Viaggio nel cuore dell’Abruzzo, terra di monti e pastori, di ampie valli, castelli e borghi di pochi abitanti. Dove le montagne e le difficili vie di comunicazione hanno nei secoli talvolta lasciato fuori il progresso, ma allo stesso tempo hanno contribuito a preservare la natura, il patrimonio storico-artistico e soprattutto l’autenticità della gente. A L’Aquila, oggi il cantiere più grande d’Europa, e tra le montagne che la circondano, dove negli ultimi anni sono nate strutture ricettive, piccole realtà imprenditoriali e associazioni per la valorizzazione del territorio che sono la vera anima di questa terra dall’incontaminata bellezza.
13 luglio 2017
Primo giorno: nel quale riscopriamo L’Aquila, che prova a rinascere
L’Aquila. Mentre il pullman si avvicina al Terminal di Collemaggio, e un bambino di pochi mesi non smette di piangere, cerco nei pochi ricordi che ho di questa città. Provo a rimettere a fuoco nella mente le immagini di tre anni e mezzo fa, quando venni qui per lavoro, e a confrontarle con quelle di oggi. Di quella prima volta mi resta l’impressione di desolazione di una breve passeggiata nella zona rossa, dove tutto sembrava ancora fermo a quella notte di aprile del 2009. Le case puntellate, i negozi chiusi, il silenzio di una città fantasma. E lontano, fuori dal centro, le New Town, i nuovi quartieri di casette tutte uguali, senz’anima e senza servizi. Nate per essere provvisorie e destinate invece a durare, in un tempo sospeso. Le New Town ci sono ancora, ovvio. Ma la zona rossa non c’è più, molti negozi hanno riaperto, parecchie case sono già state restaurate, o buttate giù e ricostruite. Lo skyline della città ora è una serie ininterrotta di gru. I cantieri sono aperti, la ricostruzione è partita. Era ora. Mi torna in mente lo speciale che ho ascoltato alla radio un paio di settimane fa, che lanciava questo viaggio e che parlava di L’Aquila come del cantiere più grande d’Europa.
Anche questo, naturalmente, è un viaggio di Radio Popolare, e di ViaggieMiraggi. Questo connubio (uso questa parola non a caso) qui è rappresentato, in carne ed ossa, da quelli che saranno i nostri due accompagnatori in questo viaggio, e che sono anche due miei cari amici: Alessia de Iure e Nello Avellani. Loro sono in qualche modo anche l’origine di questo, appunto, connubio che per loro è diventato un vero e proprio matrimonio. Nel 2013 Nello, dopo gli anni da giornalista e conduttore di Radio Popolare a Milano, anni nei quali ha raccontato anche il terremoto, e dopo l’esperienza di Radio Popolare Roma, decise di tornare a L’Aquila, che è la sua città, e di costruire con alcuni amici e colleghi un giornale on line, News Town, di cui ora è direttore. E qui conobbe Alessia, che è di Lanciano ma che ha studiato archeologia qui. Alessia collaborava già con ViaggieMiraggi e così il sodalizio ebbe modo di crescere e svilupparsi…
Il pullman entra nel terminal, con qualche minuto di anticipo sull’orario previsto. Siamo partiti circa un’ora e mezza fa dalla stazione Tiburtina di Roma. Scendo e vado incontro ad Alessia, che è qui ad aspettare me e gli ultimi viaggiatori in arrivo da Milano e dintorni. Il gruppo è composto da 12 persone. Baci, abbracci e la prima grande sorpresa: Alessia aspetta un bambino. È al quinto mese, anche se non si vede ancora nulla. Ha preso un chilo, dice, ma non si vede proprio. La sua silhouette è quella di sempre. E non solo, non ha neanche nausee o problemi di sorta. Insomma, sì, il sodalizio si è davvero sviluppato bene.
Fa caldo, un caldo insolito per L’Aquila, anche nel mese di luglio.
Ci sistemiamo all’Hotel Castello, che si trova per l’appunto davanti al castello cinquecentesco che ospitava il Museo Nazionale d’Abruzzo e che è stato gravemente danneggiato dal terremoto. Dal 2011 sono in corso i lavori di restauro, ma è ancora inagibile.
Il mio compagno di stanza, Mario, viaggia con lo zaino, come me. Abbiamo già un punto in comune. È tornato circa un mese fa dal cammino di Santiago. Anche questa è una cosa che ho in mente di fare, prima o poi. Sono stato a Santiago anni fa, ma non ci sono arrivato a piedi; ci sono arrivato percorrendo la costa atlantica della Spagna in treno e autobus, dal paese Basco alla Galizia.
Per iniziare ci dirigiamo verso l’incrocio, chiamato dei quattro cantoni, tra Corso Vittorio Emanuele e Corso Umberto I, dove Alessia inizia a spiegarci la storia della città.
L’Aquila ha antiche origini sabino-vestine nei nuclei di Amiternum e Forcona. Dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, intorno alla “conca aquilana” si formarono piccoli agglomerati urbani, detti “castelli”, che decisero la fondazione della nuova città: nel 1254, secondo la leggenda, i 99 castelli della conca aternina fondarono la città, e la fontana delle 99 cannelle celebra questo avvenimento con i suoi mascheroni. In realtà, probabilmente, i castelli erano “soltanto” 60 o 70. Secondo altri la città sarebbe nata intorno al 1230 col patrocinio di Federico II di Svevia, e sarebbe stata distrutta una prima volta nel 1259 da Manfredi di Sicilia. La città ebbe notevole sviluppo nel Medioevo, sotto il controllo della famiglia Camponeschi, e nel 1424 riuscì a resistere al terribile assedio di Braccio da Montone, dovuto al fatto che la città si era schierata contro Napoli per la sua fedeltà angioina. Durante l’epoca del feudalesimo, dal medioevo al 1806, la città vantava un’economia propria di pastorizia, artigianato e oreficeria, ed era stazione di passaggio durante la transumanza, con il Regio tratturo L’Aquila-Foggia, percorso da pastori e pellegrini religiosi. Si trovava anche in una posizione strategica sulla “Via della lana”, da Firenze a Napoli. Per questo si stabilirono qui molte famiglie di mercanti provenienti da altre parti d’Italia. Sotto il dominio asburgico nei secoli XVI-XVII visse un periodo altalenante di crescita economica, fino alla decadenza, profondamente segnata dal terremoto del 1703. Riebbe uno sviluppo economico e culturale soltanto nell’Ottocento.
I personaggi che più di tutti hanno reso famosa la città sono Pietro da Morrone, ovvero Papa Celestino V, il papa eremita del gran rifiuto, e San Bernardino da Siena. Il primo è sepolto nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio (Basilica della prima Porta Santa) e il secondo nella Basilica di San Bernardino, a lui dedicata.
Quello che si vede oggi, qui ai quattro cantoni, è che è partito il cantiere per i cosiddetti sottoservizi (fognature, acquedotto, gas, elettricità, fibra ottica, ecc.) che sta sventrando la città per poi ricostruirla. Su questo c’è polemica, perché molti sostengono, non a torto, che i sottoservizi andavano fatti prima di partire con la ricostruzione, ma tant’è… l’asfalto che vediamo ora, infatti, è solo un asfalto di servizio, temporaneo. Poi, quando i lavori saranno finiti, torneranno i sampietrini tanto amati dagli aquilani, che sono stati rimossi uno per uno e diligentemente stoccati in attesa di poter essere nuovamente posati.
La ricostruzione delle case private è finanziata dal governo tramite un ufficio speciale, con contributi la cui entità varia in funzione dei danni subiti. Le categorie vanno dalla A, che contraddistingue le abitazioni meno toccate dal sisma, alla E, che è quella delle case che hanno subito i danni più gravi. Alla categoria E apparteneva, ad esempio, la casa dei genitori di Nello, che è stata demolita e ricostruita. Esiste anche una categoria F per le case che, pur essendo agibili, sono contigue ad altri edifici pericolanti. L’obiettivo sarebbe quello di completare la ricostruzione entro il 2020, ma in realtà già da ora si può dire che per allora non sarà finita. Ovviamente, le prime case sono privilegiate rispetto alle seconde. Anche Paola, la nostra compagna di viaggio, ha una casa da sistemare, e quindi ci tiene a informarsi. Lei ora vive a Milano, ma il suo papà era di Sulmona, ed è lì che ha questa che è per l’appunto una seconda casa.
Molto ha pesato, nel determinare il destino di una casa, il tetto: letteralmente, nel senso che spesso i tetti in cemento armato, che negli anni ’70 e ’80 erano la normalità, hanno schiacciato le pareti sotto il loro peso, provocandone il crollo. Di questo, naturalmente, si sta tenendo conto in fase di ricostruzione, usando a volte tetti in legno o comunque alleggerendo le strutture.
Ci spostiamo in Piazza Palazzo, una piazza alberata posta su Corso Umberto I con al centro la statua di Sallustio, lo storico romano nato ad Amiternum. Ospita Palazzo Margherita, la sede del Municipio, e il Palazzo della Provincia, sede della Biblioteca provinciale. Originalmente vi era un castello collegato alle mura, rappresentato oggi dalla medievale Torre Civica.
E poi Piazza Duomo, chiamata anche piazza del mercato perché prima del terremoto qui si teneva un mercato tutti i giorni tranne la domenica. Anche per le chiese quello del tetto è stato il problema centrale: come è successo per il duomo, le facciate hanno sempre retto, ma non così il transetto, che la copertura fosse a cupola o a capanna. Ora però, anche qui, la ricostruzione è iniziata. Quando lo storico Bar Duomo ha riaperto, è stata una festa: gelato gratis per tutti.
Un giro al bar ce lo facciamo anche noi, soprattutto per assaggiare la prima specialità aquilana: il torrone morbido al cioccolato dei Fratelli Nurzia. La curiosità è che esiste quello dei fratelli e quello delle sorelle Nurzia: anni fa si sono divisi, a causa di una piccola faida familiare. Il dibattito su quale sia il più buono, come sempre in questi casi, è potenzialmente infinito. Di sicuro questo dei fratelli non è niente male.
La tappa successiva è la Basilica di Collemaggio, fatta costruire nel 1288 da Pietro da Morrone, proprio quello che sarebbe poi diventato Celestino V, il papa del gran rifiuto. La storia vuole che Pietro, eremita disceso dalla Maiella, ebbe una visione della Madonna che gli chiedeva di costruire una chiesa su questo colle. Nel 1294, eletto papa, rinunciò dopo pochi mesi ad un mandato per il quale si sentiva inadeguato, un fatto allora senza precedenti di cui si è tornati a parlare in occasione delle dimissioni di papa Ratzinger.
L’altra importante eredità di Celestino è la “Perdonanza”, celebrazione sacra voluta dal papa abruzzese per perdonare in una sola indulgenza annuale tutti i peccati dei pellegrini. Grazie alla bolla papale, che vale ancora oggi, chi passa per la porta santa della basilica tra il 28 e il 29 agosto di ogni anno ottiene l’indulgenza. La perdonanza è in qualche modo un gesto rivoluzionario, perché mette tutti sullo stesso piano, ricchi e poveri, nel pieno del periodo della vendita delle indulgenze; c’è chi dice che questo abbia reso Celestino inviso alle gerarchie ecclesiastiche, che fecero poi di tutto per ottenere che abdicasse.
La basilica, nella quale il romanico comincia a mischiarsi con il gotico, venne successivamente riempita di interni barocchi. Interni che nel 1968 vennero rimossi, nell’intento di ripristinare l’impianto originale, una scelta che oggi sicuramente non si farebbe più. Ora purtroppo l’interno non è visitabile, il restauro dovrebbe terminare a fine anno.
A breve distanza dalla basilica, in un grande parco di 19 ettari, sorge quello che era il manicomio della città. È qui che abbiamo in programma l’incontro con i ragazzi del centro sociale Casematte, uno spazio, per ora piccolo, all’interno del parco gestito dall’associazione 3e32 (il nome si riferisce all’ora del terremoto), che sta portando avanti un progetto di futuro recupero dell’area e degli edifici che vi sorgono; un progetto che si chiama “Parco della Luna” e che prevede la piena restituzione di questo spazio alla città. Per noi, soprattutto per chi è di Milano, entrare in questo parco significa immediatamente pensare all’ex OP Paolo Pini. Anche perché le strutture sono molto simili, come quelle di tutti gli ospedali psichiatrici costruiti in Italia tra la fine dell’800 e i primi del ‘900.
3e32 è stata in questi anni praticamente la sola realtà che ha mantenuto aperti spazi di socialità nel centro storico. Poi, il 4 giugno 2015, 22 associazioni si sono riunite all’Aquila per immaginare insieme un percorso che porti alla riqualificazione dell’ex manicomio. Un percorso che ha come fine quello di riqualificare un quartiere strategico della città invertendo il segno lasciato dal manicomio. Facendo diventare l’area da luogo dall’istituzionalizzazione, della contenzione, dello stigma e dell’assenza di diritti, una cittadella incentrata sulla solidarietà, la cooperazione, la libera espressione e creazione, il mutuo soccorso, l’integrazione e la presa di coscienza dei diritti di ognuno per difendersi da ogni forma di stigma, sfruttamento e discriminazione. È stata individuata un’area omogenea, parte dei 19 ettari dell’area, su cui intervenire subito e fattivamente con i fondi europei a disposizione. Anche gli ex utenti del manicomio sarebbero coinvolti, attraverso la creazione di un centro diurno, che potrebbe far parte di un polo sanitario. Il primo passo, per forza di cose, dovrà essere quello di ristrutturare gli edifici, che ora sono prevalentemente inagibili.
Intanto gli esponenti di 3e32 sono passati attraverso un processo per occupazione di suolo pubblico, dal quale però sono usciti assolti perché il fatto non sussisteva. In realtà, il lavoro che hanno fatto è stato fondamentale per difendere questo luogo, che era di fatto già abbandonato da molti anni, dalle mire degli immobiliaristi.
Tutto questo ce lo racconta Alessandro, che ci spiega anche che il progetto si basa su fondi europei per cui questo cartello di associazioni ha vinto una gara, fondi che però rischia di non poter sfruttare se non si partirà al più presto, superando le lentezze burocratiche che finora hanno bloccato tutto. L’amministrazione comunale, dice Alessandro, non li ha colpiti ma nemmeno aiutati molto. Fondamentalmente lui ritiene che, come interlocutori, le associazioni non siano mai state davvero prese in considerazione. Si riferisce alla vecchia amministrazione, quella di Massimo Cialente, del PD. Ora però, da circa un mese, L’Aquila ha un nuovo sindaco di centrodestra, Pierluigi Biondi; potremmo anche dire di destra, considerati i trascorsi in Casa Pound, da cui è uscito solo pochi mesi fa semplicemente perché restandoci non avrebbe avuto speranza di essere eletto. Ha anche alle spalle, per la verità, due mandati da sindaco di un piccolo comune, Villa Sant’Angelo, dove pare sia adorato. Che possa guardare con favore un progetto come quello di Casematte appare difficile, ma è presto per dirlo.
Mentre addentiamo i succulenti stuzzichini che i ragazzi di Casematte ci hanno preparato per l’aperitivo, si chiacchiera e scopriamo che anche qui nella ricostruzione sono purtroppo stati coinvolti soggetti tristemente famosi come la Mantovani e, in maniera occulta ma non troppo, perfino i casalesi.
Ci piace di più la storia di Paola, la nostra compagna di viaggio, che ricorda come aveva raccolto, all’epoca del terremoto, molti libri per bambini che poi sono stati portati qui e che il bibliobus ha distribuito ai bambini delle tendopoli.
Un’altra bella storia è quella di Radio Stella 180, che ha sede proprio qui nel parco di Collemaggio e che si occupa soprattutto di salute mentale, dando la possibilità di esprimersi anche a chi ha vissuto e vive esperienze di disagio; ma ormai in realtà parla di tutti gli argomenti: di recente ha perfino ospitato un confronto tra i candidati sindaci. Radio Stella 180 (il riferimento è, naturalmente, alla Legge 180, la Legge Basaglia) è qualcosa che ricorda molto da vicino il lavoro che Radio Popolare, in collaborazione con Radio Città del Capo di Bologna, fa con il programma Psicoradio.
Andiamo a mangiare in un posto il cui nome è tutto un programma: Arrosticini divini. Qui finalmente ci può raggiungere Nello, e insieme possiamo, dopo un paio di giri di bruschettine di riscaldamento, avventarci sulla più nota specialità abruzzese. Gli arrosticini, per i pochi che non lo sapessero, sono piccoli spiedini teneri e saporiti di carne di pecora. Davvero si può dire, qui, che uno tira l’altro.
E, tra un arrosticino e l’altro, Nello ci racconta cos’è L’Aquila oggi.
La città delle 19 New Town costruite nel 2009 dal governo Berlusconi con il progetto C.A.S.E., 4500 alloggi tirati su in 10 mesi. Che diedero un tetto a 12.000 persone, ma che avrebbero dovuto essere qualcosa che non sono mai stati, cioè dei veri quartieri dotati di servizi, non solo del trasporto pubblico ma anche di negozi di prossimità, piccoli supermercati, bar, biblioteche, librerie, spazi di socialità. Anche perché questi quartieri, che sono lontani dalle vecchie periferie che ormai sono le porte del centro storico, in certi casi distano tra loro anche più di 30 km, in una città di circa 70.000 abitanti. Oggi un decimo di questi alloggi sono inagibili e sotto sequestro, a causa del crollo dei balconi o di pesanti infiltrazioni d’acqua. Ma anche gli altri sono sostanzialmente parte di quartieri dormitorio privi di qualsiasi servizio e che rendono difficile spostarsi agli anziani e ai giovani senza patente. Per non parlare del danno ambientale, che non sarà mai più risarcibile, costituito dalla perdita di tutti i terreni agricoli su cui le New Town sono state costruite.
Per andare a scuola i ragazzi devono andare in città, dove comunque nessuna delle scuole pubbliche è stata ancora restaurata o ricostruita. Molti non hanno mai visto una vera scuola, ma tuttora frequentano i MUSP (Moduli ad Uso Scolastico Provvisorio), che per altro sono distanti dagli insediamenti abitativi e più vicini al centro storico.
E non è chiaro nemmeno quale sarà il destino di questi insediamenti in futuro, quando la maggior parte delle persone dovrebbe tornare nelle case ristrutturate o ricostruite del centro storico. Buttare giù tutto costerebbe troppo, ma d’altro canto anche la manutenzione ordinaria per tenerli in vita costa molto.
La decisione toccherà forse al nuovo sindaco, eletto a sorpresa dopo dieci anni di centrosinistra e dopo un primo turno che aveva visto il candidato di centrosinistra in netto vantaggio. Ma a questo punto il centrosinistra, convinto forse che il risultato fosse ormai acquisito, ha praticamente smesso di fare campagna elettorale. Il centrodestra ha fatto invece una campagna molto incisiva e, sfruttando anche il vento nazionale che soffia in questo momento, ha ribaltato le sorti della partita finendo per vincere di ben 6 punti.
Domani c’è il primo consiglio comunale, al quale Nello, che sarà in giro con noi, non potrà essere presente. Ma ci sarà un suo collega, che cercherà di carpire e di portare in redazione qualche indizio che faccia capire quali prospettive si aprono nell’immediato futuro della città.
Nel frattempo noi, dopo cena, ci dirigiamo al parco del Castello, passando davanti all’auditorium colorato e “mobile” di Renzo Piano. Stasera qui c’è un festival musicale che sembra interessante, il Soundshine Summer Festival. In questo momento, però, è in corso un contest di rap. Paola, che ha un figlio appassionato di rap e quindi per amore o per forza un po’ è costretta ad ascoltarne, assicura che il livello è buono; c’è anche, tra i concorrenti, una ragazza di Roma che oggi abbiamo visto a Collemaggio, a Casematte. Ma onestamente non è il mio genere. Per un po’, aspetto con pazienza che arrivino i Mama Marjas, che dovrebbero fare del reggae. Ma non arrivano mai, si fa tardi… e domani dobbiamo alzarci presto, quindi la serata può finire qui. E’ stato bello, comunque, vedere tanta gente in giro la sera nel centro dell’Aquila.
14 luglio 2017
Secondo giorno: nel quale iniziamo a esplorare i monti d’Abruzzo, dalle pagliare al borgo di Fontecchio
Ligi alle consegne di Alessia, ci siamo alzati presto e alle 8 siamo già “colazionati” e pronti a partire.
Ci dobbiamo dividere tra un pullmino guidato da Nello e la macchina di Alessia, che saranno i mezzi con i quali ci muoveremo in questi tre giorni. La prima tappa, prima di lasciare L’Aquila, è un altro luogo simbolo della città: la Fontana delle 99 cannelle, che risale anch’essa al periodo della fondazione, nel XIII secolo, ma nell’impianto originario aveva solo una delle “quinte” che vediamo ora; le altre sono state aggiunte successivamente e vanno a creare una forma trapezoidale irregolare. Le 99 cannelle, che sgorgano da 99 mascheroni tutti diversi, alimentano la leggenda secondo cui, in onore dei 99 castelli che avrebbero contribuito alla fondazione, la città sarebbe caratterizzata da 99 piazze, 99 chiese e 99 fontane.
L’acqua è un elemento fondante della città fin dal nome: Quando fu scelto il sito per la fondazione della città, si individuò un luogo chiamato Acquilis o Acculi o anche Acculae, per l’abbondanza delle sorgenti che vi si trovavano. Il nome Aquila, quindi (l’articolo fu aggiunto solo nel 1939), non si riferisce al rapace, che fu inserito nello stemma soltanto dopo.
La pietra bianca e rosa, di provenienza locale, è la stessa della basilica di Collemaggio.
Già dal rinascimento, e ancora oggi, l’area della fontana è stata usata per feste da ballo e concerti. Anche per questo, è stata una delle prime aree monumentali ad essere restituite alla città nel dopo terremoto.
Per noi, prima di lasciare davvero la città, c’è ancora un posto da vedere assolutamente, per il forte significato simbolico che ha: la casa dello studente. Qui la notte del 6 aprile 2009 morirono otto ragazzi, a causa del crollo di un’intera ala, dovuto secondo quanto appurò la successiva inchiesta ai lavori di ristrutturazione condotti senza criterio nel 2000 e ad altri lavori fatti ancora prima. Ma quella notte persero la vita anche molti altri studenti, che vivevano in altre case del centro storico. I loro nomi sono elencati su uno degli striscioni che, insieme a foto, magliette e altri ricordi sono ancora appesi alla rete da cantiere che delimita il cratere lasciato dal crollo. È incredibile pensare che, in una città con la storia di terremoti che ha L’Aquila, si sia potuto non applicare criteri sismici nel ristrutturare un edificio destinato a studentato. Eppure è successo.
Un ultimo pezzo di memoria è quello che passa davanti ai nostri occhi attraversando la New Town di Bazzano, dove ancora vivono circa 2000 persone. Tra tutte le New Town, sono più o meno 8000. Qui, almeno, le facciate delle casette sono decorate da opere di street art che vorrebbero dare a questo posto colore e umanità, e che almeno in parte ci riescono anche.
Nello ci racconta che a Tione, il paese dei suoi nonni, e in generale nei piccoli centri, invece di quello del progetto C.A.S.E. è stato adottato il modello dei MAP (moduli abitativi provvisori), che sono costati molto meno (800 euro al mq anziché 2000 e oltre) e soprattutto sono stati costruiti vicino ai vecchi paesi; questo ha permesso di non sradicare completamente le persone, in particolare gli anziani, che possono vedere le loro vecchie case o quello che ne resta e andare ancora a coltivare i loro orti, mantenere insomma il contatto fisico con quello che è stato sempre il loro posto sulla terra.
Ci dirigiamo ora verso Goriano Valli, nel Parco del Sirente-Velino. La prima tappa è il bar di Luca, l’unico di questo paese di circa 100 abitanti. Grande esperto di fauna selvatica e ottimo fotografo, come dicono le stupende foto che sono esposte in una delle sale del bar, Luca ci intrattiene per qualche minuto raccontando, tra l’altro, dei pochi orsi che ogni tanto si possono avvistare nel parco e di una lupa che, persa una zampa in una tagliola, era stata data per spacciata e invece su tre zampe ha continuato a vivere e a macinare chilometri nel territorio del parco. Un vero esempio dell’Abruzzo che resiste…
Nel parco, parlando solo di mammiferi, oltre all’Orso Marsicano ed al lupo appenninico sono presenti: il camoscio, il gatto selvatico, la martora, il cervo, il capriolo, l’istrice, il ghiro.
Forse non riusciremo a vederne molti, considerato il poco tempo che abbiamo, ma comunque, accompagnati dal Presidente dell’Associazione Culturale Massimo Lelj, ci incamminiamo sul sentiero che porta alla torre di Goriano, una torre del XIV secolo alta 19 m. Nel frattempo, il cielo si sta riempiendo di nuvole minacciose ma noi non ci spaventiamo. Anzi, visto il caldo anomalo di ieri, c’è chi dice che sia perfino meglio. Ci arrampichiamo sulla torre e proseguiamo poi verso il ponte romano sul fiume Aterno, un altro luogo di grande bellezza.
Da qui andiamo a recuperare il pullmino, che ci porterà verso il vigneto di Adriana Tronca, dove pranzeremo all’aperto.
Quattro ettari di terra nel cuore del Parco. Qui Adriana produce, a 600 metri sul livello del mare, Pinot nero e Traminer, che qui hanno trovato condizioni ottimali e uniche nella zona. A questi si affiancano il Rosso Lamata e il Santagiusta, il primo spumante d’altura in Abruzzo realizzato con Metodo Classico, 70% Pinot Nero e 30% Chardonnay.
I genitori di Adriana sono di queste parti, di Goriano e di Tione. Ma lei per anni ha fatto l’odontotecnica a Milano, poi si è trasferita in Franciacorta, dove è nata la passione per lo spumante.
Arrivata a Tione nel 2001, si è trovata di fronte un “piccolo Trentino Alto Adige nel cuore dell’Abruzzo”. Non ha ancora una cantina sua, quindi i suoi vini continuano a fermentare nelle cantine vicine.
Dopo anni di lotte con la lentezza della burocrazia e un periodo difficile dal punto di vista economico, Adriana guarda avanti con ottimismo e non ha rinunciato alla realizzazione di una cantina tutta sua. Anche se, dice, L’Aquila ha una visione un po’ chiusa. Non esiste solo il Montepulciano. A 600 metri sul livello del mare non si può produrre Montepulciano e allora si mette altro. E quest’altro, dobbiamo dire, per noi è molto buono.
Tra l’altro, completamente a sorpresa, assistiamo a una carrambata incredibile: Adriana e una delle nostre compagne di viaggio hanno fatto insieme il liceo artistico dalle Preziosine (!!) a Monza!
Ed eccoci pronti per la prossima tappa: le pagliare di Tione. Tione degli Abruzzi è un paese di poco più di 300 abitanti, dove Nello è consigliere comunale, di opposizione naturalmente. Le pagliare sono case in pietra che formano piccoli villaggi in quota, frequentati stagionalmente dagli agricoltori e dagli allevatori residenti nei paesi del fondovalle del fiume Aterno. Gli abitanti di Fagnano Alto, Fontecchio e Tione degli Abruzzi, paesi collocati a 500-600 metri di quota che la geografia dei luoghi costringe in spazi angusti, hanno cercato sbocco per le coltivazioni e il pascolo sui pianori sovrastanti, a oltre mille metri di quota. Queste case erano la meta della transumanza verticale: qui i pastori portavano le pecore nel periodo estivo. Al piano terra c’erano uno o due locali, al piano superiore il pagliaio; anche se a volte, invece, il piano terra era usato come stalla e si viveva di sopra. Si viveva, ovviamente, senza alcuna comodità: tuttora nelle case, molte delle quali sono state ristrutturate, non c’è acqua corrente né luce elettrica. Anche se, per quanto riguarda l’acqua, ci sono progetti per portarla, in modo da favorire lo sviluppo turistico di questi luoghi.
Oggi sono luoghi di silenzio per molti mesi dell’anno, ma si rianimano nel periodo estivo e in modo particolare nei fine settimana. Il paese, costruito intorno a uno storico pozzo, ha un grande fascino e trasmette una sensazione di pace. Scopriamo che anche Nello ha una sua pagliara, ben ristrutturata e soppalcata, dove possiamo rifocillarci con acqua e tè freddo.
Per poi proseguire verso Fontecchio, che è anche il posto dove dormiremo per le prossime due notti.
Fontecchio è un borgo di circa quattrocento abitanti della valle Subequana, che ora è una valle appartata ma per secoli è stato un importante punto di passaggio su quella che era la Via degli Abruzzi, che congiungeva la Toscana con il Regno di Napoli. Non si passava per Roma, ma per la dorsale appenninica; dopo L’Aquila, si attraversava questa valle per raggiungere Sulmona, il Molise e poi giù giù fino a Caserta e Napoli. Da queste parti passò anche Francesco d’Assisi, che fondò il convento di Castelvecchio Subequo. E anche il Petrarca.
Saremo ospitati da Alessio Di Giulio, che ha recuperato e adibito a struttura ricettiva una serie di antiche case proprio sull’angolo delle mura attorno alla torre del Cornone, una piccola torretta di guardia che “vede” tutte le altre torri della valle. Sì, perché qui ogni borgo ha le sue mura e la sua torre, e Fontecchio non fa certo eccezione.
Alessio ha cominciato il lavoro di recupero di questi edifici, un po’ per gioco, già negli anni ’90, quando viveva a Milano e veniva qui in vacanza. Lui, riguardo alle sue origini, si definisce “un mischione”, nel senso che è un po’ umbro, un po’ marchigiano e anche un po’ trentino, come radici. Ha vissuto a Milano e poi a Roma, dove era responsabile per l’educazione ambientale al WWF. Dal 2004 ha deciso di cambiare vita, si è stabilito a Fontecchio e ha continuato nell’opera di restauro di queste antiche case, insieme a Luisa, con cui nel frattempo si era sposato. Ha sempre cercato di rispettare la struttura, usando le tecniche meno invasive possibili, e non violentarla, anche nell’ulteriore restauro che ha dovuto fare nel post terremoto del 2009. Niente finiture leziose e un po’ false, e niente cemento armato, perché le strutture erano già costruite per resistere ai terremoti. La gente, nel medioevo, non era stupida, dice Alessio: sapeva dove viveva. E in effetti, lo scopriremo poi girando per il borgo, dappertutto ci sono travi di legno per alleggerire e rendere elastiche le strutture.
Per isolare le pareti hanno usato, e non poteva essere altrimenti, lana di pecora. Il riscaldamento viene da una caldaia a biomassa (pellet) e stanno installando anche dei pannelli solari. Insomma, tutto è fatto nel modo più rispettoso e sostenibile possibile.
L’accoglienza è calda fin da subito: Alessio ci viene incontro nella piazza del paese, dove abbiamo parcheggiato, e carica i nostri bagagli sull’”apetto”, come lo chiama lui, un’Ape Piaggio del ’73, mentre noi lo seguiamo a piedi ma liberi dal peso. L’apetto è un must qui, una vera istituzione; praticamente tutti ce l’hanno, ci racconterà poi Alessio. Del resto, è così anche in altri paesi delle montagne italiane: cosa c’è di meglio per trasportare carichi pesanti su per le stradine strette e scoscese del borgo?
Dopo aver preso possesso delle nostre camere in queste bellissime case-torre in pietra ed essere stati accolti ancora meglio con un bicchiere di rinfrescante acqua e limone, passeggiamo per Fontecchio con Alessio che ci fa da guida e ci racconta la storia del borgo.
La storia di Fontecchio sembra entrare bruscamente nel vivo nel XV secolo, quando, a partire dal maggio del 1425, la quasi totalità dei castelli del circondario dell’Aquila vengono cinti d’assedio dallo spregiudicato condottiero mercenario Braccio da Montone, detto “Fortebraccio”. Se per i restanti borghi del circondario la resa fu il naturale epilogo dell’invasione subìta, tutto ciò non avvenne per Fontecchio. Anzi, grazie alle gesta ed al coraggio dei suoi abitanti, il paese riuscì a respingere l’attacco delle truppe mercenarie.
L’episodio che però sembra assurgere a simbolo di Fontecchio è senza dubbio rappresentato dall’assedio del 1648 ad opera delle truppe spagnole, logica conseguenza dei moti popolari che incendiarono il Regno delle Due Sicilie nell’anno 1647. Non le fonti più attendibili (che parlano di un assedio durato una decina di giorni), bensì fonti frammentarie e popolari ci tramandano una versione dei fatti che ad oggi impernia il simbolismo e la ritualità della civiltà fontecchiana. Infatti, si narra, l’assedio durò ben cinquanta giorni ed il paese, ormai allo stremo delle forze, fu liberato dal coraggio della Marchesa Corvi, la quale, dal suo palazzo, sparò un colpo di spingarda colpendo a morte il capo degli assalitori e liberando così il borgo. Ancora oggi ogni sera, a ricordo di tale episodio, l’orologio della Torre batte cinquanta rintocchi.
E l’orologio della torre, tra i più antichi d’Italia, con il quadrante diviso in sei ore e non in dodici, e con l’unica lancetta mossa da un sistema di pesi, è senz’altro l’immagine più iconica di Fontecchio, insieme alla fontana monumentale con edicola affrescata e alle case-bottega di impronta tipicamente medioevale.
Alessio parla con la sua voce dolce e con i suoi modi flemmatici, ed è quasi preoccupato di essere noioso o di parlare troppo. Invece ci affascina e ci fa notare tante piccole curiosità che altrimenti ci sfuggirebbero, come la presenza sugli archi di molte porte del monogramma di San Bernardino, che rappresenta all’interno di un sole il nome di Gesù (IHS, cioè le prime due e l’ultima lettera del nome Iessous in greco, oppure Iesus Homimum Salvator, Gesù salvatore degli uomini).
Staremmo ore ad ascoltarlo, ma dobbiamo anche andare a cena. Cena per la quale ci trasferiamo in un altro paese della zona, in un ristorante che propone un gustoso stufato di montone.
Durante la cena ci imbarchiamo un una lunga discussione su Pisapia, dove si fronteggiano, a tratti in modo piuttosto animato, due partiti: quelli che ritengono che sia stato un ottimo sindaco e in nome di questo gli perdonano la decisione di non ricandidarsi, la pessima gestione della fine del mandato e delle primarie, il sì al referendum renziano, ecc.; e quelli che ritengono che sia stato un buon sindaco ma che le recenti scivolate di cui sopra non si possano dimenticare né perdonare. Io mi trovo un po’ in mezzo, nel senso che mi rendo conto che gli errori che ha commesso sono gravi ma non credo che offuschino tutto il resto e soprattutto, vista la desolazione che offre l’attuale panorama politico della sinistra, non credo che si possa escluderlo a priori dal novero dei votabili senza neanche sapere ancora con esattezza qual è il suo programma, perché in fondo dovrebbe essere soprattutto quello che conta. Fatto sta che, però, la disputa si prolunga un po’ troppo e suona quasi un po’ surreale e troppo milanocentrica, fatta in un piccolo paese dell’Abruzzo. Ma noi siamo ascoltatori di Radio Popolare, siamo fatti così…
15 luglio 2017
Terzo giorno: nel quale restiamo a bocca aperta davanti alla Cappella Sistina d’Abruzzo e alla magia della Rocca di Calascio
Oggi possiamo fare colazione con un po’ più di calma e ne vale la pena, perché a parte la ricchezza del buffet la gentilezza di Luisa e Alessio e l’atmosfera incredibile di questo posto vanno gustate, non si possono consumare in fretta senza assaporarle con la giusta lentezza.
Forse anche questa rilassatezza, per quanto salutare, fa sì che io e Mario abbiamo un piccolo incidente. La porta di legno della nostra camera ha un chiavistello, che si può chiudere dall’esterno con la chiave; ma si chiude anche se, inavvertitamente, esci e chiudi la porta dietro di te senza aver preso la chiave medesima. Ed è questo che ha fatto Mario. Io ero già uscito e avevo lasciato la chiave sul tavolo vicino alla porta, ma non avevo pensato di dirglielo, convinto che l’avrebbe vista e avrebbe chiuso lui, essendo l’ultimo a lasciare la stanza. Colpa anche mia, quindi. Fatto sta che siamo chiusi fuori; ma ora siamo già in ritardo, dobbiamo andare all’appuntamento in piazza con Alessia e Nello. Al ritorno spiegheremo ad Alessio quello che è successo e sono convinto che lui avrà un’altra chiave con la quale ci tirerà fuori dai guai. Per ora non ce ne preoccupiamo.
Poco dopo le nove partiamo per la prima tappa della giornata, che è una tappa importante. A Bominaco c’è una chiesetta con un piccolo oratorio, l’Oratorio di San Pellegrino, affrescato in maniera così magistrale da essersi meritato l’appellativo di “Cappella Sistina d’Abruzzo”. E infatti, manco a farlo apposta, arriviamo mentre una troupe di Rai Storia sta facendo delle riprese. Per fortuna loro al momento stazionano fuori e quindi noi possiamo entrare per la visita.
Ci accompagna una guida in qualche modo… d’eccezione. Sì, perché Alessia si aspettava di trovare Chiara, una signora che è appassionatissima dell’arte di questi luoghi e che vanta la bellezza di due lauree. Ma, a sorpresa, al suo posto c’è il marito Mario. Che anche lui ne sa, si capisce subito. Ma, forse un po’ per gioco forse perché è di carattere schivo, si dichiara inadeguato e dopo una breve introduzione vorrebbe che fosse Alessia a parlare. Alessia, sentito che anche lui conosce bene la storia di questo oratorio, lo sprona invece ad andare avanti e lui se la cava, c’è da dire, molto bene. Poi comunque anche Alessia ci mette del suo, e dopo qualche minuto arriva anche Chiara, che si è liberata di un precedente impegno e può farci anche lei compagnia, anche se a questo punto molto è stato già detto.
La chiesa è costruita con materiali “di recupero”, nel senso che le colonne sono romane, mentre i capitelli chiaramente benedettini. Anche questa era affrescata, ma in epoca successiva è stata “barocchizzata” e riempita di stucchi, poi rimossi nel 1930, per cui gli affreschi sono andati persi.
Passiamo all’oratorio. Un’iscrizione sulla parete di fondo ne fa risalire la costruzione al 1263 da parte dell’abate Teodino. È dedicato a San Pellegrino, un martire venerato nella zona, sulla cui tomba venne costruita la chiesa intorno all’VIII secolo. Carlo Magno fornì alla chiesa dei terreni e la donò all’Abbazia di Farfa, dalla quale alcuni monaci vennero per fondare una comunità monastica. Nel 1001 la comunità si rese indipendente da Farfa con la donazione da parte del conte Oderisio di notevoli estensioni di terreno.
Si tratta di un gioiello poco conosciuto, purtroppo. O meglio, dice Mario, gli abruzzesi ne riconoscono l’immagine ma non sanno dov’è, perché stava sulle copertine degli elenchi telefonici.
L’interno è diviso tra lo spazio riservato ai fedeli (che aveva anche una funzione didattica, dato che allora la maggior parte delle persone erano analfabete) e quello riservato ai monaci da due plutei in pietra; su quello di sinistra è rappresentato un drago, simbolo del male, mentre su quello di destra un grifone, simbolo del bene.
Le pareti del modesto edificio sono completamente coperte da una straordinaria serie di affreschi: un ciclo sull’infanzia di Cristo, uno sulla Passione, scene del Giudizio Universale, storie di San Pellegrino e di altri santi ed una serie sui mesi del Calendario. Gli episodi proseguono fino alla curvatura della volta, lasciando al centro una fascia decorata con motivi ornamentali. I cicli sono tra di loro intrecciati, con scene di uno stesso gruppo che occupano spazi su pareti opposte.
Le storie dedicate a San Pellegrino sono sei, mentre il ciclo dell’infanzia di Cristo comprende gli episodi dell’Annunciazione, della Visitazione, della Natività e della strage degli innocenti. Il ciclo della Passione comprende gli episodi dell’entrata a Gerusalemme, la lavanda dei piedi, l’ultima cena, il tradimento di Giuda, l’arresto, il processo, la deposizione dalla croce, la sepoltura e l’apparizione ad Emmaus. Il giudizio universale è diviso nelle scene della pesa delle anime, San Pietro che apre le porte del paradiso, i patriarchi con le anime dei beati, i dannati torturati dai demoni. Del calendario restano leggibili soltanto i primi sei mesi raffigurati tramite i segni zodiacali, le attività dell’uomo e le festività. È curioso soprattutto il mese di marzo, dove si vede un personaggio che sembra afflitto da dolori ai piedi tipici della stagione.
Un’altra curiosità è che una leggenda vuole che, appoggiando l’orecchio su un certo punto all’interno di una nicchia creata sotto l’altare, dove dovrebbe trovarsi il corpo del santo, se ne possa sentire il battito cardiaco. Secondo un’altra teoria diffusa, in realtà si sente l’eco del proprio cuore, che con la suggestione dà l’impressione di provenire da sotto l’altare. Ma Mario assicura che un famoso percussionista, uno che di battiti e di ritmo se ne intende, abbia sentito effettivamente il battito e abbia giurato che non poteva essere il suo stesso cuore.
Uscendo l’altro Mario, il mio compagno di stanza, mi fa notare l’immagine gigantesca di San Cristoforo con il bambino sulle spalle, rappresentato come nell’iconografia classica: Cristoforo, infatti (colui che porta Cristo), si sarebbe convertito dopo aver portato al di là del fiume un bambino il cui peso aumentava sempre di più, ad ogni passo; alla fine il bambino avrebbe rivelato a Cristoforo che era il Cristo, e che quindi lui aveva portato il peso di tutto il mondo sulle sue spalle. Il santo è spesso associato anche alla figura di Ercole, proprio per la sua forza.
Il prossimo appuntamento è un altro di quelli che aspetto da un po’, anche perché di recente ho visto questo luogo in un documentario curato da Paolo Rumiz: la rocca di Calascio.
Rumiz raccontava di come la rocca, rimasta abbandonata per anni, fosse stata “ricolonizzata” da una coppia di romani che hanno aperto un albergo diffuso poco sotto il castello.
“Tutti erano scappati dal paese, ma i nuovi venuti ne sentivano il richiamo. “Vieni”, dicevano loro le rovine. Da allora la vita di Susanna Salviati cambiò. La chiamata divenne un ordine e la coppia lasciò Roma per trasferirsi in Abruzzo e ricolonizzare la rocca. Aprirono una trattoria, sistemarono una casa per abitarvi, fecero figli, restaurarono altre case per accogliervi ospiti. Ascoltai affascinato il racconto e poi, come ad Aghios Andreas, aspettai la notte per andare a caccia dei santi-guardiani. Fu un’altra notte speciale, perché sopra un mare di nubi basse c’era solo la luna piena e il monte Sirente che navigava nell’aria senza vento.”
Qualche nube c’è anche oggi; purtroppo ci è nascosta la vista della Maiella, che altrimenti da qui sarebbe spettacolare, ci dicono. Ma basta la vista della rocca in tutta la sua ruvida bellezza per appagare lo sguardo. Basta vederla prima da sotto, dalla chiesetta cinquecentesca di Santa Maria della Pietà, e poi salire lungo il sentiero fino a trovarsi in mezzo alle rovine che sono state lo scenario di molti film, su tutti Lady Hawke.
La fondazione della rocca è dovuta probabilmente alla volontà di re Ruggero d’Altavilla dopo la conquista normanna del 1140 con prevalente funzione di avvistamento; il primo documento storico che ne attesta la presenza è datato 1239. È possibile, però, che le prime fortificazioni risalgano ad ancora prima, forse al IX-X secolo. Ci troviamo, spiega Alessia, in una posizione strategica di controllo di un territorio fondamentale per l’economia della transumanza. Il castello, che domina la valle del Tirino e l’altopiano di Navelli a poca distanza dalla piana di Campo Imperatore, è situato su un crinale a 1460 metri d’altezza, in una posizione molto favorevole dal punto di vista difensivo, ed era utilizzato come punto d’osservazione militare in comunicazione con altre torri e castelli vicini, sino all’Adriatico.
Nei secoli si susseguirono nel dominio varie famiglie nobili, ultime quelle dei Medici e poi dei Borbone.
Nel 1463 venne concessa da re Ferdinando ad Antonio Todeschini della famiglia Piccolomini, che modificò la fortificazione dotandola di una cerchia muraria in ciottolame e quattro torri di forma cilindrica a uso militare.
Gli scavi archeologici hanno rivelato che, fin dal basso medioevo e poi sicuramente nel ‘200 e nel ‘300, qui sono state adottate tecniche di costruzione volte a proteggere la struttura dai terremoti. Anche qui venivano inserite travi di legno nei muri di pietra.
Tuttavia, nel 1703 la rocca venne devastata da un violento terremoto in seguito al quale l’area più alta del borgo venne abbandonata e buona parte della popolazione si trasferì nel vicino paese di Calascio.
Nel XX secolo anche le ultime famiglie rimaste abbandonarono il borgo e la rocca rimase disabitata fino a pochi anni fa.
Ripartiamo verso un altro borgo, quello di Santo Stefano di Sessanio. Lungo la strada vediamo la piana di Navelli, dove si produce la maggior parte dello zafferano d’Abruzzo, uno dei prodotti che da sempre caratterizzano questa terra, e un pezzo del Tratturo Magno L’Aquila-Foggia, lo storico percorso della transumanza.
Andiamo a mangiare nell’agriturismo “Le bifore e le lune”, dove Mirella ci accoglie in un’antica, bellissima casa con un buffet ricchissimo, davvero principesco, e arricchito dall’uso di tantissime erbe che lei raccoglie personalmente tra queste montagne, dall’achillea alla mentuccia a tante altre che ora dimentico. La pizza fritta, vari tipi di focaccine, tartine e piadine, fichi buonissimi, zucca, pomodori ripieni, olive e formaggi da gustare con il miele locale, pecorino e caciocavallo, per non parlare della ricotta. Tutto a km zero.
Mirella ci racconta delle erbe, di come ha cominciato a scoprirle, a distinguerle e a sperimentarne l’uso creativo in tantissimi piatti. “Prima era tutta cicoria”, dice, ma ora si cerca di dare ad ogni erba il suo nome e di farle apprezzare… noi le stiamo decisamente apprezzando, insieme a tutto il resto, naturalmente. Mirella ha fatto una quantità di roba impressionante; vedere tanto ben di Dio è una tentazione irresistibile, non riusciamo a fermarci…
Nel frattempo Lucia, sommelier perugina ma innamorata di questo territorio, ci propone un vino dopo l’altro con dolce insistenza.
Ci raggiunge anche Marco Manilla, della CIA (Confederazione Italiana Agricoltori) locale, che, avendo forse colto che siamo un gruppo piuttosto sensibile al tema, ci propone tra il serio e il faceto (ma più faceto che serio) un suo “progetto politico” improbabile (ma forse neanche tanto, chi può dirlo): quello della “sinistra equilibrata”, un movimento che dovrebbe situarsi esattamente a metà strada tra il PD e la sinistra cosiddetta radicale, o comunque ben lontana dal PD. I punti fondamentali del programma sono: più ferie per tutti, lavorare al massimo quattro giorni a settimana, forse anche tre, e andare in pensione presto. Sarà forse populista, ma ci piace di più questo tipo di populismo, rispetto a quelli che conosciamo… ha già conquistato diversi voti, nel gruppo. Purtroppo manca ancora un leader, perché lui ritiene di non avere abbastanza carisma per muovere le masse. Ma se lo trova…
Usciamo veramente sazi e soddisfatti anche se un po’… appesantiti.
Ed è il momento di iniziare la visita del borgo di Santo Stefano, che non può che iniziare dalla porta medicea e dalla piazza medicea, perché la storia del borgo è fortemente legata a quella della famiglia fiorentina. Sulla porta campeggia lo stemma dei Medici, con le sei palle.
La prima notizia certa dell’esistenza dell’insediamento detto Santo Stefano è dell’anno 1239. Dal XIII secolo Santo Stefano fu compreso nel distretto feudale denominato Baronia di Carapelle che includeva anche Carapelle Calvisio, Castelvecchio Calvisio, Calascio e Rocca Calascio. Costanza, figlia unica di Innico Piccolomini, cedette la Baronia di Carapelle a Francesco I de’ Medici Granduca di Toscana, nel 1579. Queste terre apparterranno ai Medici fino al 1743. In questo periodo Santo Stefano raggiunge il massimo splendore come base operativa della Signoria di Firenze per il fiorente commercio della lana “carfagna”, qui prodotta e poi lavorata in Toscana e venduta in tutta Europa.
Oggi Santo Stefano ha poco più di cento abitanti. La torre medicea, caduta a causa del terremoto, è in ricostruzione. Ma il borgo è comunque molto bello e ben conservato. E nelle sue botteghe artigianali si portano avanti l’arte della lana e del tombolo aquilano. Il tombolo è un tipo di merletto molto raffinato, realizzato con filo di cotone molto sottile, che richiede molta abilità, esperienza e pazienza. Il tombolo è un cuscino che solitamente ha forma cilindrica su cui viene fissato, con degli spilli, il foglio con il disegno del merletto.
Resto per un po’ a guardare la signora che insegna la tecnica del tombolo ma poi, dato che comunque difficilmente lo rifarò a casa, preferisco fare un giro tra le scalinate e i vicoli del paese, non prima di aver comprato un sacchetto delle ottime lenticchie di qui. Inizia a piovere, ma è soltanto una pioggerella leggera che dura pochi minuti.
Nonostante il tempo, quasi tutto il gruppo decide comunque di provare a salire a Campo Imperatore. Siamo così vicini che vale la pena di fare un tentativo. In effetti, quando arriviamo a quota 2145, dove si trovano l’albergo e l’osservatorio di Campo Imperatore, c’è un vento gelido e le nuvole coprono completamente la cima del Corno Grande del Gran Sasso. Peccato, ma valeva la pena anche solo per percorrere la strada ammirando il magnifico paesaggio e i cavalli al pascolo.
L’albergo dove fu tenuto prigioniero Mussolini nel settembre 1943 è chiuso. Per ripararci non ci resta che ripiegare sulla vicina chiesetta. Salendo, Nello ci ha raccontato come nasce la leggenda, che circola da un po’, secondo cui Bruno Vespa sarebbe figlio del duce. Vespa è aquilano e sua madre, che si dice fosse molto bella, proprio in quel periodo lavorava come cameriera nell’albergo di Campo Imperatore. Ma Mussolini rimase a Campo Imperatore solo una quindicina di giorni, prima di essere “rocambolescamente” liberato dai paracadutisti tedeschi, forse con la collaborazione dei militari italiani, la cui reazione fu praticamente nulla, fatto che ha suscitato non pochi dubbi sulla ricostruzione storica dell’episodio, dubbi che si sono trascinati fino ad oggi. E le date non coincidono con quelle che potrebbero, ipoteticamente, portare alla nascita del nostro Brunone nazionale nove mesi dopo. Certo che, pensandoci, la somiglianza un po’ c’è, tanto che c’è chi dice che la data di nascita di Vespa sia stata alterata proprio per dissimulare l’identità del suo vero genitore… non lo sapremo mai, probabilmente.
Dato il freddo e le poche speranze che le nubi, come speravamo, si dissolvano o si spostino in tempo per concederci la vista del Corno Grande, ripartiamo e torniamo verso Fontecchio.
Nello ci racconta che alcuni danarosi americani hanno comprato casa a Fontecchio, ce ne aveva già parlato Alessio ieri sera. Ma l’altra curiosità è che un ricco americano che fa proprio Fontecchio di cognome, scoperto che in Italia esiste un paese con questo nome, ha deciso di organizzare qui una sorta di raduno di tutti quelli che si chiamano così… viene facile pensare a una prossima serie televisiva: dopo i Sopranos, i Fontecchios.
Tornati a casa, spiego ad Alessio il nostro piccolo contrattempo e gli chiedo se ha un’altra chiave. “Sì, certo” – ride – “Non è una chiave così sofisticata…”. Effettivamente, contavo proprio su questo. Così io e Mario possiamo rientrare in stanza senza buttare giù la porta.
Ceniamo al “Castello” di Fagnano alto, che offre una notevole varietà di specialità regionali. Io mi oriento su maltagliati tartufo e zucchine, seguiti da pollo allo zafferano. Tartufi e zafferano sono due delle più importanti eccellenze gastronomiche abruzzesi, non se ne può fare a meno.
E poi, l’altro asso nella manica del locale è la volpe quasi addomesticata che viene ogni sera a raccogliere qualche avanzo e che fa anche, ovviamente, da attrazione turistica.
A cena, stavolta, si discute prevalentemente di linguaggi, accenti e gerghi più o meno giovanili. Anche i toni sono più tranquilli rispetto a ieri sera, quando abbiamo rischiato di farci buttare fuori dal locale. Qui, a parte un mezzo incidente diplomatico per un commento sui tartufi poco gradito dal padrone del locale subito rientrato tra baci e abbracci, fila tutto liscio.
16 luglio 2017
Quarto giorno: nel quale salutiamo l’Abruzzo, terra di papi, pastori e resistenti
Facciamo colazione e poi, un po’ a malincuore, salutiamo Luisa e Alessio. La foto di gruppo la facciamo davanti all’ormai mitico apetto, non poteva essere altrimenti.
Abbiamo ancora una mezza giornata che possiamo sfruttare. Con una votazione democratica, abbiamo scelto cosa andare a vedere. Il programma prevede, prima di tutto, il santuario rupestre della Madonna d’Appari.
La costruzione si fa risalire al XIII secolo ad opera dagli abitanti di Paganica a seguito della presunta visione da parte di una donna del luogo — la pastorella Maddalena Chiaravalle, che si recava quotidianamente in questo luogo a pascolare le greggi — della Madonna Addolorata con in grembo il Cristo morto. In poco tempo, la popolazione del borgo costruì dapprima un’edicola votiva dedicata alla Madonna, quindi un tempietto addossato al massiccio roccioso.
Nel 1999 è stata sottoposta ad un primo restauro e poi, danneggiata dal terremoto del 2009, è stata nuovamente sottoposta a interventi restaurativi che hanno riguardato sia la parte strutturale che gli affreschi.
Il santuario è situato sul percorso che congiunge le due frazioni aquilane di Paganica e Camarda e, dunque, sulla strada che dall’Aquila sale verso il Gran Sasso, in una posizione suggestiva all’interno di una gola, stretto tra una parete rocciosa ed il corso del torrente Raiale, affluente dell’Aterno.
L’interno, a navata unica con volte a crociera, è interamente affrescato e riporta scene del vecchio e nuovo Testamento. Il presbiterio, probabilmente l’area più antica dell’edificio, si presenta ruotato rispetto all’asse della chiesa e di forma irregolare dovuta all’adiacenza con la parete rocciosa.
Ripartiamo e ci dirigiamo verso San Pietro della Ienca, uno dei tanti piccoli agglomerati che nel XIII secolo fondarono L’Aquila. Abbarbicato, a oltre 1000 m di quota, su uno sperone roccioso che sbarra la valle del Vasto con le sue casupole che fanno corona all’antica chiesetta e al fontanile pastorale, da molti anni era disabitato e utilizzato solo in estate come appoggio per le attività agricole e la pastorizia. Finché, nel 2011, la chiesetta è stata trasformata nel primo santuario dedicato a papa Wojtyla, San Giovanni Paolo II.
La storia ce la racconta Pasquale Corriere, presidente della locale associazione culturale, l’uomo che più d’ogni altro ha voluto la nascita di questo nuovo santuario che è in realtà un’antica chiesetta. Tutto nasce da una visita del papa in questo luogo, dove già altre volte si era recato a pregare in maniera privata senza che la notizia trapelasse. Ma quella volta, il 29 dicembre 1995, aveva qualcosa di speciale. Per quarantott’ore, dalla vigilia di Natale al 26 dicembre, il papa aveva tenuto col fiato sospeso il mondo intero per un improvviso malore che lo aveva costretto a rinunciare alla messa natalizia e alla benedizione urbi et orbi. Ma appena tre giorni dopo Karol Wojtyla trascorse un intero pomeriggio sul Gran Sasso, accompagnato dal segretario personale don Stanislao Dziwisz e da pochi intimi e protetto da un imponente apparato di sicurezza. Tre ore di passeggiata nei boschi e poi la visita all’eremo di San Pietro. Stando ad alcune testimonianze, la scorta avrebbe acceso un fuoco all’aria aperta per far scaldare il papa e i suoi collaboratori.
Quel giorno Pasquale Corriere era a San Pietro della Ienca e vide il papa. Da lì la predilezione di Wojtyla per questo luogo non fu più segreta e iniziò il percorso che avrebbe portato al restauro della chiesa, concluso nel 1997, e poi alla sua trasformazione in santuario. Il papa sarebbe poi tornato altre volte, anche quando stava già molto male per il morbo di Parkinson.
La passione di Pasquale per questa terra si vede, e altrettanto il suo orgoglio per aver realizzato questa che vede come una sua opera. Ma noi dobbiamo andare, abbiamo un altro omaggio da rendere, di tipo più laico: quello al partigiano ucciso al casale Cappelli, luogo simbolo della resistenza aquilana al nazifascismo.
È Nello, qui, a raccontare. Siamo nel maggio 1944. Il casale era un covo dei partigiani aquilani. Qualche giorno prima, ad Assergi, i partigiani avevano ucciso due tedeschi, quindi temevano una rappresaglia. Da qui, si mossero più a valle verso un altro casale mezzo diroccato dove passare la notte. Sei partigiani, scesi ad Assergi per fare rifornimenti, rimasero attardati e decisero invece di pernottare al casale Cappelli. I tedeschi, probabilmente a seguito di una spiata, li sorpresero, circondarono il casale e uccisero il partigiano che era di guardia, Giovanni Vicenzo, un ragazzo di 25 anni di Sebino, provincia di Campobasso. Che però, prima di morire, riuscì a dare l’allarme. I partigiani si asserragliarono dentro il casale e ci fu una battaglia, alla fine della quale vennero tutti arrestati e condannati a morte. Solo due però vennero uccisi, mentre gli altri riuscirono a scappare. Giovanni fu il primo partigiano morto sul Gran Sasso e la brigata prese il nome da lui. Nome però storpiato in Di Vincenzo, perché evidentemente i compagni non sapevano bene come si chiamasse e usarono un cognome più diffuso all’Aquila. Questa brigata diventò poi famosa nell’immaginario collettivo, tanto da far intitolare una importante via dell’Aquila a Giovanni Di Vincenzo, nome che non è mai stato corretto.
Ogni 25 aprile il casale è luogo di raduno dei partigiani aquilani, purtroppo ogni anno sempre meno, è ovvio, che fanno grigliate e ricordano quei giorni. Ma naturalmente, anche quando non ce ne saranno più, rimarrà un luogo simbolo per i loro eredi e per tutti quelli, speriamo tanti, che vorranno ricordarli.
Noi ci facciamo una passeggiata su uno dei sentieri che percorrevano in quei giorni, finché possiamo perché poi dobbiamo tornare per andare a pranzo. Ma sulla via del ritorno incrociamo una macchina guidata da un altro grande personaggio, Angelo Spagnoli detto Raspone, un pastore ultraottantenne nemico giurato, ci hanno raccontato Alessia e Nello, di Pasquale Corriere. Ci torna subito in mente una frase di Pasquale sulle persone invidiose che a suo dire non fanno niente per il loro paese e non tollerano che qualcun altro lo faccia, per cui lo criticano come uno che vuole mettersi in mostra. Non possiamo fare a meno di raccontare a Raspone che abbiamo appena conosciuto Pasquale e lui, subito, fa: “Chi? Quel delinquente?”, accusandolo di mentire sui suoi incontri col papa. Deve essere davvero un altro personaggio incredibile, sarebbe fantastico ascoltarlo per un po’ ma dobbiamo proprio andare.
Nel tornare all’Aquila passiamo da una Onna la cui distruzione fa ancora un po’ impressione, a più di otto anni dal terremoto, sebbene qui i MAP siano stati eretti a poca distanza dal paese vecchio e abbiano permesso alla popolazione di non allontanarsi dalle sue radici.
Ci concediamo un ultimo pranzo conviviale a base di spaghetti alla chitarra con ricotta, zafferano e pomodorini.
Dopo l’ultima abbuffata, andiamo a prendere il pullman per Roma, dove ciascuno di noi ha un treno da prendere, quasi tutti a orari diversi. Tranne Elena, che si fermerà ancora qualche giorno da Alessio a Fontecchio per poi proseguire per le Marche.
Salutiamo Alessia e Nello, con la promessa, che per me è praticamente una certezza, di tornare presto in Abruzzo. Per scoprire qualche altro luogo di questo territorio pieno di risorse e di ricchezze, ad esempio Sulmona, di cui si è tanto parlato in questi giorni e che tanto inorgoglisce la nostra Paola, Sulmona che ha dato tra l’altro i natali a Ovidio e che quindi è un po’ caput mundi. E per conoscere la piccola di Alessia e Nello (nel frattempo abbiamo scoperto che al 99% è una femminuccia!).
E sono convinto che, fino ad allora, l’Abruzzo continuerà a resistere.
Grazie a ViaggieMiraggi, a Radio Popolare, a tutte le persone meravigliose che abbiamo conosciuto e che hanno contribuito alla riuscita del viaggio, e in particolare ad Alessia e Nello che ne sono stati i principali artefici.
Ciao, Piero. Che bello il tuo diario di viaggio: rende fedelmente luoghi, storie, sensazioni e esperienze condivise! E aggiunge anche il tuo punto di vista, che ha arricchito i miei ricordi 🙂
Che dire: mando da qui un affettuoso saluto a te, alle nostre guide e a tutti i compagni di viaggio, magari dandovi/ci appuntamento, come hai scritto anche tu in conclusione, a Sulmona e dintorni! Intanto buono prossimi Viaggi&Miraggi!
Paola
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Grazie Paola, troppo gentile. 😊 sì, spero proprio di rivedervi presto, te e gli altri compagni di viaggio. Buon proseguimento di estate.
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