Diario di un viaggio breve ma intenso, si può davvero dire, che è in qualche modo un ritorno a casa, come fosse una riunione di famiglia, ma anche una scoperta. Un modo per fare un piccolo passo in più nella conoscenza di quello che è (la definizione è del mio fratello berbero Salah, ed è quanto mai azzeccata) il Marocco profondo.
Mercoledì 9/8/2017: Primo giorno, nel quale ritorno a casa sull’Atlante
È strano come ci si possa sentire a casa a 2300 km da casa (in linea d’aria, ovviamente); però a volte succede. È questo che penso mentre, ancora un po’ assonnato, faccio la coda al controllo passaporti dell’aeroporto di Marrakech. Il volo Easyjet parte sempre più presto, ogni volta che lo prendo. Questa è la terza volta che sbarco a Marrakech, ma è la quarta in Marocco, se aggiungiamo il primo viaggio; quella volta sbarcai a Casablanca.
Sul volo ho tentato di dormire, ma con scarso successo; non ci riesco quasi mai, in aereo. C’erano pochi “turisti puri”, per così dire, italiani intenzionati a visitare il Marocco, o almeno così mi è sembrato. Erano prevalentemente famiglie marocchine che tornano a casa per le vacanze, e anche qualche famiglia mista (generalmente, marito italiano e moglie marocchina). Sembra che effettivamente il Marocco risenta della generale diffidenza verso i viaggi nel nordafrica, anche se qui la situazione politico-sociale è molto tranquilla, se paragonata a quella degli altri paesi dell’area. C’è stata solo, negli ultimi mesi, la protesta della regione del Rif, nata dai fatti del 28 ottobre scorso, quando il pescivendolo Mohcine Fikri è morto stritolato dal camion della nettezza urbana dove si era infilato per cercare di recuperare i 500 chili di pesce spada che la polizia aveva gettato al macero col pretesto che erano stati pescati illegalmente. Ma è stato un movimento prevalentemente a carattere locale, di portata abbastanza limitata, che il re Mohammed VI e il governo hanno dato l’impressione di tenere sotto controllo.
Io sono qui per far visita alla famiglia del mio fratello berbero Salah, che da tempo mi chiedeva di tornare. Sono circa due anni e mezzo che manco; l’ultima volta sono stato a casa sua, sull’Alto Atlante, per un paio di giorni prima di unirmi al gruppo del primo viaggio organizzato da Radio Popolare e ViaggieMiraggi in Marocco.
Ora non vi tedierò, qui, con il riassunto delle puntate precedenti, di come ci siamo conosciuti e di come abbiamo approfondito la conoscenza girando il paese con lo zaino in spalla su autobus e Grand Taxi scassatissimi. Forse qualcuno quella storia la conosce già; in ogni caso, per chi non la conoscesse o volesse rinfrescarsi la memoria, ecco i link ai vecchi episodi.
Marrakech atto terzo: Marocco e nuvole
I controlli di sicurezza per uscire dall’aeroporto sono decisamente più lunghi e approfonditi rispetto a qualche anno fa, ma alla fine riesco a venirne a capo e mi trovo proiettato nella calura agostana di Marrakech, dove il sole è cocente già quando ancora non sono le nove di mattina. Non che a Milano non abbia fatto caldo, negli ultimi giorni; non si può proprio dire. Ma stamattina, manco a farlo apposta, c’era un po’ di pioggerella e a Malpensa faceva quasi freddo, per cui lo stacco si sente di più. Anche con il taxista che mi carica per portarmi in città, le prime chiacchiere non possono che avere come argomento il meteo. Mi racconta che negli ultimi giorni qui ci sono stati fino a 48°C, io gli spiego che anche da noi non siamo messi benissimo quanto a clima, certo non così ma… devo aver fatto progressi col francese, o essere più abbronzato di quanto credessi, perché mi chiede se sono marocchino. È la prima volta che mi capita. No, dico, no però è già la quarta volta che vengo, ho un amico marocchino, anzi un fratello, che sta sull’Alto Atlante, vicino alle cascate di Ouzoud ecc. ecc.
Mi chiede di Milano, se è una grande città, come si vive, se in Europa c’è ancora crisi. Sto un po’ sulle generali, dico che per quello che posso vedere c’è un accenno di ripresa, ma molto lenta, anche se io per fortuna non posso lamentarmi. “Ma lei è un professore?” – mi chiede. Boh, evidentemente nonostante l’abbigliamento per così dire informale ho preso un piglio professorale, niente meno. Sorrido e dico di no. Alla domanda “Allora che lavoro fa” mi risulta un po’ difficile rispondere compiutamente in francese, ma alla fine ci capiamo. Mi occupo di ambiente, spiego, di lotta all’inquinamento industriale, principalmente. Al che mi chiede se sono stato qui a Marrakech per la COP 22, la conferenza internazionale sul clima dello scorso novembre. No, dico, mi occupo di ambiente ma non a questi livelli. Lui comunque un po’ ne sa, dice che ha imparato molto chiacchierando con i clienti del taxi, e in effetti ha una parlantina notevole. Sa che il Marocco è avanti nelle energie rinnovabili, e me lo dice indicando un pannello fotovoltaico. È il paese più avanzato da questo punto di vista in Africa, ma non solo: esporta energia solare perfino in Europa, verso Francia e Germania, dice lui, ma non so se sia vero. Quello che è certo è che, in collaborazione con British Petroleum, già qualche anno fa erano stati installati 4000 impianti fotovoltaici per rifornire di energia i villaggi situati nei dintorni di Marrakech.
La situazione delle risorse idriche è invece molto meno rosea. Infatti, il crescente consumo di acqua da parte delle popolazioni urbane e dei complessi turistici ha ridotto le riserve del Marocco ai minimi storici e quel poco che è rimasto, per far fronte al fabbisogno delle città, viene tolto ai contadini dell’Atlante, come la famiglia di Salah, che già vivono a livelli di mera sussistenza o poco più. Oggi la quantità d’acqua disponibile pro capite è meno della metà di quella raccomandata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, anche a causa di idrovore come i campi da golf, i parchi acquatici e i resort della costa.
Ma non possiamo continuare la discussione perché siamo arrivati ormai alla Grande Gare Routiere, la stazione degli autobus dove, salutato l’amico taxista, devo cercare il primo bus disponibile per Azilal, sperando poi di riuscire a scendere al bivio per le cascate di Ouzoud, nei pressi della casa di Salah. Come sempre, un tipo cerca di convincermi che è meglio prendere il Grand Taxi esagerando la durata del tragitto in bus, senza sapere che lo conosco bene quel tragitto. Non mi faccio convincere, però in effetti per il bus c’è un’attesa di due ore e mezza. Per altro, è tutto da vedere che riuscirei a partire prima col Grand Taxi, tutto dipende da quante persone ci sono per Azilal. Sì, perché se non ha sei passeggeri, due sul sedile davanti e quattro dietro, il Grand Taxi non parte. A meno che qualcuno non paghi più posti, al limite anche tutti, ma è una cosa che non mi va di fare.
Perciò, mi metto tranquillo in attesa, mangiucchiando pane ai semi di sesamo con un po’ di burro e bevendo un tè.
A un certo punto si accende uno strano parapiglia. Vedo trascinare via una donna, con la folla che le va dietro. Forse è una ladruncola, penso, ma non ci sono poliziotti in divisa. Forse sono in borghese, non riesco a capire ma preferisco non avvicinarmi per evitare guai. Meglio non rischiare nulla.
La Gare Routiere è un mondo, standoci un po’ in attesa lo si capisce. Oggi è piena anche di gatti randagi, non me ne ricordavo così tanti, oltre naturalmente alle mosche. I procacciatori di clienti delle varie compagnie di bus, che stazionano permanentemente dentro e fuori la stazione, spesso litigano, probabilmente contendendosi i passeggeri, soprattutto se stranieri, della serie “L’ho visto prima io”. Sì, perché agli stranieri si può sempre cercare di far pagare un prezzo più alto per il biglietto, di chiedere 20 dirham per il bagaglio quando i locali ne pagano 5, quando li pagano, e quant’altro. Funziona così. E allora i procacciatori urlano, sbraitano, si sbracciano facendo un sacco di scena, anche se non vengono mai veramente alle mani. Almeno, io non li ho mai visti. Ma è anche un po’ un diversivo per passare il tempo.
Finalmente partiamo. Per Azilal, come sempre, c’è solo una piccola compagnia che fa servizio, non ho mai capito come diavolo si chiama perché è tutto scritto in arabo, sia sul biglietto che sulle fiancate del bus. Il mezzo sembra un po’ più recente (relativamente) e meno malandato del solito, ma come sempre l’aria condizionata non funziona.
È strapieno, trovo un posto soltanto in ultima fila. Di fianco a me c’è ancora un posto vuoto, per altro con il sedile rotto. Arriva una donna con due bambini. Li fa sedere lì, insieme, sul sedile mezzo sfondato. Lei, però, si vuole sedere davanti, al posto del ragazzo che è già seduto e che non sembra per niente d’accordo. Alla fine lo convincono a cedere il posto e a stare in piedi nel corridoio. Lei però, non contenta, fa spostare anche l’uomo che ha di fianco e lo manda dietro vicino a me sul sedile rotto, così può far sedere i bambini accanto a sé. Per fortuna l’uomo è paziente e gentile, così la situazione si calma. Per una donna non sempre è facile farsi rispettare in questo paese, bisogna essere piuttosto decise ed energiche, ma questa signora lo è.
Sudando copiosamente, arriviamo dopo circa un’ora e mezza alla classica sosta, che si fa dalle parti di Demnate, prima di iniziare a salire in montagna. Ci fermiamo lì una mezz’ora buona, poi si riparte. Sembra che la zona si stia sviluppando sotto il profilo turistico. Salendo vedo nuovi edifici residenziali, nuovi hotel, nuove moschee. Con un’altra ora e mezza abbondante siamo nei pressi del mio punto d’arrivo. È una casa piuttosto isolata, che però fa parte di un villaggio di case sparse che si chiama Ait Taguellat.
Inizio a messaggiare Salah per dirgli dove siamo, in modo che lui esca per cercare di fermare il bus quando passa davanti a casa sua, e farmi scendere lì anziché al bivio, dove c’è la fermata “regolare” che però dista un chilometro. Anche stavolta il numero gli riesce, e così ci incontriamo di nuovo, dopo più di due anni. Ci scambiamo due baci in aria, come si fa qui quando si è in confidenza, e lui come sempre si profonde in grandi benvenuto. Saluto anche la sua mamma, come posso dato che lei, come tutti qui, parla solo la lingua berbera chiamata Tashelhit, una delle quattro lingue berbere che si parlano in Marocco. Tutti tranne Salah, che invece parla un ottimo francese e un accettabile inglese, che ha studiato un po’ quando sperava di riuscire a entrare nell’esercito. Be’, diciamo accettabile per me che ormai ho imparato a decodificarlo. Ma le nostre conversazioni, in realtà, mescolano inglese e francese, a volte un po’ a caso. Partiamo in inglese, dove io sono sicuramente molto più a mio agio, e lui ovviamente fa di tutto per mettermi a mio agio. Ma succede che io gli faccia una domanda in inglese e che lui capisca ma non riesca a rispondere in inglese; allora risponde in francese. Ma a volte succede anche il contrario: lui mi fa una domanda in inglese, io mi rendo conto che se gli rispondessi in inglese non capirebbe e allora gli rispondo in francese. Senza contare che spesso mescoliamo inglese e francese anche nella stessa frase. È divertente comunque, e alla fine in un modo o nell’altro ci capiamo sempre.
C’è anche la sorella di Salah, che non avevo mai conosciuto ma che da un po’ di tempo vive qui con le due figlie di 11 e 10 anni, quando il marito è lontano per lavoro. Generalmente vive qui anche la cognata di Salah, la moglie di suo fratello, con i due figli, una bambina più grande e un bambino più piccolo. Il fratello di Salah lavora nell’edilizia, fa il capocantiere nel nord del Marocco e torna a casa quando va bene una volta ogni paio di mesi. Ma ora la cognata e i bambini non ci sono, sono dalla famiglia di lei ad Agadir.
E poi, soprattutto, noto che mancano la moglie di Salah, Maryam, e i suoi tre figli: le due bambine, Ouarda di quasi 9 anni e Jalila di 7, e il piccolo Abdel Ghafour che farà 3 anni a novembre. E dove sono? Sono al villaggio di Maryam, nella valle di Ait Bougomez, proprio quella che avevo chiesto a Salah di portarmi a vedere durante questo breve soggiorno. Ora capisco perché mi aveva risposto, con entusiasmo: sì, non c’è problema. Scopro che tutte le estati lei e i bambini passano un mese lassù, come se fosse una specie di vacanza. Lì siamo ancora più in alto rispetto a qui, 2000 metri contro 1200, quindi fa più fresco e l’estate è più piacevole. E domani io e Salah partiremo insieme per andare a prenderli, ci fermeremo lì un paio di giorni e poi torneremo qui con loro. Forse un po’ per caso, forse no, è venuta un’organizzazione perfetta.
Io ho portato un sacco di regali per i bambini, ma li lasceremo qui e glieli daremo al nostro ritorno.
Ci sediamo sui cuscini attorno al tavolino basso rotondo per il tè di benvenuto, accompagnato da pane e olio, tutto rigorosamente fatto in casa. In cortile c’è un forno per il pane, e Salah ha un piccolo pezzo di terra dove coltiva ulivi e mandorli. Ci sono anche 12 pecore, un cane, un asino e qualche gallina.
Mentre prendiamo il tè chiedo a Salah: “Ma quindi, alla fine, normalmente quante persone ci sono in questa casa?”. Lui fa un conto mentale e dice: “Contando anche mio fratello, quando viene, 13…”. Poi aggiunge, con un grande sorriso: “E, be’, poi con te, quando vieni, 14”. Sorrido anch’io, anche pensando, a parte me, come fanno a starci, in una casa così piccola. Ma qui, si sa, il concetto di privacy è un po’ meno sviluppato che da noi.
Mi informo anche, come usa, sulla situazione della famiglia. Tutti bene, il suocero è stato operato di tumore alla prostata ma ora si sta riprendendo. E abbiamo un nuovo nato: la moglie di uno dei fratelli di Maryam ha avuto un bambino, che ha circa quindici giorni. Avremo modo di conoscerlo in quel di Ait Bougomez. Maryam ha tre fratelli e tre sorelle.
Questo è stato un anno di siccità, non ha piovuto molto e la neve si è vista solo per un paio di giorni, diversamente da quello che è successo nella valle di Ait Bougomez, dove come sempre è arrivata copiosa. Il raccolto di mandorle è andato abbastanza bene, quello di olive così così.
Una novità recente che Salah proclama con un certo orgoglio è che ora qui c’è internet. Fino a un paio di anni fa, la rete telefonica andava e veniva, di rete dati neanche a parlarne. E infatti ora anche lui ha il suo smartphone, un modello neanche molto più vecchio del mio. Me ne ero già reso conto, perché negli ultimi mesi ha iniziato a usare Whatsapp, Facebook e Messenger. Ricordo ancora il primo telefono che gli ho visto in mano, un vecchio Nokia che non faceva nemmeno le foto, per di più con lo schermo rotto.
Manifesto a Salah il desiderio di stendermi un attimo, visto che praticamente non ho dormito, e lui subito mi prepara il solito giaciglio fatto di tappeti uno sull’altro. Qui le donne di famiglia, come da tradizione, tessono anche tappeti, che quindi non mancano di certo. Ovviamente, non sarà mai un materasso, ma per qualche notte è fattibile, l’ho già provato altre volte e spero che anche avanzando con l’età la schiena non ne risenta. E d’altra parte, considerando le condizioni di vita di qui, chiedere il letto per gli ospiti sarebbe troppo.
Dopo il riposino andiamo a fare una passeggiata, fino alla scuola che frequentano Ouarda e Jalila. Ora è chiusa, naturalmente; anche qui sono in vacanza, il periodo di chiusura estiva è più o meno come da noi. L’avevo già vista, in realtà. La struttura è nuova, non ha più di tre o quattro anni; fa parte di un progetto statale di sviluppo delle zone rurali. Non so come sia dentro, ma da fuori è molto gradevole, con i muri di cinta dipinti a colori pastello, dal rosa al giallo al lilla. Sono più o meno tutte così le scuole costruite con questo progetto, ne ho viste anche altre. Salah dice che è bella anche dentro, che c’è tutto. Chiedo come vanno le bambine, dice che sono molto brave. Ho dato anch’io qualche piccolo contributo per farle studiare, quindi mi fa un grande piacere. Non deve essere facile per loro seguire le lezioni e studiare in un’altra lingua, diversa da quella che parlano a casa. Le lezioni sono tutte in arabo, infatti. La loro lingua berbera si studia, ma come una lingua locale, non ha ancora dignità di lingua nazionale. Il problema della lingua, della cultura e dell’identità berbera è molto sentito in Marocco, perché i berberi sono più di metà della popolazione. È una situazione che si trascina da decenni, quanto meno dall’indipendenza del 1956, ma in realtà anche da ben prima del periodo del protettorato francese, e non ha mai trovato soluzione. Già poter studiare il berbero come “seconda lingua” è una conquista piuttosto recente, le cose evolvono ma molto lentamente. Dal terzo anno di scuola primaria i bambini iniziano a studiare francese, che servirà anche se dovessero proseguire gli studi, perché se fino alle scuole medie le lezioni sono in arabo nelle università alcuni corsi sono tuttora soltanto in francese. Ma nelle zone rurali, in realtà, è già una gran cosa andare alla scuola primaria, soprattutto per le bambine. Solo una o due generazioni fa non era pensabile, tanto che il tasso di analfabetismo fino a pochi anni fa era del 70% da queste parti. Adesso, in teoria, l’obbligo scolastico è esteso ai 14 anni, ma tuttora molte famiglie non riescono a mandare i figli a scuola.
Per venire qui Ouarda e Jalila, con il papà, devono fare ogni mattina un paio di chilometri di strada a piedi. Se il tempo è buono si taglia per un sentiero e ci si mette un po’ meno, ma quando piove o nevica non si può. E per questo Ouarda continua a chiedere al papà di comprare una macchina per portarle a scuola quando il tempo è brutto. Lui gliel’ha promesso da un po’, ma ancora non ce la fa. Ha adocchiato una Peugeot 205 del 1985 (!), ma costa 17.000 dirham (un dirham vale circa 10 centesimi di euro), ancora troppo per lui al momento, nonostante la rendita del piccolo bar che gestisce al bivio, rendita che però non è eccezionale. Da un po’ di tempo, per arrotondare lavora saltuariamente anche alla Kasbah-Hotel che un suo conoscente di Casablanca, Hafid, ha aperto su alle cascate di Ouzoud. Porta in giro ogni tanto qualche turista, svolge mansioni di manovalanza. Ma anche questo non basta ancora per la macchina, almeno per ora. Lui, però, non si perde d’animo, Insh’Allah.
Andiamo al bar. Salah deve aprire, perché questa, tra il tardo pomeriggio e la sera, è l’ora in cui arrivano un po’ di clienti, per bere una bibita o più spesso solo per giocare a biliardo. Il biliardo, alla fine, è l’unica cosa che davvero rende qualcosa, ma per poterlo far rendere il prezzo deve rimanere molto basso, 2 dirham a partita. Se lo aumentassi, dice Salah, la gente non giocherebbe più. E con quel prezzo ce ne vogliono di partite per tirar su qualcosa…
Stasera comunque c’è il pienone, ne arrivano di continuo e non smettono mai di giocare, tant’è che dobbiamo aspettare fin quasi alle 11 per poter tornare a casa.
Salah mi propone di fare domanda insieme a lui per avere l’autorizzazione a vendere birra (dice che per farlo bisogna essere autorizzati come “épicerie”). Allora sì che farebbe dei bei soldi. Qui la birra non si beve all’aperto, è anche vietato. Ma al bar, al riparo da occhi indiscreti, è convinto che parecchi la berrebbero volentieri. Però sai, mi fa, è difficile avere l’autorizzazione se non conosci qualcuno… qui va tutto a raccomandazioni. Be’, – rispondo – non è che da noi vada proprio così diversamente… Però, precisa lui, se c’è un europeo forse è più facile, perché pensano che ci sia un investitore. Ci facciamo una risata. Investitore è un po’ una parola grossa, gli dico, ma ti prometto che ci penso.
“Potresti anche venire a vivere qui quando sarai in pensione” – aggiunge. E io rispondo: “Sì, perché no? Aria buona, vita sana… vedremo. Tanto, guarda, devo lavorare ancora almeno vent’anni prima di andare in pensione”. Non credo proprio che lo farò, ovviamente. Per qualche giorno ci sto volentieri, ma un cittadino nato come me non potrebbe sopravvivere in un posto del genere.
Tornati finalmente a casa, io e Salah ci facciamo una cenetta veloce a base di brochettes (spiedini) di tacchino, con contorno di patate e carote, e poi a nanna. Io devo ancora recuperare sonno, e domattina dovremo partire abbastanza presto.
Giovedì 10/8/2017: Secondo giorno, nel quale insieme raggiungiamo la Valle Felice e la famiglia si riunisce
Dormo benino, per essere la prima notte, ma verso le 5.30 mi sveglia il canto del gallo, con due ore di anticipo sulla sveglia vera. Facciamo colazione, che consiste come sempre in due o tre bicchieri di tè e pane a volontà da intingere nell’olio o nel burro (ma a volte ci può essere il latte al posto del tè). Dopo di che si parte. Salah si è già messo d’accordo con l’autista di un Grand Taxi per farsi portare al souk di Azilal, che sarà la prima tappa.
Qui compriamo un vestito per la moglie di Salah, vestitini per i bambini, compreso l’ultimo nato di soli 15 giorni, poi cipolle, patate, carote, pomodori, banane, pesche, uva. È un souk molto grande e animato. Essendo così grande, spesso c’è la necessità di portare da una parte all’altra enormi borsoni con tutto quello che si è comprato. E allora si vedono un sacco di ragazzini, a volte proprio bambini, che spingono o tirano carretti carichi di roba. Altri bambini fanno i venditori d’acqua, che se non altro è un lavoro più leggero.
Con un altro Grand Taxi raggiungiamo il centro di Azilal: da una piazza centrale partono i minibus per la valle di Ait Bougomez. Ma prima di partire Salah vorrebbe andare dal parrucchiere. Purtroppo il suo coiffeur di fiducia è chiuso e non se ne trova un altro, quindi deve rinunciare. Gli racconto che il mio parrucchiere di fiducia, a Milano, è un marocchino: si chiama Noureddine Belkorchi ed è di Rabat, ma il suo negozio si chiama Marrakech, che indubbiamente fa molto più “cool”.
Troviamo un minibus, ma fatica molto a riempirsi (anche in questo caso, se non è pieno non parte) e così l’attesa diventa davvero molto lunga. Risulta anche meno sopportabile perché nelle ore intorno a mezzogiorno il caldo diventa davvero soffocante, per quanto cerchiamo di ripararci all’ombra degli alberi o sotto le tende del souk. Facciamo uno spuntino con pane e sardine, poi Salah mi mostra qualche video di Oumguil Mustapha, uno dei suoi cantanti preferiti di musica tradizionale.
Dopo più di due ore, finalmente il minibus si riempie e partiamo. Il primo tratto di strada, fino ad Ait Mohammed, non è molto spettacolare, ma da qui in poi la strada si inerpica tra pareti rocciose che si fanno imponenti. Saliamo mentre dalla radio la voce salmodiante del muezzin intona le preghiere del pomeriggio. Dall’altro lato delle montagne, spiega Salah, c’è la valle del Dadès che porta da Ouarzazate alla gola di Todra e che quattro anni fa io e lui abbiamo percorso insieme. Ad Agouti inizia quella che è la vera e propria valle di Ait Bougomez, dominata dal massiccio del M’Goun, con i suoi 4071 m il secondo monte più alto del Marocco dopo il Jebel Toubkal. Noi, però, prendiamo un’inaspettata deviazione su un tratto di strada non asfaltata ripidissima e tutta curve, fino ad un gite (i gites sono alberghetti rustici, tipici della valle) gestito da una coppia di francesi. Scopriamo che siamo venuti fin qui per caricare sul portapacchi del minibus i pezzi di un letto smontato, materasso compreso. L’autista ed alcuni passeggeri danno una mano e nel giro di una decina di minuti l’operazione è completata.
La valle di Ait Bougomez è chiamata “la Vallée Heureuse”, la valle felice, e questo ha sicuramente a che vedere, oltre che con i suoi paesaggi di una bellezza inaspettata, che trasmettono serenità, anche con il suo isolamento. Fino al 2001 la valle era bloccata in mezzo alla neve per molti mesi all’anno e risultava in gran parte inaccessibile se non a piedi o a dorso di mulo. Ora, benché alcune strade siano tuttora percorribili solo con un mezzo a quattro ruote motrici, le strade asfaltate hanno reso più facile muoversi tra le montagne dell’Alto Atlante, costellate da torri in mattoni di fango e da tipici ighremt (case rinforzate da pietre) color ocra o rossi, con i profili delle finestre circondati da pietra bianca. Adesso c’è anche la copertura della rete di telefonia cellulare, fino a pochi anni fa totalmente assente. Ma se ti vuoi isolare dal mondo per qualche giorno, questo è ancora un buon posto per farlo. Salah sostiene che in tutta la valle non vivano più di 7000-8000 persone, ma il dato sarebbe un po’ da verificare.
Anche i ripidi fianchi dei monti sono utilizzati nelle coltivazioni terrazzate, per cui si vedono piccoli fazzoletti coltivati a orzo o a granturco su gradoni riparati ad altitudini dove generalmente questo tipo di coltivazione è impensabile. Qui si raccolgono piante montane selvatiche per produrre rimedi di erboristeria, altro fatto per cui la valle va famosa. I villaggi sono costruiti con roccia e argilla estratta in loco, quindi spesso si fondono quasi mimeticamente con i loro scenari spettacolari.
Uno di questi villaggi è Aguerd N’ouzrou, dove vivono i suoceri di Salah, nei dintorni di Tabant. Scesi dal minibus, dobbiamo fare un altro breve tratto a piedi per raggiungere la casa, dove nel cortile le bambine ci corrono incontro. È da un mese che non vedono il papà, e non vedevano naturalmente l’ora di riabbracciarlo e di farsi ricoprire di coccole. Sono veramente raggianti. Ma un po’ delle feste che fanno sono anche per me, ed è bello vedere che, nonostante siano passati più di due anni, si ricordano bene di me. Il piccolo Abdel Ghafour è un po’ intimidito e non si può ricordare, quando l’ho visto l’altra volta aveva solo quattro mesi. Ma cerco di far capire anche a lui che insieme al papà è arrivato lo “zio”, che non c’è da avere paura. Li avevo già visti in foto anche di recente, ma vedendoli dal vivo non posso che constatare che sono cresciuti parecchio e bene. Sarà banale, ma è sempre una bella cosa da dire a un papà. Qui insegnano ai bambini a baciare la mano ai grandi. Io, istintivamente, tenderei a ritrarre la mano, ma non è necessariamente una cosa brutta. È una forma antica di ringraziamento: si bacia la mano che ti dà da mangiare o che, come nel mio caso, ti porta dei doni. E poi, la tenerezza con cui lo fanno loro è lontanissima dal senso “mafioso” che purtroppo tendiamo a dare a questo gesto.
Saluto anche Maryam, che mi presenta i suoi genitori. Il padre, che ha 67 anni ed è reduce dall’operazione, cammina a fatica reggendosi su un bastone ma mi saluta anche lui con calore, poi appena può si abbandona sui cuscini. Sono presenti anche due fratelli di Maryam, uno dei quali, un omone dalla voce burbera ma che mi dicono essere in realtà un buono, è il padre dell’ultimo nato. Scopro, tra l’altro, che il bambino si chiama Moussa, come Sidi Moussa, il marabutto sepolto nella zawiya che andremo a visitare domani.
Anche qui hanno attrezzato per me quella che potremmo chiamare la stanza degli ospiti, dove dormirò sulla solita montagna di tappeti e coperte. Qui in bagno c’è anche l’acqua corrente, diversamente da casa di Salah, e perfino calda, volendo. Anche qui, però, il gabinetto è alla turca e bisogna comunque gettare l’acqua con un secchiello.
Sono le cinque del pomeriggio ma arriva il tajine di carne di montone: evidentemente ci aspettavano prima, ma poi la lunga attesa del minibus ha fatto dilatare i tempi e anche loro hanno dovuto ritardare il pranzo. Del resto, ho già visto qui che gli orari dei pasti possono diventare un po’… elastici a seconda delle esigenze della famiglia. Si mangia rigorosamente con le mani, solo con la destra naturalmente, tutti dallo stesso piatto; ma per me non è certo la prima volta. Anche qui, purtroppo, nessuno parla altro che Tashelhit, ma tramite Salah che mi fa da interprete cerco di ringraziare per l’ospitalità e il caldo benvenuto.
Dopo pranzo usciamo con i bambini per una passeggiata fino a Tabant, che è il villaggio più noto e un po’ il cuore della valle. Ouarda, tramite il papà, mi domanda perché non sono venuto per tanto tempo. Non parla ancora francese. A scuola lo fa solo da un anno, e credo non si senta ancora sicura, forse ha paura di sbagliare o semplicemente si vergogna un pochino, anche se normalmente è una bambina tutt’altro che timida. Ma, quando le parlo, qualcosa mi pare che capisca. Salah, comunque, risponde per me che lavoro e che non sempre posso trovare il tempo di venire fin quassù.
Anche a Tabant, come un po’ dappertutto per quanto ho potuto vedere, è ancora tutto imbandierato per la festa del re del 30 giugno, la festa che ogni anno celebra il primo giorno di regno di Mohammed VI, il monarca alawita attualmente sul trono. Anche i suoi ritratti campeggiano un po’ ovunque, anche nei piccoli negozi o a volte nelle case.
Ci prendiamo tutti una coca dissetante su una terrazza che guarda sulla valle, poi torniamo a casa. Qui la temperatura è effettivamente più gradevole rispetto ad Ait Taguellat.
In attesa della cena ci sediamo un po’ nel cortile. Salah mostra alle bambine un gioco nuovo che ha installato sul suo smartphone, con una fiammante vettura sportiva che corre sgommando su una strada trafficatissima. Manco a dirlo, si appassionano subito, soprattutto Ouarda, che coglie anche l’occasione per ricordare al papà la promessa di comprare una macchina… io le dico: “Intanto fai allenamento con questa, poi vedrai che, quando potrà, il papà la comprerà una macchina vera”. E lui conferma: “Insh’Allah”.
Pian piano il cortile si riempie di bambini, che nella luce del crepuscolo giocano semplicemente a rincorrersi, o forse è un gioco simile al nostro “Ce l’hai”, non capisco bene. Fatto sta che anche Ouarda e Jalila abbandonano lo smartphone e si buttano nella mischia. È una scena che certamente in Europa è ormai quasi impossibile vedere, ma probabilmente anche nello stesso Marocco, se parliamo delle città, e che un po’ intenerisce. È un’immagine che potrebbe far davvero pensare a una “valle felice”, pur con tutti i suoi problemi. Uno dei bambini indossa una maglietta di Messi, ovviamente taroccata, mentre le ragazzine più grandi, intorno ai 12-13 anni, portano già il velo, anche se colorato.
Ci sono anche mucche, galline (con il gallo del pollaio, che non può mancare) e un piccolo gregge di pecore, nel suo recinto.
Sul cortile dà anche la casa di uno dei fratelli di Maryam, la cui moglie gestisce una cooperativa di donne che producono tappeti. Nella valle, negli ultimi anni, sono sorte varie cooperative, prevalentemente femminili, che oltre alla tessitura svolgono attività come colture biologiche di noci, produzione di miele di montagna, di formaggio o di zafferano. Esiste anche un’associazione locale che si occupa di turismo responsabile, l’Association Reinassance de Ait Bougomez. Organizzano passeggiate di due o tre ore nella valle, dedicate al birdwatching o alla raccolta di erbe mediche berbere, ma anche trekking transmontani di quattro giorni seguendo antiche vie carovaniere. Sarebbe bello, ma non c’è il tempo, magari un’altra volta. Una parte dei proventi delle escursioni vanno a sostenere le attività dell’associazione, come l’alfabetizzazione delle donne, la depurazione dell’acqua e un progetto di assistenza sanitaria per madri e figli. L’associazione gestisce anche un collegio scolastico per le bambine che vivono in villaggi privi di scuole.
Prendiamo un altro tè con pane, olio, burro e dolcetti. Il suocero di Salah è l’unico che, quando arriva il richiamo dalla moschea per la preghiera della sera, s’inginocchia e prega sottovoce. Nelle sue condizioni, non può andare in moschea, ma prega qui, a casa sua. Ouarda, intanto, si coccola il cuginetto neonato, come se fosse già una piccola donna.
Arriva la cena, che prevede inevitabilmente un altro tajine, e poi tutti a letto. Salah, con la sua famiglia, dormirà nella camera attigua alla mia.
Venerdì 11/8/2017: Terzo giorno, nel quale saliamo alla zawiya e rendiamo visita alla sorella di Maryam
Qui la notte è quasi troppo fresco, ho dovuto chiudere un paio di finestre e lasciarne aperta soltanto una, quella più lontana da dove dormo. D’inverno deve fare un freddo pazzesco, anche se c’è da dire che le pareti di mattoni crudi sono così spesse che dentro la casa non prende il cellulare, per cui sicuramente forniscono un buon isolamento termico.
Ci alziamo un po’ più tardi e facciamo la solita abbondante colazione, dopo di che io e Salah saliamo al santuario-mausoleo del marabutto Sidi Moussa, che si trova in cima a una collina, poco lontano dal villaggio.
Quella della venerazione dei marabutti è una tradizione locale che, pur avendo poco a che vedere con la fede islamica, in Marocco viene tollerata, anche grazie al fatto che la scuola teologica più seguita nel paese è quella Maliki, che tra le scuole che fanno capo alla dottrina sunnita è forse la meno rigorosa. La sharia’a viene adattata alla cultura e ai costumi locali, invece di applicarla attenendosi alla lettera alle prescrizioni della legge islamica.
I marabutti sono devoti musulmani la cui condotta di vita testimonia una fede così ardente e profonda che la loro stessa presenza, anche dopo la morte, è sufficiente a conferire baraka, la grazia. I marocchini vanno spesso a visitare le zawiya (santuari) dei marabutti; alcuni ritengono che sia sufficiente recarsi nella zawiya giusta per risolvere tutti i propri problemi, dalle pene d’amore all’artrite. Nel caso specifico, da Sidi Moussa vanno le donne che vogliono avere bambini, perché si dice che una visita a questa zawiya sia in grado di curare l’infertilità.
Sicuramente è abbastanza dura arrivarci sotto il sole cocente, anche se in fondo la strada non è troppo lunga, dal villaggio. E non so se questo sia abbastanza per espiare i peccati o per curare davvero l’infertilità, ma la vista da quassù è davvero meravigliosa. Si apprezza ancora meglio il paesaggio così sorprendente di questa valle, dove in mezzo a montagne brulle, aride di terra rossa bruciata dal sole, c’è un’incredibile striscia di terra verde e fertile, piena di campi coltivati e di frutteti. I prodotti più caratteristici della valle, dice Salah, sono le mele e le noci.
Dentro il santuario, costruito in argilla e mattoni crudi con il tetto di legno, non c’è molto, se non una serie di oggetti e foto che sono messi lì come una sorta di “ex voto”, per ricordare le grazie vere o presunte concesse dal santo. La tomba è in un angolo buio e sarebbe ben poco individuabile, senza la guida di Salah.
Lasciamo qualche spicciolo al ragazzo che fa da custode e scendiamo verso Tabant, dove abbiamo appuntamento con uno dei fratelli di Maryam. Oggi, infatti, lui verrà con noi a pranzo da una sorella di Maryam che abita in un altro villaggio ancora più isolato arrampicato sull’altro versante della valle. Ci arriveremo a piedi, comunque; la strada è in salita ma non è lunga.
Nell’attesa, Salah compra due pacchi di zucchero, e biscotti per i bambini. Quando si va a visitare qualcuno è uso portare zucchero (forse perché anticamente era una merce molto pregiata) e biscotti o dolci in genere. Nel negozio noto anche una coppia di giovani che parlano inglese, dall’accento si direbbero americani. Sono i primi stranieri che vedo da quando ho lasciato Marrakech.
Il fratello di Maryam arriva e partiamo, attraversando i frutteti. Quando siamo già all’incirca a metà del sentiero in salita, da lontano sentiamo le voci di Ouarda e Jalila che ci chiamano, stanno venendo anche loro con Maryam e il piccolo Abdel Ghafour. Ci fermiamo un po’ ad aspettarli, poi tutti insieme facciamo l’ultimo pezzo di strada.
Anche qui siamo accolti bene; ci aspetta la sorella di Maryam con un’altra allegra combriccola di bambini, che sono tutti cuginetti di Ouarda, Jalila e Abdel Ghafour.
Faccio un po’ fatica a capire chi è figlio di chi, ma poco importa. Mi dicono tutti i nomi, ma non li ricorderò mai. Mi sono rimasti impressi Nassima, che forse è quella che sono riuscito a… intrattenere di più, e il suo fratellino dispettoso Samir. Dovete sapere che c’è un vecchio giochetto che si può fare con una monetina. La si appoggia di taglio su un tavolo, la si tiene ferma con un dito e le si dà un colpetto ben assestato con l’indice dell’altra mano, usando il pollice per farlo partire come una molla. Un po’ come si faceva con gli omini del Subbuteo, insomma. Ma questa, mi rendo conto, la capiscono solo i maschi dai quaranta in su. Comunque, se il colpetto è ben dato, la moneta inizierà a ruotare su se stessa, farà una decina di centimetri e poi si fermerà, continuando a ruotare vorticosamente su se stessa senza cadere dal tavolo. Bene, ho scoperto che per un bambino dell’Alto Atlante – un bambino medio, diciamo (ho potuto “testare” un campione sufficientemente ampio) – questo giochetto è talmente bello che può vederlo fare forse per ore, senza mai stancarsi, anzi chiedendoti di farlo ancora, e ancora. Sono convinto che se lo fai a un bambino italiano, sempre un bambino italiano medio, alla terza volta ti ha già tirato la moneta in mezzo agli occhi. Non dico che sia una colpa dei bambini italiani, ci mancherebbe; è un bene che siano abituati a giochi più divertenti, che abbiano la console o il tablet. Però è una cosa che un po’ fa pensare.
Dopo il pranzo a base di tajine di pollo zafferano e olive, ci facciamo una passeggiata fino a un vecchio mulino ad acqua. Torniamo, un altro tè e ci incamminiamo verso casa.
Per cena siamo invitati dal fratello di Maryam, quello che abita proprio qui di fianco alla casa dei genitori. Cous cous per tutti, che qui è il piatto della festa. Oggi infatti è venerdì, e la famiglia è tutta riunita: un’ottima occasione per far festa. Le bimbe arrivano a cena con le manine tutte tatuate con bellissimi tatuaggi all’henné, opera di una ragazza della famiglia.
L’occasione sarebbe perfetta anche per una bella foto di gruppo con tutta la famiglia. Riusciamo a farla, ma purtroppo senza donne. Salah dice che a loro non piace essere fotografate, ma io non ne sono così sicuro. Penso che siano più gli uomini a non volere che siano fotografate, ma comunque sia non posso che rispettarlo.
Sabato 12/8/2017: Quarto giorno, nel quale tutta la famiglia ritorna a casa
Oggi è il giorno in cui, con tutta la famiglia, dobbiamo tornare a casa. Ci alziamo alle 6.30, perché Salah è convinto che dobbiamo partire presto. La colazione oggi, dovendo affrontare un viaggio, è ancora più abbondante. Ci sono anche dei Beghrir, che sono delle frittelle dalla consistenza spugnosa simili a delle focaccine, da mangiare con il miele, che qui è meno denso rispetto a quello europeo ma è molto buono.
Salutiamo la famiglia di Maryam e andiamo a prendere il minibus per Azilal. Ora siamo sei, quindi in buona parte lo riempiamo già noi. Qualche altro passeggero è già a bordo, e altri ne raccoglieremo lungo la strada.
Il viaggio scorre via senza problemi, arriviamo ad Azilal abbastanza presto. Così Salah può finalmente andare dal parrucchiere e io comprare spezie e olio di argan.
Anche l’attesa del Grand Taxi, essendo già sei persone, stavolta è più breve. Siamo a casa prima di mezzogiorno. Prendiamo il tè e, intanto, i bambini possono finalmente vedere i regali che ho portato per loro, grazie anche alla generosità della mia collega Tina, che mi ha fornito un po’ di vestiti e di giochi di sua figlia Asia, che è un po’ più grande delle bambine di Salah. Ouarda si mette immediatamente il cerchietto-coroncina con la scritta “Princess” e si pavoneggia mentre io le dico “Tu es belle comme une princesse!”. Poi lo passo anche a Jalila, perché non voglio che sia gelosa, ma lei preferisce il coniglio rosa con la torta che si muove e suona la musica di “Tanti auguri a te”. La canzoncina si usa anche qui, ho scoperto; ne esiste una versione in arabo. Ora non sembra avere più intenzione di spegnerlo. Ti aspettano giorni difficili, dico a Salah, e lui se la ride. Abdel Ghafour da stamattina ha un po’ di febbre e la tosse, di cui spesso soffre, ma ha preso delle medicine e ora sembra che stia un po’ meglio, mentre gioca con gli animali della Lego che ho portato per lui.
Pranziamo con un tajine, per la prima volta tutti insieme intorno allo stesso tavolo, comprese la moglie e la madre di Salah. Generalmente qui, per tradizione, le donne mangiano separatamente dagli uomini, mentre i bambini (e le bambine) se ne hanno voglia possono mangiare allo stesso tavolo degli uomini. Ma oggi sembra che si faccia un’eccezione. Preferisco non fare commenti, perché l’argomento è delicato, ma la cosa mi fa molto piacere.
Nel pomeriggio Salah mi propone un giro con lui alla sorgente delle cascate di Ouzoud, che non avevo mai visto. È pieno di gente, soprattutto il campeggio, ma notiamo che sono praticamente tutti marocchini; un’altra dimostrazione che, come già mi aveva confermato Salah, anche qui i visitatori stranieri sono in calo. Per fortuna quelli marocchini sembrano in aumento e almeno in parte compensano.
Prendiamo un sentiero che ci dovrebbe portare alle cascate, ma probabilmente a un certo punto ci perdiamo (anche se Salah non vuole ammetterlo) e ci troviamo a dover guadare il fiume a piedi nudi sui sassi con le scarpe in mano.
Passiamo anche dalla Kasbah, per salutare il suo amico di Casablanca, e poi non possiamo non dare un’occhiata alle cascate, almeno dal belvedere più alto, anche se le ho già viste tre volte. Lo spettacolo è sempre notevole, ma purtroppo non hanno quell’imponenza che ricordo della prima volta che le ho viste, nel 2011, e anche del 2013. Quest’anno, a causa della siccità, c’è molta meno acqua. Però non potevo andarmene senza essere passato di qui, è un posto al quale ormai sono molto legato.
Al ritorno ci aspetta un enorme piattone di cous cous, stavolta solo per me e Salah. Facciamo fatica a finirlo, ma è troppo buono per non essere onorato. Dopo di che, ancora un po’ di giochi con i bambini e poi tutti a nanna.
Domenica 13/8/2017: Quinto giorno, il souk e l’epilogo
Anche oggi ci alziamo presto, perché Salah mi ha annunciato che come ogni domenica vuole andare al souk, e credo di capire che voglia andare presto per non farsi portare via le primizie migliori. La strada, da fare a piedi, non è neanche poca, tra l’altro: circa 3 km.
Mentre facciamo colazione la casa è molto silenziosa. Anch’io, forse, mi sento già un po’ triste per l’imminente partenza: oggi, dopo pranzo, prenderò un autobus in direzione Marrakech. Stasera dormirò in un riad che ho prenotato nella Kasbah e domani mattina presto prenderò il volo di ritorno.
“E i bambini?” – domando – “Non vengono al souk con noi?”. Salah mi risponde di no, che stanno ancora dormendo. Io mi accontenterei tranquillamente di questa risposta, era una semplice curiosità. Certo, mi farebbe piacere godermeli ancora un po’ ma non voglio tirarli giù dal letto. Ma Salah, non so perché, cambia idea e decide di svegliarli.
“Ma no” – gli dico – “Lascia stare, lasciali dormire, andiamo io e te al souk, era solo così, per curiosità”. Ma lui ormai ha deciso così, e non c’è più niente da fare. “Non ti preoccupare, vedrai che saranno contenti, a loro piace venire al souk”. A giudicare dalle faccine un po’ sconvolte e dagli occhi di sonno con cui li vedo uscire, uno dopo l’altro, dalla stanza per venire a salutarci, non si direbbe. Mi sento in colpa per loro, ma effettivamente poi nel giro di pochi minuti si riprendono. Abdel Ghafour non verrà, lui è ancora troppo piccolo. Ouarda sembra veramente contenta. Jalila invece è ancora poco convinta, ma scoprirò poi che aveva la febbre, quindi aveva i suoi motivi, poverina.
Ci incamminiamo lentamente su un sentiero che parte dal podere di Salah e, dopo una mezz’ora abbondante, cominciamo a essere in vista del souk. Questo è proprio il souk “di casa” per loro, il più vicino. Ogni tanto Salah va a quello di Azilal, o a quello di Tanant. Ma qui ci viene ogni domenica per fare la spesa per tutta la settimana.
È un souk non grandissimo ma molto vero e popolare, completamente diverso dai souk “pettinati” delle grandi città. Si vede un po’ di tutto, come sempre in questi casi. Molte persone che conosco inorridirebbero nel vedere come viene maneggiata la frutta o la verdura, ma soprattutto come vengono trattati gli animali. Non è decisamente un posto per animalisti, non c’è dubbio. Si vedono pecore vive trasportate sul portapacchi di un furgone, adattato all’uopo con una specie di recinto, e altre appese ai ganci già scuoiate e pronte per essere tagliate, come fossimo in macelleria. La “polleria” funziona in questo modo: dietro c’è un improvvisato pollaio, recintato, dove decine di galline razzolano abbastanza tranquillamente, beccando da grossi catini pieni di mangime. Il cliente arriva e, se vuole, può portarsi via il pollo vivo, che viene prima pesato. Se no, se lo preferisce già pronto, lo sfortunato prescelto viene lì per lì sgozzato e in pochi minuti spiumato e preparato, dal produttore al consumatore. I bambini guardano, ma non sembrano impressionati, evidentemente per loro è normale.
Noi compriamo qualcosina di vestiario, tanta frutta e verdura, detersivi, poi delle uova. E per le uova, non c’è problema: se vuoi, in pochi minuti è pronta una bella frittatona da mangiare con il pane è il tè. Facciamo merenda in questo modo, poi un altro giro nella zona dei meloni e delle angurie. Ci compriamo una gigantesca anguria, una delle più grosse che abbia mai visto. Salah viene fermato da un vecchietto che gli passa dei documenti che vuole che gli legga, cose che ha ricevuto che riguardano la sua pensione e il suo conto in banca. Lui, Salah, occasionalmente svolge anche questa funzione al villaggio, di aiutare le molte persone che non sanno leggere e scrivere.
Dopo di che saremmo più o meno pronti per tornare a casa, ma ovviamente ora per farlo dobbiamo trovare un mezzo, non è possibile rifare il sentiero a piedi carichi di tutti questi borsoni con chili di roba.
Io e le bambine aspettiamo sotto la tenda di una bancarella che ha un po’ di tutto, come un piccolo bazar, e Salah va a cercare un taxi. Dopo una lunga attesa, torna e ci informa che la ricerca è stata infruttuosa: non ci sono taxi, al momento. Cerca ancora un po’, ma alla fine l’unica soluzione è trovare un passaggio su un motofurgoncino, una specie di grosso apecar che si chiama in realtà Docker, aperto dietro, con la sponda che si alza e si abbassa.
Ci saliamo noi quattro, in mezzo a bottiglie di bibite, frutta, verdura, sacchi di farina e altre vettovaglie, ma soprattutto insieme a un montone vivo, col relativo proprietario. Io sono seduto su due sacchi di farina, vicino alla sponda, e alla mia sinistra ho il posteriore del montone, legato per le corna al telaio del furgone. Mentre partiamo dico a Salah, urlando per cercare di farmi sentire nonostante il rumore del motore: “Be’, devo dire che non avevo mai viaggiato con un montone, è la prima volta!”. Lui se la ride di gusto. A un certo punto il montone, non so perché, decide di spostare una delle zampe posteriori e di appoggiarla proprio sopra il mio piede. Cerco di togliere il piede da sotto il suo zoccolo, ma l’operazione non è semplicissima. Alla fine, faticosamente, ce la faccio, tra le risate generali.
In un modo o nell’altro, riusciamo ad arrivare a casa. Entro trasportando l’enorme anguria, che ci mangeremo a pranzo.
Giochiamo ancora un po’ con i bambini, con Ouarda che si esibisce in una verticale, e poi si mangia. Ci gustiamo l’ultimo tajine e un piattone di frutta tra cui la suddetta anguria, anche stavolta tutti insieme ma senza Jalila, che non sta bene.
E arriva, purtroppo, il momento dei saluti. Dico a Salah che comunque ci rivedremo e che mi piacerebbe, la prossima volta, tornare in occasione della festa del sacrificio, che qui chiamano “Festa del montone”; la festa ricorda quell’episodio, presente anche nella Bibbia, in cui Abramo sta per sacrificare il suo unico figlio (per ebrei e cristiani Isacco, per i musulmani Ismaele) perché così gli ha ordinato Dio, per mettere alla prova la sua fede. Ma all’ultimo momento Dio blocca la sua mano e gli fa trovare, appunto, un montone con le corna impigliate in un cespuglio, da sacrificare al posto del figlio. Salah mi ha detto più volte che qui al villaggio è una grande festa, che dura diversi giorni, ed è un’altra esperienza che mi piacerebbe fare. Forse l’anno prossimo, Insh’Allah.
Naturalmente, lascio qualcosa per il disturbo e per le necessità della famiglia, anche se Salah quasi non vorrebbe. Lui mi fa dono di un sacchettone pieno di mandorle.
Saluto Maryam, la mamma di Salah e i bambini, compresa Jalila che poi torna subito a riposare per cercare di smaltire la febbre, oggi tocca a lei. Abdel Ghafour, non appena cerco di salutarlo, scoppia a piangere e si rifiuta. Papà e mamma cercano di tranquillizzarlo e di convincerlo, ma io, pensando che anche lui non stia ancora tanto bene, dico: “Lasciate stare, non importa, va bene così”. E Salah: “Ma guarda che piange perché non vorrebbe che te ne andassi, sta dicendo «Non andare, non andare»”. Be’, incredibile, quasi mi commuovo.
A Ouarda dico, in francese: “Io e te la prossima volta dobbiamo parlare in francese. Io devo studiare un po’, ma anche tu, va bene?”. Lei fa un sorrisone dei suoi e Salah dice “Insh’Allah”.
Prima che la commozione prenda il sopravvento, ci avviamo verso il bar al bivio per aspettare lì l’autobus delle 14.30, o magari un Grand Taxi. Salah apre il bar, così possiamo aspettare al riparo dal sole cocente, e intanto arriva anche qualche cliente. Taxi diretti a Marrakech non ce ne sono. Una decina di minuti prima usciamo per aspettare e fermare l’autobus, ma quando passa è talmente pieno che non si ferma, anzi non rallenta nemmeno. È la prima volta che capita, molto strano. Forse perché è domenica, la gente torna in città dopo il weekend.
Dovrò trovare un’altra soluzione per arrivare a Marrakech, c’è un altro autobus alle 19.30 ma non mi va di aspettarlo, arriverei troppo tardi. Taxi continuano a non passarne, ma Salah si ricorda di un taxista che conosce che è di Marrakech e fa tutti i giorni la tratta Marrakech-Azilal, per cui poi deve tornare a casa e ci torna anche vuoto o con poche persone. Lo chiama ed effettivamente, dopo pochi minuti, passa questa vecchia Mercedes diretta ad Azilal. Ci mettiamo d’accordo in modo che ripassi appena possibile, ma deve comunque arrivare ad Azilal, scaricare le persone e possibilmente caricare già lì qualcuno per il ritorno. Quindi ci sarà comunque almeno un’altra ora di attesa.
Rientriamo nel bar e, per passare il tempo, Salah propone una sfida a biliardo io e lui, visto che al momento non ci sono clienti. Accetto, ma come prevedevo il risultato è un disastro, il biliardo non fa proprio per me.
Finalmente ripassa il taxista. Contrattiamo il prezzo del passaggio: è il doppio del normale, ma mi propone di stare sul sedile davanti da solo, comodo (generalmente ci si sta in due). Accetto, anche perché non ho molte alternative, poi in fondo parliamo di 150 dirham. Carico lo zaino, un ultimo abbraccio con Salah e si va.
L’autista avrà una sessantina d’anni, anche se ne dimostra di più. È simpatico e parla un po’ di francese, con una voce roca e impastata da decenni di sigarette. Mi metto già d’accordo per farmi portare alla Kasbah, ma mi fa il segno dei soldi con pollice e indice: vuole 50 dirham in più. Sorrido e dico ok, ne parliamo dopo, c’è tempo. Mi metto comodo, abbasso completamente il finestrino e guardando il nastro di asfalto in mezzo alla terra rossa davanti a me inizio a ripensare a questi cinque giorni. Ho ancora negli occhi i sorrisi dei bambini e quella striscia di verde tra le montagne arse dal sole. Ho scoperto un altro posto veramente unico. Forse non è solo una definizione fatta per i turisti; forse, anche se la gente deve lavorare sodo per sbarcare il lunario e mandare i figli a scuola, è davvero una valle felice.
Jean Claude Izzo diceva che di fronte al mare la felicità è un’idea semplice, ma forse lo è anche di fronte alle montagne dell’Alto Atlante.