Un lungo weekend marsigliese con il pullman di Radio Popolare e ViaggieMiraggi, sulle tracce di Le Corbusier e di Jean Claude Izzo, tra un Pastis e l’altro
Giovedì 25/2/2016
Partire da Milano con il pullman di Radio Popolare mi ricorda il viaggio a Sarajevo, quasi due anni fa ormai, con Danilo De Biasio. Quella fu sicuramente una spedizione fortunata, o per meglio dire preparata con grande cura, da lui e da Leonardo Barattin di Viaggiare i Balcani. E fu anche la mia prima volta in viaggio con la radio, che come tutte le prime volte non si scorda mai e resta unica e irripetibile. A ricordarmela, tra l’altro, anche l’incontro a sorpresa con Stefania, che ha partecipato anche lei a quel viaggio.
Ma anche questa nuova avventura parte con tutte le migliori premesse. Non sono mai stato a Marsiglia, che mi attira prima di tutto per la sua vocazione quasi naturale al meticciato etnico e culturale. E poi sono ansioso di conoscere Chawki Senouci, che ci farà da guida insieme alle due ragazze di ViaggieMiraggi, che come sempre cura l’organizzazione: Alessia e Lea, marsigliese doc trapiantata a Milano.
Chawki, in radio, cura e conduce Esteri, che è forse il mio programma giornalistico preferito in assoluto, tra i tanti eccellenti che Radio Popolare produce. E conosce bene Marsiglia, per averci passato diversi periodi più o meno lunghi. Senza contare che è algerino, un dato non secondario se si considera che, come proprio lui ci racconta, Marsiglia è considerata una provincia staccata dell’Algeria.
C’è anche Nello Avellani, un’altra voce della radio che non ascolto da un po’ (lui ora è tornato all’Aquila e lavora lì) e che mi fa piacere risentire… dal vivo. So da ieri che ci sarà, per averlo sentito dire in onda da Claudio Agostoni, e così, quasi per caso, mi capita di chiedere di lui ad Alessia scambiando le prime chiacchiere. Per sentirmi rispondere che sì, c’è ed è… suo marito. Ora mi è tutto più chiaro, in effetti. Scopro che anche lei è abruzzese e che la loro storia ha fatto in qualche modo nascere anche la liaison tra ViaggieMiraggi e Radio Pop.
Ma non posso assolutamente dimenticare Piero Scaramucci e Mimosa, che erano con me anche a Istanbul. Nessuno dei due ha bisogno di presentazioni. Del resto, se quest’anno tutti insieme festeggiamo i 40 anni della radio, lo dobbiamo a Piero che ha contribuito a fondarla.
Come non posso non dire che è sempre bello partire con quelli che sono stati già tante volte miei compagni di viaggio: Giuseppe, con cui ormai faccio quasi coppia (di fatto) fissa in stanza, Paola, Giordana, Anna. E, altra sorpresa, ecco due star con cui finora ho condiviso solo il viaggio a Sofia, ma è bastato quello per renderli indimenticabili: Denis la minaccia (così da me soprannominato per la sua imprevedibilità) e Vittorio. Forse qualcuno ricorda il dinamico duo che ha animato l’“Appartamento” di Sofia in una folle notte di droni e d’assenzio (questa è per pochi, ma chi c’era capirà, ndr).
Ma bando ai ricordi, adesso è di Marsiglia che dobbiamo parlare. Il viaggio non è breve ma, tra un sonnellino e una chiacchiera, scivola via abbastanza veloce.
Alla frontiera c’è un piccolo fuori programma. Si sa che Schengen di questi tempi non è più in voga, quindi due giovani gendarmes francesi salgono sul pullman a controllare i nostri documenti e, manco a dirlo, questo signore chiaramente maghrebino che si chiama Chawki Senouci va controllato a fondo. Vorrai mica farlo passare così, metti che sia un terrorista che cerca di entrare mimetizzato in un pullman di turisti italiani. Dopo un buon quarto d’ora di verifiche tutto è in regola e si riparte, con un sorriso amaro stampato sul viso.
Ci fermiamo a mangiare un panino all’autogrill. Ancora un’oretta abbondante e ci siamo. Se non che… è proprio in città che ci aspetta un’altra vera sorpresa.
Ci dirigiamo verso il Porto Vecchio, dove si trova il nostro albergo, ma finiamo improvvisamente bloccati tentando di svoltare in un viale. Qualche minuto di smarrimento e capiamo che siamo capitati nel bel mezzo di una tappa (probabilmente l’ultima) del Tour de Provence. Vediamo passare, dall’altro lato della strada, le ammiraglie delle squadre, una dopo l’altra, poi il gruppo di testa, poi un altro gruppo, un altro ancora… il flusso sembra non finire mai. Rimaniamo bloccati così almeno una mezz’ora, forse di più. Quando pensiamo che sia finita c’è sempre un altro gruppetto ancora più in ritardo, o pochi ciclisti isolati. Io nella vita tifo quasi sempre per gli ultimi e ho grande simpatia per tutti i Malabrocca del mondo, compresi quelli provenzali, ma devo ammettere che in questo momento vorrei poterli abbattere… dico, ma ritirarsi, no? Che senso ha arrivare mezz’ora dopo? Ok, lo so, è sbagliato ma capitemi.
Dopo un tempo interminabile la situazione sembra sbloccarsi e riusciamo finalmente a imboccare il viale. Improvvisamente diventa tutto scorrevole, non ci sono più barriere, né cartelli… anzi, pensandoci bene ci siamo solo noi, la strada è proprio vuota. Forse dovremmo insospettirci, ma preferiamo illuderci finché, arrivati al porto, vediamo davanti a noi lo striscione dell’arrivo. No, incredibile, siamo sul rettilineo finale! Il palco per la premiazione è già allestito, la cerimonia sta già iniziando.
A questo punto siamo di nuovo bloccati. Il pullman non può andare né avanti né indietro. Non ci resta altro che scendere, raccogliere le nostre povere cose e raggiungere l’albergo a piedi. Per fortuna l’Hotel Europe è molto vicino e così, sia pure in notevole ritardo, arriviamo finalmente a destinazione.
Ci sistemiamo rapidamente nella stanza al secondo piano, che è davvero essenziale, e siamo pronti per ripartire alla scoperta di questa città così multiforme, che ha dentro tante facce e tante storie. Marsiglia, spiega Chawki, ha accolto tanti pezzi di popoli dispersi e disperati. Ha accolto gli armeni in fuga dal genocidio turco del 1915. Ha accolto, finché ha potuto, gli ebrei in fuga dalle persecuzioni naziste. E ha accolto tantissimi italiani in fuga dalla povertà e dal fascismo. Quanti italiani, nella storia, sono stati “migranti economici”. Quanti di cui non ci ricordiamo. Molti sono venuti qui, tant’è vero che oggi si dice che più o meno metà della popolazione marsigliese abbia un nome o un nonno italiano. Solo per quattro giorni Marsiglia, come una mamma, accoglierà anche noi tra le sue braccia forti e generose che odorano di mare e di sapone da bucato.
La nostra prima meta marsigliese è la Cité Radieuse di Edouard Jeanneret, detto Le Corbusier.
Siamo al civico 280 di boulevard Michelet, nell’VIII arrondissement, tra mare e montagne. I marsigliesi la chiamano la maison des fadas, la casa dei pazzi, ma anche semplicemente Le Corbusier, o Le corbu. Fu inaugurata, dopo 5 anni di lavori, nel 1952. Un parallelepipedo rettangolare in cemento armato grezzo appoggiato su dei pilastri, con all’interno tutto quello che serve per vivere: dalla scuola al cineclub, dalla panetteria al medico, dalla palestra alla biblioteca, e ovviamente gli appartamenti, 337 appartamenti costruiti su due piani, come piccoli villini incastrati uno nell’altro, con una configurazione e volumi mai visti prima.
Una città verticale, così la immaginò Le Corbusier. La chiamò Cité Radieuse, città raggiante, perché affacciata a est e ovest in modo da avere il sole tutto il giorno. André Jollivet, un architetto marsigliese, presidente e fondatore della Maison de l’Architecture et de la Ville, ce ne racconta la storia, con la traduzione di Lea.
All’inizio nessuno voleva venire ad abitare qui. Nel dopoguerra lo Stato aveva affidato all’architetto un progetto di case popolari visionario, forse troppo, per degli alloggi destinati alle persone che erano sfollate dalle loro case distrutte della zona del porto. Hitler, ci racconta Chawki, non amava Marsiglia, anzi la odiava. Già allora era troppo meticcia per i suoi gusti. Fece di tutto per raderla al suolo; non ci riuscì del tutto per fortuna, ma in buona parte sì.
Le Corbusier venne a parlare ai pionieri della Cité Radieuse. «Ho riunito qui le condizioni della felicità» disse immodestamente. Nei fatti qualche problemino c’era. Il riscaldamento centralizzato, novità per l’epoca, funzionava male e i primi inverni faceva freddo.
Molti inquilini sperimentavano altre innovazioni come la cucina aperta sul salotto, una bestemmia per i canoni di quegli anni. E poi le porte scorrevoli, gli armadi a muro, una biblioteca per separare gli spazi, il parquet a terra, la scala interna di legno. Le Corbusier aveva arredato le case pensando a ogni dettaglio, persino alla cappa sopra alla cucina a gas, che fino ad allora non esisteva. Doveva essere una comunità: pochi ascensori per favorire gli incontri e un telefono interno che collegava i vari inquilini tra di loro.
Oggi come allora ai bambini corbuséens basta prendere un ascensore per andare a scuola. All’ottavo piano ci sono cinque classi con piccoli che giocano vicino al cielo, sospesi a cinquantasei metri da terra. D’estate possono uscire sul tetto, a sguazzare in una piscinetta. L’immensa terrazza con vista mozzafiato su Marsiglia, dove anche noi facciamo la nostra foto di gruppo, è un palcoscenico sempre aperto: mostre, concerti, spettacoli.
Le Corbusier volle che i corridoi comuni fossero concepiti come strade, erano chiamati proprio “rue”. Il concetto era che si poteva fare tutto all’interno della Citè, quasi senza uscire mai. Percorrendoli, questi corridoi danno una sensazione un po’ claustrofobica. Le porte, pur essendo colorate, sembrano quelle di tante celle.
Negli ultimi anni sono arrivati tanti bobos (bourgeois bohémiens) affascinati dalle comodità, dal verde, da una tranquillità inusuale per Marsiglia. I prezzi degli appartamenti ormai sono lievitati: per vivere nel sogno di Le Corbusier bisogna spendere almeno quattromila euro al metro quadrato.
Da Natale a Ferragosto, dai compleanni ai matrimoni, l’associazione degli abitanti ha una frenetica attività mondana che si aggiunge a quella culturale — teatro, cinema, reading — oppure educativa: l’orto condiviso, i corsi di pittura, yoga, inglese. La palestra, che era sul tetto, ora è un centro di arte contemporanea, il Mamo.
La Cité Radieuse è l’edificio più visitato di Marsiglia, candidato all’iscrizione nel patrimonio mondiale Unesco. Vivere in un monumento non è facile. Al terzo piano sono rimasti l’hotel (ventuno camere) e il ristorante, “Le Ventre de l’Architecte”. Non ci sono più la macelleria né il parrucchiere.
C’è invece uno studio di architettura, quello di Corinne Vezzoni (di origine italiana, ovvio), amica di André e premiata come miglior architetto donna di Francia per il 2015. Dato che molti di noi avrebbero la curiosità di entrare in un appartamento e in quelli privati ovviamente non si può (anche se c’è chi approfitta di qualcuno che sta uscendo per buttare l’occhio), André la chiama e le chiede se, anche solo per pochi minuti, può farci vedere questo appartamento che lei ha trasformato nel suo studio. Lei, gentilissima, accetta e in 30 persone invadiamo i suoi spazi. Si scatena un dibattito tra chi sostiene che qui l’esposizione è doppia sullo stesso piano e chi dice che è solo un’impressione dovuta alle grandi finestre, ma in realtà ogni piano ha una sola esposizione (tutti gli appartamenti qui sono su due livelli). In fondo non importa, quello che è certo è che lo studio è molto bello, e non poteva essere altrimenti.
André ci racconta altre curiosità su Le Corbusier, un uomo tuttora molto discusso. Gli si imputa di essere stato troppo vicino al potere, anche quello della Francia filonazista del governo fantoccio di Petain. Ma in realtà non è mai stato davvero affascinato dalle ideologie totalitarie, lo faceva solo per convenienza. E si discute anche sulla sua morte. Lui, che aveva concepito grandi spazi, scelse di passare gli ultimi anni in una cellule d’habitation, nove metri quadrati in Costa Azzurra, a Roquebrune-Cap-Martin, dove morì annegato il 27 agosto 1965. Negli ultimi anni hanno avuto più eco le teorie secondo cui sarebbe stato un suicidio, ma probabilmente non lo sapremo mai.
Per la cena, abbiamo appuntamento in un locale sulla Canebière, la strada principale del centro storico. Il posto si chiama La Boite à Sardine, la scatola di sardine, ed è aperto quasi solo per noi. Essendo fondamentalmente collegato a una pescheria, generalmente apre solo a pranzo. L’ambiente è vivace; sembra un po’ la cambusa di una nave, con le pareti piene di scatole di sardine colorate e tantissimi oggetti a tema marinaro. Stando a quello che ci ha raccontato Lea, la cena dovrebbe essere fatta di tanti piccoli assaggini, da mangiare anche in piedi. Una sorta di “apericena”, in pratica. In realtà, anche se con un po’ di fatica, troviamo tutti un posto a sedere e gli “assaggini” sono dei piattoni comuni stracolmi di ogni ben di dio ittico dai quali ci serviamo abbondantemente. Un vero tripudio di pesce e frutti di mare: ostriche, ricci, tonno, gamberi, ovviamente sardine e alici. Tutto freschissimo e molto gustoso, innaffiato con del buon vino bianco.
Questa fantastica prima cena marsigliese è anche l’occasione per conoscere Alda, la figlia minore della nostra cara amica (nonché fornitrice di buonissime marmellate) Giordana. Alda è ricercatrice in chimica industriale all’università di Marsiglia, dopo parecchi anni passati a Barcellona. Insomma, il tipico cervello in fuga. Con lei ci scherziamo un po’ su, molto piacevolmente. Io dico spesso che anch’io sono un cervello in fuga, nel senso che il mio cervello è fuggito da un pezzo, ma il corpo è rimasto in Italia. Si capisce subito che lei, invece, di intelligenza ne ha tanta e la usa, non solo per la chimica. Si può parlare, ad esempio, di Ada Colau e di quello che sta cercando di fare a Barcellona, partendo dalla bellissima intervista che di recente ha rilasciato a Radio Popolare e che purtroppo mi ero perso: per fortuna ci sono Giordana e Giuseppe a segnalarmela. Con Alda ci capiamo al volo, su questo, perché come lei anch’io amo Barcellona, anche se purtroppo a differenza di lei non ho avuto la fortuna di viverci. Ma non si sa mai, forse un giorno riuscirò a rimediare…
La cena è andata molto bene e, visto che siamo tutti un po’ stanchi per il viaggio, la serata può anche finire qui.
Venerdì 26/2/2016
Le previsioni meteo per questi giorni erano abbastanza tragiche, ma finora ci sta andando bene, in realtà. Anche oggi c’è il sole, non fa freddo e il Mistral, il tipico vento di maestrale che caratterizza Marsiglia, non soffia particolarmente forte.
Per oggi il programma prevede, dopo una buona colazione, la visita alla basilica di Notre Dame de la Garde. Ma prima, guidati da Chawki, ci avventuriamo un po’ nei meandri dei quartieri più maghrebini con i loro mercati e i loro negozi di spezie. La particolarità è che qui quello che sembra sia il Corso Buenos Aires marsigliese, Cours Belsunce, confina direttamente con la zona popolare di Noailles, in un equilibrio che può sembrare precario ma in realtà è consolidato. Il quartiere è colorato e abbastanza verde, anche se il verde è in parte autogestito. Sebbene non sia più un’area degradata come qualche anno fa, è ancora poco considerata dalla municipalità di Marsiglia. E allora gli abitanti suppliscono con un po’ di volontariato e di organizzazione, per esempio realizzando con poche assi di legno delle fioriere artigianali ma anche originali e molto colorate.
Prendiamo il pullman per salire fino a Notre Dame de la Garde, che domina Marsiglia dall’alto dei suoi 162 m. Con il cielo azzurro e limpido, la vista da quassù è eccezionale: girando attorno alla basilica si vede tutta la città. Si possono ammirare anche le isole Frioul, e il Castello d’If reso famoso da Dumas nel Conte di Montecristo. Lea cerca di non farci perdere niente, orgogliosa e un po’ emozionata. Qui, però, il vento comincia davvero a farsi sentire.
La basilica è il faro spirituale di Marsiglia, da cui la Madonna della Guardia, dolce e materna, veglia sulla sua città. L’esistenza di una cappella sulla collina risale al XIII° secolo, ma dal XVI° secolo si afferma l’importanza strategica del sito con la costruzione di un forte. Il santuario attuale è stato costruito a metà dell’800 ed è in stile romano-bizantino: romanico fuori e bizantino all’interno, pieno di mosaici. In realtà, come tutte le basiliche ottocentesche, è un miscuglio di stili un po’ incoerente ma, a differenza di altri casi dove l’imitazione è troppo palese e malriuscita, qui l’insieme è tutto sommato gradevole. Colpisce anche la collezione di 150 ex-voto, dai più solenni ai più semplici, come quelli in cui uno studente ringrazia per aver passato un esame, evidentemente molto ostico. La chiesa è dominata da una statua colossale della vergine, dorata, alta 9,70 m e pesante più di 9 tonnellate. Più grande della nostra madonnina, insomma.
L’importanza del luogo è anche da ricondurre al fatto che fu proprio la presa della basilica, il 25 agosto 1944, a segnare la liberazione di Marsiglia. Le mura portano ancora i segni della battaglia e poco più giù c’è un carro armato trasformato in monumento.
Scendiamo a piedi passando per il grazioso quartiere di Saint Victor. Tornando al porto, ci fermiamo un attimo ad ammirare la tettoia a specchio (Miroir Ombrière) progettata da Norman Foster per celebrare Marsiglia capitale europea della cultura nel 2013. Realizzata in acciaio inox, sottile e leggera, riflette la vita sottostante, il mare e gli spazi del Vieux Port riqualificato.
Ci fermiamo al porto anche per il pranzo, che consumiamo al Bar de la Marine, un locale storico marsigliese che ci consigliano due compagne di viaggio che conoscono già piuttosto bene la città. Qui sono state girate molte scene dei film della cosiddetta trilogia marsigliese, tratta dalle opere teatrali di Marcel Pagnol negli anni ‘30. Il servizio non brilla per rapidità, per usare un eufemismo, ma alla fine ci portano dei calamari che sono uno spettacolo: tra i migliori che abbia mangiato nella mia vita.
Nel pomeriggio ci spostiamo nel quartiere chiamato la Belle de Mai e storicamente collegato alla manifattura tabacchi di Marsiglia, dove venivano prodotte, a partire dal 1860 e fino al 1990, le Gauloises e le Gitanes. Il vecchio complesso industriale dismesso è ora stato in gran parte recuperato, anche se i lavori vanno sempre avanti, e trasformato nella Friche La Belle de Mai. Friche è una parola che non ha un equivalente in italiano, che significa proprio posto abbandonato. La fabbrica è diventata ora una fabbrica d’arte e di cultura, che ospita al suo interno innumerevoli attività e atelier di artisti: pittura, scultura, fotografia, fumetti, arti figurative varie, laboratori teatrali, un cinema d’essai, sale per ospitare mostre e spettacoli di tutti i tipi… insomma è veramente un punto di riferimento per la vita del quartiere e di tutta la città. Per svolgere tutte queste attività, gode naturalmente (siamo in Francia) di cospicui finanziamenti pubblici a tutti i livelli: Stato ed enti locali, soprattutto ovviamente il comune di Marsiglia. Ascoltando la gentile signora che ci fa da guida, non possiamo che provare invidia. Milano è certamente migliorata negli ultimi anni da questo punto di vista, ma siamo ancora lontani.
Noi siamo qui prima di tutto per una sorta di gemellaggio con una radio “sorella” che ha i suoi studi qui alla Friche: Radio Grenouille, come dire Radio Rana. La storia del nome è particolare: serviva qualcosa che fosse un simbolo di libertà e uno dei fondatori, un regista teatrale, si inventò questo nome pensando alle rane che gracidavano nei fossati intorno ai castelli medioevali. Le rane davano così fastidio ai signori da essere spesso vittime di grandi battute di caccia organizzate per sterminarle. Quindi la rana come voce libera che dà fastidio al potere, che fa di tutto per farla tacere. È originale, non c’è che dire. A me viene subito in mente la mia amica Franca, che adora le rane e ne ha la casa piena: rane ovunque, di ogni foggia, dimensione e materiale. Lei, ovviamente, ascolta Radio Popolare, ma se vivesse qui questa sarebbe senz’ombra di dubbio la sua radio.
Radio Grenouille, ci spiega la nostra guida, che è proprio della radio, è nata nel 1981 e quindi compie quest’anno 35 anni; qualcuno meno di Radio Pop, ma in Francia le radio libere sono arrivate qualche anno dopo rispetto all’Italia. Anche loro, manco a dirlo, hanno finanziamenti pubblici, anche se lei dice che non sono poi così generosi. Sono abbastanza da permettere loro di sopravvivere senza pubblicità: i soli spot che mandano in onda sono quelli di iniziative ed eventi culturali. Ancora una volta, che invidia!
La visita dei loro studi diventa più che altro uno scambio; noi facciamo domande, ma è anche lei a farle a noi. Ed è bello vedere come noi, che siamo semplici ascoltatori, ci sentiamo partecipi al punto da poter rispondere a nome della radio. Scopriamo che anche loro sono spesso in giro per la città, sia per seguire eventi organizzati che, a volte, con il semplice scopo di seguire per un po’ di tempo la vita quotidiana di un certo quartiere, vedere cosa succede e denunciare eventuali problemi. E usano ampiamente internet dal 1998, in questo sicuramente ci hanno preceduto. Ma, a differenza di Radio Popolare, loro non hanno un network e hanno pochissime collaborazioni con altre radio di altre città. Viene fuori anche che in passato c’è stata una piccola collaborazione per un progetto europeo che riguardava la malattia mentale, in cui erano coinvolti loro ma anche Psicoradio, di Radio Città del Capo.
L’incontro viene suggellato con uno scambio di contatti tra Chawki e la nostra ospite; speriamo che porti a qualche altra collaborazione.
Dopo la radio si può decidere se visitare un paio di mostre o fare un giro per il quartiere cion Chawki. Io e il mio gruppetto scegliamo la seconda ipotesi. Il quartiere gli piace molto, ci spiega, perché è un quartiere popolare che sembra un po’ un paese, che ha una sua vita e delle sue regole e dinamiche. Un po’ come Villapizzone, dove lui ha vissuto. Purtroppo non conosco più di tanto Villapizzone, ma mi fido.
Siamo in giro, con Alessia e Nello, anche allo scopo di comprare una torta per la nostra compagna di viaggio Marilena, che si è scoperto festeggia il compleanno quest’oggi. Dopo un paio di tentativi a vuoto finalmente troviamo qualcosa di buono, appena in tempo perché intanto si è messo a piovere.
Siamo quindi costretti a tornare alla Friche e ad aspettare lì l’ora di cena, dato che mangeremo lì nella grande sala ristorante interna.
Per ingannare l’attesa, e anche perché l’ora è effettivamente quella giusta, io, Denis e Vittorio ci facciamo un Pastis. Il Pastis è il tipico aperitivo marsigliese all’anice, che normalmente i marsigliesi bevono allungato con un po’ d’acqua. Vittorio e Denis sostengono, però, che qui ne mettono troppa e quindi è meglio prenderlo col ghiaccio. Mi faccio convincere ma poi me ne pento: io non vado pazzo per l’anice e senza “tagliarlo” il gusto è troppo forte. Tra l’altro, Denis inizia una delle sue tipiche conversazioni con un avventore del bar, senza per altro capire una parola di quello che dice questo signore. Faccio da interprete, col mio francese essenziale, e gli spiego che semplicemente il nostro amico marsigliese gli voleva dire questo: che il Pastis si beve con l’acqua. Fortunatamente la discussione non degenera; con Denis può sempre succedere di tutto, infatti mi confermano che a pranzo ha chiesto a un omone di colore di tirare fuori la lingua per “vedere il contrasto con il colore della sua pelle”. Deve aver trovato un uomo che apprezzava il suo spirito surreale, dato che mi sembra ancora intero.
Un’altra specialità di Denis è quella di chiamare le persone con un altro nome, o di inventarsi bizzarri soprannomi. Devo dire, però, che c’è sempre una certa genialità: qui ha deciso di chiamare Chawki Senouci “Sans Souci” e Piero Scaramucci “Scaramouche”.
La cena è a base di Aioli, una salsa provenzale tipo maionese a base di aglio, olio e limone, che si mangia generalmente (e anche in questo caso) con le verdure e col pesce. Provenzale e anche catalana; per ovvie ragioni di vicinanza geografica ed etnico-culturale, l’aioli esiste anche in Catalogna. Chiaramente i catalani, che sono famosi per il loro complesso di superiorità, sostengono di averlo inventato loro, come per altro la bruschetta (che chiamano pà amb tomaquet) e qualche altra decina di specialità che sono in realtà patrimonio di tutto il bacino del mediterraneo.
Sono al tavolo, tra gli altri, anche con Piero e Mimosa. Si discute molto di strascichi delle primarie milanesi e di prospettive future della radio. Nasce un divertente dibattito su come la radio potrebbe finanziarsi se gli abbonamenti fossero insufficienti: come fare per prendere dei finanziamenti pubblici? Le proposte sono di fondare un partito o, meglio ancora, una religione! Il copyright è di Vittorio, l’idea potrebbe essere non del tutto da scartare.
È anche vero che il fatto di non prenderne, di finanziamenti pubblici, permette forse alla radio di essere più libera da ogni condizionamento. E a noi, in fin dei conti, piace così.
Sabato 27/2/2016
Da tutte le previsioni meteo che abbiamo guardato, sappiamo che oggi dovrebbe essere il giorno peggiore. Ed effettivamente il cielo su Marsiglia è plumbeo e non promette nulla di buono.
Vittorio sta cercando di organizzare una cena alternativa a quella a base di cous cous prevista per stasera, più che altro perché non vorremmo lasciare Marsiglia senza aver mangiato la Bouillabaisse, la mitica zuppa di pesce provenzale. Ma pare che, per mangiarla come si deve, non si riesca a spendere meno di 70 euro, per cui alla fine rinunciamo. Sarà un altro motivo per tornare, eventualmente. Io poi, personalmente, un buon cous cous lo apprezzo sempre.
Iniziamo la nostra giornata cercando, appunto tempo permettendo, di esplorare la zona intorno a Cours Julien, che è forse la più viva della città per quanto riguarda i locali, la musica, la vita artistica e culturale. È considerato il quartiere degli artisti, dei musicisti, dei ribelli e dei bohemien. La cosa più evidente è, di sicuro, l’enorme quantità di murales creativi e coloratissimi che decorano i muri e le saracinesche dei negozi e dei locali. Un po’ per l’ora e un po’ per il tempo, la gente in giro non è molta.
Da qui ci spostiamo al Panier, che è la vera meta della mattinata. Il Panier si trova nella parte più antica di Marsiglia ed è un quartiere popolare, da sempre abitato dalla gente di mare. I marinai prendevano casa qui e qui lasciavano le loro famiglie quando partivano per i lunghi viaggi che li avrebbero portati dall’altra parte del mondo, lontani per mesi e mesi. Sull’origine del nome ci sono diverse teorie, ma quella che mi piace di più è quella secondo cui verrebbe dall’uso smodato che gli immigrati italiani, e napoletani in particolare, facevano del paniere per calare dalle finestre vettovaglie e mercanzie di ogni genere. Sì, perché questo quartiere era, ed è, abitato da un popolo di migranti. Anche per questo, storicamente, è sempre stato considerato dal resto dei marsigliesi luogo di malaffare, traffici, piccola e grande delinquenza, prostituzione. Se ora i migranti sono in maggioranza maghrebini e africani, in passato la presenza che caratterizzava il Panier era soprattutto quella degli italiani.
Uno di questi era il barista Gennaro Izzo, da Castel San Giorgio, provincia di Salerno, padre di Jean Claude Izzo, che venne alla luce proprio qui, in una di queste stradine strette, il 20 giugno del 1945. Jean Claude Izzo è un’altra delle motivazioni per cui siamo a Marsiglia ed è la motivazione principale che ci spinge oggi al Panier. Nei suoi libri, che sono noir ma non solo, racconta la verità di Marsiglia. Una verità che, come dice un bell’articolo di Alias che mi ha fatto leggere Giuseppe, è da un lato la luce del sole e il blu del cielo che abbagliano, il mare che si ferma davanti alle coste di Algeri, gli amici di un bistrot che rendono meno solitario il bicchiere di pastis. Ma dall’altro, come in una Rio de Janeiro d’Europa, i migranti dei traffici di droga e degli espedienti d’ogni genere, nel cuore del centro, a due passi dai palazzi d’epoca e dai dehors dei bar per turisti. Una verità che Izzo non nasconde, anzi ne trae il fondamento su cui poggia la costruzione dei suoi personaggi: la deriva e la durezza delle loro esistenze, la serenità comunque troppo breve di una tregua, la fragilità di amori consumati in un letto e mai lungo il cammino di una vita, il sangue di un pugno o di una pistola.
Io Izzo non lo conosco per niente, devo confessarlo. Ma grazie a Giuseppe in questi giorni sto facendo un corso accelerato. Lui ha letto un paio di libri, tra cui Chourmo, la ciurma, seconda puntata della trilogia marsigliese che vede per protagonista il commissario Montale. Giordana poi, forse perché ha la figlia qui, è preparatissima: ha letto tutta la trilogia. Io sono abbastanza incuriosito, al ritorno qualcosa leggerò.
Izzo a parte, il Panier ha certamente una sua fascinazione. Certo, sarebbe meglio poterlo vedere senza la pioggia battente che c’è in questo momento. Noi, come prima cosa, visitiamo la Vieille Charité, un edificio del ‘600 che era un ospizio per i poveri e gli emarginati della città. Molti ci andavano di loro volontà a cercare un riparo e un piatto caldo ma poi, come sempre è successo e come purtroppo avviene tuttora in molte situazioni, quando c’era la necessità di ripulire la città dagli “impresentabili” in occasione della visita di un qualche potente venivano organizzate retate per portarci a forza tutti quelli che deturpavano il decoro della città dormendo per strada. L’edificio, con la sua caratteristica cupola ovoidale, ha rischiato di andare completamente in rovina ma ora è stato restaurato e trasformato in museo: ospita, oltre a mostre temporanee, spettacoli e concerti che in estate si tengono nel cortile, il museo di archeologia mediterranea e il museo di arti africane, oceaniche e amerindie.
Un altro edificio dalla storia legata a doppio filo con la realtà difficile del quartiere è il Convento del Rifugio, dove le prostitute venivano rinchiuse, in condizioni di detenzione pessime, con quel sadismo di cui sanno essere capaci a volte le suore, per essere “rieducate”. Entravano da una porta che dava su una via chiamata Rue du Déshonneur (Via del disonore), ora però ribattezzata su richiesta degli abitanti Rue des Honneurs (Via degli Onori). E uscivano, quando riuscivano a uscire, sulla Rue des Repenties (Via delle Pentite).
Continua a piovere, fa freddo e il vento è sempre più forte. Ma non è il Mistral: Alda, che vive qui da un paio d’anni ormai, ci ha spiegato che il Mistral è freddo ma è sempre accompagnato da un tempo secco e soleggiato. Se piove, non può essere il Mistral. Non saprei dire da quale direzione venga questo vento, ma abbiamo almeno una certezza, che non è mai poco.
Prima di andare a mangiare, compriamo un po’ di saponi (del resto, è ovvio, non se ne può fare a meno) nel negozio di un simpatico maghrebino che mi dice: “Ah, io adoro gli italiani ma…” – e sono curioso di sapere cosa viene dopo quel ma – “… ma siete sempre a mercanteggiare, proprio come noi!”.
Pranziamo in un altro ristorante della zona del Vieux Port: l’idea era di stare leggeri ma io alla fine non resisto e mi faccio un ricco piatto di cozze, ottime devo dire. Dopo di che siamo pronti per il pomeriggio, che prevede la Villa Mediterranée di Stefano Boeri e poi il MUCEM (Musée des Civilisations de l’Europe et de la Mediterranée).
I due edifici sorgono a pochi passi l’uno dall’altro, davanti al mare, come a litigarsi quel tratto di costa. Sono alti uguali, ma quello di Boeri è bianco, il MUCEM è nero. Per di più la Villa Mediterranée è stata realizzata con i fondi della regione PACA (Provence, Alpes et Côte d’Azur), che all’epoca aveva un’amministrazione di sinistra, il MUCEM con quelli dello Stato e del comune di Marsiglia, che aveva e ha un’amministrazione di destra.
Non ho grande simpatia per Boeri, ma devo ammettere che la sua Villa è bella, come idea, e per quel pochissimo che capisco io di architettura sembra usi delle soluzioni originali e innovative. Per fortuna a illustrarci tutto c’è l’architetto Ivan Di Pol, che ha collaborato da vicino e costantemente con Boeri, durante tutta la fase di progettazione e di realizzazione, e che parla uno splendido italiano. La costruzione ha richiesto 10 anni, dal 2003 al 2013. Non poco quindi, per gli standard francesi. La parte più complicata, dal punto di vista ingegneristico, è lo sbalzo di più di 40 m che si regge grazie a grandi contrappesi e che crea una specie di tettoia sotto la quale passa il mare. La parte più bella dell’edificio, al suo interno, sarebbe proprio quella sotto il livello del mare, dove c’è un grande auditorium e ci sono altre sale espositive. Ma non ci possiamo andare perché stanno allestendo una mostra. Il nostro architetto cerca di farci comunque scendere facendo un po’ lo gnorri, ma veniamo bloccati da una solerte addetta, che parla anche lei un perfetto italiano ed è pure molto carina. A questo punto interviene Denis, che riesce ad intortarla con un po’ di complimenti come sa fare lui e ad ottenere che ci faccia almeno scendere un pezzo della rampa di scale e buttare un occhio.
A volte in effetti un po’ di faccia tosta aiuta, e lui ne è dotato in quantità industriali.
Purtroppo, per ora, la Villa Mediterranée è poco utilizzata. Il MUCEM è forse meno bello ma sicuramente più interessante. Soprattutto, noi siamo qui per la mostra “Made in Algeria”. Diamo un’occhiata veloce anche all’esposizione permanente sulla storia delle civiltà del Mediterraneo, ma il tempo non è abbastanza per fare bene entrambe e quella sull’Algeria merita veramente. Si tratta di una storia della colonizzazione attraverso la cartografia, che mostra quanto poco i francesi conoscessero del territorio, al di là della costa, e quanto l’abbiano scoperto, anche dal punto di vista cartografico, man mano che le truppe avanzavano verso l’interno, spostando avanti la linea di confine. Ci sono tantissime mappe e anche molti documenti storici, dal 1830, quando inizia la conquista, al 1962, anno dell’indipendenza.
Molti documenti raccontano anche, naturalmente, una storia di sfruttamento e di oppressione. All’uscita, chiacchiero un po’ con Lea e anche lei è colpita. Mi dice che sì, lei certe cose le sapeva, ma vederle documentate così, nero su bianco, con i documenti autentici dell’epoca, fa abbastanza effetto. C’è tuttora una certa rimozione di questa parte della storia francese, anche a più di 50 anni dalla decolonizzazione. Lea dice che il trattamento che è stato imposto alla popolazione locale le ricorda quello che hanno fatto gli israeliani con il popolo palestinese, e come darle torto? Le analogie sono evidenti, per chi le vuole vedere.
Prima di cena io, Giordana e Vittorio andiamo a bere un pastis offerto da Alda in un posto che conosce lei, che si chiama Champ de Mars, vicino a Notre Dame du Mont. C’è una bella atmosfera, e tra l’altro si conferma che il pastis è meglio con l’acqua.
La cena, non essendo riusciti a portare a termine la missione Bouillabaisse, è quella prevista, a base di cous cous. Il posto si chiama Femina. Passabile, ma francamente ne ho mangiati di meglio, soprattutto per quanto riguarda la carne di agnello. Forse, avendo diversi viaggi in Marocco alle spalle, sono diventato troppo esigente.
Vorremmo poi continuare la serata ascoltando un po’ di musica dal vivo. Un locale che si chiama La Marveilleuse sembra offrire qualcosa di interessante, che mescola Brassens con Gardel. In realtà, forse abbiamo equivocato sul tema della serata. Si tratta di un chitarrista argentino (quindi Gardel) che suona in un locale di Marsiglia (quindi Brassens). Il genere, però, ha poco a che vedere con entrambi, è più flamenco. E soprattutto il posto, che è piccolo, è già pieno. Quindi ci prendiamo una cosa al banco, ascoltiamo per un po’ ma poi preferiamo andare via.
Sulla strada del rientro in albergo, incontriamo per caso un altro gruppetto, guidato da Alessia e Nello, che sembra deciso a trovare un posto dove sedersi a bere con calma e finire la serata in santa pace, ma un po’ più tardi. Ci aggreghiamo e troviamo un posto tranquillo nella zona del Vieux Port dove possiamo sorseggiare un mojito e parlare ancora un po’ della nostra radio.
Domenica 28/2/2016
Anche oggi purtroppo la giornata, dal punto di vista del meteo, non ci assiste molto. Per ora non piove, ma minaccia.
Quando pensavamo al viaggio con il mio gruppetto di amici, speravamo di poter sfruttare la mezza giornata libera per andare a Cassis per vedere le Calanques, le più belle calette di tutta la Provenza. Sono piccole insenature di roccia bianca che si affacciano su un mare cristallino; ci si può arrivare via mare, ma anche attraverso diversi sentieri escursionistici. Quest’idea, purtroppo, abbiamo già capito da un po’ di doverla accantonare: in questi giorni non è il caso, e poi comunque servirebbe forse un po’ più di tempo, rispetto a quello che abbiamo.
Avevamo anche elaborato un piano B, che era fare un’escursione in barca alle isole Frioul e/o allo Chateau d’If. Ma anche questo, con una giornata così, ci sembra da scartare: rischiamo di dover stare al coperto in barca e di vedere poco o niente.
Così optiamo per il piano C, che è una semplice passeggiata sulla Corniche, il più suggestivo e famoso lungomare di Marsiglia. Non vorremmo andare via da qui senza averne percorso almeno un tratto, quindi tutto sommato si può dire che non sia solo un ripiego.
Effettivamente, passata la piccola Plage des Catalans, inizia un tratto di lungomare che è veramente spettacolare. Per quanto possiamo vedere i marsigliesi, più che passeggiare, amano venire qui a correre la domenica mattina. Questa è un’abitudine che ho anch’io, anche se il mio scenario abituale è decisamente meno bello, e vedendoli mi verrebbe quasi voglia… purtroppo non ho l’abbigliamento idoneo. A giudicare dal numero di vele in acqua, sembra anche che sia in corso una regata velica.
Con Giuseppe che guida il gruppo con il suo consueto passo da montanaro, ne percorriamo un bel pezzo, fermandoci qua e là per vedere il monumento agli eroi dell’Armata d’Oriente e delle Terre Lontane o per godere la vista sullo Chateau d’If. In questa fortezza del XVI secolo poi adibita a prigione furono incarcerati prigionieri politici di ogni tipo, insieme a centinaia di protestanti (molti dei quali morirono nelle segrete) e ai comunardi del 1871. È qui che Dumas, nel Conte di Montecristo, fa incontrare Edmond Dantès e l’abate Faria. Ma scopriamo che sull’isola d’If esiste anche un’altra storia curiosa: fece tappa qui, nel suo viaggio, il famoso rinoceronte del Re del Portogallo, ritratto anche in un’incisione di Albrecht Dürer. Nel 1515 Manuel I, allora potentissimo re del Portogallo che si stava affermando come potenza coloniale, ricevette in dono un rinoceronte, proveniente dall’India. Era il primo rinoceronte che arrivava in Europa, dove fino ad allora era ritenuto un animale leggendario, frutto di fantasie da scrittori di bestiari. Dopo averlo fatto portare in processione per le strade di Lisbona tra la folla incredula, il re lo tenne in giardino per alcuni mesi come trofeo vivente da esibire alle feste. Sembra che venne addirittura organizzato una specie di duello con un elefante, che finì nel nulla perché i due animali, entrambi mansueti, non avevano nessuna voglia di combattere ed era piuttosto complicato convincerli. Dopo di che il re, a cui forse il nuovo giocattolo era venuto a noia, decise di regalarlo al papa. La povera bestia venne quindi imbarcata su un veliero, che però dopo la sosta marsigliese fece naufragio davanti a La Spezia. Il rinoceronte venne recuperato e arrivò comunque al papa, ma imbalsamato.
Come era facile prevedere, iniziano a cadere le prime gocce di pioggia e quindi, per evitare guai, preferiamo ritornare in autobus al Vieux Port. E qui incappiamo in un simpatico fuoriprogramma. Tra l’Ombrière di Foster e la ruota panoramica, imperversa una scatenata banda di giovani musicisti vestiti con buffi costumi: chi da draghetto o da cavallo, chi con una maglia da ciclista e sotto un gonnellino, chi con una specie di pigiamone rosa… insomma di tutto un po’. Quando arriviamo stanno suonando Čaje Šukarije, un popolare pezzo balcanico, ma il repertorio è molto vario e hanno anche pezzi loro, o almeno rivisitati da loro, tant’è vero che vendono un loro cd. Sono la Faragoule, la fanfara dell’Ecole Centrale di Marsiglia. Ecco qui un assaggino, godetevelo:
In un primo momento ci viene da pensare che siano studenti di musica, ma quando lo chiedo ad uno dei ragazzi che passa per la questua mi risponde: “No, siamo ingegneri!”. E in effetti è vero, nel senso che l’Ecole Centrale è una scuola preparatoria di ingegneria. Non conosco il sistema scolastico francese, ma credo di aver capito che sia una specie di scuola che sta a metà tra la scuola superiore e l’università, paragonandola al nostro sistema. I ragazzi (e le ragazze, ce ne sono parecchie), a occhio, hanno tra i 16 e i 21-22 anni. Suonate bene per essere ingegneri, gli dico. Sono davvero bravi, o almeno hanno quella carica di allegria che ci serviva per dimenticare la pioggia, la delusione per non aver potuto combinare granché stamattina e, perché no, il fatto che il viaggio sta finendo.
Pranziamo in una boulangerie, ci prendiamo un caffè rilassato in uno dei bar del porto e poi è davvero il momento di salutare Marsiglia.
Ne abbiamo forse avuto solo un assaggio, ma, almeno a me, ha fatto venire voglia di conoscerla meglio. Magari con un sole un po’ più caldo e, perché no, con il Mistral. In fondo, anche la bellezza della passeggiata di stamattina non è altro che la dimostrazione che Izzo aveva ragione quando diceva – mi piace chiudere con una sua citazione – che “di fronte al mare la felicità è un’idea semplice”.
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