo non la ricordavo… in un confronto ho come l’impressione che avrebbe la meglio lui. Per fortuna, siamo già oltre: parlando di filosofia abbiamo fatto un salto indietro e stiamo enumerando i grandi del mondo greco: Talete, Platone (che lui chiama Pluton, ma penso sia l’unico errore che gli ho sentito fare; glielo possiamo perdonare ampiamente), Aristotele, Archimede. E parlando di Archimede è immediato e naturale pensare a Siracusa e passare disinvoltamente alla mitologia, con il mito della spada di Damocle.

Non so come, saltiamo alla chimica: Millo si mette a elencare gli elementi necessari per la fertilità dei suoli: azoto, fosforo, potassio, magnesio. Corretto anche qui, del resto se vogliamo qui è anche più propriamente il suo campo. Ma vuole sempre stupire e sostiene che, da giovane, sapeva tutta la tavola periodica a memoria. Chissà, la memoria ce l’ha buona, potrebbe anche essere vero…

Improvvisamente mi chiede se credo in Dio. No, rispondo, devo essere sincero: sono ateo. Io ci credo, fa lui; ma spiega che non è una questione di chiesa o di preti, in chiesa non ci va mai. Crede nei valori morali, nell’amore tra le persone, nella solidarietà… se è questo ci credo anch’io, dico, ma per questo non c’è bisogno di Dio.

Nel frattempo la colazione è finita e siamo veramente ai saluti. Gli chiedo una foto ricordo di lui e Dalia, con me e poi con Giuseppe. Dobbiamo per forza.

Ci fermiamo ancora un po’ a chiacchierare davanti alla porta di casa. Ormai si sente libero anche di scherzare come con dei vecchi amici. Per voi ci vorrebbe una “negra”, dice, perché le negre, come la benzina, prendono subito fuoco. Giuseppe è un po’ sorpreso, ma non più di tanto. Ormai non lo stupisce più niente. Solo si domanda cosa può aver fatto lui per dare l’impressione di avere questo bisogno… Millo si atteggia un po’ a vecchio marpione e fa capire, più che altro con sguardi e ammiccamenti, il concetto che vuole esprimere, che è, più o meno: alla nostra età dobbiamo sparare gli ultimi colpi…

Poi torna serio e ci regala un’ultima chicca: l’italiano è la lingua della musica, l’inglese è la lingua degli affari, il francese è la lingua dell’amore, lo spagnolo è la lingua degli dei. La lingua per parlare con Dio, forse era questa la citazione esatta. Ce ne sono diverse versioni, è attribuita a Carlo V.

Prometto che, con i prossimi viaggi della radio (ce ne sono già altri tre in programma), gli manderò dei libri di arte e storia italiana. Lui esprime il desiderio di avere delle belle foto della Cappella Sistina, faremo il possibile. Intanto regala, a noi e a Paola che ormai lo conosce ed è venuta a prenderci perché non si sa mai, delle foglie di tabacco, che sono il suo prodotto principale, come per tutti qui.

La nostra “guagua” è pronta. Ci aspetta un lungo viaggio fino a Trinidad, che sarà reso più piacevole da qualche momento di “radio” a cura di Eddi e dall’ascolto di una puntata di Onde Road su Cuba, parole e musica di Claudio Agostoni.

La prima sosta, un po’ fuori programma ma molto gradita, è presso la finca degli zii di David, nella provincia di Pinar del Rio. Lui, che ora vive all’Avana, è infatti originario di qui.

E qui vivono ancora gli zii Tito (84 anni), Yayo (79) e Chacha (delle signore non si dice l’età).

Ci sono anche altri parenti in visita dall’Avana, con la piccola Deymi di 8 anni, che ci saluta un po’ intimidita ma con tanti sorrisi.

Entrare in questa fattoria è un salto indietro nel tempo; vediamo gli animali che razzolano liberi, l’aratro trainato dai buoi, una casetta di legno che sembra uscita da un vecchio film. Per i nostri occhi europei l’impressione è forte; secondo i nostri schemi, questa è povertà. C’è solo l’essenziale, il superfluo non esiste. Ma non se ne sente neanche il bisogno, in realtà. La vita e il lavoro dei campi sono la stessa cosa, l’una non esiste senza l’altro, tutti i giorni e a qualsiasi età.

Coltivano anche il riso, cosa che non ci aspetteremmo, grazie al vicino fiume. Da poco hanno anche un piccolo pozzo che è una ricchezza, perché permette di non fare chilometri per andare a prendere l’acqua. Ma il pozzo è profondo, e non sempre la pompa ce la fa. David ha in progetto di costruire due cisterne, una per accumulare l’acqua piovana e una da riempire con acqua portata con l’autobotte. Allora sì, che sarebbero tranquilli. A lui preme che vivano bene, non si dimentica mai di loro.

Chacha vorrebbe invitarci a pranzo, per lei non sarebbe un problema dar da mangiare a tutti. Siamo 15 persone, ma che importa? Sarebbe bello, davvero, ma purtroppo non abbiamo tempo.

Quando torniamo sul pullman, David fa una considerazione interessante. Lui vede in questa fattoria, e in questa famiglia, l’immagine di Cuba: è il sogno di un mondo ideale, che basta a sé stesso, dove non c’è ricchezza materiale ma c’è tutto quello che veramente serve. Ma il mondo cambia e bisogna andare avanti, non si può vivere di sogni.

Prima di fermarci a mangiare nella versione cubana dell’autogrill, compriamo dei tamales da un venditore di strada, che conosce la nazionale italiana di calcio, e soprattutto apprezza Buffon. I tamales sono fettine di una specie di polenta di mais fresco macinato, che a volte, come in questo caso, sono serviti avvolti da foglie di granturco. I puristi della polenta lombarda presenti nel gruppo li disdegnano un po’, ma a me non sembrano male.

Facciamo una tappa a Cienfuegos, troppo breve purtroppo per una città che è patrimonio mondiale dell’umanità UNESCO. Del resto lo è anche Habana Vieja, lo è il parco della Valle di Viñales, lo è Trinidad con la Valle de los Ingenios, che visiteremo. Ci vorrebbe più tempo per fare tutto.

Abbiamo giusto il tempo per passeggiare un po’ e fare qualche foto nel tranquillo parco centrale, il Parque Josè Martì. Le influenze francesi sono chiare, prima di tutto nell’arco di trionfo dedicato all’indipendenza cubana (20 maggio 1902). Ma tutti i palazzi intorno al parco sono di una raffinata eleganza neoclassica.

Arriviamo a Trinidad che è già sera. La nostra casa, qui, è quella di Boris e Kenia. È lei che ci accoglie. Sorride molto ma è di poche parole, o forse ci sembra così perché siamo reduci da un fiume in piena come Millo. Noi abbiamo una bella camera al primo piano che dà su una stupenda terrazza con vista sulla città; è solo un po’ difficile da raggiungere con zaini e valigie, data la scala stretta e ripida. Al piano terra c’è la stanza di Laura ed Eddi. Sulla strada un gruppetto di ragazzi sono seduti a giocare a domino proprio davanti alla nostra porta.

Ceniamo tutti insieme proprio da noi, sulla nostra terrazza, dove stasera soffia un vento fresco, e poi passiamo la serata chi alla Casa de la Trova e chi in un locale di musica afrocubana. Trinidad, in poco spazio, offre molto dal punto di vista musicale.

Noi andiamo alla Casa de la Trova, dove si alternano un Trovador puro, che è poi un cantautore cubano, e un gruppo che suona la salsa.

Il gruppo è sicuramente valido; tra l’altro, ci incuriosisce che usano uno strano contrabbasso elettrico senza cassa armonica.

Il trovador forse è un po’ più discutibile: per Giuseppe è un Tony Dallara cubano, un urlatore insomma, e forse non ha torto. Però è divertente; ci fa molto ridere un pezzo che ripete abbastanza ossessivamente “que saliera”. Lui in realtà vorrebbe, semplicemente e poeticamente, “che uscisse” il dolce sì dalle labbra della sua amata. Ma per un orecchio italiano suona un po’ strano… e poi, in chiusura, si esibisce anche in una versione in spagnolo (ma abbastanza fedele, nel testo) di “Che sarà” dei Ricchi e Poveri! Eddi mi spiegherà poi che si tratta della versione di Josè Feliciano.

È divertente anche vedere quante coppie improbabili ci sono nel locale. A Cuba, è noto, esiste il fenomeno delle jineteras, ragazze che fanno un po’ di… compagnia ai turisti stranieri per qualche giorno di bella vita, di ristoranti, di locali, di regali, qualcuna anche con la segreta speranza di farsi sposare e portare via dalla isla. È un fenomeno in teoria scoraggiato dal governo, ma dietro la facciata praticamente abbastanza tollerato, anche perché difficile da arginare. Prevalentemente si vedono, appunto, ragazze cubane che si accompagnano a uomini stranieri spesso molto più vecchi. Ma lo stesso fenomeno esiste anche a… sessi invertiti. E qui, guardandosi intorno, sembra proprio ci siano più giovani uomini cubani che esercitano; qualcuno è già accoppiato (tra l’altro un paio di signore sono italiane), qualcun altro sembra in cerca.

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(Continua…)