Un viaggio in Palestina con Radio Popolare e la ONG Vento di Terra, organizzato da ViaggieMiraggi. Attraverso città, villaggi, campi profughi, paesaggi desertici aspri e affascinanti. Un patrimonio naturale, artistico e culturale dalle radici millenarie, e gli incontri con le comunità che quotidianamente vivono l’ingiustizia dell’occupazione eppure con grande dignità proseguono il loro cammino grazie ai progetti di cooperazione internazionale. Attraversando infiniti checkpoint e guardando l’orrenda fila di blocchi di cemento sormontati da filo spinato che corre ovunque, anche nel cuore della città santa a tre religioni, ci siamo chiesti: Qual è davvero il muro del pianto?

Sabato 21/10/2017 – Tensione a Hebron, Dabka, Shisha e Tequila

Prendi nota
sono arabo
mi chiamo arabo, non ho altro nome
sto fermo dove ogni altra cosa
trema di rabbia
ho messo radici qui
prima ancora degli ulivi e dei cedri
(Mahmoud Darwish – Carta d’Identità)

Oggi partiamo per Hebron, che sarà la meta principale della giornata. E stasera dormiremo a Betlemme, quindi dobbiamo fare i bagagli e caricarli sul pullmino, impresa che si rivela davvero non semplice. Questo, al contrario di quello che avevamo usato per venire dall’aeroporto, ha poco spazio di bagagliaio, e noi abbiamo in più Michele, il suo zaino, il materiale per le scuole, che abbiamo separato, e un sacco di mappe che abbiamo preso all’OCHA arrotolate.
Siamo costretti a utilizzare l’ultima fila di sedili per i bagagli. Dietro ci sono anche Michele e Luigi con delle valigie in equilibrio precario che potrebbero cadergli in testa alla prima curva, ma bene o male ci mettiamo in marcia.
I checkpoint per passare dalle zone palestinesi a quelle sotto controllo israeliano e viceversa sono diventati ormai un’abitudine, per noi. A volte un soldato sale sul pullmino e chiede i passaporti, tutti o solo qualcuno, non si capisce in base a quale criterio; altre volte invece va liscia. Quelli che stanno ai checkpoint sono tutti soldati molto giovani, 18-19 anni. Non deve essere facile neanche per loro.
Oggi, qui a Hebron, troveremo la situazione forse più pesante da questo punto di vista: ci sono checkpoint molto “duri” nel pieno centro della città vecchia, che è divisa in due. Tutta la città, che ha circa 200.000 abitanti, è divisa tra la zona denominata H1, che è sotto controllo palestinese, e la zona H2, che è sotto stretto controllo militare israeliano perché ci vivono i coloni più estremisti di tutti i territori occupati, protetti da battaglioni di soldati appostati sui tetti. Dovremo attraversare questi checkpoint a piedi.
Ma prima di entrare nella città vecchia, incontriamo Giulia e ci facciamo spiegare un po’ meglio da lei, mentre sorseggiamo un succo di tamarindo che abbiamo comprato da un venditore ambulante che lo spaccia spillandolo da una botticella metallica di quelle che di solito vengono utilizzate per il tè o per il caffè.
Il nome della città, sia in ebraico (Hebron) che in arabo (al-Khalīl), significa letteralmente “amico”; è riferito al patriarca Abramo, ma suona veramente stridente rispetto a quello che è oggi questa città. Ancor di più se si pensa che entrambi i popoli che se la contendono dovrebbero discendere dal patriarca. Ai 200.000 abitanti palestinesi sono da aggiungere i 600-700 ebrei che vivono nell’antico quartiere ebraico della città vecchia, e i circa 7.000 ebrei della contigua Kiryat Arba.
Nel 2017 la città vecchia di Hebron/Al-Khalil è stata inserita nella lista dei patrimoni dell’umanità dall’UNESCO.
I riscontri archeologici pongono la data di fondazione dell’insediamento alla metà del IV millennio a.C. e Hebron è più volte menzionata nell’Antico Testamento. Secondo quanto dice il Pentateuco, dopo l’insediamento degli ebrei con il Patriarca Abramo, la città divenne il principale centro della Tribù di Giuda; lo stesso Davide venne incoronato re d’Israele a Hebron, che fu la sua prima capitale. Solo dopo la conquista di Gerusalemme lasciò Hebron e si trasferì nella nuova capitale.
Una grotta situata nella parte bassa di Hebron è detta la “Tomba dei Patriarchi”. È il luogo in cui secondo la Bibbia sono sepolti Abramo, Sara, Isacco, Rebecca e Lia.
Nel dicembre 1917, Hebron fu occupata dalle truppe britanniche. Nell’agosto del 1929, si verificò il primo dei due eventi tragici che maggiormente ne hanno segnato la storia nel ‘900. Durante una serie di moti in Palestina tra i coloni ebraici e la popolazione araba preesistente, l’Haganah, un’organizzazione paramilitare ebraica, offrì la propria protezione alla comunità ebraica di Hebron (circa 600 persone su un totale di 17.000 abitanti), che la rifiutò contando sui buoni rapporti che si erano instaurati da tempo con la popolazione araba e i suoi rappresentanti. Ma il 24 agosto furono uccisi 67 ebrei (la metà del totale dei caduti ebraici morti durante la rivolta), alcuni dopo violenze carnali e torture, e 135 furono feriti (episodio passato alla storia come il massacro di Hebron del 1929). Secondo alcune testimonianze, sebbene questo non ne attenui la gravità, il massacro fu scatenato da una serie di aperte provocazioni dei coloni. Molto interessante, in questo senso, quello che dice il rabbino Boruch Kaplan, che in quei giorni c’era. Il nostro Michele ha scovato un suo scritto e lo ha inserito in un post sul suo blog, che anche in questo caso vi consiglio vivamente:

Hebron città occupata

La popolazione ebraica fu spostata a Gerusalemme al termine degli scontri; alcune famiglie torneranno a Hebron due anni dopo, per poi lasciarla definitivamente nel 1936, evacuate dalle forze britanniche.
Dopo la guerra dei sei giorni, un gruppo di ebrei che si fingevano turisti, guidato dal rabbino Moshe Levinger, occupò il principale hotel di Hebron e in seguito una base militare abbandonata, fondando l’insediamento di Kiryat Arba.
Il processo di espansione della presenza ebraica a Hebron è proseguito negli anni; nel 2005 si contavano più di 20 insediamenti in città e nei dintorni. Gli ebrei che vivono in queste aree affermano di essersi reinsediati in terre tradizionalmente ebraiche, e in edifici appartenenti da secoli alla comunità ebraica. Gli ebrei presenti a Hebron, soprattutto nella città vecchia, sono coloni ultra-ortodossi che vivono in una situazione di enorme e permanente contrasto con la popolazione palestinese. Ma questo ce lo racconterà meglio la nostra guida d’eccezione, Issa Amro, un attivista palestinese fondatore del movimento “Giovani contro gli insediamenti”. Il suo attivismo è totalmente basato sulla resistenza pacifica e non violenta. Tuttavia, o forse proprio per questo, è stato arrestato varie volte. Sulla sua testa pendono 18 capi d’imputazione da parte della giustizia israeliana, ma dà talmente fastidio che l’ultima volta, il 2 settembre scorso, è stato arrestato anche dall’Autorità Palestinese per aver denunciato su Facebook l’arresto di un giornalista.

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Questo è Issa: “Palestinians should be free”, c’è scritto sulla sua maglietta

Issa ci racconta, tra le prime cose, che non più di una settimana fa è stato annunciato l’insediamento di 30 nuove unità abitative nella città vecchia, al posto di una struttura militare. Dice che è lo schema classico: i soldati se ne vanno e i coloni prendono il loro posto, sempre naturalmente sotto protezione militare.
Poi ci racconta quello che è successo a partire dal 1994 in Shuhada Street, la strada principale della vecchia Hebron, che vedremo appena passato il checkpoint che è qui davanti a noi.
Il 25 febbraio  1994 è la seconda data che ha segnato profondamente la storia recente di Hebron.
Quel giorno Baruch Goldstein, un membro d’origine statunitense della Lega di Difesa Ebraica, residente a Kiryat Arba, medico ed ex ufficiale dell’esercito, penetrò nella moschea di Abramo in uniforme, evitando quindi i superficiali controlli militari predisposti, e trucidò a colpi di fucile mitragliatore 29 musulmani in preghiera, causando l’esasperata reazione dei sopravvissuti, che lo linciarono, e della popolazione palestinese. Nelle successive rivolte in tutti i territori occupati, vennero uccisi altri 125 palestinesi. L’atto sarebbe stato compiuto, secondo alcune fonti, per vendicare l’uccisione di una bambina israeliana ma in realtà in piena coerenza con l’ideologia della Lega di Difesa Ebraica, che dichiarò sul suo sito web: “Non abbiamo vergogna di dire che Goldstein fu membro fondatore dell’organizzazione”.
Dopo il massacro, la città nel 1997 venne divisa in due settori: Hebron 2 (circa il 20% della città), sotto controllo dell’esercito israeliano, e Hebron 1, affidata al controllo dell’Autorità Palestinese, in accordo con il cosiddetto Protocollo di Hebron. In accordo con il protocollo sia i Palestinesi sia gli Israeliani hanno accettato una presenza internazionale, denominata T.I.P.H. (Temporary International Presence in Hebron), con compiti di osservazione, al fine di migliorare la situazione nella città.
Ad oggi, per i civili israeliani è legale accedere al 4% del territorio della città di Hebron, mentre i palestinesi sono sottoposti ad uno stretto regime di permessi e controlli per accedere a servizi e abitazioni rimaste nella zona sotto controllo israeliano. Per proteggere qualche centinaio di coloni, è stato messo in piedi un sistema che rende la vita quasi impossibile a tutto il resto della popolazione di una città di 200.000 abitanti.
Shuhada Street, la via dei martiri, che per gli israeliani è King David Street, è oggi in gran parte una strada fantasma, come anche molte altre parti della città vecchia. Niente più negozi, o mercati. 1000 appartamenti vuoti e abbandonati. 1800 negozi chiusi. 100 barriere mobili che chiudono le strade e 23 checkpoint. Diverse strade sono vietate alla popolazione palestinese.

Ieri Peace Now, un’organizzazione pacifista israeliana, ha organizzato una manifestazione davanti a una casa palestinese occupata per chiedere al governo di evacuare i coloni che sono lì in violazione della legge israeliana. Naturalmente i coloni hanno costantemente molestato gli attivisti e fatto tutto il possibile per disturbare la manifestazione. Issa, che era lì solo per parlare, è stato arrestato e detenuto per alcune ore, dopo di che l’area è stata dichiarata zona militare chiusa in modo da poter mandare via i manifestanti. Tutto ciò contro la stessa legge israeliana. “Qui ci sono due leggi” – ironizza Issa: “Una per loro e una contro di noi.”

Passiamo attraverso i tornelli del checkpoint e il metal detector, passaporti alla mano e non senza una certa tensione che aleggia nell’aria. Forse ingiustificata, perché noi non rischiamo niente. Issa un po’ di più; le guardie lo conoscono bene, ma potrebbero sempre decidere arbitrariamente di non farlo passare. Ma comunque, come si fa a non sentire anche sulla propria pelle il peso della cappa di odio e incomunicabilità che pervade questo posto?

Dall’altra parte, H2. Bandiere israeliane, murales che raccontano la storia di Hebron dal punto di vista dei coloni: la città dei patriarchi e di Davide, una comunità pia e devota. La distruzione del 1929 e la rinascita del 1967.

E, ciò che colpisce di più, stelle di David dipinte con la vernice spray sulle porte. Una folle ripetizione, chissà quanto consapevole, del modo in cui i nazisti segnavano case e negozi ebraici con quello che per loro era un marchio d’infamia. Cosa possa portare centinaia di persone a rinchiudersi volontariamente e convintamente in quello che è pur sempre un ghetto, per quanto protetto possa essere, ci risulta davvero difficile da comprendere. Nell’area H2, insieme ai 600 coloni, vivono ancora 40.000 palestinesi, soggetti a grandi restrizioni nell’accesso ai servizi essenziali: scuola, pronto soccorso, rifornimenti di acqua. Diverse migliaia se ne sono andati.

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Issa ci parla di Hadeel al-Hashlamoun, una ragazza di 18 anni che nel 2015 è stata uccisa dai soldati al checkpoint con 15 colpi, in quella che Amnesty International ha definito un’esecuzione extragiudiziale. Secondo il racconto di Issa, l’incidente nacque da un fraintendimento e dal nervosismo della ragazza mentre le venivano urlati ordini in ebraico che lei non capiva.

E poi di Abdel Fattah al-Sharif, un altro ventenne palestinese che nel 2016 è stato ucciso con due colpi alla testa da distanza ravvicinata mentre era a terra, ferito e disarmato, dopo che due colpi gli erano già stati sparati mentre tentava di accoltellare un soldato.

Nel frattempo si sono avvicinate due colone israeliane, due signore di circa 50-60 anni, con il capo coperto per nascondere i capelli. Si, perché non l’abbiamo ancora detto ma anche le ebree ortodosse si coprono, o a volte si rasano, i capelli, perché sono considerati un attributo sessuale. E quindi nessuno deve vederli, per i più estremisti neanche il marito, perché nella coppia la sessualità deve essere finalizzata solo alla riproduzione, e non al piacere. Per un po’ hanno seguito in silenzio quello che Issa sta dicendo in inglese. Ora una delle due decide di intervenire, e lo fa in modo verbalmente molto aggressivo. Sostiene che Issa mente, e lo accusa di appoggiare il terrorismo. A proposito di quest’ultimo episodio del ragazzo ucciso mentre era a terra, dice che il soldato ha fatto solo il suo dovere, impedendo al terrorista di nuocere e salvando altre vite. “E perché ora è in prigione?” – la incalza Issa. “Questo è ingiusto. Quel soldato è un eroe.” Ribatte lei convinta. Aggiunge che Issa non può dire che il checkpoint è qualcosa di sbagliato, perché è lì per proteggere le loro vite dai continui attacchi dei terroristi arabi. E lui non sta dicendo che il male è il terrorismo. Issa ribadisce più volte: “La violenza è male. Il terrorismo è male. Mi ascolta? Glielo sto dicendo.” Ma lei insiste che quel checkpoint non è lì per l’occupazione, ma per “Your terrible terror”.
“Quando è stato aperto il checkpoint?” – chiede Issa. E la colona afferma sicura che è stato dopo l’uccisione di suo padre, il rabbino Shlomo Ra’aman, barbaramente pugnalato nella sua casa da un palestinese nel 1998. L’episodio è vero, ho scoperto poi, ed effettivamente ci sono stati negli anni numerosi attacchi di questo tipo, anche se lei ne ingigantisce il numero parlando di 50 accoltellamenti. Peccato, però, che lei stessa colloca il fatto, correttamente, nel 1998, e i checkpoint sono stati istituiti prima, con il protocollo di Hebron nel 1997 a seguito del massacro di Goldstein del 1994. Quindi è lei che mente sapendo di mentire, e questo fa capire molte cose. E “dimentica” di citare tutti gli altri, innumerevoli, episodi di violenza gratuita commessi dai coloni contro i palestinesi. La violenza c’è stata da ambo le parti, la lista purtroppo è lunghissima. Posso comprendere umanamente il rancore che prova, ma questo non la autorizza ad accusare Issa, che non ha niente a che vedere con i terroristi e che, anche se suo padre è stato ucciso dai soldati israeliani, vuole la pace. Come non la autorizza a dire, come fa, che se noi crediamo alle menzogne di Issa siamo antisemiti. Questo non posso tenermelo. “Noi non siamo antisemiti, signora. Nessuno di noi” le rispondo, ma naturalmente non mi ascolta.
Continua a contestare Issa anche sull’episodio della ragazza. Sostiene che aveva un coltello, che è stato trovato. Di questa storia esistono due versioni, come quasi sempre. L’esercito israeliano, chiaramente, ha dovuto giustificare l’incidente e lo ha fatto mostrando la foto di un coltello e asserendo che questo aveva fatto suonare il metal detector e che la ragazza lo stava per usare. Ma questa ricostruzione è totalmente falsa per i testimoni palestinesi ed evidentemente anche per Amnesty.
A questo punto Issa chiede: “Questa è Palestina o Israele?”. E lei risponde, senza che il minimo dubbio la sfiori: “Questo è Israele”. “E allora dov’è la Palestina?” – chiede Issa. “So Palestine doesn’t exist for you” aggiungo io.
Ma è chiaro che non esiste per lei. Per lei non esiste l’occupazione, non esistono gli accordi di Oslo, non esiste il diritto internazionale, non esiste nulla se non il suo fanatismo e il presunto diritto divino di stare qui perché questa è la terra che Dio ha dato al popolo eletto, e Hebron è la città di Davide e dei patriarchi. Per lei Palestina è solo il nome che i romani hanno dato a un territorio, di fatto nega addirittura l’esistenza di un popolo palestinese, come del resto fanno tutti i coloni estremisti. È inutile continuare a discutere con lei, la salutiamo e ce ne andiamo. Ma abbiamo avuto davvero un esempio che più chiaro non si può di chi rende la convivenza impossibile, qui. La convivenza che è stata possibilissima fino al 1929. E di come la religione viene usata come un’arma di sopraffazione e come uno schermo dietro il quale nascondere le proprie azioni, accusando tutto il resto del mondo di antisemitismo.
In tutto questo i soldati, armati di fucili mitragliatori, per tutto il tempo ci hanno osservato da non troppo distante, e questo non ci rasserena più di tanto.
Una soldatessa di origine etiope (migliaia di ebrei etiopi furono portati in Israele negli anni ’80) sembra dire “Cosa ci faccio qui?”

Mentre ci allontaniamo, qualcuno del gruppo mi chiede di tradurre, almeno in sintesi, il contenuto della discussione. È successo tutto in inglese e abbastanza rapidamente, non tutti hanno capito. Dalle facce che vedo intorno a me, parecchi sembrano un po’ scossi.

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Andando verso le tombe dei patriarchi, incrociamo qualche altro gruppetto di stranieri (a noi si aggregano per un po’ tre ragazzi tedeschi). C’è anche una troupe della BBC, che sta girando un servizio o un documentario. Il giornalista ci tiene a farci sapere che è londinese, ma tifa Manchester United. Qualcuno di noi probabilmente è finito nelle sue immagini, ma al momento non sappiamo se e quando il tutto andrà in onda.

Serena ci racconta di una lettera di Freud, non esattamente un ebreo qualunque, nella quale lui critica apertamente il sionismo e indirettamente l’amministrazione del mandato britannico per la scelta di prospettare la fondazione di uno stato ebraico in Palestina. E, grazie alla velocità di Michele nel cercare sul cellulare e al fatto che è l’unico qui ad avere una SIM israeliana, può anche leggerla.

La lettera è datata 26 febbraio 1930 e indirizzata a Chaim Koffler, membro del Keren Hajessod, che gli aveva chiesto di sostenere pubblicamente il diritto degli ebrei di pregare davanti al Muro del Pianto a Gerusalemme:

«Non posso fare quello che Lei desidera. Non sono capace di vincere la mia avversione ad annoiare con il mio nome e proprio la situazione critica attuale non mi sembra giustificarlo. Chiunque voglia influenzare le masse deve dar loro qualcosa di eccitante e di infiammante e il mio sobrio giudizio sul sionismo non me lo permette.

Certamente io simpatizzo con i suoi fini, sono fiero della nostra università in Gerusalemme, e sono lieto per il prosperare dei nostri insediamenti. Ma, d’altra parte, io non penso che la Palestina potrà mai diventare uno stato ebraico e che il mondo cristiano e il mondo islamico potranno mai essere disposti ad avere i loro luoghi sacri sotto il controllo ebraico. Mi sarebbe parso più sensato fondare una patria ebraica in una terra meno gravata dalla storia. Ma so che un punto di vista così razionale non avrebbe mai ottenuto l’entusiasmo delle masse e il supporto finanziario dei ricchi. Riconosco con tristezza che è in parte da imputare al fanatismo irrealistico del nostro popolo il risveglio della diffidenza araba. Non ho alcuna simpatia per la pietà mal diretta che trasforma un pezzo del muro di Erode in una reliquia nazionale che offende i sentimenti delle popolazioni locali. Giudichi ora lei stesso, se con un simile atteggiamento critico io sia la persona giusta per confortare un popolo illuso da una speranza ingiustificata.»

Per arrivare al complesso delle tombe dei patriarchi, ora dobbiamo passare un altro checkpoint per uscire da H2 e rientrare in H1, dato che noi entreremo dal lato arabo, cioè dalla moschea di Abramo, proprio quella del massacro. Ora la moschea è anch’essa divisa da un muro interno, dall’altro lato è una sinagoga. Da entrambi i lati ci si può affacciare sulla fossa dove si dice si trovino le tombe, ma gli accessi sono separati. Se anche volessimo entrare dal lato ebraico, oggi non potremmo farlo perché è Shabbat. Issa ha dovuto fare un lungo giro per arrivare fin qui, perché lui in Shuhada Street non può camminare.

Appena passato quest’altro checkpoint, un altro piccolo incidente che ci fa comunque una certa impressione. Dei ragazzini palestinesi stanno litigando, e uno di loro cadendo a terra lascia cadere una bottiglia di vetro che rotolando va ad infrangersi contro il muro del checkpoint. I ragazzini sono molto agitati, urlano e continuano a picchiarsi. Issa e Mohammed, il suo amico e compagno di lotta non violenta, intervengono per dividerli. Dopo un po’ i ragazzi si calmano, ma a noi resta la percezione che la tensione che si è creata in quest’area, anche e forse soprattutto tra i più giovani, sia tale che basta pochissimo per far sì che la rabbia repressa esploda e non possa essere facilmente incanalata in gesti non violenti. Il lavoro che fa il gruppo di Issa è davvero importantissimo.

Anche nella violenza, comunque, c’è una certa sproporzione. Dall’inizio del 2012, circa 700 palestinesi sono stati feriti dai soldati israeliani o dai coloni, mentre 44 israeliani sono stati feriti da palestinesi.

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Entriamo nella moschea, dove le donne devono bardarsi con dei lunghi mantelli grigio-azzurrini dotati di cappuccio.

Fu Erode il grande a costruire la struttura sopra le grotte. Questo, quindi, è ritenuto il luogo di culto usato continuativamente più antico del mondo: qui si prega da più di 2000 anni. La struttura era priva di tetto fino al periodo bizantino, nel quale venne costruita una semplice basilica.

Nel periodo arabo, nel 637, fu costruita la moschea con il tetto.

Nel 1100, dopo che l’area era stata catturata dai crociati, l’edificio tornò ad essere una chiesa e fu vietato l’ingresso ai musulmani.

Nel 1188 Saladino la riconvertì in moschea, consentendo però che i cristiani continuassero ad entrare, e aggiunse i minareti. La moschea fu poi ampliata nel 1300, durante il periodo mamelucco, e restaurata durante il periodo ottomano.

Sostiamo per un po’ nella sala della preghiera. Della fossa dove dovrebbero trovarsi le tombe, non si vede molto. Bisogna più che altro immaginare, farsi trasportare dalla potenza dei simboli. Difficile però non pensare che il simbolo più forte è proprio quella parete divisoria, dall’aspetto anche piuttosto brutto, che taglia in due la moschea-sinagoga.

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Usciamo e ci dirigiamo verso il souq, dove il tour continua con qualche fuori programma tipo un signore che sulla porta di un negozio intona un canto da muezzin con una voce potentissima. Anche qui i vicoli del souq sono protetti con reti metalliche contro i lanci dei coloni, che però rispondono lanciando sostanze liquide che possono passare attraverso la rete. Quando va bene acqua, come abbiamo visto noi, in genere acqua sporca, ma a volte anche altre sostanze organiche poco piacevoli. L’acqua possono permettersi anche di sprecarla, visto che ne hanno a disposizione dieci volte di più degli abitanti palestinesi.
Anche questo fa parte dell’apartheid che si vive in questa città, dice Issa, che si ferma di proposito a parlare davanti a un cancello orlato di filo spinato dietro il quale c’è un presidio di soldati. Passa sì e no un minuto e il cancello si apre; i soldati armati si affacciano a vedere cosa succede. Issa resta calmo e chiede anche a noi di mantenere la calma: non possono farci niente, non stiamo facendo nulla di illegale. Sarà, ma preferiamo allontanarci a scanso di equivoci.
Lui non perde proprio la calma, anzi è in vena di battute. Se i coloni hanno diritto a stare qui per la storia, dice, allora perché non considerare anche che Hebron è stata lungamente dominata dai romani? E allora anche voi italiani potreste venire qui e dire: Questa è la nostra terra! Potremmo farci un pensierino ma… no, grazie. La situazione è già abbastanza incasinata così.
In chiusura del tour, Issa ci saluta e ci ringrazia ribadendo che il suo intento non è di generare odio, ma solo di far conoscere il più possibile quello che è diventata la vita qui. Perché, dice, Israele non avrebbe potuto mantenere questo stato di cose così a lungo se all’estero non avessero fatto finta di non vedere. E voi siete responsabili di quello che avete visto, dovete esserne testimoni nel vostro paese. Che è poi il motivo per cui mi sono dilungato tanto su questo argomento, per fare nel mio piccolissimo qualcosa. Spero che mi perdonerete.
Per chi vuole approfondire, qui potete trovare la scheda di Issa su Wikipedia e la sua pagina Facebook.

Issa Amro – Wikipedia

Issa Amro – Facebook

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E qui c’è un bel documentario del 2010:

Hebron – This is my land

C’è tempo per qualche acquisto, in particolare presso una cooperativa di donne che lavora con Vento di Terra, e poi siamo attesi per il pranzo a casa della signora Laila di Women in Hebron, che ci accoglie con tutti gli onori e con una cerimonia molto scenica con la quale il piatto principale viene “scodellato” per la gioia dei fotografi. Si tratta di un piatto chiamato Makloube, cioè appunto “la rovesciata”. È a base di riso, agnello e verdure, ed è accompagnato poi da salsa allo yogurt e insalata. Tra le verdure pomodori, patate, cavolfiori e melanzane.

Laila, gentilmente, si informa: vuole sapere se ci piace. “Hamdulillah!” – rispondo – che letteralmente significa “Dio sia lodato”, ma in arabo si usa in tantissime situazioni, quando si vuole esprimere felicità, soddisfazione, apprezzamento per qualcosa di bello e gratitudine per chi ti sta trattando bene.

C’è tanta altra roba, a dire il vero. Tutti i piatti sono gustosi, come sanno essere i piatti della cucina casalinga, e il clima conviviale è molto piacevole. Ci sentiamo veramente a casa. Per questo ci dispiace ancora di più, se possibile, scoprire che proprio ieri il figlio di Laila è stato arrestato mentre andava a lavorare clandestinamente in Israele. Come sempre accade in questi casi, non ha ancora potuto parlare con la sua famiglia, né presumibilmente con un avvocato. E non è dato sapere quanto potrà restare in carcere senza processo. Noi, purtroppo, non possiamo fare altro che esprimere solidarietà.

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Passeggiando nel souq torniamo verso il pullmino, che ci porta a Betlemme. Ci sistemiamo nel nuovo hotel, che si chiama Holy Land Hotel, facciamo una doccia veloce e ci prepariamo per l’appuntamento del tardo pomeriggio, che è quello con uno spettacolo della compagnia di danze tradizionali palestinesi El Funoun.
Per assistere allo spettacolo dobbiamo spostarci all’Università di Gerusalemme, dove la compagnia si esibisce in un teatro all’aperto. Fa un freddo inaspettato, rispetto a quello che abbiamo avuto le altre sere; c’è sempre una certa escursione termica tra il giorno e la sera, ma stasera si sente particolarmente, anche perché c’è un vento piuttosto forte. Non tutti siamo venuti abbastanza attrezzati, anche perché non sapevamo che sarebbe stato all’aperto. Io posso comunque cedere la mia seconda felpa, con una ce la faccio; ma sono un po’ rammaricato di non aver portato la mia kofiyah nuova, con cui mi sarei potuto riparare la gola. In realtà, però, sui gradini del teatro il vento si sente meno e si sta tutto sommato bene.
Lo spettacolo inizia con una lunga serie di discorsi di saluto e ringraziamenti da parte delle autorità, che naturalmente non capiamo. Tranne quando, a un certo punto, è chiaro che la personalità di turno, forse il rettore, fa riferimento all’Italia! Ci guardiamo e guardiamo Serena e Giulia, in cerca di spiegazioni. Viene fuori che Giulia ha comunicato all’organizzazione che saremmo stati presenti e così… ci stanno ringraziando! Clamoroso.
Finalmente inizia lo spettacolo. La danza tradizionale palestinese si chiama Dabka, e questa compagnia è la migliore su piazza, di tanto in tanto si esibisce anche all’estero. In effetti lo spettacolo è piacevole, bei costumi, belle coreografie e giochi di luci. Molti dei numeri di danza sono chiaramente ispirati a momenti della vita contadina, dalla semina al raccolto, al ritmo delle stagioni e così via, o alla pastorizia. Solo alcuni sono più guerreschi, con spade e acrobazie. Un piccolo assaggio:

Ci accorgiamo, a spettacolo già iniziato, che intorno a noi, sul lato destro del teatro, ci sono solo donne o famiglie con bambini. I ragazzi e i giovani uomini stanno dall’altra parte, sul lato sinistro, e naturalmente fanno molto più casino: si alzano, ballano, urlano, mentre le ragazze vicino a noi sono decisamente più tranquille. Giulia ci spiega che per spettacoli di questo tipo è abbastanza normale che ragazzi e ragazze stiano in settori separati. In mezzo c’è proprio una specie di cordone di sicurezza, fatto da uomini del servizio d’ordine, che quando qualche ragazzo prova a passare di qua lo prendono e lo ributtano di là senza tanti complimenti.
A un certo punto si scatena un parapiglia apparentemente senza motivo. Quasi tutti i ragazzi corrono verso l’alto delle gradinate, come se volessero scappare verso l’uscita. Il loro settore quasi si svuota per qualche minuto, poi lentamente tornano indietro. Anche questo ci dicono che è normale, i ragazzi possono facilmente diventare un po’ sovraeccitati e allora si scatenano delle mini-risse che raramente degenerano, ma provocano sempre grandi movimenti di folla.
Finito lo spettacolo, anche noi sciamiamo lentamente verso l’uscita. Poiché il nostro autista per oggi ha finito di lavorare, dobbiamo trovare un altro minibus per tornare a Betlemme. E Michele rimarrà con noi anche stasera, perché l’autista nella fretta si è portato via il suo zaino… ma questa per noi è senz’altro una buona cosa. Dobbiamo trovargli un posto per dormire, ma nella camera di Claudio c’è un letto libero. Per fortuna Serena e Giulia riescono a trovare un trasporto in un tempo ragionevolmente breve, così possiamo dirigerci verso un istituto religioso cristiano, dove ci aspettano per la cena.
Mangiamo in una specie di refettorio, in un clima un po’ ovattato, ma forse è quello che ci voleva dopo una giornata lunga e un po’ stressante, sul piano emotivo. La cena comunque è abbondante.
Non mi dilungo troppo sulla cena perché lo spazio a disposizione non è infinito e neanche la vostra pazienza, presumo; perciò, preferirei concentrarmi sul dopocena. Sì, perché è la sera della promessa di Giulia e così un piccolo drappello da lei guidato e composto anche da Claudio, Michele, Elena, Patrizia e da me decide di recarsi al Nativity Hotel, dove presta la sua opera un barman amico e pusher di tequila della nostra Giulia. Gli altri, che preferiscono raggiungere al più presto le braccia di Morfeo, tornano all’hotel e lì si fermano.
Noi, invece, partiamo in sei sulla macchina di Giulia, con Claudio seduto davanti accanto a lei e Michele, che è il più leggero, sulle sue ginocchia. Il viaggio per fortuna è breve e, arrivati al Nativity, saliamo nel salone bar al primo piano, dove c’è ancora qualche cliente ma data l’ora in parecchi sono già andati via o se ne stanno andando. Meglio, è quasi tutto per noi. Notiamo subito uno strano personaggio vestito da prete ortodosso dietro il bancone del bar. Sarebbe fantastico se fosse il barista, ma in realtà è solo un avventore molto… abituale che è in confidenza con il barista stesso. Non è il barista, ma è comunque un gran personaggio, scopriremo presto.
Infatti, dopo il primo giro di tequila di riscaldamento, visto il nostro evidente interesse si siede con noi e ci allunga il biglietto da visita: Rev. Fr. Boulus Khano – St. Mark’s Monastery – Old City – Jerusalem.
Cosa voglia dire quel Fr. non l’abbiamo mai capito, ma l’ipotesi più accreditata è che sia l’abbreviazione di Father. Fatto sta che, benché dal look possa sembrare un prete armeno, soprattutto dal copricapo, ho scoperto poi che appartiene alla Chiesa ortodossa siriaca. La Chiesa ortodossa siriaca è una Chiesa ortodossa autocefala originaria del Vicino Oriente, ma con fedeli sparsi in tutto il mondo. È una delle Chiese ortodosse orientali. Nel mondo i fedeli di questa Chiesa sono circa due milioni.
I siro-ortodossi sono tuttora monofisiti, cioè credono in un Cristo solo apparentemente uomo, la cui natura è totalmente divina; pertanto non riconoscono i decreti del concilio di Calcedonia, il IV concilio ecumenico della cristianità (451). La Chiesa ortodossa siriaca utilizza come lingua liturgica il siriaco, un idioma appartenente al gruppo dell’aramaico. A capo della Chiesa è il Patriarca siro-ortodosso di Antiochia, con sede a Damasco.
Ebbene, il nostro, oltre ad essere piuttosto giovane e dotato di un certo fascino, non è solo un prete. In un ottimo inglese, si presenta subito come cantautore in lingua aramaica, che mastica per questioni liturgiche. Sostiene di aver scritto più di duemila canzoni. A richiesta (ma non si fa certo pregare), ce ne accenna una a cappella. Diciamo che non è esattamente hard rock come ritmo, ma ha sicuramente un suono evocativo, ed è molto alternative. Ci fa vedere anche un video, fatto con una certa professionalità, sembrerebbe. Be’, fa un genere veramente di nicchia. Quante persone ci saranno che parlano correntemente aramaico nel mondo? Secondo Wikipedia 445.000, credevo meno. Ma comunque cantautori in aramaico penso pochini, è facile che sia uno dei migliori tre, ammesso che ce ne siano altri due.
Nasce l’idea di fargli fare un jingle per la radio, Claudio è specialista in queste cose. Stanno già decidendo di cercare un posto un po’ più tranquillo nell’hotel per registrarlo, ma poi viene fuori che Father Boulus potrebbe essere disponibile anche per una serata. Però, dato che fa anche l’accompagnatore turistico e che parte domani con un gruppo, non potrà essere disponibile prima di martedì, che sarebbe la nostra ultima sera. Per noi va bene, ci mettiamo d’accordo così e ci salutiamo.
La serata va avanti, tra un bicchiere di tequila e una fumatina di Shisha. Sì, perché dopo il primo giro, sempre grazie ai buoni uffici di Giulia, è comparso un Arghilè e allora… non ci tiriamo indietro. Tutta roba legale, ci tengo a precisare.
Ora, non scendo in dettagli sul numero di giri di tequila bevuti ritualmente, tutti d’un fiato con sale e limone, sul chi, sul quanto e sul come. E neanche sul tenore delle successive conversazioni, che hanno toccato argomenti dei più vari.
Mi limito a dire che, a una certa ora della notte, ce ne siamo tornati in albergo sempre sulla macchina di Giulia. Ma stavolta, visto che lei preferiva guidare il meno possibile, ha guidato Claudio e io mi sono tenuto in braccio Michele. Giulia, comunque, poi a casa sua ci è arrivata tranquillamente, e il giorno dopo era fresca e lucidissima, quindi vuol dire che non aveva bevuto poi così tanto… o che regge l’alcol alla grande, scegliete voi.

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Domenica 22/10/2017 – La Scuola di gomme, Rabbi Jeremy e il campo profughi di Shu’fat

Oggi è il giorno della Scuola di gomme, il progetto forse più noto internazionalmente di Vento di Terra e tra i più importanti sul piano simbolico.
Per arrivarci passiamo da Gerusalemme, dove lasciamo Michele, in un punto comodo per raggiungere a piedi la stazione degli autobus. Lì prenderà un pullman per tornare verso il nord, verso il suo kibbutz. Ci mancherà, in questi ultimi tre giorni. Ci ha detto che spera di portare a Hebron qualcuno dei suoi amici israeliani. Dal kibbutz realtà come quella appaiono molto lontane. Genericamente tutti sanno che in Cisgiordania ci sono dei problemi, ma non è qualcosa che li tocca realmente nella vita di tutti i giorni e, ovviamente, tendono a vederla dal punto di vista israeliano. Quasi tutti hanno un parente, un amico, una persona che conoscono in maniera più o meno diretta, qualcuno che è morto, è rimasto ferito o ha comunque un’esperienza drammatica legata al conflitto. E lì finisce. Anche perché l’informazione “mainstream” è piuttosto condizionata. La maggior parte delle persone non sa cosa succede davvero in posti come Hebron. Ma ci sono alcuni ragazzi, nel kibbutz di Michele, che si sono dimostrati curiosi di capire di più, di vedere con i loro occhi cosa c’è al di là del muro. Speriamo che ci vadano davvero, e che serva a qualcosa.

Gerusalemme in questi giorni è un po’ in subbuglio per le manifestazioni degli ebrei ortodossi, che protestano contro la proposta, attualmente sul tavolo politico, di abolire la legge che consente loro di essere esentati dal servizio militare. Questo, dal resto della popolazione israeliana, è vissuto come uno dei tanti privilegi di cui godono gli ortodossi, ma loro evidentemente ci tengono e sono pronti a difenderlo con i denti.
La Scuola di Gomme si trova a Khan al Ahmar, campo beduino situato tra Gerusalemme e Gerico, e ospita oggi quasi duecento bambini della comunità Jahalin. Circondati da insediamenti israeliani, esclusi da ogni servizio di base, i beduini vivono in condizioni di estrema marginalità. Molti bambini prima della costruzione della scuola, che è una scuola primaria, avevano abbandonato gli studi. Gli altri raggiungevano a piedi o in pullman la scuola più vicina (si fa per dire), a Gerico.
La scuola, anche questa in architettura bioclimatica e dotata di un impianto fotovoltaico grazie al contributo della cooperazione italiana, è stata costruita nel 2009, in due settimane. Il cantiere doveva durare il meno possibile per sfuggire al gruppo di monitoraggio dei coloni, che tiene sotto controllo tutto quello che succede nell’area. L’edificio, “non permanente” dal punto di vista strutturale, è stato realizzato con pneumatici usati riempiti di sabbia e sassi, con argilla e con legno. Tutto, ovviamente, per non contravvenire ai regolamenti militari israeliani che vietano la costruzione non autorizzata di edifici in area C.
I volontari che hanno costruito la scuola venivano da Ramallah, da Gerusalemme e dall’Italia. Lentamente sono arrivati anche i soldi. Prima 8.000 euro, racimolati da donatori e cooperazione. Poi le suore comboniane hanno aggiunto 10.000 euro e Israeli committee against house demolitions (Icahd) altri 8.000 euro.
Il progetto ha beneficiato di un’ampia copertura mediatica. Nonostante ciò la Scuola di gomme è al centro di una complessa vicenda legale ed è da anni sotto ordine di demolizione. A difesa del diritto allo studio per questi bambini Vento di Terra ha lanciato la campagna: “Chi demolisce una scuola demolisce il futuro”, a cui si sono uniti Amnesty International, UNRWA (United Nations Relief & Works Agency, l’agenzia dell’ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi) e Unicef.
Successivi interventi hanno realizzato aule e spazi aggiuntivi, sempre tramite l’utilizzo di tecniche di architettura bioclimatica con materiali naturali e di riciclo. Le gomme, tra l’altro, offrono un buon isolamento termico: la scuola è fresca in estate e calda in inverno.
Per saperne di più:

La Scuola di Gomme

L’attenzione intorno alla scuola è dovuta anche al fatto che si trova su quello che viene chiamato il “Corridoio E1”, che se fosse “liberato” dalla presenza dei beduini connetterebbe gli insediamenti con Gerusalemme, completando il percorso del muro e dividendo di fatto quel che resta della Palestina in due tronconi. Poco lontano sorge Maale Adumim, una delle colonie israeliane illegali più grandi e organizzate dei Territori Palestinesi. Proprio per questo sono sotto ordine di demolizione anche le case del vicino villaggio beduino.
Arrivarci, alla scuola, non è banale. Parcheggiamo il pullmino in una piazzola, dove ci aspetta quello che potrebbe sembrare un hippy con un cappello da cowboy ma è in realtà il rabbino Jeremy Milgrom, dell’associazione “Rabbis for Human Rights”, che ci accompagnerà nella visita. Da qui dobbiamo percorrere un sentiero pietroso che costeggia per un po’ la strada asfaltata, poi disegnando una curva si incunea sotto di essa per sbucare dall’altra parte. Il tunnel che passa sotto la strada è stato decorato con graffiti da Ivan Tresoldi, per tutti Ivan, poeta e street artist milanese. Oltre il tunnel ecco il villaggio, e la scuola. Anche questo è un po’ simbolico, in fondo.

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Noi arriviamo al momento dell’intervallo, quando i bambini, come in tutto il mondo, corrono felici fuori dalle classi per godersi qualche minuto di giochi. E quindi, è l’occasione migliore per consegnare uno dei nostri regali, sicuramente uno dei più graditi dai bambini a qualsiasi latitudine: il pallone. Sì, proprio QUEL pallone, il famoso pallone giallo che tanto abbiamo penato per portare qui e che ha rischiato di restare all’aeroporto di Istanbul. Ed eccoli, tutti dietro a un pallone in uno sciame leggeri come stracci, diceva il poeta.
Sono belli da vedere, ma serve un po’ d’ordine. E allora Claudio, come ha detto lui, per cinque minuti si sente un po’ Mourinho e si mette a fare l’allenatore, con un gruppo di bambini davanti che si divertono come matti a provare i colpi di testa.
Fatalmente restano un po’ tagliate fuori le bambine. Ma ci sono giochi anche per loro, e ci sono per esempio anche un po’ di vestitini che ho portato io che sono tutti per bambine. E c’è tanto materiale scolastico per tutti.
È così bello vederli giocare e sorridere, e provare a scambiare qualche parola con loro, in inglese con quelli che lo parlano un po’ o spendendo le mie quattro parole di arabo, che la visita alla scuola passa quasi in secondo piano. Ma è importante sapere che oggi ci sono otto classi, e che la Corte suprema israeliana si è espressa nel 2014 invitando le parti a trovare un accordo e ribadendo il valore sociale della struttura. Ma sempre nel 2014, sotto gli sguardi stupiti ed impauriti di oltre un centinaio di bambine e bambini, l’altalena e lo scivolo regalati dal Governo italiano sono stati confiscati perché l’installazione delle attrezzature da gioco non era stata autorizzata dall’Amministrazione Civile israeliana.
Nell’agosto 2016 è arrivato un nuovo ordine di demolizione. L’intenzione dell’esecutivo israeliano è demolire la scuola e riallocare in tempi brevi gli alunni nel plesso di Al Jabal. Ma non è ancora detta l’ultima parola.

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Salutiamo, un po’ a malincuore, i bambini e ci spostiamo al villaggio, dove ci accoglie Hamiz. Hamiz, spiega Serena, è il figlio di Suleyman, il mukhtar del villaggio, che normalmente è quello che fa gli onori di casa, ma oggi non c’è e quindi il figlio lo sostituisce. Con lui e con il rabbino Jeremy ci sediamo all’ombra, in uno strano piccolo angolo di verde in mezzo al deserto, con un incredibile sottofondo di uccelli che cantano. Hamiz non parla inglese, ma parla ebraico. E perciò questa volta serve una doppia traduzione: Hamiz è tradotto da Jeremy che è tradotto da Serena.
La storia della comunità beduina di Khan al Ahmar è abbastanza simile a quella dei beduini di Wadi Kafar, e probabilmente anche a quella delle altre comunità beduine stanziate in Cisgiordania. Sono arrivati qui nel ’52, profughi dalle terre conquistate da Israele nel ’48. E quindi sono qui, in realtà, da molto prima dei coloni di Maale Adumim e Kfar Adumim.
Dieci anni fa, racconta Jeremy, si è venuti a sapere del progetto di ampliare il muro annettendo quindi, di fatto, a Israele questa parte di territorio abitata dalle comunità beduine, che ormai non sono più nomadi ma che continuano a mantenere un stile di vita legato profondamente alla pastorizia. A lui diedero un GPS e gli chiesero di venire qui a vedere chi c’era in quest’area, ed è così che è entrato in contatto con questa comunità, che prima non aveva mai avuto contatti con nessuna ONG e di cui ben poco si sapeva. Subito i membri della comunità gli dissero che c’era bisogno di una scuola, perché i bambini erano costretti per andarci a spostamenti lunghi, costosi e pericolosi, a Gerico o ancora più lontano. Avevano fatto dei tentativi per costruirne una, ma senza successo.
La costruzione della scuola di gomme fu un grande evento per la comunità, perché non solo era una scuola, ma anche il primo vero spazio che avevano i bambini per giocare. Al tempo stesso, però, la comunità finì sotto pressione, e alcuni suoi membri non poterono più andare a lavorare negli insediamenti, il che rappresentava la loro unica fonte di reddito.
L’anno scorso, sempre per la costante pressione dei coloni, sono stati confiscati i pannelli solari. Fortunatamente, andando davanti alla corte, la comunità è riuscita a riaverli, ma questo testimonia ulteriormente quanto i coloni cerchino di render loro la vita difficile.
Nelle ultime settimane, però, è sorto un piccolo segnale positivo: sembra che nell’insediamento più vicino si stia sviluppando un inizio di discussione tra i coloni. Alcuni cominciano a pensare che tutta questa pressione per espellere i beduini, alla fine, forse non sia una cosa giusta. Un piccolo gruppo è venuto qui la settimana scorsa, almeno a vedere e a prendere i primi contatti, forse ne verranno altri. È la prima volta in trent’anni che si muovono per vedere cosa c’è a soli 3 km dalla loro colonia. È un piccolo barlume di speranza, ma ce lo prendiamo. È così raro, in questi giorni di viaggio, che qualcuno ci dia delle buone notizie. Al di fuori dei progetti di Vento di Terra, è chiaro, che valgono tanto in questo senso.
Un altro fatto positivo è che questa storia è tra quelle più note in Israele, per diversi motivi: perché la scuola è insolita come struttura, perché è stata creata da una ONG italiana e perché si sa che ha raccolto consensi in Europa, sia a livello politico che di opinione pubblica. E perciò oggi è più difficile che possano davvero demolirla, anche perché, dice Jeremy, la comunità ha trovato un buon avvocato. Speriamo tutti che sia così. Comunque, almeno fino alla fine dell’anno scolastico ci arriverà sicuramente, e qui è così: ogni anno scolastico in più che si chiude con la scuola ancora in piedi è una vittoria.
D’altra parte, bisogna purtroppo anche tener conto che c’è questa narrazione, che rimane, che i beduini siano un ostacolo all’espansione degli insediamenti, anche se qui in realtà gli insediamenti non sono così vicini. E che il pregiudizio contro i beduini è ancora forte nella stessa società palestinese, figuriamoci tra gli israeliani. Jeremy fa un interessante parallelo con il pregiudizio che colpisce i rom in Europa, ed è vero: forse qui non si dice che i beduini rapiscono i bambini, ma se si va al fondo delle cose è ancora la contrapposizione antica come il mondo tra le civiltà stanziali e le civiltà nomadi, almeno culturalmente. Molti pensano: ma perché devono stare qui? Ci sono tanti paesi arabi dove potrebbero andare. E poi non hanno i permessi per costruire. Ed è vero, ma come potrebbero ottenerli, in area C? Le autorità militari non glieli concederebbero mai. Esistono anche dei documenti, in possesso dei beduini, che attestano la proprietà di queste terre, ma è chiaro che non verranno mai presi in considerazione.
Insomma, c’è sì qualche motivo per sperare, ma la situazione resta molto complicata.
La Scuola di gomme non è l’unica sotto ordine di demolizione. 51 scuole in area C e a Gerusalemme Est sono a rischio di chiusura o di demolizione, e questo chiaramente impedisce sia la manutenzione che l’ampliamento delle infrastrutture scolastiche. Gli studenti delle comunità più remote spesso devono camminare fino a dieci chilometri per andare e tornare da scuola, mettendo anche a rischio la loro sicurezza.
Anche allargando lo sguardo, la situazione internazionale generale non offre prospettive entusiasmanti. Jeremy è nato negli Stati Uniti, e si trasferito in Israele all’età di 15 anni. Parte della sua famiglia vive tuttora negli USA. E ci informa, non senza una puntina di vergogna, che suo fratello ha votato Trump.
In Israele, anche lui ci conferma, la maggior parte delle persone sa poco o niente di quello che succede qui. Molti preferiscono non sapere. David Grossman ha scritto che i media israeliani hanno inventato un linguaggio sofisticato e ingegnoso il cui fine è raccontare ciò che è più facile da digerire per il loro pubblico, creando così una separazione tra tutto ciò che lo Stato compie nelle zone d’ombra del conflitto e il modo in cui i suoi cittadini scelgono di vedere se stessi.
Organizzazioni come quella di Jeremy hanno, purtroppo, poco peso politico e poca visibilità. La politica israeliana, anche quella della sinistra, va in tutt’altra direzione. Come esempio, cita un articolo apparso ieri su Haaretz, un giornale definito “liberal”: L’ex ministro laburista Moshe Ya’alon ha dichiarato che in Cisgiordania c’è spazio ancora per un milione, o due milioni, di coloni. Il che è incredibile, se si pensa a quanti ce ne sono già ora. Nel 1992, un anno prima di Oslo, compresa Gerusalemme Est erano 248.000. Nel 2016, tuttavia, sono diventati 763.000, il triplo. E si prevede che raggiungano le 800.000 unità nel 2017, rispetto a una popolazione palestinese di 2.900.000 abitanti. Forse è il caso di ricordare, così en passant, che da 50 anni Israele non rispetta la Convenzione di Ginevra, che vieta la colonizzazione dei territori occupati, negando che si tratti di territori occupati.
Salutando Jeremy, mi sento in dovere di ringraziarlo per quello che fa. “Go on with your work” – gli dico – “Don’t give up.” Non arrenderti. Lui sorride amaro e mi guarda come dire “Sì, io faccio quello che posso, ma è molto dura.” Sono sicuro che lo è, ma ci è sembrato un po’ scoraggiato e questo ci dispiace. Abbiamo scoperto, comunque, che a brevissimo sarà in Italia per un tour di conferenze organizzato da Vento di Terra, e stiamo già brigando per infilarci una data nell’auditorium di Radio Popolare.

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Torniamo verso Gerusalemme, dove la prossima tappa è il campo profughi di Shu’fat. Quando in Palestina si parla di campi profughi, si parla di qualcosa di molto diverso da quello che siamo abituati a immaginare. Non sono campi di tende, o strutture provvisorie. Sono ormai piccole città, perché sono stati creati nel 1948 o al più tardi nel 1967. I profughi, ormai, sono i discendenti dei profughi originari, che hanno tuttora lo status di rifugiati e come tali la protezione dell’UNRWA, l’agenzia dell’ONU che si occupa di loro. I campi sono ancora, però, chiusi all’interno dello stesso perimetro originario, il che significa che sono sovraffollati e che gli edifici possono crescere solo in altezza, non in estensione, perché spazio non ce n’è più.
Oggi in Cisgiordania vivono più di 800.000 profughi registrati, di cui 237.000 vivono ancora nei campi, che sono 19. Oltre al sovraffollamento, esistono altri grandi problemi: alti livelli di disoccupazione, povertà, un’alimentazione spesso ai limiti della sussistenza, e la violenza derivante dalle frequenti incursioni dell’esercito israeliano in cerca di terroristi veri o presunti. Solo da gennaio a settembre 2016, 5 profughi sono stati uccisi, 306 feriti e ci sono state 522 incursioni.
Questo campo in particolare, che si trova a 4 km da Gerusalemme, è nato nel 1966, quando la popolazione palestinese dell’attuale quartiere ebraico di Gerusalemme venne forzosamente spostata dal governo giordano in accordo con le Nazioni Unite, con la promessa di case dove abitare e terra da coltivare. Allora i profughi erano 3.000. Con la guerra del 1967 e l’occupazione, nuovi profughi si sono aggiunti ai primi. Ora ci sono circa 32.000 persone, di cui 18.872 profughi ufficialmente riconosciuti tali dall’UNRWA, più altre 30.000 persone circa fuori dal perimetro. L’età media è 17 anni.
Negli anni il campo ha visto crescere la propria popolazione ben al di là del normale tasso di natalità. Ai profughi del 1966-67 si è aggiunto un flusso continuo di esuli da Gerusalemme a cui venivano espropriate le case o che venivano indirettamente espulsi dall’impoverimento e dall’esclusione sociale di Gerusalemme Est. Il 90% dei nuovi profughi vive sotto il livello di povertà.
Negli ultimi dieci anni il flusso ha raggiunto dimensioni ancora maggiori con l’arrivo dalla Cisgiordania di tutti coloro che, per mantenere la carta d’identità di Gerusalemme, si sono visti costretti a rientrare. La carta d’identità permette infatti di entrare in Israele a lavorare, ma è anche un simbolo per i palestinesi. Altre cause di incremento demografico sono la detassazione in vigore qui come in tutte le aree sotto il mandato UNRWA, e i ricongiungimenti familiari.
Pur aumentando la popolazione, non è pensabile però alcuna estensione territoriale del campo. Al contrario, sono i quattro insediamenti israeliani che circondano Shu’fat ad avanzare. La collocazione di Shu’fat è strategica: a cavallo tra Gerusalemme e Cisgiordania, unico spazio di continuità tra i due territori. Senza Shu’fat, Gerusalemme sarebbe completamente circondata da insediamenti. La gente di Shu’fat subisce quindi una doppia pressione: da un lato gli israeliani cercano di rendere impossibili le condizioni di vita per espellere le persone ed eliminare il campo, chiudendo così la città tra le colonie e rendendo impossibile qualsiasi rivendicazione palestinese su Gerusalemme capitale; dall’altro i palestinesi per la stessa ragione spingono i residenti a non abbandonare l’area.
Attualmente la popolazione edifica senza permesso (che costa 150.000 Shekel, quasi 40.000 euro) anche fuori dai confini del campo, finché l’esercito non arriva a demolire senza preavviso e senza nemmeno lasciare il tempo alla gente di portare via le proprie cose. Spesso, poco tempo dopo si ricostruisce sullo stesso sito. A causa dell’elevatissima densità di popolazione, non esistono aree verdi, perché la popolazione ha costruito ovunque. Per la stessa ragione, le strade sono quasi tutte ridotte a vicoli.
Come se non bastasse, UNRWA si occupa solo dei rifugiati ufficialmente riconosciuti. Questo significa, per esempio, che la raccolta dei rifiuti è fatta per 18.000 persone anziché 32.000 ed è gravemente insufficiente: la spazzatura è ovunque, nel campo.
In tutto questo, noi visitiamo una realtà fatta di persone che tenacemente cercano di resistere e di alleviare le sofferenze dei più deboli tra coloro che già vivono in una situazione così svantaggiata. Il centro per disabili e persone con speciali necessità della Al-Quds Charitable Society è veramente un punto di riferimento importantissimo, con le sue attività terapeutiche, riabilitative, educative e ricreative, che si rivolgono anche a chi non ha lo status di profugo. Al Quds significa “La Santa”, è il nome arabo di Gerusalemme.
Salim, il direttore, ci accoglie con cordialità e vorrebbe farci fare un giro nel campo, come programmato, ma proprio non se la sente. Spiega a Serena e Giulia che, con tutte le incursioni di soldati che ci sono state negli ultimi giorni, teme per la nostra sicurezza. Generalmente vengono di notte, ma non si sa mai… e soprattutto la gente è esacerbata e potrebbe reagire male, vedendo persone estranee che si aggirano per il campo. Forse è una preoccupazione esagerata, ma non possiamo che adeguarci, anche se ci dispiace.
Ho ripensato a questo, poi, leggendo sul Jerusalem Post il risultato di uno studio della ONG israeliana B’tselem. Ne viene fuori che da gennaio 2014 ad agosto 2016 nella sola area di Gerusalemme Est sono stati arrestati più di 1700 minori, da 12 a 17 anni. Quasi tutti sono stati arrestati di notte e interrogati di notte, spesso in condizioni di costrizione e comunque in violazione della stessa legge israeliana. Molti di questi arresti avvengono nei campi profughi.

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Per pranzo siamo ospiti di un’altra comunità beduina nei dintorni di Betlemme. La tavolata è imbandita nel cortile della sede della loro associazione. Anche qui un sacco di cose buone, peccato che io riesca ad approfittarne poco perché nel frattempo il mio stomaco ha iniziato a dare pesanti segni di nervosismo. Non ho per niente fame, cerco di assaggiare qualcosa qua e là giusto per non sprecare tanto ben di Dio. Insieme al caffè, spunta uno scatolone pieno di oggetti di artigianato realizzati con la lana intorno a delle piccole sagome di legno. Sono soprattutto pecorelle e caprette, come è giusto che sia, ma ci sono anche i Re Magi e le richiestissime renne, che essendo poche vanno letteralmente a ruba.
Intanto, si è fatto già pomeriggio inoltrato e quindi, a democratica votazione, decidiamo che per oggi ci rilasseremo un po’. Un piccolo giro nel centro storico di Betlemme, ma è solo un assaggio perché la visita vera è prevista per domani mattina. E poi ce ne torniamo in albergo per un riposino e per fare, una volta tanto, una doccia con calma.
Per la cena abbiamo prenotato in un locale che si chiama Shepherd’s valley – The tent, ed effettivamente mangiamo sotto una tenda, anche se riscaldata e con tutti i comfort. Forse anche troppi, nel senso che lo schermo gigante che trasmette la partita, a volume piuttosto alto, risulta un po’ fastidioso. Il cibo però è buono, dicono tutti. Io sto ancora decisamente poco bene di stomaco, quindi faccio molta fatica ed è un peccato perché è davvero buono. Lentamente, con molta calma, riesco a mangiare quasi tutta la mia batata harra: si tratta di un gustoso piatto a base di patate, peperoni, coriandolo, peperoncino e aglio, il tutto fritto insieme in olio d’oliva. Ci aggiungo anche un paio di piccoli spiedini di pollo, ma poi mi devo proprio fermare, e avendo preso dei medicinali preferisco non partecipare al giro di arak (liquore a base di anice simile al raki turco) che qualcuno ha lanciato. C’è chi insinua che questo mio malessere abbia a che vedere con qualche (ehm…) bicchierino di tequila che potrei aver bevuto ieri sera, ma io smentisco seccamente, un po’ perché se così fosse mi sembrerebbe un po’ troppo a scoppio ritardato, ma soprattutto perché vorrebbe dire che sto invecchiando e faccio fatica ad accettare la cosa col giusto grado di serenità.
Fatto sta che, una volta tanto, non mi dispiace tornare in albergo abbastanza presto. Spero che un bel sonno mi faccia bene.

batara harri

(Continua…)