Capitolo 4: Esfahan

 

O cuore, fa’ conto d’avere tutte le cose del mondo,

Fa’ conto che tutto ti sia giardino delizioso di verde,

E tu su quell’erba fa’ conto d’esser rugiada

Gocciata colà nella notte, e al sorger dell’alba svanita.

(Omar Khayyam)

 

Martedì 10 aprile 2018

È uscita la notizia che lsraele avrebbe colpito una base iraniana in Siria, nei dintorni di Homs. Sembra che siano morti 7 militari iraniani. Non ci sono ancora conferme, ma se fosse così salirebbe ulteriormente il livello dello scontro in Medio Oriente. L’Iran e la Russia sono i soli alleati importanti di Bashar Al Assad. L’Iran non solo lo sostiene in quanto sciita, ma ha chiaramente interessi nell’area. L’obiettivo, neanche tanto mascherato, sarebbe quello di crearsi un corridoio per attaccare Israele, che naturalmente non sta a guardare.

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Noi cerchiamo di non pensare ai venti di guerra e partiamo di buon’ora, questa volta in direzione nordovest. Il viaggio fino a Esfahan durerà almeno 4 ore, ma lo spezzeremo con due soste.
La prima è nella cittadina di Meybod, che ospita diversi edifici interessanti. Vediamo prima di tutto la ghiacciaia, recentemente restaurata, che risale al XVI secolo ed è realizzata interamente in mattoni crudi. Il meccanismo era questo: nel periodo invernale, durante la notte, l’acqua nelle vasche situate all’esterno ghiacciava e, nelle prime ore del mattino, il ghiaccio veniva frantumato e trasportato all’interno dell’edificio, nel contenitore scavato nel suolo. Le pareti della ghiacciaia, spesse oltre due metri, e la particolare conformazione della cupola alta 15 metri permettevano al ghiaccio di conservarsi per essere poi utilizzato durante i mesi estivi. Lo spessore della cupola varia da 2,40 m alla base fino a 25 cm (un solo mattone) sulla sommità. Ghiacciaia in farsi si dice yakchal, un’altra parola con delle curiose assonanze. Entrando, e cominciando a girare intorno al pozzo del ghiaccio, ci colpisce la luce suggestiva, ma soprattutto ci colpisce l’acustica. Partono i primi vocalizzi, i primi gorgheggi finché… non so bene come (ero lontano), si comincia a sentire una voce angelica che sale fino a riempire la volta. È Vanda che ha cominciato a cantare il Va’ pensiero, e lo canta da brividi! Anche altre voci si aggiungono. L’iniziale sorpresa diventa emozione, che poi si scioglie in un applauso. Un momento di grande intensità.

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A Meybod c’è anche un antico caravanserraglio, dove ora si trovano diversi negozi e laboratori artigianali. Noi ci soffermiamo, in particolare, su un laboratorio di ceramica (è sempre bello vedere un maestro vasaio che lavora al tornio, e invariabilmente il pensiero va a “Ghost”…), uno di tessitura e uno di pelletteria. Una piastrella che rappresenta un sole con il volto di donna ci permette di scoprire che il sole in persiano è femmina: la parola aftab (sole) può essere anche femminile, e soprattutto quel sole donna è un simbolo del mitraismo, cioè il culto di Mitra, il dio sole, che è alle radici dello zoroastrismo.
Ma non basta: c’è anche un ab anbar, una cisterna per l’acqua tradizionale del 1659 circondata da quattro torri del vento, e c’è una bella colombaia di epoca Qajara.

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Ripartiamo verso la seconda tappa, Nain. Durante il tragitto in pullman, che dura circa un’ora e mezza, un’altra sorpresa; questo gruppo ne offre veramente tante. Scopriamo che Luigina dipinge dei bellissimi acquerelli iperrealisti. Spinta dalle nostre insistenze, vince un po’ di naturale ritrosia e ci mostra sul cellulare le foto dei suoi lavori. Ha già fatto la sua prima mostra, e vinto un primo premio.
Arriviamo a Nain in tempo per il pranzo, che è l’occasione per apprezzare l’ennesimo ricco buffet e per festeggiare Ingela: oggi è il suo compleanno! Non dirò quanti sono, non è carino, ma portati benissimo. Nel gruppo abbiamo fatto una piccola colletta per regalarle un piatto in ceramica con un disegno di pesci, poi toccherà a Marco… il coro di “Tanti auguri” e l’applauso sono d’obbligo. Non abbiamo lo spumante, naturalmente; dobbiamo accontentarci della solita birra analcolica Parsi, che però, dai e dai, ci sta cominciando quasi a piacere. E abbiamo dei buoni dolcetti persiani.

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Segue la visita alla Moschea del Venerdì di Nain, che con i suoi mille anni di storia è una delle più antiche in Iran. Risale all’epoca buwahyide (X secolo), sebbene l’interno sia stato rimaneggiato in epoca selgiuchide e sia pertanto riferibile al secolo successivo. Questa moschea costituisce uno degli esempi più significativi e meglio conservati di architettura religiosa di stile Khorasani. Ha quattro iwan ed è ispirata alla casa-moschea di Maometto. Notevoli soprattutto il mihrab con una splendida decorazione a stucco (IX-X secolo), il minbar in legno del 1400 e il minareto alto 28 metri di epoca selgiuchide. C’è anche il forte Narin Qal’eh, una fortezza sasanide ora in rovina.

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Dopo un altro paio d’ore di viaggio, raggiungiamo Esfahan, o Isfahan. Come per molti nomi iraniani, la traslitterazione nell’alfabeto latino non è univoca. Io adotterò la prima, che mi sembra un po’ più diffusa. Quello che è certo è che qui si dice che “Esfahan è metà del mondo” (Esfahan nesf-e jahān), a testimonianza della grandezza di questa città.
Esfahan, che sorge a 1600 m di quota e ha oggi circa 1.600.000 abitanti, è una città molto antica, importante anche nell’Impero sasanide. Fu conquistata dagli Arabi nel 642 e fece parte del Califfato abbaside finché Toghrul Beg, sovrano dei Grandi Selgiuchidi, la conquistò nel 1055 e la scelse come capitale del suo Sultanato. Perse la sua importanza con la fine del dominio selgiuchide in Persia. Fu poi occupata dai Mongoli, che in seguito ad una rivolta degli abitanti saccheggiarono la città e sterminarono la popolazione, e dagli Afghani. Nel 1930 lo Shah Reza Pahlavi ordinò che fosse messo in atto un ampio progetto di ricostruzione, per riportarla al suo antico splendore.
Noi abbiamo subito un assaggio del traffico di questa città, trovandoci imbottigliati in un ingorgo che non ha nulla da invidiare a quelli di Teheran. Anzi, forse è addirittura peggio. Così arriviamo piuttosto tardi al nostro albergo, che è il Venus Hotel. Abbiamo soltanto il tempo di sistemarci e di prendere confidenza con quello che è indiscutibilmente il centro della vita cittadina, che possiamo raggiungere con una passeggiata di un quarto d’ora. È la stupenda piazza che ufficialmente ora è Piazza dell’Imam (Meidan-e Imam), dopo essere stata Piazza dello Shah (Meidan-e Shah). L’Imam è l’Imam Khomeini, naturalmente. Ma per tutti questa piazza è Naqsh-e Jahan, l’Immagine del Mondo. Certo, forse c’è un filo di megalomania ma devo dire che l’impressione che fa, vista così con le fontane che zampillano e i giochi di luce e di colori, è davvero notevole. Lunga 560 metri per una larghezza di 160, è la seconda piazza più grande al mondo, dopo Tien An Men. Venne costruita tra il 1598 e il 1629, nel 1979 è stata inserita nell’elenco dei patrimoni dell’umanità dell’UNESCO. E da qui inizia un bazar che si estende per cinque chilometri. Nella parte più vicina alla piazza, che è la sola che abbiamo modo di esplorare, furoreggia il rame smaltato, che sembra sia uno dei prodotti più classici dell’artigianato locale.
È bellissima, forse per i miei gusti fin troppo bella. Troppo precisa nella sua armonia di forme e proporzioni, troppo elegante, troppo ordinata. È come se questo me la facesse sembrare un po’ fredda, come se fosse meno pulsante di vita. Forse non è giusto farlo, ma mi viene spontaneo paragonarla a un’altra grande piazza, la Djemaa el Fna di Marrakech; la Diemaa el Fna con i musicisti Gnawa, gli acrobati, i giocolieri, i cantastorie, gli incantatori di serpenti, i venditori d’acqua, le finte odalische che sono uomini travestiti. Forse quello è più il mio mondo, ma anche questa “Immagine del mondo” è indiscutibilmente bella.

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Avremo modo di apprezzarla ancora meglio domani. Ora andiamo a cena in un ristorante tipico, dove ci aspetta, dopo il solito ricchissimo buffet di zuppe, insalate, riso di vari tipi ecc. ecc., un tris di piatti che non abbiamo ancora provato: pollo con noci e melograno, pollo alle prugne, spezzatino con mele cotogne. Sapori insoliti per noi, ma ai quali facciamo onore con entusiasmo. Doveva essere un assaggino di ogni piatto, ma (soprattutto per me) è diventato ben di più. Questa volta tutti sono decisi a non avanzare niente, ma chissà perché guardano sempre me… Be’, come si dice è uno sporco lavoro ma qualcuno deve pur farlo, mi “sacrifico” volentieri.
Dopo di che, arriva la torta per Ingela. C’è ancora un ultimo scampolo di festa per lei, e per noi. Ancora tanti auguri tutti in coro, ancora applausi, e tutti a nanna. Domani ci aspetta un’altra giornata intensa.

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Mercoledì 11 aprile 2018

Oggi è la prima giornata dedicata ad Esfahan. E la giornata non può che cominciare dalla piazza “Immagine del mondo”, sulla quale si affacciano diversi edifici di grande interesse storico e artistico.
La gloria di Esfahan è molto legata al periodo Safavide. Nel 1598, quando lo Shah Abbas decise di spostare la capitale del suo impero dalla città nord-occidentale di Qazvin alla città centrale di Esfahan, iniziò quello che sarebbe diventato uno dei più grandi programmi della storia persiana: il rifacimento completo della città. Scegliendo la città di Esfahan, fertilizzata dal fiume Zāyandeh (“Il fiume che dà la vita”), sdraiato come un’oasi di intensa coltivazione nel bel mezzo di una vasta area di paesaggio arido, allontanò la capitale da eventuali attacchi futuri degli ottomani, gli arcirivali dei safavidi, e degli uzbeki, guadagnando allo stesso tempo un maggiore controllo sul Golfo Persico, che era da poco diventato un’importante via commerciale.
Con la costruzione della grande piazza, Shah Abbas avrebbe riunito le tre componenti principali del potere della Persia: il potere del clero, rappresentato dalla moschea (Masjed-e Shah), il potere dei mercanti, rappresentato dal Bazar Imperiale, e, naturalmente, il potere dello Shah stesso, residente nel palazzo Ali Qapu. Costruita come una fila di due piani di negozi, affiancata da un’architettura imponente, fino al lato nord, dove era situato il Bazar imperiale, la piazza era un’arena occupata da intrattenimenti e da commerci tra persone provenienti da tutti gli angoli del mondo. Esfahan era una tappa fondamentale lungo la Via della Seta.
Durante il giorno, gran parte della piazza era occupata dalle tende e dalle bancarelle dei commercianti, che pagavano un affitto settimanale al governo. C’erano anche animatori e attori. All’ingresso del Bazar Imperiale c’erano dei caffè, dove le persone potevano rilassarsi. Al crepuscolo, i bottegai mettevano via le loro merci, e il vociare dei commercianti e degli acquirenti desiderosi di contrattazione era sostituito da altri suoni: della piazza prendevano possesso dervisci, mimi, giocolieri, burattinai, acrobati e prostitute. Forse allora sì, che era un po’ come la Djemaa el Fna.
Ogni tanto la piazza veniva ripulita per le cerimonie pubbliche e le feste, soprattutto quella del Nowrouz, il capodanno persiano. Inoltre, lo sport nazionale persiano del polo poteva essere giocato nella Meidan, fornendo una fonte di intrattenimento allo Shah, residente nel palazzo Ali Qapu, e agli acquirenti occupati nelle contrattazioni.
Sotto Abbas, Esfahan divenne una città molto cosmopolita, con una popolazione residente fatta di turchi, georgiani, armeni, indiani, cinesi e un numero crescente di europei. Gli indiani erano presenti in numeri molto grandi, ospitati nei numerosi caravanserragli che sono stati a loro dedicati, e lavoravano principalmente come mercanti e cambiavalute. Gli europei erano qui come mercanti, missionari cattolici, artisti e artigiani.
Inoltre, molti storici hanno ragionato sul peculiare orientamento della Meidan. Quando si entra nel portale della Moschea dell’Imam si fa, quasi senza rendersene conto, una mezza svolta a destra che consente nella corte principale all’interno di guardare verso la Mecca. Se l’asse della piazza fosse stato coincidente con la direzione della Mecca, la cupola della moschea sarebbe stata nascosta alla vista dal torreggiante ingresso-portale. Con la creazione di questo angolo, le due parti dell’edificio, l’ingresso-portale e la cupola, sono entrambe visibili da tutti all’interno della piazza.

La prima visita, per noi, è quella alla Moschea dell’Imam, che condivide il nome con la piazza. Anch’essa quindi, già Moschea dello Shah, è diventata Moschea dell’Imam dopo la rivoluzione islamica.
Eretta nel 1629, la moschea è riconosciuta come uno dei più grandi capolavori dell’architettura persiana. Fu voluta da Abbas I il Grande, che nel 1611 ordinò l’inizio dei lavori. A quel tempo lo Shah aveva già compiuto 52 anni; per permettergli di vedere compiuta la sua opera si introdusse per la prima volta in Iran la tecnica delle piastrelle già dipinte da assemblare poi secondo il modello prestabilito. Precisamente, se si guarda il portale dell’iwan, sul lato sinistro la lavorazione è a intarsio, sul lato destro è fatta a piastrelle. Tramite questa innovazione già nel 1629 (18 anni dopo dall’inizio dei lavori) la moschea fu praticamente terminata, anche se i lavori si protrassero fino al 1638.
La pianta asimmetrica della moschea è dovuta a un doppio allineamento: il portale è orientato verso la piazza in direzione opposta alla porta Qeysarieh ossia la porta del Bazar di Esfahan, la moschea invece in direzione della Mecca.
Il portale dell’edificio è alto 30 metri ed è decorato da mosaici raffiguranti motivi geometrici, floreali e calligrafici; è affiancato da due minareti di 42 metri. Tutte le mura dell’edificio sono decorate con tessere di mosaico di sette colori. La porta di accesso, in legno ricoperto da strati di oro e argento, è decorata con alcuni poemi scritti in caratteri calligrafici nasta’liq. Sopra una finestra reticolata è raffigurato un vaso, con ai lati due pavoni. Secondo la credenza musulmana sciita, il pavone tiene lontano il diavolo. Per i romani era l’uccello di Giunone, simbolo di bellezza e di immortalità. Anche in questo caso, quindi, i persiani sarebbero arrivati prima.
La moschea è dotata di quattro iwan, dei quali il più grande è quello che indica la direzione della Mecca. Dietro di esso si apre uno spazio ricoperto dalla più grande cupola della città, alta 52 metri (il santuario principale). L’edificio contiene due madrase, due scuole coraniche.
Alì ci racconta che quello che chiamiamo “arabesco” deriva in realtà da un motivo sasanide. E ti pareva che ci fosse qualcosa che avevano inventato gli arabi e non i persiani… di sicuro gli uni e gli altri, per motivi religiosi, nelle moschee non potevano rappresentare figure umane o animali. “Maledetto il pittore che ha voluto copiare l’opera di Dio” – dicevano i dotti musulmani. E per questo sia gli arabi che i persiani hanno sviluppato in maniera incredibile i motivi geometrici e calligrafici. Alì da giorni sta cercando di convincerci che tutto quello che di bello esiste al mondo, gira gira, l’hanno inventato i persiani, e c’è quasi riuscito ormai, ma ogni tanto ci sorge qualche margine di dubbio.
Molto bello il mihrab, affiancato da un minbar in alabastro. Fu forse ispirato da questo mihrab che Italo Calvino scrisse:
«Il mihrab è la nicchia che nelle moschee indica la direzione della Mecca. Ogni volta che visito una moschea, mi fermo davanti al mihrab e non mi stanco di guardarlo. Quello che m’attira è l’idea d’una porta che fa di tutto per mettere in vista la sua funzione di porta ma che non s’apre su nulla; l’idea di una cornice lussuosa come per racchiudere qualcosa d’estremamente prezioso, ma dentro alla quale non c’è niente».

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All’interno della moschea, ci capita anche di assistere a una preghiera cantata di grande suggestione. Il muezzin invoca Dio con gli occhi chiusi e le mani sulle tempie, come per concentrarsi e isolarsi da quello che c’è intorno, da noi e dalle nostre fotocamere, forse anche dalla nostra mancanza di fede e spiritualità.

 

Proseguiamo visitando il palazzo Alì Qapu, la Porta di Alì. Alì, ancora lui!
La parola Qapu deriva dalla lingua turca e significa “Soglia Reale”. Il palazzo venne eretto agli inizi del XVII secolo su ordine dello Shah Abbas I il Grande, che lo utilizzò per gli incontri con i visitatori importanti e con gli ambasciatori. L’edificio, a pianta rettangolare, si sviluppa su sei piani (per circa 38 metri di altezza) ed ha una vasta terrazza nella sua parte frontale, coperta con un soffitto di legno intarsiato sostenuto da alte colonne lignee.
All’interno del palazzo vi sono ricchi affreschi di Reza Abbasi (il pittore di corte di Abbas I) e della sua scuola, con numerosissimi motivi a soggetto naturalistico. Le porte e le finestre del palazzo erano in origine estremamente decorate, ma esse vennero quasi tutte saccheggiate o distrutte durante i periodi di anarchia sociale che si sono succeduti nei secoli, con l’eccezione di un’unica finestra al terzo piano.
Abbas II era entusiasta della perfezione di Ali Qapu e volle lasciare un segno con la costruzione della grande sala che si trova al terzo piano. Sorretta da 18 colonne ricoperte da specchi, la sala presenta un mirabile soffitto decorato da grandi affreschi.
Al sesto piano del palazzo si tenevano i ricevimenti reali e i banchetti. Qui si trovano le stanze più grandi di tutto il palazzo, con quella dedicata ai banchetti che abbondava in stucchi rappresentanti vasi e coppe di tutte le forme. Qui si trova anche la cosiddetta sala della musica, senza dubbio la più spettacolare, dove gruppi musicali e solisti erano soliti suonare e cantare. Tutte le decorazioni intagliate sono a tema musicale, con dei vuoti fatti per esaltare l’acustica della sala. Ed è qui che incontriamo una scolaresca iraniana, formata tutta da ragazze, guidate dalla loro insegnante di inglese. Lei ha veramente un inglese perfetto, con un accento solo leggermente più americano che british, ma anche le ragazze sono molto brave. Sono attirate soprattutto da chi tra noi ha gli occhi chiari. Qui non sono molto comuni, ci spiega sorridendo l’insegnante, e quindi per loro rappresentano qualcosa di bello ed “esotico”. Per noi, invece, sono molto belli i loro espressivi occhi neri. È normale che sia così. I selfie si sprecano, quindi.

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Prima di pranzo abbiamo due momenti dedicati ad attività e prodotti tradizionali, che fanno parte comunque della cultura iraniana. Sono “consigli per gli acquisti”, ma c’è anche la possibilità di apprezzare l’aspetto artistico di questi oggetti e di comprenderne le radici storiche. Il primo appuntamento è in una gioielleria che è l’apoteosi del turchese, la pietra nazionale persiana, dove ci insegnano a distinguere il vero turchese iraniano da quello egiziano che, manco a dirlo, è di qualità inferiore. E poi nella bottega di un miniatore, che possiamo ammirare all’opera.
Oggi abbiamo deciso di fare un pranzo veloce, per sfruttare tutta la giornata al massimo possibile. Entriamo in un piccolo bar-pasticceria, dove ci facciamo un succo di melograno con dei dolci di pasta sfoglia. Il melograno è tra le cose buone create da Dio e cresce nel giardino del paradiso, si legge nel Corano. Anche nell’ebraismo è tenuto in gran conto: è uno dei sette frutti elencati nella Bibbia tra quelli prodotti dalla Terra promessa, simbolo di ricchezza e fertilità, onestà e correttezza.
Molti di noi, poi, hanno nello zaino un po’ di frutta presa dal ricco buffet della colazione. Io ho un’arancia. Me la sto gustando seduto su una panchina della Naqsh-e Jahan, quando mi si avvicina Mansour, che come sempre vuole darmi il benvenuto nella sua città. Avrà circa quarant’anni. Mi chiede se sono della Repubblica ceca, perché ha visto un gruppo di cechi e pensa che sia con loro. No, dico, sono italiano, sono con un altro gruppo. Spiego che prevalentemente siamo di Milano e dintorni. Lui sa che Milano è la “capitale economica” d’Italia, e vuol sapere se anche da noi c’è turismo. Dico che ce n’è, per la moda e il design, e comunque un po’ di arte e di cultura ce l’abbiamo anche noi. Gli spiego che giro abbiamo fatto, poi facciamo un po’ di confronti tra cucina iraniana e cucina italiana. Mi spiega che lui lavora in un negozio, gestito da un suo amico. Vorrebbe viaggiare, ma purtroppo finora non è mai uscito dal paese. Lo saluto, perché devo andare all’appuntamento con il gruppo, e ci augura buona permanenza.
Dobbiamo visitare un’altra importante moschea, la Moschea dello sceicco Lotfollah che è uno dei capolavori architettonici dell’architettura safavide iraniana, sul lato orientale della piazza.
La costruzione della moschea, iniziata nel 1603, fu terminata nel 1619. Fu costruita dal capo architetto Shaykh Bahai, durante il regno di Shah Abbas I della dinastia safavide.
Dei quattro monumenti che hanno dominato il perimetro della Piazza Naqsh-e Jahàn, questo è stato il primo ad essere costruito.
Lo scopo di questa moschea era d’essere una moschea privata della corte reale, a differenza della Moschea dello Shah, che è stata pensata per il pubblico. Per questo motivo, la moschea non ha minareti ed è di una dimensione più piccola. Ma come stile è addirittura superiore alla Moschea dello Shah. Prende il nome di Sheikh Lotfollah, un famoso mullah che fu la guida della comunità religiosa.
Come nella Moschea dello Shah, la facciata inferiore della moschea e l’ingresso sono costruiti in marmo, mentre le piastrelle a mosaici policromi decorano le parti superiori della struttura.
L’orientamento nord-sud della Meidan, come già detto, non è in accordo con la direzione sud-ovest della Mecca, ma è a 45 gradi rispetto ad esso. Questa caratteristica, chiamata pāshnah in architettura persiana, fa sì che la base della cupola non sia direttamente dietro l’iwan d’ingresso. La cupola è di 13 m di diametro, con la parte esterna riccamente ricoperta di piastrelle.
Rispetto alla Moschea dello Shah, l’architettura di questa moschea è abbastanza semplice, non c’è cortile e non ci sono iwan interni. In contrasto con la semplice struttura, la decorazione sia dell’interno che dell’esterno è estremamente complessa. Nella sua costruzione sono stati utilizzati i migliori materiali e impiegati gli artigiani più talentuosi.
Il “pavone” disegnato al centro della cupola è una delle caratteristiche uniche della moschea. Se ti trovi all’ingresso della sala interna e guardi al centro della cupola, vedi un pavone, la cui coda è composta dai raggi del sole provenienti dal foro nel soffitto. Un pavone con la coda di luce. Ritorna ancora il pavone, quindi, simbolo di bellezza e di immortalità oltre che protezione dal demonio. Lo scopo estetico del lungo, basso e cupo passaggio che porta alla camera della cupola diviene evidente, perché è con un senso di attesa che si entra nel Santuario, dove la cupola colpisce per la sua imponenza e l’oscurità viene dissipata.
Le iscrizioni della Moschea riflettono le questioni che preoccupavano lo Shah al tempo della costruzione, vale a dire la necessità di definire lo sciismo duodecimano (dei dodici Imam) in contrasto con l’Islam sunnita, e la resistenza persiana all’invasione ottomana. È proprio nel periodo safavide che lo sciismo diventa religione di stato. L’iscrizione eseguita in piastrelle bianche su fondo blu sul tamburo esterno della cupola, visibile al pubblico, si compone di tre sure (capitoli) del Corano: al-Shams (91, Il sole), al-Insan (76, Uomo) e al-Kauthar (108, Abbondanza). Le sure sottolineano la giustezza di un’anima pura e il destino all’inferno di chi rifiuta la via di Dio, molto probabilmente riferendosi ai turchi.
Entrando nella camera della preghiera, ci si confronta con le pareti ricoperte di piastrelle blu, gialle, turchese e bianche con motivi ad arabeschi intricati. Intorno al mihrab vi sono i nomi dei dodici Imam sciiti, e l’iscrizione contiene i nomi di Sheikh Lotfollah, Ostad Mohammad Reza Isfahani (l’ingegnere), e Baqir al- Banai (il calligrafo).

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Lasciata la moschea, ci dirigiamo verso il Palazzo delle Quaranta Colonne (Chehel Sotoun); è un padiglione persiano nel mezzo di un parco, in fondo a una lunga piscina, costruito da Shah Abbas II e utilizzato per il suo svago. In questo palazzo, Shah Abbas II e i suoi successori avrebbero ricevuto dignitari e ambasciatori, sia sulla terrazza che nei saloni signorili. Il nome è stato ispirato dalle venti sottili colonne di legno che sostengono il padiglione d’ingresso e, quando si riflettono nelle acque della piscina, si dice che sembrino essere quaranta, anche se noi non le vediamo riflesse, forse non è l’ora giusta.
Il palazzo, con il suo giardino, è tra i 17 siti patrimonio UNESCO dell’Iran: di questi 9 sono giardini. Va detto che la parola “paradiso” deriva dal persiano pardis che significa, indovinate un po’, giardino.
L’esistenza dell’edificio è documentata sin dal 1614, tuttavia un’iscrizione parla della fine dei lavori di costruzione nel 1647, sotto Abbas II. L’edificio venne poi ricostruito a causa di un incendio scoppiato nel 1706. Durante l’invasione afgana nel XVIII secolo gli affreschi vennero ricoperti di calce come segno di disapprovazione per lo sfarzo della corte, pur tuttavia si sono ben conservati.
Il padiglione è costruito secondo lo stile del portico colonnato di epoca achemenide. È composto da un ingresso coperto da colonne scanalate e un soffitto a cassettoni con decori e intarsi.
Il Grande Salone o Sala del Trono è una sala decorata da affreschi e dipinti su ceramica. La parte superiore è decorata da affreschi di soggetto storico di grandi dimensioni che raffigurano la vita di corte in epoca Safavide nonché alcune grandi battaglie. Alcune pitture risentono dell’influenza europea, altre mantengono lo stile delle miniature persiane.

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Tutto intorno al palazzo e ai suoi giardini, appesi alla recinzione, decine di cartelloni gialli riportano brani del Corano, in bella grafia e con la traduzione in inglese, a mo’ di lezione o di ammonimento: “Allah è il supremo guardiano e dispensatore di pietà”. “Voi dovete competere in bontà”. “Obbedite ad Allah e al suo messaggero, solo così potrete ottenere pietà”. “Pregate regolarmente, perché davvero la preghiera impedisce all’uomo di compiere atti indecenti e vergognosi”. “Dì, o messaggero, agli uomini credenti di non fissare una donna negli occhi e di avere il controllo dei loro desideri carnali”. “Evitate il troppo sospetto, perché in certi casi il sospetto stesso è un peccato”. È abbastanza inquietante, se si pensa a come questi messaggi sono stati a volte tradotti nella pratica, in passato e ancora oggi. Mi torna in mente una scheda di Amnesty International che Azar Nafisi cita come esempio di uno dei tanti, un ragazzo giustiziato nel 1982 con questi capi di imputazione: “Soggetto occidentalizzato, e cresciuto in una famiglia occidentalizzata; ha soggiornato troppo a lungo in Europa per i propri studi; fuma sigarette Winston; mostra tendenze sinistrorse”.

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Nel frattempo sono quasi le cinque e, considerato che anche oggi è una giornata molto calda, ci sta bene una pausa in una sala da tè che fonde sapientemente lo stile tradizionale con scelte di design più improntate al modernariato. È impressionante il numero di quadri, lampade, piatti, vasi, brocche e oggetti di ogni tipo che dilagano ovunque, tappezzando le pareti e penzolando dal soffitto.

Passando e ripassando dalla piazza ci si accorge che è viva perché, sul prato verdissimo e intorno alla grande vasca d’acqua, brulica di gente che, seduta su una stuoia, chiacchiera, fa spuntini, beve tè, contornata da bambini che corrono e si bagnano nella vasca.

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Un bel giro al bazar, ad assaggiare e a comprare pistacchi, zafferano, spezie e chi più ne ha più ne metta. E poi si torna in albergo a riposare un po’ prima di cena.
Usciamo a piedi per andare a cena al Partikan Restaurant e Franca, senza pensarci, con un gesto naturale di amicizia, mi prende a braccetto. Facciamo qualche passo così e poi subito bruscamente si stacca: “Oddio, pensa cos’abbiamo rischiato. E se ci vedevano? Io non ci ho proprio pensato!”. Un po’ scherziamo, naturalmente, ma gli iraniani non possono permettersi tanto di scherzare. Un buon musulmano, secondo i precetti più rigidi, può toccare una donna solo se è sua madre, sua sorella o sua moglie. È capitato anche a noi, anche se non sempre, che persone dell’altro sesso, magari scusandosi, non ci dessero la mano. Ora non c’è più il cieco furore dei primi anni ’80, ma è meglio stare sempre attenti, se non sai chi hai di fronte o chi ti sta guardando. Per noi è difficile accettarlo, ma è così.
A cena il solito clima conviviale si interrompe per qualche minuto perché c’è una decisione da prendere; spesso, in questi giorni, abbiamo messo ai voti piccole scelte quotidiane. Marco, anche se ogni tanto ci chiede il gesto dell’indice piegato, è un despota illuminato, un po’ come Dario e Ciro. Stavolta dobbiamo decidere come gestire un incontro che domani, secondo il programma, dovremmo avere con un rabbino della comunità ebraica di Esfahan. Il punto che potrebbe risultare un po’ critico è che ci chiede un’offerta obbligatoria per la comunità, minimo 10 euro a testa. Per una questione di principio questa richiesta infastidisce molti, e devo dire che anche a me non piace particolarmente; però, dato che l’opportunità di sentire da lui se la pratica della religione ebraica è davvero tollerata come dicono, e come vive una comunità ebraica nella Repubblica Islamica, mi sembra molto interessante, sono disposto a passarci sopra. Altri, invece, esprimono posizioni di maggiore chiusura. Alla fine troviamo un compromesso un po’ democristiano, e cioè si decide che Alì, a nome del gruppo, dovrà contrattare per ottenere almeno uno sconto a 5 euro. Così, giusto per fargli capire che la cosa non ci piace. In realtà, poi, il problema si risolverà da solo perché il rabbino, per sopraggiunti impegni, non ci può incontrare comunque.

 

Giovedì 12 aprile 2018

La seconda giornata a Esfahan inizia con la visita alla Moschea Jameh; anche qui, e come dubitarne, c’è una moschea del venerdì, una moschea congregazionale. Ma questa è davvero speciale. Sorge in una zona che oggi è periferica, a due passi da uno svincolo sotto un sottopasso intasato di fumi e gas di scarico. Ma mille anni fa questo era il centro della città, ben lontano da quella che nel ‘600 divenne Naqsh-e Jahan. Da qui inizia lo sterminato bazar che arriva proprio fino alla grande piazza.

La Moschea del Venerdì di Esfahan è probabilmente l’espressione architettonica più importante della dominazione selgiuchide in Persia (1038-1118), ma ci furono molte aggiunte nei secoli successivi. Dal 2012 è divenuta anche un bene protetto dall’UNESCO.
Nel 1051 Esfahan divenne la capitale dei selgiuchidi, giunti dall’Asia centrale nell’XI secolo. Di fede sunnita, essi miravano alla restaurazione del califfato abbaside. La potenza dell’Impero selgiuchide trovò concreta manifestazione in una serie di edifici, dei quali il più importante era la moschea.
I Selgiuchidi progettarono il centro della città e la piazza in prossimità della preesistente moschea del Venerdì, che esisteva già almeno dal IX secolo. Del primo nucleo architettonico della moschea sono sopravvissute le due grandi cupole a nord e sud, mentre le restanti parti sono andate distrutte in un incendio nel XII secolo. Nel 1121 venne ricostruita e nel corso del tempo ogni sovrano diede il proprio contributo attraverso degli ampliamenti.
La pianta della moschea si sviluppò da quella originaria, che prevedeva un cortile interno di forma regolare circondato da sale di preghiera provviste di colonne a sezione circolare che sostenevano il soffitto in legno. Il nuovo progetto prevedeva una pianta con quattro iwan, attuata nel XII secolo con l’edificazione/aggiunta degli iwan, della sala con cupola sud-occidentale affiancata da due minareti, della sala settentrionale con cupola. Tra tutte le aggiunte e ricostruzioni successive vi è la serie di archi su due livelli intorno alla corte (datati 1447), che hanno rimpiazzato la precedente serie unificando gli elementi del cortile in un unico spazio. Al centro del cortile principale si trova una fontana per le abluzioni che ricalca il modello della Kaaba della Mecca. La struttura si estende per oltre 20.000 m² di superficie.
Le due cupole hanno diverse tipologie di decorazioni. In quella meridionale sono rintracciabili ancora tracce di ornamenti in stucco, mentre la cupola settentrionale è prevalentemente decorata da disegni integrati nella struttura, costituiti da mattoncini. I loro diversi gradi di rilievo e disposizioni creano una vasta gamma di disegni. Questo linguaggio decorativo manca nella cupola meridionale, costruita su una struttura preesistente. L’incongruenza tra vecchio e nuovo è evidente anche a livello strutturale, confrontando la massiccia struttura originaria, con pilastri doppi e archi a curvature diverse, con la nuova concezione costruttiva, decisamente più leggera.
Come parte del processo di ricostruzione della moschea danneggiata, Nizam al-Mulk, visir di Abu al-Fath Malik Shah, ordinò nel 1086 la costruzione di una sala con cupola (avente lati di 15 metri e un’elevazione di 30 metri) nell’ala di sud-ovest. La cupola, rinforzata da nervature, poggia su muqarnas, a loro volta sostenuti da un muro portante e da otto pilastri, appartenenti alla vecchia moschea.
Commissionata da Taj al-Mulk (successore di Nizam e principale consigliere della madre di Malik Shah), la cupola di nord-est fu costruita nel 1088-9 per conto di Terken Khatun (moglie di Malik Shah e figlia del sultano Tamghach Khan). A causa della posizione distaccata della struttura dal resto del complesso è stato ipotizzato che l’area venisse utilizzata come spazio privato di preghiera, zona riservata alle donne o anche come biblioteca. Di dimensioni più contenute e collocata sullo stesso asse longitudinale della cupola meridionale, la cupola settentrionale poggia su piloni disposti a formare uno spazio quadrato, con una zona ottagonale di transizione sormontata da quattro volte. Al di sopra delle volte troviamo sedici archi (quattro per lato) che sostengono il tamburo della cupola. Quest’ultimo presenta alla base iscrizioni religiose. Dieci doppie nervature ascendono dal tamburo della cupola inscrivendo un pentagono. Questa componente architettonica è considerata dagli storici dell’architettura un tentativo di Taj al-Mulk di costruire una cupola più alta di quella del suo rivale Nizam al-Mulk, quella meridionale.
I quattro iwan non sono tutti di uguale importanza e tale fatto è reso evidente dalle loro diverse dimensioni, strutture e decorazioni. Gli iwan orientale e occidentale sono costruiti con tecniche analoghe e nello stesso periodo, presentano elementi architettonici tardo-safavidi. L’iwan meridionale è indubbiamente il più importante dei quattro. Al di sotto dell’iwan sono state trovate colonne e basamenti della moschea originaria. I muqarnas sono di epoca mongola mentre i mosaici sulle pareti e sui minareti sono del XV secolo.
Presso la sala del Sultano Uljeitu, accanto all’iwan occidentale, si trova il miḥrab di Uljeitu, del 1310. La costruzione presenta una complessa composizione in stucco costituita da iscrizioni tridimensionali che si fondono con intagli floreali e geometrici. Il miḥrab è costituito da un arco esterno all’interno del quale è inscritto un arco più piccolo, la cui altezza e profondità sono pari alla metà del primo.
La Sala d’inverno è un ambiente adiacente alla sala del Sultano Uljeitu ed è utilizzata nel periodo invernale, essendo particolarmente protetta; è illuminata da una tenue luce dal soffitto al centro delle volte. La sala venne costruita dai timuridi nel 1448.
Usciamo con negli occhi una serie infinita di immagini di una perfezione unica: ogni parte è di un’epoca diversa e di uno stile diverso, ma tutte sono un’esaltazione della bellezza della creazione artistica.

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Ci spostiamo verso il quartiere armeno, per visitare la Cattedrale di Vank (Vank significa monastero in armeno) o “Cattedrale di San Salvatore d’Esfahan”, le cui pareti sono interamente decorate con dipinti ad olio.
Dopo la guerra tra la Persia safavide e l’Impero Ottomano nel periodo 1603-1605, gli armeni iniziano ad arrivare in Iran alla ricerca di una nuova vita nel regno del re safavide Shah Abbas I. Dal 1604, lo Shah Abbas attuò una politica di “terra bruciata” nella regione armena, per proteggere le sue frontiere nord-occidentali, con il reinsediamento forzato di circa 300.000 armeni in Iran. Molti vennero trasferiti nel quartiere chiamato Nuova Julfa, ad Esfahan. Migliaia di armeni morirono durante il viaggio. I sopravvissuti godettero di una grande libertà religiosa a Nuova Julfa. Al loro ingresso in Iran, i rifugiati armeni iniziarono la costruzione di chiese e monasteri. Gli armeni sono cristiani ortodossi e, ci ricorda Alì, sono monofisiti, cioè credono che Gesù abbia solo la natura divina e non quella umana. Ed ecco che nel 1606 nacque a Nuova Julfa il primo monastero che comprendeva una piccola chiesa, che venne poi ampliata e trasformata nella magnifica cattedrale di Vank, costruita circa 50 anni dopo e completata nel 1664. Include un campanile, costruito nel 1702, una tipografia fondata dal cardinale Khachatoor, una libreria inaugurata nel 1884 e un museo aperto nel 1905.
L’architettura dell’edificio è unica al mondo perché è una commistione tra l’arte safavide del XVII secolo e lo stile di alte arcate delle chiese cristiane. Gli armeni, ci racconta Alì, furono fin da subito autorizzati a costruire le loro chiese, purché assomigliassero a delle moschee, per non dare troppo nell’occhio. E infatti l’edificio ha una cupola simile a quella delle moschee, e secondo gli studiosi ha influenzato e ispirato la costruzione di molti altri luoghi di culto cristiani in Iran e in Mesopotamia.
Un’altra caratteristica coerente con la vita degli armeni in terra persiana è che, mentre in Armenia le chiese sono molto decorate all’esterno, qui sono pulite ed essenziali fuori e ricche di decorazioni dentro. L’interno è rivestito con grandi affreschi: La creazione di Adamo ed Eva, il peccato originale, la morte di Abele, la nascita di Gesù, l’Ultima Cena, la Crocifissione e l’Ascensione. La cupola centrale verniciata delicatamente in blu e oro raffigura la storia biblica della creazione del mondo e dell’espulsione dell’uomo dall’Eden. Il soffitto sopra l’ingresso è dipinto con motivi floreali delicati nello stile di miniatura persiana. Due sezioni di dipinti murali corrono lungo le pareti interne: la sezione superiore raffigura gli eventi della vita di Gesù, mentre la sezione inferiore raffigura le torture inflitte ai martiri armeni da parte dell’Impero Ottomano.
In fondo al cortile e dinanzi alla cattedrale vi è un edificio che ospita la libreria e il museo. La libreria contiene più di 700 antichi manoscritti rari in armeno ed in lingue europee, risalenti al medioevo. Il museo di Vank ospita un’unica e inestimabile collezione di oggetti riguardanti la storia della cattedrale e della comunità armena di Esfahan, incluso l’Editto del 1606 di Shah Abbas I che decretò la fondazione di Nuova Julfa e proibì l’intromissione di qualsiasi persona negli affari della comunità armena.
Ci sono molte copie antiche dei Vangeli e della Bibbia, tra cui una bibbia di soli 7 grammi realizzata da miniaturisti armeni, secondo gli studiosi la più piccola che esiste al mondo. Poi costumi dell’era safavide, tappeti, dipinti europei acquistati dai mercanti armeni nei loro viaggi, arazzi, ricami ed altri oggetti del patrimonio artistico iraniano-armeno. C’è perfino una preghiera in armeno scritta su un capello, che si guarda (facendo la fila) al microscopio!
Il museo ospita anche una completa collezione di fotografie, mappe e documenti turchi inerenti al genocidio armeno del 1915, quello che tuttora la Turchia nega o minimizza.

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Passeggiando per il quartiere armeno, troviamo anche un bar che è dotato della macchina per fare il caffè espresso, che è una rarità in Iran, e lo fa anche buono. Finora è capitato di bere caffè a colazione o in altre occasioni, ma quasi sempre è caffè solubile. In Iran non c’è una grande cultura del caffè. Si beve molto più tè (chay) che caffè. Si dice che il caffè si beve ai funerali. Infatti, dire che si vuole bere il caffè di qualcuno è un’espressione idiomatica, significa che non si vede l’ora di andare al suo funerale.
Andiamo poi a pranzare in un locale del quartiere armeno che si chiama Partak e fa una pizza più che dignitosa. Ma perché? Perché la pizza, non ve lo sto neanche a dire, l’hanno inventata i persiani! Alla fine Franca tenta, con autoironica civetteria, di sedurre i pizzaioli e i camerieri, che sono tutti ragazzi giovani e di bell’aspetto e sembrano molto allenati a farsi fotografare. Si mettono in posa come modelli consumati.

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Il programma del pomeriggio prevede innanzitutto i mitici ponti di Esfahan, che sono un altro degli elementi caratteristici che rendono unica questa città. Certo che vederli con l’acqua però farebbe un altro effetto. Da anni ormai una diga ha deviato verso zone agricole il corso del fiume Zayandeh-Rud, che è quasi sempre in secca. Bisogna essere proprio fortunati per vedere il fiume scorrere in città, e noi non abbiamo questa fortuna. I ponti, ciononostante, mantengono intatta la bellezza delle loro architetture e, almeno in parte, la loro funzione sociale come luoghi di aggregazione dove, all’ombra dei padiglioni dipinti, si viene a chiacchierare, a sorseggiare il tè o a fumare il narghilè. Sono undici i ponti, in totale.
Il primo ponte che vediamo è il ponte Si-o-se Pol, il ponte dei 33 archi, capolavoro dell’architettura persiana costruito dallo Shah Abbas I in epoca safavide, all’inizio del XVII secolo. Aveva lo scopo principale di collegare la parte musulmana della città con il quartiere armeno. Lo stesso Shah Abbas aveva l’abitudine di sedersi sul ponte ad ammirare il panorama.
Poi il ponte Khaju, costruito da Shah Abbas II intorno al 1650, sulle fondamenta di un ponte vecchio preesistente. Serve sia come ponte che come diga e collega il quartiere Khaju, sulla riva nord, con il quartiere zoroastriano oltre il fiume. La struttura è stata originariamente decorata con piastrelle e dipinti, ed è stata utilizzata come sala da tè.
Il ponte Khaju ha 24 arcate, è lungo 110 metri e largo 12. Le iscrizioni suggeriscono che è stato restaurato nel 1873. È un ponte che regola il flusso di acqua del fiume, tramite paratoie disposte sotto i suoi archi. Quando le paratoie sono chiuse, il livello dell’acqua dietro il ponte viene sollevato per facilitare l’irrigazione dei tanti giardini lungo il fiume.
Al livello superiore del ponte, il corridoio centrale è stato utilizzato da cavalli, carri e dai pedoni su entrambi i lati. I padiglioni ottagonali nel centro del ponte, sia in basso che ai lati, forniscono punti di osservazione per ammirare una vista notevole, o almeno così dev’essere quando c’è l’acqua. Il livello più basso del ponte può essere raggiunto dai pedoni e rimane un luogo ombreggiato e popolare per il relax.

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Ci rimane ancora un’ultima perla di Esfahan da vedere: il padiglione Hasht Behesht (o degli Otto Paradisi), un’altra meraviglia safavide.
Consiste in due gruppi di quattro camere ottagonali, gli otto paradisi. Questi s’innestano attorno ad un ottagono centrale abbellito da una magnifica cupola a lanterna. Le stanze superiori e la lanterna conservano in parte i colori originali, sfarzosi e scintillanti, su tutti l’oro, il rosso e il blu cobalto. Il Padiglione del Piacere era inserito nel Giardino degli Usignoli, attraversato da canali che si intersecavano sotto il padiglione centrale. Anche qui la vegetazione, l’acqua e il cinguettio degli uccelli, uniti alla bellezza degli affreschi, anticipavano in terra le gioie del paradiso.

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Dopo una breve pausa per una doccia e un riposino, il pomeriggio continua con un po’ di tempo libero, che possiamo sfruttare a piacimento. C’è chi, come Alberto e Silvana, sceglie di approfittare dei massaggi offerti dal nostro hotel, e c’è chi, come quasi tutto il resto del gruppo, si dedica ancora al coté commercial-culturale. E cosa si può acquistare, se non quello che c’è di più legato alla cultura persiana, quello che è persiano per antonomasia? A questo punto le possibilità sono sostanzialmente due: un gatto o un tappeto. Avrete già capito che propendiamo per la seconda ipotesi. Fondamentalmente quelli decisi all’acquisto sono Marco e (soprattutto) Ingela. Già, perché lui le ha già fatto un regalino, ma ora gli tocca quello vero. E affronta la prova con la consueta eleganza ed ironia, con tutti noi che fungiamo un po’ da gruppo di supporto psicologico per lui e un po’ da istigatori di Ingela, che peraltro non ne ha troppo bisogno.
Entriamo nel negozio di Majid Esmaili, il più noto e qualificato commerciante di tappeti di Esfahan, che con grazia e abilità ci fa da anfitrione e ci spiega, in sintesi, i segreti dell’arte della tessitura dei tappeti.
Prima di tutto bisogna distinguere tra tappeti e kilim. La differenza sostanziale è che i kilim non sono annodati, quindi hanno solo trama e ordito. Poi le due grandi categorie sono quelle dei tappeti dei nomadi e dei tappeti di città. Il disegno dei tappeti dei nomadi è realizzato a memoria, sulla base della fantasia del tessitore. Il telaio è orizzontale e i disegni sono al 99% geometrici. I kilim sono una prerogativa dei nomadi. I kilim più belli vengono dalla zona di Kerman, nel sudest. Ognuna delle tante tribù che compongono il mosaico iraniano ha un suo stile nel tessere tappeti. I tappeti di città, invece, hanno disegni più ricercati e contengono figure, come il cipresso, che è simbolo di lunga vita. Alcuni richiedono anche 18 mesi di lavoro. Quelli caratteristici di Esfahan sono solo in lana e seta, senza cotone. Tendenzialmente, un tappeto è tanto più bello quanto maggiore è il numero dei nodi: si può arrivare fino a 144 nodi.
La scelta è lunga e difficile, è anche un rituale che si perpetua nei secoli e che deve essere così. Richiede di vederne tanti, e di toccarne tanti, accarezzandone il vello tra un bicchiere di tè e l’altro. Per nostra fortuna Ingela è piuttosto decisa e Marco sufficientemente… rassegnato, anche se ovviamente hanno fissato un limite di spesa. Questi tappeti sono di una bellezza che personalmente non ho mai visto; non sono un grande esperto, ma avendo viaggiato abbastanza in Marocco per forza di cose tappeti ne ho visti, come anche in Turchia e in Palestina, ma nulla che si avvicini a questa perfezione. Io sono legato ai miei tappeti marocchini, ma più per il loro valore affettivo, perché mi ricordano un viaggio o perché mi sono stati regalati dalla mia “famiglia” marocchina e sono stati realizzati dalle donne di famiglia, come da tradizione berbera. Ma non divaghiamo. Questi sono oggettivamente di un altro livello, però non costano poco.
Fatta la faticosa scelta, si chiacchiera ancora un po’ con Majid e i suoi collaboratori, e mi sento chiedere come mai porto una sciarpa con i colori della Palestina. Non è proprio una kofiyah, che in questa stagione sarebbe impegnativa, ma un qualcosa di simile in versione ridotta. Mi sto accorgendo, in questi giorni, che devo rivedere le mie convinzioni sul sostegno che il popolo iraniano accorda alla causa palestinese. In effetti, non è la prima volta che mi chiedono di questa sciarpa, in tono non particolarmente benevolo. Ho capito, da quello che mi hanno detto, che in realtà la gente comune, in Iran, non è filopalestinese come si potrebbe pensare, un po’ perché i palestinesi sono a grande maggioranza sunniti e soprattutto perché la percezione è che il governo investa troppi soldi per finanziare la lotta dei palestinesi, con tutti i problemi economici che ci sono in Iran, specialmente adesso.

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Ci spostiamo in un altro negozio vicino, che vende tovaglie ricamate. Anche qui ci sono cose molto belle, a prezzi un po’ più abbordabili. E allora anch’io, che ero uscito con la ferma intenzione di guardare ma non comprare niente, mi lascio tentare e mi compro una tovaglia che adibirò alla funzione di copridivano.
Andiamo a cena in un locale frequentato da famiglie o gruppi di amici iraniani, soprattutto per feste e ricorrenze. Infatti c’è un gruppo che allieta la serata con un po’ di musica dal vivo, anche se il livello a dire il vero non è eccezionale, almeno per i miei gusti.
Anche stasera abbiamo mangiato veramente tanto, quindi usciamo con le migliori intenzioni di farci una bella passeggiata fino all’albergo. Peccato però che nel frattempo si è messo a piovere con una certa insistenza e la temperatura è scesa non poco, quindi quasi tutti preferiamo ripiegare su una corsa in taxi. A un certo punto, ci troviamo imbottigliati nell’ennesimo ingorgo e quindi il tassista fa un percorso alternativo, che si addentra in alcune strade secondarie. Incappiamo in qualcosa che sembra una festa di strada e che ci incuriosisce, ma purtroppo il tassista non ci sa dare delucidazioni in merito. Peccato, ma non avremmo comunque avuto tempo di fermarci, è meglio immagazzinare qualche ora di sonno perché domani ci aspetta un altro viaggio non breve fino a Kashan.

 

(Continua…)