Diario di un secondo viaggio a Cuba, in una Cuba più calda e umida, più nera, india e meticcia, più spirituale e vibrante, dove lo spirito ancestrale di questa terra sembra permeare tutto. Dove l’uragano Matthew ha lasciato devastazione ma non ha ucciso nessuno, ha abbattuto le palme ma non ha scalfito l’orgoglio di questa gente, alla quale neanche l’uragano Donald può fare paura più di tanto. Dove Fidel ormai è il passato, che non si deve dimenticare ma nemmeno santificare. È un padre amato ma ingombrante, che per tanti anni ha tenuto per mano il suo popolo, ma ora la stretta di quella mano grande e forte si deve allentare, perché il lutto è finito e il futuro è ancora tutto da costruire. Non ci crederete, lo so, ma ho trovato questa frase scritta su un cartello, sopra un calendario, in un bagno di una casa di Santiago, una casa qualunque di un quartiere popolare: “Si no sueltas el pasado, con què manos agarras el futuro?”. Se non lasci andare il passato, con che mani afferri il futuro?
28/01/2017 Giorno 6: Nel quale balliamo un minuetto africano e percorrendo la Farola scavalchiamo le montagne per raggiungere la remota, magica Baracoa
Nel giorno del genetliaco di Josè Martì, lasciamo Santiago per cominciare la marcia d’avvicinamento verso Baracoa, la prima città fondata a Cuba, situata oltre la Sierra del Puril sull’estrema punta orientale dell’isola. Ora davvero partiamo “Rumbo a Oriente”, in direzione del sole nascente finché l’isola non finisce.
Per la prima volta tutti dobbiamo caricare le nostre valigie e i nostri zaini, con gli attrezzi all’interno, nel bagagliaio del pullmino. L’abile Mario, con l’aiuto di David, si produce in un tetris perfetto per farci stare tutto.
Partiamo in un clima piuttosto allegro. Mi esibisco in un’apprezzata imitazione di Guccini accennando “Canzone per un’amica”: “Lunga e dritta correva la strada…”. All’inizio è anche dritta la strada, poi lo sarà molto meno. Viene sempre bene questa canzone, perché è piena di R da pronunciare alla Guccini, però Eddi mi fa notare che non è l’ideale per iniziare un viaggio con i migliori auspici… lo so bene, infatti mi limito a un accenno. Poco dopo, non so come, si ritorna a parlare di un fantomatico dolce chiamato “Sarah Bernhardt”, che qualcuno voleva prendere ieri a pranzo, ma, come spesso succede qui, pur essendo indicato sul menù non c’era. Laura ne trae ispirazione per un nuovo ipotetico dolce da chiamare “Sarà Bernarda?” e tutti scoppiamo a ridere. Carlitos, ovviamente, non capisce perché ridiamo tanto e così gli spieghiamo che bernarda è un altro nome per… quella cosa che qui non chiamano patata ma papaya. Altro esempio di come le diverse culture alimentari influenzano la lingua. E da questo spunto parte l’elenco, che naturalmente qui non ripeto, di tutti (o quasi) i possibili modi di chiamare in italiano l’organo genitale femminile. Il ragazzo si sta facendo una cultura, non c’è che dire.
Terminato il primo breve tratto di strada, raggiungiamo Guantanamo: sono circa le 11. Guantanamo è una piccola città famosa per due cose. Una è Guantanamera, la notissima canzone popolare cubana ricavata dall’adattamento dei Versos Sencillos di Josè Martì. Una versione poco nota riprende anche il verso in cui Martì vuole morire “de cara al sol”. L’altra, molto meno allegra, è la base militare statunitense, che dal 1903 gode di un diritto di extraterritorialità, a seguito di un accordo firmato tra il fragile governo di Cuba che aveva appena ottenuto l’indipendenza e il potente vicino “norteamericano”, che allora era l’alleato che aveva svolto un ruolo fondamentale nella cacciata degli spagnoli. Oggi la prospettiva è completamente cambiata, ma allora era così. Da allora la città è mutilata del suo sbocco al mare, e soffre di un sostanziale abbandono. Questo lo sapevo. Ma non sapevo che la baia è chiusa anche da una rete, che impedisce l’accesso perfino ai pesci. Dal 2002 nella base c’è anche il tristemente famoso carcere di massima sicurezza per i detenuti accusati di terrorismo, che Obama aveva promesso di chiudere senza mai mantenere completamente la promessa.
Noi siamo a Guantanamo per assistere a uno spettacolo di Tumba Francesa. La Tumba Francesa è una incredibile combinazione delle radici musicali africane con i balli francesi da sala del ‘700, principalmente la contredanse e il minuetto. Un’altra eredità lasciata dagli schiavi giunti da Haiti con i coloni francesi alla fine del XVIII secolo. Qualcosa di talmente unico da essere dal 2008 Patrimonio Culturale Immateriale per l’UNESCO.
Entriamo in una sala, dove ci stanno aspettando. È già tutto pronto. Su un lato della sala una “regina” vestita di chiaro aspetta paciosa seduta su un trono sotto la bandiera cubana. Sull’altro lato, una fila di tamburi africani di differenti fogge e dimensioni. I percussionisti si scaldano, anche loro sono pronti per cominciare. Noi, seduti in cerchio, ascoltiamo una breve spiegazione delle origini e delle caratteristiche di questo ballo, in cui le donne hanno un maggiore protagonismo facendo in qualche modo una satira delle dame di corte, poi si parte. Le donne sono elegantissime nei loro vestiti azzurri, come vere dame del ‘700, con collane e colorati ventagli, ma con i fazzoletti in testa come le loro antenate schiave. Gli uomini, in pantaloni e camicia, portano dei fazzoletti azzurri al collo. I pezzi cantati sono in una lingua creola derivata dal francese, naturalmente simile a quella haitiana.
Dopo qualche giro di danza, che guardiamo incuriositi e affascinati, arriva il momento anche per noi di essere coinvolti. Le ballerine invitano noi uomini e i ballerini invitano le donne. Io sono piuttosto negato per il ballo, soprattutto per i balli di coppia di questo genere, ma ci provo. Per fortuna Alicia, la mia ballerina, dolcemente mi guida e mi perdona se ogni tanto non la guardo negli occhi ma le guardo i piedi per poterla seguire e per non pestarglieli, i piedi. Alla fine abbiamo tutti dei grandi sorrisi stampati in faccia.
È strano, dopo un ballo, uscire nel sole di mezzogiorno ma, logisticamente, per noi era il solo orario possibile. Ora c’è la seconda sosta a Guantanamo, quella in un punto panoramico, che è uno dei pochi da dove, almeno con binocoli o teleobiettivi, si può vedere la base americana. Sì, perché chiaramente è impossibile avvicinarsi. Uno sguardo e ce ne andiamo.
Prima di imboccare la mitica Farola, la tortuosa strada che raggiunge Baracoa scavalcando le montagne, ci fermiamo per pranzare in un’area di sosta vicino a una spiaggetta popolare, attrezzata con un piccolo bar. Non facciamo il bagno, perché nessuno di noi ha il costume sotto e tirarlo fuori dalle valigie vorrebbe dire dover smontare il tetris. Passeggiamo, nell’attesa che ci preparino qualcosa. Purtroppo il gestore ci fa vedere del pesce che ci potrebbe cucinare, ma pochi minuti dopo si scopre che non ce n’è più, perché quel poco che c’era è destinato tutto ad un gruppetto di francesi che è arrivato qualche minuto prima di noi. Per noi resta solo il pollo, fritto o al sugo. Ci sediamo fiduciosi, ma l’attesa diventa molto lunga. Abbiamo imparato ormai a “gestire” queste attese impedendo al milanese che è in noi di uscire, ma David si preoccupa per noi e va a chiedere. Scopriamo che da un po’ di tempo non c’è più gas. Si cucina col carbone, che però è finito anche quello, per cui stanno raccogliendo dei gusci di cocco per alimentare il fuoco. Sapendo questo, ci armiamo di ancora un po’ di pazienza e ci godiamo intanto la tranquillità di questo posto, che per noi che siamo reduci da tre giorni di Santiago è una pausa che non può fare male.
Addentato il pollo ripartiamo. La Farola non è certo l’ideale per chi soffre i percorsi tutti curve e tornanti, e nel gruppo qualcuno c’è. Ma è davvero spettacolare. Fino agli anni ’60 Baracoa era raggiungibile solo via mare. Questa strada fu costruita nel 1964, mettendo fine a quattro secoli di sostanziale isolamento. Fidel lo doveva, in un certo senso, ai rivoluzionari di Baracoa che lo avevano sostenuto. Saliamo tra le pareti della Sierra del Puril, poi la strada inizia a scendere sempre ripida e sinuosa tra picchi di granito grigio e foreste profumate di resina. Purtroppo, qui si comincia a vedere la devastazione lasciata dall’uragano Matthew. Interi palmeti sono stati rasi al suolo. Qua e là si vede anche qualche segno di rinascita, ma è ancora poco. Ci raccontano che prima in molti punti la vegetazione era così fitta da non lasciar vedere nulla, ma ora non è più così. Vediamo distintamente tante case di contadini aggrappate ai pendii. David spiega che, nonostante questa zona abbia altre risorse come cacao e caffè, il cocco è quella davvero fondamentale. Fondamentale perché è la base dell’alimentazione dei maiali, e in campagna il maiale è la vita, per le famiglie contadine.
Ci fermiamo per una piccola sosta e per guardare da una terrazza panoramica. Appena scesi dal pullmino, un assalto di venditori di cucurucho e di cioccolato, come usciti dal nulla. Il cioccolato è forse il principale prodotto di Baracoa. Poco fuori città c’è una famosa fabbrica inaugurata dal Che negli anni ’60. E il cucurucho l’abbiamo già incontrato, ma questo è completamente diverso: questo è il cucurucho di Baracoa. Il cono qui è fatto con foglie di palma reale, con sopra una specie di tappo legato con un cordino ricavato anch’esso da una foglia di palma. E dentro… dentro una dolcissima e profumata delizia a base di miele, cocco, mango e banana. Questi sono gli ingredienti principali, ma ognuno è diverso dall’altro. Ci possono essere pezzetti d’arancia, di mandorla… Da leccarsi le dita, perché davvero si mangia così, impiastricciando il dito senza ritegno. Avendolo, si potrebbe usare un cucchiaino, ma al momento siamo sprovvisti. Forse si è capito, ma io l’ho comprato e mi è molto piaciuto. Eppure, in genere il cocco non mi piace! Ne offro uno anche a Laura ed Eddi, che ricambiano con gli ultimi avanzi di un dolce fornito da Marisol alla partenza dall’Avana, insieme a vari altri generi di conforto. Anche questo è una goduria, dove si mischiano jalea de guayaba e dulce de leche. Va preso a piccole dosi perché, a parte l’apporto calorico, è una droga. Poi, naturalmente, il cucurucho fa il giro di tutto il pullmino, anche se non sempre raccoglie consensi.
Dopo un po’ David dà istruzioni a Mario e ci fermiamo di nuovo. Scende solo lui e fa una scorta di cucuruchos da portare all’Avana per tutto il parentado. Io scherzosamente lo rimprovero: se sapeva che qui è più buono ce lo doveva dire!
Arriviamo a Baracoa nel tardo pomeriggio. Io e Luciano, con Alma, Franca, Elena e Paola, staremo a casa di Tamara Sanchez. Una doccia e usciamo per la prima passeggiata. Diamo un’occhiata veloce all’interno della Catedral de Nuestra Señora de la Asunciòn, costruita nel 1833 sul sito di una chiesa più antica. Qui è custodita la Cruz de la Parra, una croce di legno che secondo la tradizione sarebbe stata piantata da Colombo vicino a Baracoa nel 1492. Di fronte alla cattedrale è collocato il busto di Hatuey, il cacique (capo) degli indios Taino che lottò contro gli spagnoli e fu bruciato sul rogo nel 1512 dopo avere rifiutato la conversione al cristianesimo. Il primo segno che questa è la città più india di Cuba. Forse per questo ha qualcosa di magico, di esoterico. Anche nelle facce delle persone qui si notano a volte tratti indios, che nel resto di Cuba sono quasi totalmente assenti.
Prendiamo un aperitivo su una bella terrazza con vista, poi torniamo a casa per cena. Questa sera si cena da noi, cena come sempre lauta. Scherziamo con il figlio di Tamara, che indossa una fantastica maglietta dell’argentina con stampate le facce di Messi e altri giocatori.
Dopo cena, passeggiata per le strade di Baracoa. Si mantiene il buonumore, con Carlitos che parte a cantare “La negra Tomasa” e noi che lo seguiamo.
29/01/2017 Giorno 7: Nel quale giochiamo a domino in spiaggia, marciamo cantando e organizziamo una… “sega collettiva”
Colazione ricca anche qui, dove non può mancare… la cioccolata! Siamo a Baracoa, no? E a noi non può cbe tornare in mente il nostro tormentone preferito: Toma chocolate… paga lo que debes…
Giornata passata al mare, sulla spiaggia scura di Baracoa, a due passi da dove il Rio Miel si butta nell’oceano. All’inizio il cielo sembra nuvoloso. La mole scura di El Yunque, l’incudine, la montagna che sovrasta Baracoa, sembra ancora più imponente. Sul percorso verso la spiaggia incontriamo il vecchio, fatiscente stadio del baseball, che è a un passo dal mare, e la statua di Cristoforo Colombo, che ci conferma ancora una volta che questo è stato uno dei primi luoghi d’America dove gli europei abbiano messo piede. Per poi, però, lasciarlo ben presto al suo destino. Dopo che, nel 1515, la capitale fu trasferita a Santiago, questa regione vide diminuire la propria importanza divenendo un’area isolata e quasi irraggiungibile in cui si esiliavano i carcerati e le antiche tradizioni sopravvivevano incontrastate, fino a mescolarsi, alla fine del XVIII secolo e poi nel XIX secolo, con quelle degli schiavi neri giunti da Haiti.
Vediamo anche, sulla porta di un ufficio comunale, un cartello con le istruzioni per i cittadini su come certificare i danni subiti dalle loro abitazioni a causa dell’uragano. Per avere i risarcimenti, c’è un modulo da compilare dopo la visita del tecnico comunale.
Col passare della mattinata, il sole buca le nuvole. La giornata in spiaggia passa tra una passeggiata sul bagnasciuga, qualche bagnetto e varie partite a domino. Una parte del gruppo si sta appassionando al gioco, soprattutto la coppia formata da Alma e Paola, che sembra vincere a man bassa. Compriamo da due venditori ambulanti del burro di cacao e delle statuette di legno carine che rappresentano una donna con un vestito da sera fatto di sabbia, mentre Carlitos passeggia con l’ombrello come una dama dell’ottocento.
Nel frattempo, abbiamo scoperto che Alessio e Marcello si sposeranno, o meglio si uniranno civilmente, molto presto: Auguri!
Prima di cena, usciamo con David per una passeggiata sul Malecon fino alla Punta, all’estremità occidentale della città. Abbiamo già visto qua e là delle zone dove Matthew ha colpito duro, ma questa è sicuramente quella che fa più impressione. Anche un pezzo di lungomare è crollato.
Molti palazzi sono davvero in pessime condizioni, con diversi balconi crollati e le scale all’interno che non esistono più, sostituite da scale di fortuna costruite con assi di legno. Ma nonostante questo sono ancora abitati. Parliamo con una signora che dal balcone ci dice che tutta la sua vita è lì, che non vuole lasciare la casa dove ha vissuto per tanti anni. Le hanno proposto di andare a vivere per un periodo in campagna, ma lei non vuole, dice che non fa per lei e che avrebbe paura di non tornare più. David dice che queste persone veramente “estan en candela”. Di fianco, un altro edificio identico in due mesi è già stato completamente restaurato ed è come nuovo. Aveva subito meno danni, ci spiega la signora, per via della posizione. Qui la costa disegna un piccolo promontorio e la casa risulta più distante dal muretto del Malecon, quindi l’onda è arrivata con meno forza.
Entriamo in casa di una famiglia di amici di David, che ci raccontano con molta emotività, ed è inevitabile, la loro esperienza. Loro, come tutti gli altri qui, sono stati evacuati. Il sistema di allerta, già collaudato in occasione di altri eventi di questo tipo, si è dimostrato molto efficace. Nei giorni successivi, le notizie parlavano di nessuna vittima e di circa 900.000 persone evacuate, in tutto l’Oriente, ospitate in scuole o in altre strutture attrezzate. Loro sono stati relativamente fortunati perché la loro casa non è nella prima fila che si affaccia sul lungomare, ma nella seconda. Ma quando, il giorno dopo, sono tornati qui, hanno trovato la strada ingombra di macerie, suppellettili, vestiti. Ci fanno vedere anche un video, girato da un vicino di casa, in cui si vede l’acqua invadere le case e portare via tutto. E un ragazzino ci racconta di un vicino che ha rischiato di morire perché è tornato ed è salito al quarto piano a prendere il cane, mentre ancora il diluvio e le onde infuriavano. Non è stata questione di un attimo, tutto è andato avanti per diverse ore con onde anche di 8 metri. Ma alla fine tutti dicono la stessa cosa: “Estamos con vida”, siamo vivi e lo possiamo raccontare, questo è quello che conta. Con gli aiuti che arrivano, ma soprattutto stando uniti e con la solidarietà tra di noi, ci risolleveremo, anzi ci stiamo già risollevando. Questa è Cuba.
Per distenderci un attimo prendiamo l’aperitivo in un locale che si chiama Marco Polo, dove David fa amicizia con una coppia di ragazzi inglesi che si dichiarano innamorati di Baracoa, al punto che si sono fermati 12 giorni. Probabilmente si sono presi un anno sabbatico o almeno dei mesi, di certo hanno tempi di viaggio più rilassati dei nostri. David ha vissuto a Londra, per cui non ha difficoltà a sfoderare un ottimo inglese.
Noi, però, siamo più concentrati, tanto per cambiare, sulla Piña Colada, in particolare su quella che Alma oggi ha vinto a Domino in spiaggia e che ha deciso di riscuotere. Lei normalmente non beve, solo di rado si concede qualche trasgressione. L’ultima volta che ricordo era stata con un’altra Piña Colada, lo scorso anno a Viñales. Quella era del tipo autogestito, col rum a parte che puoi aggiungere a piacere. Questa è preparata dal barista, ed è discretamente carica. Non ci sono effetti gravi, ma quel po’ di euforia che fa sì che, incamminandoci, Alma si appoggia sulle spalle mie e di Carlitos, e improvvisiamo un balletto veramente da ubriachi…
Passiamo dalle nostre case a prendere gli attrezzi, che stasera consegneremo nella casa dove andremo a cena, che è quella di Ñico, professore di letteratura. Mentre ci avviamo, ecco di nuovo l’estro canoro di Carlitos. Stavolta ci chiede di cantare Bella Ciao, ma non di cantarla così, tanto per fare, di cantarla forte, mettendoci l’anima. Lui, che sicuramente l’ha sentita da qualche altro gruppo di italiani ma non conosce le parole, ci viene dietro ripetendo quello che cantiamo noi. L’armonia e l’intonazione dell’improvvisato coro partigiano forse non sono eccezionali, ma il cuore c’è. E così camminiamo per le strade di Baracoa cantando Bella Ciao a squarciagola, con la gente che si affaccia per vedere cosa sta succedendo. Qui non siamo a Santiago, normalmente le strade la sera sono piuttosto buie e silenziose. Sempre cantando, saliamo la scala che porta alla terrazza dove è tutto pronto per la cena e dove i padroni di casa, un po’ sorpresi ma felici di vedere tanto entusiasmo, ci accolgono con altrettanto trasporto.
La cena è come sempre ottima e il clima che s’è creato aiuta a renderla ancora più piacevole. Dopo cena, vista l’entrata che abbiamo fatto, non si può che ricominciare a cantare. E allora, in sequenza, eseguiamo qualche classico italiano: Battisti, Gino Paoli con “Il cielo in una Stanza”, ma quello che mette d’accordo tutti e che riscuote più successo anche presso i cubani è “Alla fiera dell’Est” di Angelo Branduardi. Pare che anche loro abbiano una canzone simile, costruita un po’ come una filastrocca. Poi, è chiaro, dobbiamo fare qualcosa di cubano. Inevitabilmente, arriva subito la richiesta di “Hasta siempre Comandante”. Tutti sanno che la conosco, l’anno scorso l’avevamo perfino provata la sera prima di andare al mausoleo del Che a Santa Clara, con l’idea di cantarla tutti insieme lì; poi, per problemi di tempo, non se n’era fatto nulla. E allora parto io e chi può mi segue, tutto sommato non viene male.
Dopo di che, un altro inevitabile grande classico: è Guantanamera, da dedicare di cuore alla padrona di casa, la moglie di Ñico, Margarita, che è di Guantanamo.
Margarita viene poi coinvolta anche in uno scherzo di David, che le suggerisce un’imitazione di Franca che tende a… sottolineare che lei usa spesso l’esclamazione “Minchia!”. Naturalmente, Margarita lo ripete senza capire cosa sta dicendo e David, tra le risate generali, le spiega che è quello che loro chiamano “Pinga”. Curiosa assonanza.
Cerchiamo di tornare seri per la consegna ufficiale degli attrezzi a Ñico, che ringrazia con un discorso forbito ed ispirato nel quale sottolinea la generosità degli italiani e dice che farà in modo che tutti sappiano, a Baracoa, che un aiuto concreto per ricostruire è venuto dalla solidarietà umana e politica degli ascoltatori di Radio Popolare. E conclude con una poesia del poeta cubano Nicolas Guillèn, dedicata a Martì e a Fidel.
Certo che, dice David, sarebbe bello se riuscissimo a far arrivare qui anche una sega circolare elettrica grande, servirebbe molto. “Che problema c’è?” – diciamo tutti all’unanimità – “Facciamo una colletta, la compriamo e la carichiamo sul prossimo volo della radio, o la spediamo, un modo si trova”. Ed è così che David si fa prendere dall’entusiasmo ed esclama: “Sì, ragazzi, dai! Organizziamo una sega collettiva!”.
Riusciamo a fatica a riprenderci dall’ilarità generale quel tanto che basta per spiegare all’orecchio a uno stupito David che cosa c’è da ridere così tanto. Lui parla benissimo italiano, ma qualche espressione gergale ancora gli sfugge… da stasera, una di meno. E così salutiamo Margarita, Ñico e tutta la loro famiglia con le lacrime agli occhi, non tanto per la commozione ma più per le risate… tornando seri, comunque, la cosa si farà. La stiamo definendo proprio in questi giorni. Certo, c’è il rischio che l’operazione che Radio Popolare aveva lanciato come “Cazzuole per Cuba” diventi “Una sega per Cuba”, ma questo è un dettaglio, l’importante è il risultato.
Tornati a casa, non abbiamo ancora voglia di dormire e tiriamo tardi giocando a domino al fresco del terrazzo, questa volta ognuno per conto suo e non in coppia. Ma Paola, anche così, vince quasi sempre.
30/01/2017 Giorno 8: Nel quale percorriamo la Carretera Central canticchiando con Compay
Stanotte ho dormito poco e male, anche perché alle 5 di mattina Tamara, o qualcun altro della famiglia, stava guardando una telenovela alla TV e la nostra camera è proprio adiacente alla sala. Ma qui è così, gli orari non sono esattamente paragonabili a quelli a cui siamo abituati.
Dopo aver… tomado chocolate a colazione, per l’ultima volta a Baracoa, saliamo sul pullmino e iniziamo un altro lungo spostamento in direzione Bayamo. La strada è accidentata ma affascinante, per quanto anche qui purtroppo gli effetti dell’uragano siano ancora ben visibili: vediamo ad esempio un ponte spezzato a metà, e ancora tanta vegetazione distrutta.
La prima sosta è ancora relativamente vicino a Baracoa, presso la spiaggia di Maguana. Stavolta è tutto programmato, e tutti abbiamo il costume sotto per concederci un altro po’ di relax e qualche bagno. La spiaggia, con la sabbia bianca e il mare di un bel turchese, non è certo affollata, del resto sappiamo che questa per i cubani non è stagione per andare al mare. Facciamo un paio di incontri, prima con un signore non molto anziano ma abbastanza mal messo che vende foto del Che e ci racconta di essere stato in Angola negli anni ’80, poi con un venditore di conchiglie che dice di essere di Moa e di aver perso tutto a causa dell’uragano. Curioso che quest’ultimo, sentendomi parlare, mi prenda per cileno. Questo ancora non me l’avevano detto…
Per il pranzo David ha organizzato tutto a casa di una famiglia che abita proprio qui, a due passi dalla spiaggia.
Anche questo pranzo è da ricordare, soprattutto per una spettacolare aragosta. Era tanto che non ne mangiavo una così. Intanto, Laura è stata soprannominata da Carlitos “la mia nutria”, perché a sentir lui si avventa sul cibo con l’avidità di un roditore. Dopo un po’ capiamo che c’è un equivoco linguistico: in spagnolo si chiama nutria quella che noi chiamiamo lontra. Sono due animali simili, in realtà. La differenza principale sta nella pelliccia (quella della lontra è un po’ più pregiata) e nella dieta: la lontra mangia pesce, mentre la nutria è erbivora. Comunque, se non altro come immagine, la lontra è più carina.
L’atmosfera è quella della campagna cubana, che ormai abbiamo imparato a conoscere. Dietro la casa, vicino a una capanna di legno, sonnecchiano due maialini, uno nero e uno pezzato. Intorno, razzola qualche gallina.
Noi ripartiamo verso Holguin, percorrendo la Carretera Central, che a dispetto del nome altisonante è anch’essa piuttosto difficile, per quanto riguarda le condizioni del manto stradale. Ma, in compenso, attraversiamo una serie di paesini di campagna bellissimi e dai nomi evocativi, per chi conosce un po’ di musica cubana. Avete presente l’inizio di Chan Chan, quello che fa “De Alto Cedro voy para Marcanè, llego a Cueto, voy para Mayarì…”? Bè, noi facciamo proprio una parte di quel giro, anche se al contrario: passiamo da Mayarì, anche se la strada passa fuori dal paese, e poi da Cueto, che invece attraversiamo. E così viene naturale cercare sul cellulare il pezzo di Compay e canticchiarci sopra…
Da Holguin la Carretera diventa veramente abbastanza scorrevole, e verso sera raggiungiamo Bayamo, città antica (è la seconda più antica di Cuba, subito dopo Baracoa) e ricca di storia. È da qui che partì la lotta per l’indipendenza cubana, anche se per noi sarà soprattutto la base da cui raggiungere la Sierra Maestra.
È qui che l’avvocato diventato rivoluzionario Carlos Manuel de Cèspedes, sfidando le tradizionali posizioni coloniali, attaccò nel 1868 le autorità spagnole conservatrici e riuscì a sottrarre loro il controllo della città. Ma la liberazione ebbe breve durata. Dopo che il mal addestrato esercito ribelle fu sconfitto da 3000 soldati spagnoli, il 12 gennaio 1869 gli abitanti, temendo che Bayamo sarebbe stata di nuovo occupata, preferirono dar loro stessi fuoco alla città piuttosto che vederla ricadere in mano nemica.
Io e Luciano, con Elena e Paola, dormiremo nella bella casa di Alvaro e Alina. Ma per cena andiamo invece da Oscar, in una casa di musicisti. Tutti, in famiglia, suonano qualche strumento, a livello più o meno professionale, ma soprattutto la signora dirige l’orchestra locale e la figlia maggiore suona il violoncello, oltre che nell’orchestra, in un apprezzato trio di Jazz. Eddi e Marcello si perdono nella collezione di dischi cubani e latinoamericani d’epoca. Continua la sfida musicale tra i due, alla quale nel frattempo si è aggiunto un altro divertente tormentone: Laura che chiama “Marcello! Come here!” come Anita Ekberg dalla fontana di Trevi ne “La dolce vita”…
Ceniamo con in sottofondo la musica del trio della figlia di Oscar. Dopo cena, ci facciamo un giro nel centro di Bayamo, dato che non avremo altre opportunità di vederlo. Nella piazza centrale, una di fronte all’altra, ci sono la statua in bronzo di Carlos Manuel de Cèspedes e il busto in marmo di Perucho Figueredo, autore dell’inno nazionale, che scrisse nel 1868 e che si chiama infatti La Bayamesa.
L’atmosfera è fin troppo tranquilla, il che ci fa capire che i festeggiamenti per la vittoria del campionato di beisbol sono ormai finiti e anzi, forse, i bayameses devono ancora riprendersi: si stanno riposando per smaltire la sbornia.
Entriamo in un bar a bere qualcosa per festeggiare il compleanno di Elena. Il locale ha stile, perché unisce alcuni elementi moderni con molti richiami alla tradizione, prima di tutto la grande immagine di Cuba nella cartografia cinquecentesca che campeggia tra i mattoni a vista, insieme ad una citazione di Colombo che, in castigliano antico, magnifica la natura dell’isola, definendola “la più bella che occhi abbiano visto”. Proviamo anche uno strano intruglio fatto con miele e aguardiente, ma alla fine per un brindisi è meglio andare sul classico: Mojito, Daiquiri o l’immancabile Piña Colada.
31/01/2017 Giorno 9: Nel quale come i barbudos ci arrampichiamo fino alla Comandancia
Oggi, finalmente, è il giorno della Comandancia. Partiamo presto, ma non troppo. C’è tempo per una bella colazione in terrazza, con uno sguardo al traffico di bici, moto e risciò che passano sotto di noi.
La giornata non sembra promettere benissimo, a livello meteo, ma poi alla fine andrà bene. Non c’è un sole cocente, il che tutto sommato non è male, ma non avremo problemi di pioggia e di sentieri bagnati.
Saliamo col pullmino verso la Sierra Maestra. Ci fermiamo a Santo Domingo, da dove partono le jeep per l’escursione. Vediamo già, intorno a noi, monti di un verde brillante e rigoglioso. Inganniamo l’attesa comprando qualche bottiglia di rum Cubay. Chi si aspettava una jeep da veri guerriglieri resta un po’ deluso. Si tratta ormai di moderni e comodi monovolume 4×4, che riescono senza troppe difficoltà a portarci su per la ripida salita che porta ad Alto del Naranjo, con un dislivello di 750 m in soli 5 km. Anche qui c’è un belvedere che offre scorci del mar dei Caraibi. Da qui si può raggiungere anche il Pico Turquino, la montagna più alta di Cuba con i suoi 1972 m.
Da Alto del Naranjo inizia il sentiero di 3 km che ci porterà fino alla Comandancia La Plata. Ci farà da guida Miguel, che è proprio di queste parti, di Santo Domingo, e che da 15 anni accompagna i visitatori nei luoghi della rivoluzione. Ci racconta, innanzitutto, che i guerriglieri sopravvissuti allo sbarco del Granma, solo 12 all’inizio, impiegarono circa 6 mesi per arrivare qui e, per riuscirci, dovettero passare parecchi periodi nascosti per evitare di essere scoperti e superare vari scontri con l’esercito di Batista. Scelsero di creare una base in questa zona perché questa è da sempre una terra ribelle. Qui ci sono famiglie che hanno avuto diverse generazioni di rivoluzionari. Miguel ci racconta che fino a una ventina d’anni fa era ancora in vita uno dei reduci della guerra d’indipendenza, uno che aveva conosciuto Josè Martì e che poi è morto alla veneranda età di 112 anni. Fidel sapeva, quindi, di poter contare sulla gente di qui per rinforzare le file della guerriglia e per costituire quella che fu la rete di supporto. Poi la nostra guida parte su per il sentiero, con passo abbastanza spedito. Dopo qualche minuto sono costretto a chiedergli di andare un po’ più piano e di fermarsi un attimo, perché parte del gruppo comincia a rimanere troppo indietro. Gli abbiamo spiegato che Franca, anche se non si direbbe, ci vede molto poco e per lei non è certo uno scherzo affrontare un sentiero così, senza contare che anche altri non sono propriamente abituati a camminare in montagna. Ma per lui evidentemente non è semplice regolarsi su un passo diverso. Intanto, gli chiedo il perché del nome La Plata, se ha a che vedere con l’argento, e mi spiega che no, che è il nome del pueblo che si trova qui sotto, sul mare, e che probabilmente si chiama così perché questo tratto di mare è sempre stato molto ricco di pesce. E quindi molto pesce voleva dire la possibilità di fare un po’ di plata, un po’ di soldi.
Avanziamo nella foresta, tra la vegetazione molto fitta. Un paio di volte Miguel ci indica tra i rami degli esemplari di Tocororo, l’uccello nazionale dal piumaggio rosso, bianco e azzurro. Una volta riesco a intravederlo anch’io, sia pure di sfuggita. Questo sentiero, spiega Miguel, non esisteva prima della rivoluzione, furono i barbudos stessi ad aprirselo. Era perfetto, appunto perché con la vegetazione così fitta vederli dall’alto era quasi impossibile. Per il trasporto di armi e vettovaglie ebbero un ruolo importante i muli, che sono tuttora utilizzati.
Fidel e i suoi applicarono qui le tecniche di guerriglia che avevano appreso durante un anno di addestramento in Messico. Facevano rapidi attacchi a sorpresa, in piccoli gruppi, e poi rientravano. Spesso attaccavano contemporaneamente in diversi punti, per dare al nemico l’impressione di essere più di quanti erano in realtà. Il nucleo dei guerriglieri contava al suo massimo 350 uomini, contro i 10.000 che Batista aveva mandato sulla Sierra Maestra.
Ottennero rapidamente l’appoggio dei campesinos locali, tra cui la famiglia Medina che viveva proprio qui e che era una famiglia di musicisti, che si mise a suonare anche per i ribelli; suonavano anche canzoni di lotta per motivare la popolazione. Osvaldo Medina e i suoi figli si chiamavano “Quinteto Rebelde”. Furono loro a dare i primi aiuti ai guerriglieri per stabilirsi e a metterli a conoscenza della topografia della zona. Oggi i figli di Osvaldo, ormai anziani, continuano ancora a suonare in giro per l’isola.
Raggiungiamo la prima capanna del campo base. Ci troviamo, qui, a circa 880-890 m sul livello del mare, e dobbiamo salire ancora poco, perché la Comandancia di Fidel è a 920. Ma, così per scherzare, dico al gruppo che questo è solo il primo dei 15 avamposti che incontreremo prima di raggiungere la Comandancia. Vedo sguardi di panico e quindi decido di non prolungare lo scherzo, ma mi becco comunque la mia dose di insulti.
Arriviamo ad uno spiazzo, dove si trova un’altra baracca con all’interno un piccolo museo. Ci sono gli strumenti utilizzati dai medici del campo, tra cui Che Guevara, poi una macchina da scrivere, una cinepresa, una macchina per cucire, un plastico, mappe e documenti dell’epoca.
Poco più su si trova quello che era l’ospedale da campo, dove il Che curava i feriti. L’ospedale era solo per i guerriglieri, perché naturalmente sarebbe stato pericoloso permettere l’accesso anche alla popolazione; non si poteva essere certi che qualcuno non tradisse. Ma per la popolazione i rivoluzionari, più in basso, avevano allestito un altro ospedale.
C’è la cucina dove si preparavano i pasti, solo una volta al giorno e non nelle ore di luce, perché altrimenti il fumo avrebbe potuto rivelare la posizione dell’accampamento. E c’è la Casa de la Prensa, recentemente restaurata, dove Fidel rilasciava interviste ai giornalisti stranieri che, dopo aver dato prova inequivocabile di non essere spie, riuscivano ad arrivare fin quassù.
Poi, finalmente, la Comandancia vera e propria, la cosiddetta “Casa de Fidel”. È tutto originale, solo il tetto di paglia, ovviamente, viene periodicamente rifatto. Si apre su tutti i lati, il che avrebbe permesso ai leader di scappare in ogni direzione se il posto fosse stato scoperto. All’interno c’è il mitico frigorifero, alimentato a gasolio, che venne portato fin quassù e che ha un buco di proiettile per essere stato colpito dalla mitragliatrice di un aereo di Batista. Mentre l’aereo faceva il giro per ritornare, i guerriglieri adottarono un espediente diversivo: nascosero il frigorifero e portarono in mezzo al sentiero un lenzuolo bianco, riuscendo così a ingannare il mitragliatore nemico, che dall’alto sparò al lenzuolo.
Be’, non c’è che dire, te lo possono aver raccontato finché vuoi ma essere qui è comunque un’emozione forte. Per solennizzare ulteriormente il momento, visto il mood che abbiamo preso in questi giorni, bisogna cantare qualcosa. Mi chiedono di nuovo “Hasta siempre Comandante” ma io, visto che siamo proprio davanti alla “Casa de Fidel”, penso sia più adatta “Que linda es Cuba”, che ha quel verso che dice:
Un Fidel che vibra en la montaña
Un rubì, cinco franjas y una estrella
(un rubino, cinque strisce e una stella, ovvero la bandiera cubana).
Chiedo a Carlitos se la conosce, lui naturalmente risponde di sì e il gioco è fatto, la cantiamo in duo. Purtroppo non esistono testimonianze audio o video dell’evento, ma se non conoscete la canzone e volete sentirla c’è questa versione:
L’unico rammarico, almeno per me, è non poter salire più in alto fino alla postazione da cui trasmetteva Radio Rebelde, la radio dei rivoluzionari. Ma richiederebbe ancora un bel po’ di tempo, tra andata e ritorno, e il gruppo non ce la farebbe. Mi accontento di una foto al cartello che indica il sentiero.
Scendendo, ci fermiamo a mangiare il nostro panino davanti alla casa della famiglia Medina, rischiando l’assalto delle galline. E poi ci aspetta l’altro tratto di discesa fino ad Alto del Naranjo. Lo facciamo in un tempo sicuramente inferiore a quello che ci ha richiesto la salita, anche perché Franca ora ha due uomini di… scorta tutti per lei, David e Carlitos che la accompagnano passo passo e a volte, addirittura, pare che Carlitos la sollevi di peso prendendola per la maniglia dello zaino per farle superare i tratti un po’ più difficili.
Ad Alto del Naranjo ci fermiamo un attimo al baretto del belvedere e ci mangiamo dei succosi pompelmi, affettati al momento col machete (!).
Poi il tratto in discesa con le 4×4, fino all’Hotel dove abbiamo lasciato il pullmino. Lì avremmo diritto, compresa nel prezzo dell’escursione, a una merenda costituita da un panino e da una bibita, ad esempio una Tukola, la coca-cola cubana. Ma preferiamo mettere tutto in saccoccia e ripartire subito, ci aspetta un altro bel pezzo di strada fino a Camagüey.
Abbiamo scelto Camagüey come tappa di passaggio per spezzare il viaggio che ci riporta verso occidente, che altrimenti risulterebbe piuttosto pesante. Ci aiuta, in questo senso, l’esperienza del primo gruppo della radio che ha fatto questo viaggio a novembre scorso con Claudio Agostoni. Percorriamo un altro tratto della Carretera Central e, attraversando la piccola provincia di Las Tunas e quella più grande di Camagüey, arriviamo in città che è già sera. La prima cosa che ci colpisce sono i diversi murales colorati e fantasiosi, come se fossero tavole da fumetto, che raffigurano soprattutto gatti. Scopriremo poi che sono opera dell’artista camagueyana Ileana Sanchez, che ha questo stile e, come temi ricorrenti, i pesci e soprattutto i gatti.
Io e Luciano questa volta saremo nella stessa casa di Alessio e Marcello, come all’inizio del viaggio. Ci accoglie la vivace e simpatica Lisset. La casa sua e di suo marito Kiko si trova proprio di fronte al Teatro Principal, sede della locale compagnia di balletto fondata da Fernando Alonso, ex marito di Alicia. Questa compagnia, a Cuba, gode di un prestigio inferiore solo a quella dell’Avana. Lisset, dopo averci mostrato le camere, ci racconta subito che domani inizieranno i festeggiamenti per l’anniversario di fondazione della città. “Bello!” – dico – “E che anniversario è?”. A questa domanda lei ha un attimo di dubbio, non si ricorda subito, cosa della quale si scusa e che la fa vergognare molto, ma poi si illumina: “501! Sì, certo, che stupida. L’anno scorso abbiamo celebrato i 500”. La festa, dice, sarà grandiosa, durerà dieci giorni e avrà un programma fitto di eventi, dalla musica, di vari generi, al teatro, naturalmente la danza… e poi quest’anno ci sarà la Carmen!
David e Carlitos mi avevano detto che qui a Camagüey si parla il castigliano più pulito, con meno inflessione di tutta Cuba, e sentendo parlare Lisset mi accorgo subito che è proprio così. Purtroppo, però, continua la nostra sfortuna con le feste. Siamo arrivati a Bayamo che era appena finita quella per la vittoria del Granma, la squadra di baseball, e ora arriviamo qui quando inizia un’altra festa che non ci godremo, perché domani mattina abbastanza presto dobbiamo partire.
Andiamo a cena e poi usciamo per una passeggiata in centro. È talmente bello che decidiamo di andare a letto presto per poterci alzare presto domani mattina e fare un bel giro con la luce del giorno prima della partenza, che sarà intorno alle 10.30.
(Continua…)