9/10/2014

Via Antonini, 3.45 del mattino. Il silenzio è rotto solo dallo scorrere delle rotelle della mia borsa, che sto trascinando fino al luogo dell’appuntamento con Claudio Agostoni. Dopo un po’ di contrattazione, l’abbiamo fissato per le 3.50 all’incrocio tra Via Ripamonti e Via Quaranta. Da casa mia, secondo Google Maps, sono più o meno 1700 m, decisamente fattibile. È l’ora che è quanto meno insolita. Gli occhi sono ancora velati di sonno, ma questo non mi impedisce di notare che il posto è più animato di quanto si potrebbe pensare. Davanti al benzinaio c’è un baracchino dei panini aperto a quest’ora, guarda che sorprese riserva a volte Milano. È frequentato più che altro da peruviani che vanno a mangiare qualcosa prima o dopo il turno che vanno a fare chissà dove. Forse lavorano per i corrieri, non so.

Claudio arriva puntuale e andiamo verso Piazzale Lodi, dove ci aspetta Gabriella, che ha lasciato lì la sua bici, da lei chiamata la scassona. Scassona o no, la sua intenzione di lasciarla lì per cinque giorni e quattro notti ci lascia un po’ perplessi, ma non c’è tempo per discuterne. Dobbiamo dirigerci verso Malpensa, veloci ma non troppo (Claudio ci racconta che ha già preso un paio di multone ultimamente).

Lì incontriamo il resto del gruppo, che è formato da un totale di 36 persone; alcuni però arriveranno con altri voli, quindi siamo poco più di 30, prevalentemente un’allegra banda di 40-50enni. La sola che abbassa l’età media è la giovane Marta, che si candida subito, penso suo malgrado, a diventare la mascotte del gruppo. Con noi ci sono anche Piero Scaramucci, storico fondatore e direttore della radio, e Mimosa Burzio, anche lei valente giornalista.

Il volo passa agevolmente, in parte sonnecchiando e in parte chiacchierando piacevolmente con Gilda, che a Como insegna Italiano a classi di donne straniere. Mi racconta che ha già avuto varie occasioni di scambio con donne turche, di diverse etnie. Spesso le portano dolci, quindi lei ha già una buona conoscenza delle principali varietà di dolci turchi. Mi racconta anche di come sia difficile, per le donne che hanno una bassa scolarità di base, che possono avere difficoltà a leggere e scrivere anche nella loro lingua madre, imparare una lingua ricca e complessa come l’italiano. Di come alle prime difficoltà spesso tendano ad essere sopraffatte da una sensazione di inadeguatezza, a bloccarsi per la vergogna e la paura di non riuscire. Penso a quanta pazienza deve avere e a quanto è bello e importante il lavoro che fa.

L’aereo inizia la discesa, ormai Istanbul è sotto di noi. Cerco, con scarso successo per la verità, di riconoscere qualche elemento significativo dello skyline. Io sono già stato a Istanbul sette anni fa, all’inizio di un giro che mi ha portato a toccare una buona parte della Turchia occidentale. Ho deciso di tornarci attratto dal taglio insolito di questo viaggio, dalla bellissima esperienza che ho fatto con Radio Popolare a Sarajevo pochi mesi fa e, perché no, dal ricordo che mi è rimasto di una città estremamente viva e varia, con tante realtà ancora per me tutte da scoprire.

Certo, ora c’è anche la curiosità di vedere cosa è rimasto del movimento di Gezi Park, e come vive la città questi giorni di tensione e proteste curde per la situazione che si è creata appena al di là del confine siriano.

Sono circa le undici ora locale. All’aeroporto ci accoglie Francesca, di Viaggi&Miraggi, che ha curato l’organizzazione insieme a Radio Popolare. Molti di noi l’hanno già conosciuta all’aperitivo pre-viaggio al bar della radio. Il nostro pullman ci viene a prendere fuori dall’aeroporto e ci porta all’albergo, che si trova a Sultanahmet, nella zona del Gran Bazar.

Salgo in camera e accendo la TV: la BBC parla del ministro degli esteri turco che, durante un incontro con la NATO, ha precisato una volta di più che il governo non ha nessuna intenzione di intervenire con l’esercito contro l’ISIS oltre il confine siriano, a meno che non lo autorizzino anche a rovesciare Assad, cosa al momento assai improbabile. Si può immaginare che i curdi, nei prossimi giorni, continueranno a protestare.

Dopo esserci rapidamente sistemati, usciamo in gruppo pieni di buona volontà; l’idea è di sfruttare questo primo pomeriggio per qualche visita delle più “classiche”, soprattutto per chi a Istanbul non è mai stato, dato che nei prossimi giorni faremo altri giri un po’ più insoliti. Ma quasi subito decidiamo di fermarci prima a mangiare, e il pranzo diventa un’occasione per conoscersi chiacchierando e rilassandosi un po’. Così scopro qualcosa di più di altri compagni di viaggio, tra cui la compagna di stanza di Gabriella, Elena. Lei lavora all’INAIL, mentre Gabriella è operatrice sociale. Poi ci sono Alma e Franca, fisioterapiste e agguerrite iscritte al sindacato di base, l’architetto Valerio e altri ancora.

Ma così la sosta si prolunga e quando ripartiamo ormai è piuttosto tardi, ci resta tempo solo per la Moschea Blu.

Dobbiamo aspettare tre quarti d’ora per entrare, perché è in corso la preghiera del pomeriggio. Inganniamo l’attesa nel piccolo bazar nei pressi della moschea, soprattutto nel negozio di un simpatico furfantello che ci attira parlando un italiano quasi perfetto che ha imparato chissà come (lui dice dai turisti italiani, ma è difficile credergli). Fa battute da attore consumato sulle suocere, sa perfino che vicino a Milano c’è una città che è “de hura e de hota”, anche se non si ricorda che è Bergamo. Gli oggetti non sono neanche poi brutti, così qualcosa riesce a vendere, anche se forse non quanto sperava.

La moschea, poi, è sempre suggestiva, sebbene ci sia chi se l’aspettava “più blu”.

Al ritorno in albergo posso finalmente conoscere Fabrizio, il mio compagno di stanza, che è arrivato nel frattempo con un volo da Pisa. È di origini venete, è cresciuto a Livorno, ma vive a Firenze da quando era ragazzino. Fa yoga, è molto interessato al buddismo e alle filosofie orientali in genere. Facciamo brevemente conoscenza, poi ci prepariamo alla serata, che sarà dedicata all’incontro con il movimento di Piazza Taksim.

Prendiamo il tram, che ora attraversa il ponte di Galata fino a Karaköy, poi la funicolare che sale da lì all’inizio di Istiklal Caddesi, il lungo viale che è un po’ il Corso Buenos Aires di Istanbul. Lo percorriamo a piedi fin quasi a Piazza Taksim, poi entriamo in un vecchio palazzo che ora ospita un centro sociale. Il posto è piccolo, fanno fatica a sistemare un gruppo come il nostro.

Per prima cosa ci fanno vedere un film. È il documentario “Gezi’nin Ritmi” (Il ritmo di Gezi), che racconta la storia di Sambistanbul, un gruppo di percussionisti decisi ad utilizzare la musica a supporto dei dimostranti a Gezi Park nell’estate 2013: “Quando abbiamo sentito che la demolizione del parco era iniziata, ci siamo precipitati a Taksim suonando e abbiamo visto la speranza negli occhi della gente. Il sistema cerca di mettere paura e dividere le persone: noi combattiamo con uno dei ritmi più antichi al mondo, che ha trascinato popolazioni dall’Africa al Sudamerica”.

Il regista del film è un italiano, Michelangelo Severgnini, di Crema, che ora vive qui e si è avvicinato al movimento. Il suo percorso non è lineare: ha vissuto a Roma, è arrivato in Turchia anni fa, poi è tornato in Italia, a Napoli, e ora è di nuovo qui. Fa il regista, ma anche il musicista. Il suo gruppo si chiama Kara Güneş, naturalmente saranno loro ad allietare la nostra serata qui. Ma prima possiamo fare qualche domanda a Michelangelo e agli altri. Più che altro è lui a rispondere, ogni tanto chiede l’approvazione degli altri ma fa un po’ da portavoce. A me interessa, ad esempio, sapere se c’era una componente curda nel movimento e se esiste un partito o qualche altro soggetto politico che possa portare avanti le istanze del movimento o dal quale questo si senta un minimo rappresentato e che sia credibile come opposizione a Erdoğan. La risposta è che sì, c’era una componente curda anche se piccola, e che i due maggiori partiti di opposizione fanno molta fatica. L’Hdp, il partito che unisce quello che resta della sinistra turca con l’espressione politica delle identità etniche, soprattutto quella curda, è in crescita ma è ben lontano da sfondare nell’Anatolia profonda, dove l’AKP di Erdoğan ha il suo serbatoio di voti.

Ma ora basta parlare di politica, si mangia! Ci aspetta un buffet pieno di buonissimi meze (antipasti, stuzzichini) turchi.

E arriva il momento del concerto. Michelangelo suona il contrabbasso. Mübin Dünen, curdo, canta e suona il santur, un antico strumento a corde persiano, antenato del pianoforte, dove i martelletti per percuotere le corde si usano a mano e non sono azionati dai tasti. Poi ci sono la chitarra, il violino, che non può mancare, e uno strumento a percussione simile al cajon. Il genere pesca a piene mani dalla tradizione popolare turca e curda (senza disdegnare influenze rom), ma la arricchisce di nuovi suoni.

Si crea subito una bellissima atmosfera, guardandomi in giro noto che tutti sembrano presi dalla musica.

Il tutto diventa ancora più coinvolgente, soprattutto per i maschietti, quando una ballerina che sembra improvvisata ma ci sa fare si scatena nelle danze.

Si vede che i ragazzi sanno suonare dal vivo e, cosa molto importante, si divertono a farlo. Tanto che alla fine non vorrebbero più smettere. Noi ci siamo alzati tutti alle 3 e a mezzanotte passata per qualcuno la stanchezza comincia a farsi sentire; così Claudio con delicatezza fa capire che potrebbe anche bastare, ma Mübin quasi ci chiede per cortesia di poter fare un ultimo pezzo. E ne vale la pena.

10/10/2014

La mattina dopo svegliarsi è dura. Tiriamo un po’ tardi aspettando più gente possibile per uscire e, quando ci decidiamo, il tempo basta appena per una visita alla Cisterna Basilica, un serbatoio sotterraneo costruito dai bizantini nel VI secolo. Un tempo conteneva 80.000 metri cubi d’acqua e ora, dopo vari cicli di restauri, è un posto molto evocativo, anche per i giochi di luce. In un angolo si possono ancora vedere due colonne con alla base un grosso capitello raffigurante la testa di una medusa, come schiacciata dalla colonna soprastante. C’è chi interpreta questo insolito elemento architettonico come simbolo della vittoria del cristianesimo sul paganesimo ellenico, ma resta su questo un alone di mistero.

Il pomeriggio è dedicato invece ad una zona della città poco frequentata dai turisti, sulla sponda sudovest del Corno d’Oro. Passando dal quartiere di Fatih, raggiungiamo prima di tutto la Chiesa di San Salvatore in Chora. L’edificio attuale fu costruito nell’XI secolo sul sito di un’antica chiesa bizantina, poi in epoca ottomana fu convertito in moschea. I mosaici vennero però solo ricoperti di calce e cemento ed è stato così possibile, nel secolo scorso, riportarli alla luce con un lungo lavoro di restauro. La parte centrale era purtroppo in fase di restauro anche durante la nostra visita, ma i mosaici che abbiamo potuto vedere sono semplicemente straordinari, di una bellezza non inferiore a quelli di Aya Sofya. Uno rappresenta Maria incinta, che è un’immagine rarissima nell’arte sacra.

Cominciamo a conoscere anche la nostra guida locale. Il suo nome è Yudum, che significa sorso. Occhiali da sole e capelli ricci tinti di biondo, sorriso e battuta pronta, è chiaramente una di quelle donne turche che non piacerebbero al portavoce del governo Bülent Arinç. Parla un ottimo italiano, anche se Gilda, che quando vuole sa essere severa, mi farà poi notare che tende ad incorrere spesso in alcuni errori tipici. Ma, insomma, sapessimo parlare noi il turco come lei parla italiano… e poi lei ci gioca volentieri con le sue “gaffes”.

Ci spostiamo a piedi nel quartiere ebraico di Balat, e poi in quello greco di Fener, dove visitiamo la chiesa del Patriarcato greco ortodosso, sede del Patriarca di Costantinopoli. Nello stesso quartiere si possono vedere un paio di chiese armene. Queste comunità sono ormai piccole, ma sono la testimonianza della storia profondamente multietnica della città. È bello anche vedere come la gente che vive qui sia sorpresa nel vedere passare un gruppo di stranieri così numeroso, è chiaro che si tratta per loro di qualcosa di insolito. L’autenticità di questa zona si vede da tante piccole cose, come ad esempio una donna che compra il pane calando un cesto dalla sua finestra e chiedendo al fornaio dall’altra parte della strada di riempirlo.

E per finire la moschea di Rüstem Paşa, un altro piccolo gioiello generalmente ignorato dal turismo di massa che si trova curiosamente in cima ad una rampa di scale.

Qui Yudum, musulmana non praticante, ci parla della deriva che sta prendendo il governo turco sulle questioni religiose, un argomento che le sta a cuore in maniera piuttosto evidente. È molto utile anche per noi conoscere il suo punto di vista e sapere che, al di là delle “sparate” più eclatanti il cui eco arriva anche da noi, come quelle contro le donne che ridono in pubblico o gli studenti tatuati, è in corso un tentativo più strisciante di islamizzazione della società laica creata da Atatürk. Un processo lento (Erdoğan è al potere dal 2002) ma costante di riduzione dei diritti conquistati in passato, che passa ad esempio dalla continua apertura di medrese, le scuole coraniche, a discapito delle scuole laiche, e dalla criminalizzazione dell’aborto. Anche se per ora non è passata la proposta di ridurre da 10 settimane addirittura a 4 il periodo in cui è permesso abortire, di fatto oggi l’aborto è reso molto difficile in Turchia dalla possibilità per i medici di dichiararsi obiettori di coscienza, che si somma alla difficoltà di accesso per le donne alle strutture sanitarie, creando una situazione anche peggiore della nostra, sembra, almeno nelle zone rurali. Più in generale, nella visione dei vertici dell’AKP, il solo compito della donna è sostanzialmente quello di stare a casa e sfornare figli per la Patria, possibilmente almeno tre a testa. E il risultato di questo, purtroppo, è un notevole calo della percentuale di donne lavoratrici negli ultimi anni.

L’unico piccolo difetto di questa giornata è la cena, che non è indimenticabile sia per la qualità del cibo che per la mancanza di “anima” del locale. Oltretutto la conversazione scivola pericolosamente su argomenti prettamente calcistici che, essendo io milanista anche se non praticante (nel senso che lo ero da ragazzino, dalla discesa in campo di Silvio B. sono diventato sempre più tiepido), tenderei a evitare, soprattutto avendo di fronte Claudio Agostoni. Appena Paolo, calciatore ancora in attività e tifoso sampdoriano, nomina il rugby tento di sviare argomentando sul genere “quanto è bello il rugby, quello sì che è davvero uno sport di squadra”, ma il diversivo funziona solo per poco.

Dopo cena, però, ci spostiamo ad Ortaköy, dove passeggiamo sulla riva del Bosforo con il Primo Ponte illuminato sullo sfondo, e lì la serata riguadagna terreno.

11/10/2014

La giornata inizia al mercato biologico di Şişli, grande e ben organizzato, dove facciamo un po’ di spese: personalmente compro fichi secchi e miele, poi mi gusto una spremuta di melograno.

Ci spostiamo quindi a piedi verso il museo di arte moderna, che si trova nel quartiere di Tophane. Nel percorso incrociamo, davanti al liceo di Galatasaray, una manifestazione di parenti di persone arrestate e poi scomparse negli anni ’80 – ’90, prevalentemente curdi. Ho scoperto poi che si riuniscono qui tutti i sabati, è una versione turca delle madres di Plaza de Mayo.

In realtà, prima del museo di arte moderna, io vorrei andare al museo dell’Innocenza, prima immaginato, nell’omonimo romanzo, e poi realizzato da Orhan Pamuk con gli oggetti che sarebbero potuti appartenere ai suoi protagonisti. Ma purtroppo mi attardo in un forno a comprare un Simit (ciambella di pane ai semi di sesamo) per placare la fame e non mi accorgo che la parte del gruppo che ha deciso di andare lì, guidata da Claudio, ha già svoltato. Tento poi di tornare indietro da solo ma non avendo l’indirizzo e in assenza di segnalazioni non è facile trovarlo. Provo a chiedere a qualche persona ma ottengo solo indicazioni un po’ confuse, chi dice 200 m, chi 50. Giro un po’ a vuoto, ma poi mi innervosisco all’idea di perdere solo tempo e di non riuscire alla fine a vedere come si deve né l’uno né l’altro museo, così ripiego sull’arte moderna, che però non è la mia passione. Infatti, la cosa che mi piace di più è la mostra fotografica.

Il pomeriggio è dedicato all’esplorazione di Beyoğlu, che fino al XIX secolo si chiamava Pera (in greco peran è l’altra sponda, riferito ovviamente all’altra sponda del Corno d’Oro) ed era, fin da allora, il quartiere più cosmopolita della città. Taksim invece, dall’arabo, significa “divisione” o “distribuzione”. Piazza Taksim era in origine il punto in cui le linee d’acqua principali del nord di Istanbul venivano raccolte e da lì si diramavano in altre parti della città (da qui il nome). Galata era lo storico quartiere genovese, che fu anche colonia della Repubblica di Genova prima dell’epoca ottomana. In questo caso l’etimologia non è chiara, una delle teorie è che derivi dalla parola “calata”.

Tra le tante cose che scopriamo da Yudum c’è anche una curiosa leggenda sul nome di Yenikapı (“nuova porta” in turco), che si trova sulla riva meridionale di Sultanahmet. Se ricordo bene il suo racconto, suona più o meno così: In quel periodo (siamo all’inizio dell’epoca ottomana), il sultano, per vincere la noia, usava trastullarsi uscendo di notte da palazzo e andando a bere e gozzovigliare con il popolo nelle taverne di Galata, che allora era fuori città. Si presentava, naturalmente, in abiti dimessi e aveva l’accortezza di accertarsi che gli occasionali compagni di bagordi non l’avessero riconosciuto o non potessero raccontare di averlo riconosciuto. Una volta, disse a uno di questi occasionali compagni di bevute che l’aveva riconosciuto: “Ti risparmierò la vita se indovinerai da quale porta rientrerò in città”. Il malcapitato scrisse su un pezzetto di carta la sua previsione, lo piegò e lo diede al sultano, pregandolo di non aprirlo finché non avesse effettivamente attraversato la porta. Nel tragitto per tornare in città, il sultano si pentì della sua generosità e decise che, per non rischiare che il suddito davvero indovinasse, avrebbe fatto aprire sul momento una nuova porta sul lato opposto della penisola e di lì sarebbe passato. E così fece. Una volta passato, aprì il foglietto e, con sorpresa, lesse: “Mio signore, il tuo servo si congratula con te per la nuova porta che hai appena aperto”. Il poveretto, naturalmente, fu decapitato comunque, ma da allora il nome della porta fu quello.

Con un piccolo gruppetto saliamo in cima alla torre di Galata, da dove si gode una vista a 360° su tutta la città. Girando sulla terrazza cerchiamo di localizzare tutto quello che riusciamo a riconoscere: la Moschea Blu, Aya Sofya, il palazzo di Topkapı, la Moschea di Solimano, il ponte di Galata… alla fine del giro Elena è perplessa: “Sì, dovremmo aver visto tutto ma… aspetta, mi manca la torre di Galata!”. È solo un attimo, poi riprende coscienza di sé e del posto dove si trova ma, a parte le ovvie e facili ironie, interpretiamo questo come un segnale di stanchezza del gruppo, così una volta scesi decidiamo di trovare un posto per bere un tè. Ma, sembrerà impossibile, troviamo forse l’unico locale del centro storico di Istanbul dove l’unico tè disponibile è il Twinings in bustina!

Nel frattempo, ho scoperto poi, un altro gruppo incontrava una manifestazione di curdi piuttosto incazzati, che venivano però rapidamente “contenuti” da uno schieramento di poliziotti in assetto antisommossa in numero soverchiante.

Per la sera organizziamo una cena in uno dei ristoranti di pesce sotto il ponte di Galata. Il pesce è buono e il gruppo sempre più affiatato.

12/10/2014

La giornata è dedicata quasi tutta alla parte asiatica, spesso troppo trascurata dagli itinerari turistici più classici. E invece, sarà banale ma per capire Istanbul bisogna partire dalla sua posizione tra due continenti, anche se è ovvio che quello che si può vedere sulla riva orientale del Bosforo non può dare l’idea di quello che è l’Anatolia centrale. Orhan Pamuk ha scritto “Ho trascorso la mia vita ad Istanbul, sulla riva europea… E poi, un giorno, è stato costruito un ponte che collegava le due rive del Bosforo. Quando sono salito sul ponte… ho capito che il meglio era essere un ponte fra due rive”.

Attraversato quel ponte, raggiungiamo Üsküdar, l’antica Scutari. Si inizia con la moschea Şakirin, che è un esempio di architettura islamica contemporanea e ha la particolarità di essere dedicata ad una donna e progettata da una donna, almeno per quanto riguarda gli interni.

Dopo una breve passeggiata nel vicino cimitero islamico, ci concediamo un tè rilassante sul lungomare, solo leggermente movimentato dal passaggio di una sposa.

Poi, fuori programma, ci fermiamo a fare un giro in un vecchio cimitero inglese, dove sono sepolti principalmente militari morti in varie guerre, dalla guerra di Crimea alla prima guerra mondiale. Il posto ha una sua suggestione, serve a capire quanta storia, quante guerre e quanti popoli sono passati per questa città e comunica nonostante tutto una sensazione di pace. E certamente è quasi impossibile arrivarci senza una guida locale che lo conosce.

La tappa successiva è la stazione di Haydarpaşa, che era la stazione da cui partiva chi aveva raggiunto Istanbul con l’Orient Express e voleva proseguire per Damasco o per Baghdad. Dopo l’arrivo alla stazione di Sirkeci, ci si trasferiva per la notte in un Grand Hotel di Pera e si prendeva poi il traghetto che portava qui. Fu donata, all’inizio del ‘900, dal kaiser Guglielmo II in segno di amicizia con l’impero ottomano e costruita in stile neoclassico.

Ora non funziona più da 4 anni, in attesa di essere riutilizzata per una linea ad alta velocità. I soli abitanti sono i custodi e i gatti, che si aggirano in cerca di cibo tra i binari ed i saloni vuoti. Anche noi ci aggiriamo per un po’ nei saloni vuoti, con il nostro architetto di fiducia Valerio che ci aiuta a cogliere i diversi elementi stilistici tedeschi, inglesi e anche italiani che caratterizzano gli interni.

Ci spostiamo poi a Kadiköy, l’antica Calcedonia, che è passata alla storia anche come paese dei ciechi, perché per i primi coloni greci che crearono il nucleo di quella che sarebbe poi diventata Bisanzio gli abitanti di Calcedonia dovevano essere ciechi per non aver visto lo stupendo porto naturale del Corno d’Oro proprio di fronte a loro.

Ora il quartiere è tra i più vivi della città e ce ne rendiamo conto girando per le sue strade, tra le botteghe degli antiquari e il mercato del pesce. Mangiamo, su consiglio di Claudio, in un posto che si chiama Ciya. È un ambiente semplice, con i tavolini all’aperto e un fantastico banco di meze, antipasti e contorni turchi, in mostra e a self service, nel senso che scegli quelli che vuoi e poi paghi il piatto che ti sei fatto a peso. Il nostro gruppo è forse un po’ troppo numeroso da gestire per loro, per cui al momento di pagare si crea un certo casino, ma ne vale assolutamente la pena. Personalmente, è il posto dove ho mangiato meglio in questo viaggio.

Dopo pranzo ci godiamo ancora un po’ l’atmosfera, curiosando (ma qualcuno compra anche!) nei negozi degli antiquari. Ma il vero appuntamento imperdibile è quello con i lokum della pasticceria Ali Muhittin Haci Bekir: Pistacchio, acqua di rose, arancia, mandorle, nocciole… di tutto e di più.

Per ritornare in… Europa prendiamo il traghetto per Eminönü, così chi non l’ha mai fatto può provare il brivido di attraversare il Bosforo anche solcandone le acque.

Sosta di una mezz’oretta abbondante al bazar delle spezie, che sarà turistico finché volete, è sicuramente troppo affollato, ma è sempre un’esperienza sensoriale da fare. Nel mio caso, poi, è l’ultima opportunità di trovare un baklava confezionato in modo da poterlo portare in aereo, per il mio collega che mi ha fatto specifica richiesta.

E arriva il momento dell’ultima cena conviviale, ravvivata da un gruppo di musicisti che gira tra i tavoli e da un cameriere un po’ personaggio che ha voglia di sfoggiare il suo francese e quindi accompagna ogni piatto pronunciando con affettata cortesia e accento francese la parola “vitamines”.

13/10/2014

Con un po’ di fatica, ci alziamo presto per arrivare al palazzo di Topkapı prima dell’apertura delle 9.00. Sì, perché il tempo per visitarlo è poco, avendo appuntamento a mezzogiorno in albergo per la partenza. Ma siamo in parecchi a tenerci, personalmente non ero riuscito a vederlo durante il mio precedente soggiorno a Istanbul.

La scelta si rivela azzeccata, perché così riusciamo a evitare quasi totalmente la coda e ad iniziare, almeno, la visita senza troppa folla intorno. L’idea è di vedere bene l’harem e il tesoro, poi per il resto si vedrà. Nel tesoro spiccano  il mitico pugnale e l’altrettanto famoso diamante di 86 carati (il quinto più grande del mondo), chiamato “del fabbricante di cucchiai” perché fu trovato in una specie di discarica, grezzo naturalmente, da un uomo che non era in grado di capirne il valore e lo scambiò con tre cucchiai.

Devo dire che avendo più tempo se ne potrebbe sicuramente dedicare di più, ma la visita risulta comunque più che soddisfacente, anche perché ho la fortuna di vedere il tesoro con Lucia, che per ragioni familiari si intende un po’ di pietre preziose. Effettivamente molti pezzi esposti hanno il loro impatto. Una donna di un gruppetto di spagnoli dietro di noi, alla vista del diamante, esprime il suo stupore con un “Ostia!”, esclamazione che accomuna i nostri due popoli, e ci strappa un sorriso.

Arriviamo con una decina di minuti di ritardo all’appuntamento all’uscita del palazzo con il resto del gruppo, che nel frattempo ha evidentemente preferito avviarsi. Ma poco male, tempo ce n’è, soprattutto facendo in tram il tragitto fino all’albergo.

Si va all’aeroporto: ora è veramente il momento di partire, senza farsi prendere da troppa tristezza, anche se Orhan Pamuk dice che Istanbul non porta la tristezza come “una malattia temporanea”, oppure “un dolore di cui liberarsi”, ma come una scelta. E lo spiega così:

“Parlo del buio serale che scende presto, dei padri che tornano a casa sotto i lampioni dei quartieri periferici, con il sacchetto in mano. Parlo dei librai anziani che, dopo una delle frequenti crisi economiche, aspettano tutto il giorno, tremando dal freddo, un lettore; dei barbieri che si lamentano del calo della clientela; dei marinai che lavano i vecchi battelli del Bosforo, ancorati ai moli vuoti, sui quali si addormenteranno fra poco, e nel frattempo danno un’occhiata alla televisione piccola e lontana, in bianco e nero; dei bambini che giocano a pallone tra le auto sulle strade strette e lastricate; delle donne con le sciarpe in testa e i sacchetti di plastica in mano, che aspettano silenziosamente l’autobus nelle fermate di periferia…”

Alcune di queste immagini, magari inconsapevolmente, le avremo viste, altre no. Ma credo che in questi giorni tutti abbiamo capito qualcosa di più di questa città, anche chi un po’ già la conosceva. A chi la vedeva per la prima volta, forse, sarà venuta la voglia di tornarci, come ho fatto io. E tanto basta.

Un’ultima nota importante, per chi fosse in pensiero: Gabriella ha ritrovato la sua bici dove l’aveva lasciata!

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Un estratto di questo diario è stato pubblicato su Errepi News (la rivista di Radio Popolare) del gennaio 2015