Capitolo 3: Yazd
Prima di me e di te notti e giorni molti son stati,
I giri grandi del cielo per qualche cosa son stati;
Dovunque poggi il piede, tu, sulla terra,
Quei grani di polvere pupille di belle fanciulle son stati.
(Omar Khayyam)
Domenica 8 aprile 2018
Partiamo verso nordest in direzione di Yazd, che è situata in un’oasi fra i deserti del Dasht-e Kavir e del Dasht-e Lut. Sono previste tra le cinque e le sei ore di viaggio.
Lungo il tragitto, la prima sosta è per visitare la prima capitale achemenide, Pasargade, che fu il centro del primo impero persiano durante il regno di Ciro il Grande, fondatore della dinastia.
Qui sorge anche la tomba di Ciro, che è il monumento più noto di Pasargade. Il sovrano venne sepolto qui dopo la sua morte, avvenuta nell’estate del 530 a.C.. Secondo diverse fonti letterarie circa due secoli dopo Alessandro il Grande ordinò un restauro della struttura. Gli archeologi non hanno tuttavia trovato tracce di questo restauro.
La parte inferiore è una piattaforma, alta 5 metri, la cui forma ricorda uno ziggurat mesopotamico. La parte superiore è divisa in due camere: una è la tomba reale, a pianta quadrata, l’altra è un attico. La funzione di questa seconda stanza è sconosciuta. La camera interna è larga 2 metri, alta 2 metri e lunga 3 metri. In passato conteneva un sarcofago d’oro, le armi del sovrano, i suoi gioielli e un mantello.
In passato la tomba era circondata da un portico. Questo era già crollato prima delle ricerche archeologiche, e molte sue pietre erano state riutilizzate per realizzare una recinzione nei pressi della tomba. Ciò che era rimasto del portico venne rimosso in seguito per creare un campo di atterraggio per elicotteri, costruito in occasione delle festività organizzate da Mohammad Reza Pahlavi per celebrare nel 1971 i 2500 anni della monarchia in Persia. Il portico in realtà era un’aggiunta risalente al primo quarto del XIII secolo.
Come altre strutture pre-islamiche la tomba era stata trasformata in moschea, e ribattezzata con un nome che la collegava a re Salomone: Qabr-e Madar-e Solaiman, ovvero la “moschea della madre di Salomone”.
E qui Alì, anche questa volta in maniera molto appropriata, ci legge quello che dice il Cilindro di Ciro.
Nel 1879, durante gli scavi del tempio di Marduk, in Mesopotamia, fu scoperto un cilindro di argilla cotta di 22 cm. La sua iscrizione cuneiforme, di 45 righe, una volta decifrata, risultò essere una dichiarazione che garantiva la liberazione delle genti conquistate, emanata da Ciro II, conosciuto come Ciro il Grande, dopo la sua conquista di Babilonia.
Ciro attuò nel suo vasto impero caratterizzato da diverse lingue, fedi e culture una politica tollerante e liberale per quei tempi; permise tra l’altro agli Ebrei deportati a Babilonia, dopo la distruzione di Gerusalemme del 586 a.C. ad opera del re babilonese Nabucodonosor, di rientrare in Palestina e di ricostruire il loro tempio. Per questo Ciro fu considerato dal profeta Isaia come un messia, consacrato dal Signore per una missione di liberazione del popolo ebraico e citato nell’Antico Testamento.
Il Cilindro di Ciro (539 a.C.) è oggi considerato come la prima carta dei diritti umani nella storia dell’umanità. Da Babilonia, l’idea dei diritti umani si diffuse rapidamente in India, in Grecia ed infine a Roma. Solamente più di mille anni dopo, la Magna Charta, documento siglato nel 1215 da re Giovanni d’Inghilterra, sancì nuovi diritti individuali.
Le clausole del Cilindro di Ciro, il cui originale è conservato al British Museum a Londra, e una copia del quale è esposta al Palazzo delle Nazioni Unite a New York, nonostante siano state oggetto di alcune controversie sulla loro traduzione e interpretazione, sono riprese nei primi quattro articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Nella voce di Alì si sente risuonare l’orgoglio persiano.
“Io sono Ciro, Re del mondo, grande Re, potente Re, Re di Babilonia, Re della Terra di Sumer e Akkad, Re dei quattro angoli della terra, figlio di Cambise, grande Re, Re di Anshan, nipote di Ciro, grande Re di Anshan, discendente di una infinita linea reale…
Quando io ben disposto entrai a Babilonia, fondai la mia residenza sovrana nel palazzo reale in mezzo a giubilo e felicità… Le mie numerose truppe marciarono pacificamente in mezzo a Babilonia. Non permisi a nessuno di impaurire la terra di Sumer e Akkad. Io li sollevai da un giogo non appropriato per loro.
Restaurai le loro dimore dilapidate. Misi fine alle loro sfortune… Da … alle città di Ashur, Sua, Eshnuna, le città di Zamabn, Meurnu, Der, fino alla regione lontana di Gutium, le città sacre oltre il Tigri, i cui santuari rimasero in rovina per un lungo periodo, gli dei la cui residenza è in mezzo a loro io riportai nei loro luoghi e alloggiai in santuari eterni. Io riunii insieme tutti i loro abitanti e li ristabilii nelle loro abitazioni…”
Appena ieri siamo stati tutti dariani, ma oggi come non diventare tutti ciriani, o ciristi, o cirini? Ragazzi, questi re persiani sono uno meglio dell’altro. Bisogna trovare un nuovo nome al partito, che metta insieme Dario e Ciro. Ci penseremo. Del resto, nella migliore tradizione della sinistra, come farsi mancare un cambio di nome? E se no, meglio ancora, ancora più coerentemente con la nostra storia, ci scindiamo: seguaci di Dario e seguaci di Ciro. Sempre meglio che Renzi e Bersani, con tutto il rispetto.
Comunque non siamo certamente i primi a volerci inventare discepoli di Ciro. Anche lo Shah voleva farsi costruire il mausoleo vicino al suo, c’è ancora il basamento.
Ripartiamo e c’è un’altra sorpresa per noi. Per aiutarci a passare meglio la prossima ora e mezza – due ore di viaggio, sullo schermo del pullman si proietta Persepolis, il capolavoro di animazione di Marjane Satrapi. Un film che racconta con grazia e levità, nella forma di un’autobiografia tenera e ironica, ma a tratti anche graffiante, trent’anni di storia dell’Iran, dalla caduta dello Shah fino a una decina di anni fa (è datato 2007). Personalmente deve essere la quarta volta che lo vedo, ma è talmente bello che non si può non guardarlo. Per chi non lo aveva mai visto è anche un utile riassunto che ha dentro anche alcune cose non proprio notissime, per esempio le illusioni della sinistra iraniana, che sia pure per poco ha creduto che la rivoluzione khomeinista potesse avere un lato positivo nel suo carattere anticapitalistico; quella sinistra che poi fu oggetto di una persecuzione peggiore di quella dello Shah. Alla fine in diversi hanno gli occhi lucidi, e non può essere altrimenti. È un peccato che gli iraniani non lo possano vedere, se non rivolgendosi a qualche “spacciatore” di film proibiti.
Il film, come è naturale, scatena altre domande. E una discussione tra noi, che cominciamo a fare il punto delle cose che abbiamo sentito dire in questi primi giorni dagli iraniani.
La repressione del dissenso è ancora così feroce come si vede nel film? Sì e no. È meno plateale. Per esempio, mi aspettavo un controllo poliziesco molto più presente, più percepibile. Invece, esercito, polizia o i guardiani della rivoluzione con le loro uniformi verde scuro raramente li abbiamo visti. Forse perché abbiamo girato soprattutto in zone dove c’è turismo, quel poco che c’è ora, e lì l’Iran non può permettersi di dare un’immagine negativa. Il regime, lo abbiamo già detto, cerca di concedere qualcosa di marginale per mantenere il controllo sulle cose che contano. Anche all’estero, dopo l’accordo sul nucleare, bisogna dare l’immagine di un sistema che sta cercando di riformarsi, sia pure gradualmente. Ma è la realtà? Abbiamo sentito parlare anche di gente che sparisce, tuttora. Il problema centrale, questo lo sanno un po’ tutti, è che Rouhani, ammesso che sia davvero un moderato, conta pochissimo, e il parlamento ancora meno. Nella Repubblica Islamica, il potere resta in mano agli ayatollah. Religione e politica sono difficilmente distinguibili.
Lo sappiamo cosa succede a chi viene beccato a bere, o con dell’alcol in casa. La prima volta, se confessa, sono 70 frustate, che dovrebbero essere date col Corano sottobraccio, in modo che il movimento del braccio sia limitato e il colpo più morbido. Ma se sei sfortunato puoi trovare una guardia in vena di sadismo, e allora, più o meno casualmente, il Corano può cadere. La seconda volta, altre 70. La terza volta si va in carcere, c’è un processo e non si sa cosa può succedere. La sharia è molto soggetta all’interpretazione. Su un piano puramente teorico, si rischia addirittura la condanna a morte. Frustate vengono inflitte anche per adulterio, e in generale per relazioni sessuali illecite. Occasionalmente, vengono ancora praticate amputazioni per furto. La lapidazione è stata abolita nel 2012, ma reintrodotta nel 2013 per le adultere, anche se da allora non sono trapelate notizie su pene effettivamente eseguite. Per altri reati, però, la pena di morte è ampiamente praticata, soprattutto per impiccagione. Secondo Nessuno tocchi Caino, sotto la presidenza Rouhani sono avvenute 2277 esecuzioni.
L’uso di droga, invece, ora è punito dalla legge civile ma non da quella religiosa e quindi è diventato più facile; il consumo di droghe è aumentato. Da sempre, l’oppio afgano passa per l’Iran. Quasi tutto passa soltanto, ma una piccola parte si ferma.
Altra contraddizione: L’omosessualità è reato, ma è consentito cambiare sesso, proprio con lo scopo di ridurre il “problema”. C’è addirittura un contributo statale, per chi lo fa.
Che cosa è cambiato, allora, in questi anni? Qualcuno ci ha detto che nei primi anni della rivoluzione, se non altro, non c’era corruzione, ma ora, e da più di 20 anni, su questo fronte va sempre peggio. È anche vero che è difficile trovare un paese del mondo dove la gente comune non si lamenti della corruzione dei politici.
E come è messa l’opposizione al regime, se esiste? Male. Non ha un programma e non ha leader. Kharroubi e Moussavi, i leader del movimento verde del 2009, sono ancora agli arresti domiciliari.
In questa situazione, è più che normale che le persone cerchino di andare all’estero, ma non è certo facile. Non tanto perché l’Iran non lasci uscire, ma perché i paesi occidentali concedono il visto con molta difficoltà. Gli iraniani sono ancora i cittadini di uno stato canaglia. Del resto, anche dopo l’accordo sul nucleare, che ora l’amministrazione Trump pare decisa a stracciare, non tutte le sanzioni sono state tolte, soprattutto dagli USA. Anche per avere un visto turistico, le ambasciate straniere chiedono infiniti documenti e prove che la persona abbia disponibilità economiche e quindi non voglia emigrare.
Ci distoglie dalle discussioni l’arrivo all’autogrill, dove ci fermiamo per un pranzo veloce. Il cibo magari non è eccezionale, ma è comunque passabile; in compenso, c’è un’altra cameriera con dei bellissimi occhi.
Raggiungiamo Abarkuh, che è la seconda tappa della giornata. Prima di tutto vediamo un cipresso storico, che ha più di 4000 anni ed è monumento naturale nazionale dal 2003. È alto 25 metri, con un tronco di diametro circa 3 metri e una chioma larga 14 metri. È considerato la creatura più vecchia sulla terra; secondo alcuni studiosi, potrebbe essere stato piantato da Iafet, il figlio di Noè. Anche qui, naturalmente, la lettura in chiave religiosa non può mancare. Il cartello turistico a firma del Dipartimento per l’Ambiente della Provincia di Yazd recita in inglese: “Gli alberi antichi sono una manifestazione della gloria di Dio nella creazione dell’universo, perciò trattateli con rispetto”. Anche qui le immancabili famiglie che fanno pic-nic.
Ma (almeno per me) la vera perla di Abarkuh è palazzo Aghazadeh. Questa dimora nobiliare costruita in epoca Qajar, con la sua torre del vento principale alta 18 metri, è veramente un’icona dell’architettura persiana, al punto da essere raffigurata sulla banconota da 20.000 Rial. Nella torre ci sono 19 prese d’aria, che sono internamente connesse a una seconda torre del vento. Questo sistema è in grado di funzionare anche in assenza di vento e, a differenza della maggior parte delle altre torri del vento, è una struttura a due piani.
L’ala nord, a forma di croce, si affaccia su un patio centrale con una grande vasca in pietra. Il palazzo è diviso in tre parti, che davano modo a chi vi risiedeva di vivere in un’ala diversa a seconda della stagione. Il pergolato è decorato a muqarnas. Ma la cosa più bella, forse, è andare sul tetto e lasciare lo sguardo spaziare tra tutte le altre torri del vento, i tetti, le piccole cupole e i terrazzi. Tutto è costruito in mattoni crudi e tutto ha il colore della sabbia del deserto.
Un’altra caratteristica delle antiche città persiane, visibile anche qui, è quella dei qanat. I qanat sono una rete di canali sotterranei in lieve pendenza e di cunicoli verticali simili a pozzi. In questo modo si attinge a una falda acquifera in maniera da trasportare efficientemente l’acqua in superficie senza necessità di pompaggio. L’acqua fluisce per effetto della gravità, poiché la destinazione è più bassa rispetto all’origine. Questa tecnica consente di trasportare l’acqua a grande distanza in zone dal clima caldo e secco senza perderne una grande quantità a causa dell’evaporazione. In Iran ci sono 200.000 km di qanat, costruiti fin dal periodo achemenide.
Ripartiamo e, dopo altri chilometri di deserto e di splendide montagne, raggiungiamo Yazd nel tardo pomeriggio.
La città sorge a 1.216 m s.l.m. e ha circa 400.000 abitanti. Yazd è la più secca fra le principali città iraniane, con una media annuale delle precipitazioni di 60 mm, ed è anche la più calda fra le città a nord del Golfo Persico, con temperature estive che superano frequentemente e abbondantemente i 40°C senza umidità.
Vanta 3.000 anni di storia, in quanto risale al tempo dell’impero medo, quando era nota come Ysatis (o Issatis). L’attuale nome della città potrebbe derivare da Yazdgard I, un re sasanide. La città era già un centro zoroastriano in epoca sasanide. Dopo la Conquista islamica della Persia, molti zoroastriani delle province circostanti trovarono rifugio a Yazd. La città rimase zoroastriana anche dopo la conquista dietro il pagamento di un tributo e solo gradualmente l’Islam divenne la principale religione della città.
Ancora oggi, infatti, dei 300.000 zoroastriani nel mondo, 20.000 vivono in Iran e di questi 12.000 a Yazd; gli altri vivono soprattutto in India.
Noi ci sistemiamo al Khaneh Se Nik Hotel, che è una casa tradizionale vecchia di 200 anni con un bellissimo cortile dove si può prendere il fresco ai bordi di una vasca d’acqua tra due aiuole fiorite. La chiave che ci danno è quella di un lucchetto che chiude il portone di legno della camera. Per raggiungere alcune camere (compresa la mia) bisogna fare un po’ un’arrampicata, ma ne vale davvero la pena. Rispetto all’ecomostro di Shiraz, veramente un salto di qualità.
Ceniamo in un “Tourist Restaurant” nelle vicinanze. Il fatto che il locale abbia un’insegna così lascia presagire che l’atmosfera non sarà il suo forte, e infatti è un po’ freddina, ma il cosciotto di agnello (mi perdonino le vegetariane del gruppo) ha un suo perché. Poi facciamo due passi e torniamo in albergo, dove con un gruppetto ci fermiamo ancora un po’ a chiacchierare e a goderci il cortile (anche perché le pareti sono così spesse che in quasi tutte le camere la rete wi-fi non prende…). A tarda sera, Alì si fa ancora massaggiare da Alberto su un divano ai bordi della vasca.
Lunedì 9 aprile 2018
La visita della città comincia dalla moschea Jameh, o moschea congregazionale, o moschea del venerdì. Tutte le comunità di più di 5000 persone, in Iran, devono averne una. Ma questa è davvero spettacolare, con i suoi altissimi minareti gemelli.
La moschea, del XII secolo, è stata costruita sotto Ala’oddoleh Garshasb della dinastia Al-e Bouyeh (Bouayhidi) e in gran parte ricostruita tra il 1324 e il 1365.
La moschea è un bell’esempio di stile azero di architettura persiana. I suoi minareti sono i più alti in Iran, e sono stati costruiti successivamente, nel periodo safavide (1600); misurano 52 metri di altezza e 6 metri di diametro. La facciata del portale è decorata da cima a fondo di piastrelle di una brillantezza abbagliante, prevalentemente di colore blu. All’interno c’è un lungo cortile porticato dove, dietro un Iwan infossato a sud-est, vi è una camera santuario (Shabestan). Questa camera, sotto una cupola in maiolica, è squisitamente decorata con maioliche a mosaico. Bellissimo anche l’alto miḥrab, datato 1365 e decorato a muqarnas. Al fondo della sala ci sono delle poltroncine messe lì per le persone che per motivi fisici non riescono a inginocchiarsi in adorazione, che così possono pregare sedute appoggiando la fronte, con la pietra, su un banchetto. Un anziano mullah parla al telefonino.
Le eleganti decorazioni in mattoni lavorati e le tessere di mosaico recanti caratteri cufici angolari creano un senso di bellezza. Su due piastrelle a forma di stella, il nome del costruttore e l’anno di costruzione della sala di preghiera. Sotto gli archi sono scritti i 99 appellativi di Dio; sui muri, tra i motivi geometrici, come sempre i nomi di Alì e Allah.
Davanti alla moschea, c’è un negozio di abbigliamento gestito da un profugo afgano che ha parecchia roba, con bei colori e belle fantasie. Qualche signora si fa tentare dallo shopping, anche per rimpinguare un po’ il guardaroba “islamico”, quello a prova di ayatollah che le donne del gruppo devono per forza indossare in questi giorni. Stanno imparando dalle donne iraniane che, giocando sapientemente sui colori e sugli abbinamenti, si può essere “cool” anche rispettando il rigido codice di abbigliamento imposto dal regime. Azar Nafisi racconta che, nei primi anni della rivoluzione, l’ossessione per il velo l’aveva indotta a comprare un’ampia veste nera che la copriva fino alle caviglie, e lei era arrivata a fingere che quando portava la veste tutto il suo corpo si dissolvesse: restava solo la stoffa con la sua forma, che andava in giro guidata da una forza invisibile. Ora i tempi sono cambiati; si vedono ancora donne che scelgono di annullarsi in questo modo, ma tante altre invece, approfittando anche del clima un po’ più permissivo, adottano una strategia di sopravvivenza diversa.
Ci addentriamo nella città vecchia di Yazd, dove tutte le case sono costruite in mattoni crudi di fango e paglia, color del deserto, e dove le torri del vento sono una miriade. Un’altra caratteristica di molte antiche case iraniane, che è particolarmente presente qui a Yazd, è che sulle porte di sono due batacchi di forma diversa: uno ad anello per le donne e uno più pesante e di forma allungata per gli uomini. Questo serviva per riconoscere dal suono chi stesse bussando, in modo che una donna non andasse ad aprire se era un uomo a bussare o che le donne si coprissero se stava per entrare un uomo. È divertente vedere come parecchie donne iraniane si facciano fotografare nell’atto di bussare con il batacchio da uomo; una specie di piccola ironica sfida, una simbolica trasgressione che evidentemente hanno voglia di concedersi. Stiamo vedendo che in questi piccoli gesti le donne, soprattutto le giovani, cercano di trasgredire appena possono.
Passiamo da una piazza dove è in bella mostra un oggetto che non potremmo riconoscere senza il fondamentale aiuto di Alì: è la palma (o cipresso) di Hosein. In farsi si chiama Nakhl, che significa palma, ma la sua forma ricorda quella di un cipresso. È una struttura di legno che simboleggia la bara di Hosein e che viene portata in processione nel giorno dell’Ashura, ricordando la sua morte e il suo funerale, in quella che è la celebrazione più sentita dagli sciiti. Si chiama palma perché si narra che il corpo di Hosein riposò all’ombra di una palma, o che fu trasportato in una bara fatta con rami di palma. Può essere di piccole dimensioni, nei piccoli villaggi dove può essere portata anche da due persone, o una grande struttura come questa, trasportata da decine o addirittura centinaia di persone. Alì ci racconta che quel giorno, in Iran, nessuno cucina a casa, ma tutti escono e, partecipando alla processione, mangiano cibo di strada preparato appositamente per la celebrazione. È un giorno di grande dolore collettivo, in cui si commemora un lutto, ma anche una grande festa popolare.
Una visita a un laboratorio di tessitura, e poi è il momento di una sosta per un tè, che serve anche per sfuggire un attimo alla calura, che oggi si fa sentire. La sala da tè, ricavata anche questa in un antico palazzo, ha un piacevolissimo giardino con l’immancabile vasca, che qui si riempie anche di petali di fiori. Incontriamo un bel gruppo di donne, molto allegre e che come sempre hanno voglia di chiacchierare e fare foto con noi. Scopriamo che una ha perfino un cugino a Torino, ma soprattutto è bello vederle qui insieme a rilassarsi, ridere e non preoccuparsi se a un certo punto cade il velo. Vorremmo che si potesse interpretare come un piccolo segnale di distensione (Ah, quella a sinistra nella foto è la nostra Franca, ma ormai con il cuore è un po’ iraniana anche lei).
Visitiamo anche un laboratorio di ceramica, un’altra forma di artigianato per cui Yazd va famosa, insieme alla lavorazione dei tessuti. Qui la sosta un po’ si prolunga, perché possiamo vedere un maestro vasaio al lavoro e perché la scelta di piastrelle, vasi, tazze, tazzine e quant’altro è vasta, ci vuole il suo tempo. Per cui, quando usciamo, ormai è ora di pranzo.
Ci facciamo un pranzo a buffet in un bel locale tipico. Il menù prevede tante specialità: le solite ottime melanzane, ma anche una zuppa di Yazd a base di lenticchie, e carne di cammello (dromedario, per essere precisi). Per me è la prima volta, devo dire che non è male. Per finire gelato alla crema e dolcetti di pasta di mandorle e acqua di rose.
Dopo pranzo ripartiamo verso un altro sito archeologico importante: le Torri del Silenzio.
Le torri del silenzio sono delle strutture relative al culto zoroastriano poste su due colline a sud della città. Esse sono state utilizzate per secoli per la distruzione dei corpi dei defunti da parte degli uccelli, dato che la religione zoroastriana imponeva di non contaminare la terra con i corpi dei defunti, ritenuti impuri. Consistono di due torri con degli alti muri, al cui interno i cadaveri venivano riposti e lasciati decomporre, con l’aiuto degli avvoltoi.
Le torri vennero utilizzate sino agli anni ‘70 del XX secolo, quando il governo iraniano ne impose la chiusura e la modifica del culto.
Lo Zoroastrismo, forse bisogna precisarlo, è la religione sviluppatasi durante l’Impero persiano achemenide nel VII-VI secolo a.C. ad opera di un sacerdote di nome Zarathustra (Zoroastro per i greci). Zarathustra nacque però, secondo i testi sacri zoroastriani, molto prima, nel 1767 a.C., e morì ucciso da invasori all’interno di un tempio.
Lo zoroastrismo, presente essenzialmente nella corte e nell’aristocrazia persiana, oltre che nella classe sacerdotale durante il periodo achemenide e quello sasanide, cedette il posto all’Islam, portato dai conquistatori arabo-musulmani tra il VII e l’VIII secolo, ma sopravvive ancor oggi in Iran e in piccole comunità dell’India, dette parsi.
Le torri sono impalcature di legno e argilla, che sostengono una piattaforma esposta ai venti. Servivano per l’eliminazione dei cadaveri, che venivano esposti agli elementi atmosferici e divorati dagli uccelli rapaci. La piattaforma ha una circonferenza rialzata e inclinata verso l’interno, tre cerchi concentrici, e al suo centro un’apertura. Le ossa rimanenti venivano gettate dentro il pozzo fino a riempirlo completamente. I cadaveri venivano disposti da speciali addetti, i Nāsāsālar (letteralmente, “coloro che si prendono cura di ciò che è impuro”), gli unici che avevano la facoltà di toccare i morti: gli uomini venivano sistemati nel cerchio esterno, le donne in quello mediano e i bambini in quello più interno. Alì ci spiega tutto questo prima di salire verso la torre, disegnando dei cerchi sulla sabbia con un bastoncino. Ci racconta che in India le torri del silenzio avevano anche un quarto cerchio per i neonati, ma qui no. Il cerchio è un elemento simbolico fondamentale nello zoroastrismo, perché rappresenta il patto con Dio: lo avevamo già visto nei rilievi delle tombe reali, dove il re riceveva un anello dalle mani del dio Ahura Mazda. Simbolicamente, il cerchio significa anche che tutto ciò che facciamo segue un percorso circolare: se facciamo del bene, riceviamo bene; se facciamo del male, riceviamo male. Così parlò Zarathustra.
Nello zoroastrismo il cadavere è considerato impuro perché appena dopo la morte viene invaso da demoni e spiriti, che rischiano di contaminare non soltanto gli uomini retti, ma anche gli elementi. Non si seppellivano i morti perché la terra è sacra. Anche Il fuoco è sacro, e pertanto non può essere contaminato, rendendo impossibile il ricorso alla cremazione; né tantomeno si gettavano i morti nelle acque, perché anch’esse sacre.
Saliamo fino alla torre. Alì, con la sua gamba malridotta, non se la sente di accompagnarci. Oggi non c’è molto vento, ma il posto è comunque suggestivo. Da quassù, se non fosse che vediamo in lontananza le ultime propaggini della città, potremmo pensare di essere ritornati indietro di più di duemila anni. Sembra quasi di sentire gli avvoltoi volteggiare sulle nostre teste… meglio tornare giù per non farsi suggestionare troppo.
Tornando in città, il percorso nello zoroastrismo continua con la visita al Tempio del Fuoco zoroastriano. Alberto ha già affermato, tra il serio e il faceto, di volersi convertire allo zoroastrismo, e ha chiesto delucidazioni ad Alì per capire se e come sia possibile. Pare che non ci siano particolari fattori ostativi, in teoria. Lo zoroastrismo è tuttora esistente e tollerato nella Repubblica Islamica. Però, nella pratica, non si può diventare zoroastriani, si può solo nascere zoroastriani. Un musulmano che volesse diventare zoroastriano potrebbe essere accusato di apostasia, e non è mai bello da queste parti. Per uno straniero non musulmano il problema non si dovrebbe porre, ma insomma… la vedo un po’ dura. Certo che il motto zoroastriano che si riassume in “Pensare bene, parlare bene, agire bene” non può che essere condivisibile.
Sulla facciata del tempio, costruito nel 1934, nell’epoca laica e tollerante di Reza Shah, campeggia l’uomo alato, simbolo dello zoroastrismo. L’uomo alato tiene un anello nella mano sinistra, a significare che per progredire nella vita bisogna mantenere ciò che si promette, e la destra verso l’alto, in segno di preghiera e venerazione.
All’interno del tempio è conservato il fuoco sacro, o “fuoco vittorioso”, datato 470 d.C. Si tratta di uno dei nove Templi del Fuoco (Atash Behram) esistenti; gli altri otto sono in India. Nel 1960 è stato aperto ai visitatori non zoroastriani.
Il fuoco, nella religione zoroastriana, è la manifestazione di Ahura Mazda. Il fuoco sacro del tempio sarebbe stato originariamente avviato dallo Shah sasanide nel tempio del fuoco Pars Karyan nel Fars meridionale. Da lì sarebbe stato trasferito varie volte, e infine consacrato nel nuovo tempio nel 1934.
Il tempio del fuoco è stato costruito in stile architettonico achemenide in muratura di mattoni con uno stile predisposto dagli architetti di Bombay. È simile nel design ai templi Atash Behram in India. L’edificio è circondato da un giardino con alberi da frutto. Il sacro fuoco è installato nel tempio dietro una recinzione di vetro ambrato colorato. Solo gli zoroastriani sono autorizzati a passare alla zona sacra del fuoco. I non-zoroastriani, come noi, possono vederlo solo dall’esterno della camera di vetro.
Nel tempio, al quale è annesso un piccolo museo, ci devono essere anche degli zoroastriani, ma facciamo fatica a riconoscerli. Sappiamo solo che spesso si vestono di bianco, perché il bianco rappresenta pulizia, austerità e modestia.
Ci spostiamo nella splendida piazza Amir Chakhmagh, con una moschea in stile azero ad un solo iwan. Il complesso Amir Chakhmagh contiene anche un caravanserraglio, un tekyeh (dove si preparano le celebrazioni dell’Ashura), uno stabilimento termale, un antico pozzo e una pasticceria.
La piazza prende il nome da Amir Jalaleddin Chakhmagh, un governatore di Yazd durante la dinastia timuride (XV secolo). L’importante struttura ha tre piani ed una elaborata facciata simmetrica a nicchie ad arco. È la più grande struttura di questo tipo in Iran. Nel centro vi sono due minareti altissimi. Solo il primo piano sopra il livello del suolo è accessibile.
Passeggiando sulla piazza, incontriamo Taraniyeh e il suo papà. Taraniyeh ha 7 anni ed è battriana, viene cioè da una regione situata nell’attuale nord dell’Afghanistan che anticamente faceva parte dell’impero persiano. Regione di cui indossa un costume tipico, per farsi fare le foto e rendere ancora più orgoglioso il suo papà, anche se lei sembra poco convinta.
E nei dintorni della piazza c’è anche il posto dove abbiamo il prossimo appuntamento in programma: Zurkhaneh, la casa della forza.
È la “palestra” in cui si pratica l’attività sportiva tradizionale iraniana, un mix di allenamento fisico e purificazione spirituale. Con qualche aggiustamento, questa tradizione nata (pare) nell’Iran preislamico sopravvive ancora oggi, rigorosamente solo per uomini. La tradizione narra che con la caduta dell’impero persiano per mano degli arabi, i guerrieri e gli atleti persiani non potessero più praticare sport all’aria aperta. Decisero quindi di continuare gli allenamenti in case private, per poi spostarsi in strutture simili a quelle odierne, tra il ritrovo clandestino e la palestra.
La struttura della palestra è essenzialmente sempre la stessa da secoli. Si tratta di un’ampia sala a cui si accede da una porta piuttosto bassa, che costringe a chinare il capo in segno di rispetto. Al centro della sala c’è una zona più bassa, con il pavimento di legno, a cui hanno accesso gli atleti. Attorno alla “pedana” c’è un angolo per gli attrezzi ginnici, una zona dedicata agli spettatori, e un cabinotto per il moršed, la guida.
Il moršed è quello che, a vederlo, si potrebbe confondere con un deejay/vocalist: suona e canta in quella che sembra la cabina di un deejay… In realtà questa persona scandisce il tempo dell’allenamento suonando incessantemente il tamburo, e accompagna lo sforzo degli atleti recitando versi religiosi o dei grandi classici persiani.
La mise degli atleti si è adeguata ai tempi. Una volta gli uomini si spogliavano simbolicamente del loro status sociale e indossavano solo dei “parei” che coprivano i fianchi e giravano tra le gambe: oggi sfoggiano bermuda lunghi al ginocchio e maglietta, visto che tra il pubblico sono ammesse anche donne. In vita hanno delle grosse cinture di cuoio per dare supporto alla schiena, i piedi sono scalzi.
L’inizio dell’allenamento è molto simile alla fase di riscaldamento di tanti sport occidentali; gli attrezzi che vengono sollevati e roteati, invece, sono piuttosto peculiari. Ci sono i sang, delle grosse tavole di legno con una maniglia per sollevarle. Ci sono i mils, che vengono roteati sopra la testa e dietro le spalle, che sembrano dei grossi birilloni ma arrivano a pesare fino a 30 chili. E poi i kabbāda, delle catene di metallo con dei dischi, che venivano usate anticamente per allenarsi a tirare con l’arco. L’allenamento si concludeva con una specie di lotta, oggi non più praticata. Così gli atleti si sfidano a piroette, roteando come i dervisci. Tra loro, anche un bambino che può avere cinque anni, vestito di tutto punto ma molto spaesato, per cui mi veniva voglia di chiamare il Telefono Azzurro iraniano, ammesso che esista.
Questo spettacolo ci era stato segnalato fin dalla riunione pre-viaggio, mettendoci sull’avviso che ci poteva essere, come dire, un certo… odore di maschio. In effetti è così, i ragazzi sudano e si sente, ma non è neanche questo il problema. È che, almeno personalmente, non ci ho visto grande spiritualità, anche se non tutti nel gruppo la pensavano così. E se non c’è quello, come spettacolo atletico obiettivamente non vale molto. Alcuni degli “atleti” hanno veramente un fisico imbarazzante.
Ma per fortuna, Yazd è famosa anche per i suoi dolci. E così ci possiamo consolare facendo incetta di Baghlava e altre prelibatezze nella migliore pasticceria della città, segnalataci da Alì.
Per cena, andiamo al Fazeli Hotel, nella piazza dove si trova la palma di Hosein. Una bella grigliata mista e melanzane del mar Caspio con pomodoro e aglio. Dopo di che, ci vorrebbe una bella passeggiata digestiva, ma il nostro hotel è piuttosto lontano e la serata si è fatta molto fresca e ventilata. Qui, essendo vicino al deserto, c’è una forte escursione termica tra il giorno e la sera. Così preferiamo rientrare in taxi, non senza aver dato un ultimo sguardo ai minareti della moschea Jameh, proiettati verso il cielo e illuminati di azzurro. Domani mattina si riparte, stavolta in direzione Esfahan.
(Continua…)
Continuando la lettura di “in viaggio con Alì” si capisce che questo viaggio in Iran definito “classico”, grazie a Piero e alla guida Ali ha avuto una marcia in più anzi due. Piero che si è sobbarcato questo lavoro, prendendo appunti e approfondendo fatti storici in maniera chiara. Alì, una guida che raccomando agli italiani che volessero intraprendere lo stesso viaggio. Lui accompagna solo gruppi italiani e ama molto l’Italia oltre che la Persia ovviamente. Da Alì abbiamo avuto tutto ciò che ci si aspetta da una guida ma con uno sguardo disincantato ma anche sensibile sui temi attuali relativi al suo paese. Questo si comprende bene dai riferimenti continui di Piero a quello che Alì ci trasmetteva. Il racconto è infatti molto più interessante di una guida. Il resto lo ha fatto la gente di questo paese sconosciuto ai più. Nessuno, quando racconto, crede che ti sorridono, che si fermano, fanno domande e ti offrono ciò con cui fanno Pic nic ovunque e che si vede nessuno mendicante. E che dire di questo gruppo dove si è creata un’alchimia difficilmente ripetibile, forse perché ascoltano radio Popolare? Continuate a leggere perché ora arriva Isfahan per me la città più bella con Shiraz.
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