Viaggio nel Chiapas zapatista delle comunità indigene con Radio Popolare e ViaggieMiraggi – Terza parte
La sconfitta ha qualcosa di positivo, non è mai definitiva.
Per contro la vittoria ha qualcosa di negativo, non è mai definitiva.
(Josè Saramago)
Settimo giorno: domenica 4 novembre 2018
Oggi mattina libera. La maggior parte del gruppo ha deciso di dedicarla a far spese, tra i mercati e i negozi del centro, che sono aperti anche la domenica. Cacao e derivati, caffè, ambra, tessuti, un po’ di tutto.
Io preferisco approfittare dell’offerta di Andrea, che è disposto ad accompagnarci in visita al CIDECI. Per questo io, Lia e Marcella abbiamo appuntamento con lui alle 10.30.
Nell’attesa, però, un giretto al mercato me lo faccio anch’io, solo per curiosare. O meglio, l’idea era quella, ma poi lì incontro Francesco che si sta comprando una coloratissima amaca. Mi fermo e, chiacchierando un po’ con il venditore, che fa parte anche lui di una comunità indigena, mi faccio convincere a comprarne una anch’io. Effettivamente sono belle, e poi ci fa uno sconto se ne compriamo due. Io in realtà non ho un giardino e nemmeno un balcone, non saprei dove piazzarla. Però pensandoci ho già individuato un amico a cui regalarla, credo che gli farà piacere.
Andrea si presenta puntuale all’appuntamento e così, dopo aver caricato i nostri bagagli sul pullmino, Daniel ci accompagna a Nueva Maravilla, la colonia dove si trova il CIDECI, che abbiamo già visto un po’ di corsa giovedì sera. Lungo la strada si ferma a fare benzina, che di per sé non dovrebbe costituire una grande perdita di tempo. Ma siamo in Messico, e allora anche la fatturazione di un pieno di benzina può richiedere un tempo indefinito, un “ratito” che si prolunga per una buona mezz’ora. Noi a mezzogiorno dovremmo essere di nuovo all’hotel, per ritrovarci con gli altri e partire tutti insieme verso il mare. Ci resta quindi, a questo punto, un tempo veramente ridotto all’osso per la visita.
Il CIDECI (Centro Indigena De Capacitaciòn Integral) è una scuola soprattutto di agraria, ma ci sono anche corsi per apprendere vari altri mestieri, artigianato, arti e musica. Gli studenti arrivano dalle comunità in genere a circa 10 anni, ma dipende, ognuno ha un suo percorso, si può entrare anche più tardi. Restano qui uno o due anni, e quando tornano nelle comunità spesso diventano maestri, o comunque punti di riferimento, con le conoscenze che hanno appreso. Se vogliono possono anche continuare a studiare, ma l’università di Bogotà è la sola che accetta i titoli di studio dei ragazzi che escono da qui. I corsi sono tutti gratuiti, ma a volte gli studenti se li ripagano facendo qualche lavoro. Queste cose ce le racconta Andrea, mentre seduti in un piacevole giardino aspettiamo di essere ricevuti dal direttore, che oggi ci può dedicare un po’ di tempo.
Il dottor Raymundo Sanchez Barraza ci accoglie nel suo salotto colorato e pieno di oggetti che fanno parte delle più diverse tradizioni indigene. Sorride e parla a bassa voce, è affabile e rassicurante. Dopo aver scambiato un po’ di convenevoli con Andrea, si dedica a noi e ci chiede le impressioni di questo viaggio. Vorrebbe farci fare un giro e conoscere qualcuno dei ragazzi, ma Andrea è costretto a stopparlo. Purtroppo non abbiamo abbastanza tempo per questo, a causa di quella stupida attesa al distributore. Lo salutiamo, faremo un altro giro per conto nostro, veloce come l’altra sera ma almeno alla luce del giorno. Io gli chiedo se posso fargli una foto, o se può fare una foto con noi, ma lui gentilmente dice che è meglio di no, perché meno appare meglio è. Non è solo modestia, che comunque è una dote che lo contraddistingue, per quel poco che possiamo capire da questa breve chiacchierata. La sua posizione non è facile, ci dice Andrea che quest’uomo rischia la vita ogni volta che esce. Questo è di fatto una sorta di avamposto zapatista nella città di San Cristobal.
Parlare con lui comunque, anche per pochi minuti, ci ha trasmesso una sensazione di pace e serenità. Lo leggo negli occhi di Marcella e soprattutto di Lia, a me onestamente sarebbe piaciuto che ci raccontasse qualcosa di più, anche se condivido la loro impressione; è che il tempo non c’è, dobbiamo proprio andare.
Daniel ci riporta di corsa verso l’hotel, dove gli altri ci stanno aspettando. Siamo in ritardo di circa un quarto d’ora, cosa che infastidisce non poco Andrea, ma nessuno ce lo fa pesare. Betty è venuta a salutarci con Diego, il suo bambino più grande, che sale con noi sul pullmino e poi non vorrebbe più scendere. Non gli va molto a genio che il papà parta per il mare con noi e lo lasci a casa, vorrebbe venire anche lui ma alla fine si deve convincere che non può.
Il viaggio verso la costa non è breve; per ingannare il tempo, sul pullmino abbiamo anche uno schermo su cui possiamo guardare dei film. Lo abbiamo già fatto nei giorni scorsi. Oggi dovevamo vedere Coco, un film di animazione molto “messicano” dove i personaggi si muovono in un’atmosfera da dia de muertos. Ma Roby non lo ha trovato, e quindi abbiamo altri due film da guardare, due documentari.
Il primo è in pratica un interessante collage di interviste ai messicani di Los Angeles, che con 5 milioni di messicani è la seconda città “messicana” al mondo, seconda solo a Città del Messico.
Il secondo racconta la “Otra campaña” del 2006: il 1° gennaio il Subcomandante Marcos e altri membri dell’EZLN partono per un viaggio in tutto il Messico per incontrare la società civile e cercare di coinvolgerla, anche fuori dal Chiapas. Una sfida coraggiosa e impegnativa, che però finisce nel modo peggiore. In maggio la Otra viene sospesa in seguito ai fatti di Texcoco, dove la polizia ha assalito con ferocia alcuni simpatizzanti dell’EZLN. A luglio viene eletto Felipe Calderòn e a novembre, in un clima ancora più repressivo, non rimane altro che chiudere ufficialmente la Otra, anche se tutti i sostenitori degli zapatisti credono nella necessità di definire un programma nazionale di lotta. Immagini forti, soprattutto quelle della guerriglia urbana di Texcoco; immagini che non ti possono lasciare indifferente.
Ma ci aspetta un momento emozionalmente ancora più forte. Immaginavamo che, andando verso la costa, ci potesse essere la possibilità di incrociare una delle carovane di migranti che in questi giorni passano quasi ininterrottamente dal Chiapas nel loro viaggio verso il nord, verso il confine con gli Stati Uniti. La costa chiapaneca è sul loro percorso e noi, arrivando dagli altos, passeremo da Tonalà, a pochi chilometri dal confine con il Guatemala, quello di Ciudad Hidalgo.
Vengono dall’Honduras, in gran parte; uno stato al collasso, da anni in mano alle bande di narcotrafficanti, con un tasso di omicidi tra i più alti al mondo e in una situazione di dittatura di fatto, più che mai dopo le ultime elezioni dall’esito contestatissimo. Il presidente confermato Juan Orlando Hernandez (appoggiato da Washington), uscito vincitore ma con pesantissime accuse e concreti indizi di brogli, ha dichiarato lo stato di emergenza. Lungo la strada, poi, ai migranti honduregni si sono aggiunte altre persone dal Guatemala e da El Salvador.
Ed eccoli, effettivamente imboccando la strada costiera ad Arriaga li vediamo: a piccoli gruppetti, camminano sul ciglio della strada. Vanno in direzione opposta rispetto a noi: noi andiamo a sud, verso Tonalà e poi El Madresal, loro ovviamente verso nord. Quindi li vediamo dall’altra parte della strada, non da vicino. Ma è comunque qualcosa che ti tocca nel profondo. Noi poco fa siamo scesi per una breve pausa, e abbiamo già sentito un caldo soffocante, qualcosa a cui non eravamo abituati sugli altipiani. Pensiamo a come deve essere camminare per chilometri e chilometri sotto il sole cocente, con le loro povere cose, con i bambini per mano o in braccio. Sono tanti, i bambini. Sulle 7000 persone che facevano parte della prima carovana, è stato stimato che almeno 1500 fossero bambini. Questa è la terza carovana, un po’ meno numerosa, ma la percentuale di minori resta alta.
Di questo e di altro ci parleranno i volontari del Centro per i Diritti Umani Digna Ochoa di Tonalà, con i quali abbiamo un incontro programmato. Purtroppo, visti i tempi stretti, abbiamo dovuto decidere di mangiare qui da loro il pranzo al sacco che ci eravamo portati, a base di panini, tortillas e frutta. È l’unico modo per recuperare un po’ il ritardo che abbiamo sulla tabella di marcia. Intorno a noi giocano i bambini dei volontari.
Prima di parlare di migranti, che è ovviamente il tema caldo di questo periodo, ci vogliono parlare di una serie di megaprogetti che interessano il territorio del Chiapas, e in particolare quello della costa. Progetti che loro avversano perché tutti, se venissero realizzati, avrebbero un impatto ambientale devastante, per non parlare dei danni che farebbero alle comunità indigene.
Si sono preparati bene, con un proiettore e una serie di slides molto esplicative che ci mostrano con differenti colori la localizzazione di questi progetti sul territorio.
Una delle prime cose che ci dicono, in proposito, è che il nuovo governo che sta per entrare in carica, quello “di sinistra” (sono proprio loro a metterlo tra virgolette) di Lopez Obrador, si manterrà sulla linea dei precedenti per quanto riguarda lo sfruttamento delle risorse e la spoliazione dei territori delle comunità indigene. Questo attraverso l’estrazione di minerali e la produzione di energia per mezzo di impianti idroelettrici o parchi eolici. Questa energia, invece di essere utilizzata per soddisfare il fabbisogno della popolazione, andrebbe ad alimentare le miniere, che consumano anche grandi quantità di acqua. Alcune concessioni minerarie sono già attive e le miniere già estraggono minerali, soprattutto titanio. Ci sono già dati abbastanza precisi che raccontano di un forte impatto delle miniere. Soprattutto, molte persone accusano malattie della pelle.
Circa due anni fa varie comunità si sono organizzate per impedire ai macchinari di lavorare, con varie forme di resistenza. Questo ha provocato minacce di morte e aggressioni, ma ha anche portato risultati. Oggi alcuni progetti sono fermi e lo sono non per volontà del governo, locale o nazionale, ma proprio per l’azione di queste comunità organizzate.
Ci sono anche progetti di allevamenti di pesci e di gamberi che nulla hanno a che vedere col rispetto del loro ciclo naturale di vita e dell’ambiente della costa. In altre zone ci sono coltivazioni di palma per produrre olio, che sono in espansione, o grandi catene di hotel di proprietà di alcuni politici. Su tutti questi progetti c’è una forte opposizione.
Non fa piacere sentire che le speranze che ha suscitato la vittoria di AMLO molto probabilmente andranno deluse, ma è una realtà con cui occorre fare i conti.
L’altro tema che purtroppo è sempre all’ordine del giorno è quello della violenza sulle donne, con l’altissimo tasso di femminicidi che caratterizza il Messico e anche il Chiapas. Il lavoro del Centro, in questo caso, è chiedere alle autorità di investigare seriamente e di perseguire i colpevoli, che spesso restano impuniti. Fondamentale anche l’accompagnamento ai difensori dei diritti umani, che facilmente diventano invisibili e finiscono sotto attacco da parte della criminalità e delle forze politico-istituzionali corrotte; e non hanno la possibilità di usare i mezzi di comunicazione e di denunciare le violazioni dei diritti umani.
Per questo il Centro ha varie aree operative: un’area legale, un’area di comunicazione, un’area di direzione/amministrazione e un’area di psicologia, che dà supporto soprattutto alle donne vittime di violenza.
Si passa poi a parlare dei migranti, che partono verso gli USA per le condizioni estreme di povertà e di violenza dei loro paesi, e nella speranza di poter garantire una vita migliore alle loro famiglie. Non è un fenomeno nuovo, o meglio lo è solo nei numeri e nelle forme più organizzate che sta assumendo, con grandi masse che si muovono insieme a piedi o con mezzi di fortuna, cercando passaggi sui camion. Ma da anni ci sono questi fenomeni migratori: ogni anno circa 300.000 centroamericani senza documenti attraversano i 1000 chilometri di frontiera Messico-Guatemala-Belize. Prima il mezzo preferito era il treno. In genere i migranti salivano sul tetto di un treno merci che attraversa tutto il Messico, un treno soprannominato “La Bestia” per gli innumerevoli morti e feriti che causava ogni anno, sia per cadute e incidenti che per gli assalti di maras e pandillas, bande criminali a cui i migranti erano facilmente esposti.
Ora, dovendosi confrontare con queste nuove modalità, con queste masse compatte in movimento, il governo messicano ha tentato di disarticolare queste carovane, attraverso offerte di aiuti: ai migranti è stato proposto, anche se in maniera generica, un piano di supporto umanitario e di inserimento lavorativo, a patto che si fermassero negli stati del sud: Chiapas oppure Oaxaca. Ma pochi hanno accettato, la grande maggioranza continua a inseguire il sogno americano, che può facilmente trasformarsi in un incubo messicano.
Sì, perché ci sono tre diverse rotte che i migranti seguono una volta entrati in Messico, ma tutte molto pericolose. Una si muove sulla costa est, lungo il golfo del Messico, fino al confine col Texas. Un’altra passa per il centro del paese, attraversando Puebla e poi Città del Messico, Guanajuato, Queretaro e sempre verso nord fino a Chihuahua, al confine di Ciudad Juarez. La terza si muove sulla costa ovest, quella del Pacifico, attraversando gli stati di Oaxaca e Guerrero per poi spingersi fino a Tijuana, al confine californiano con San Diego. Quest’ultima è la più pericolosa in assoluto, perché attraversa territori come Sinaloa e il deserto di Sonora, difficilissimi dal punto di vista ambientale e completamente controllati dai narcos. Ma in generale andando verso nord si trovano comunque condizioni peggiori: un territorio più desertico, villaggi più distanti tra loro, meno solidarietà da parte della popolazione e una presenza sempre più pervasiva del narcotraffico. Questo comporta naturalmente una maggiore esposizione al rischio di essere rapinati o reclutati come manovalanza: sicari, prostitute e quant’altro.
Insomma, incontro molto interessante che sarebbe stato meglio fare con più calma ma è andata così. I ragazzi sono preparatissimi e fanno un grande lavoro, è stato comunque importante avere l’opportunità di parlare con loro.
Ripartiamo in direzione sud verso El Madresal. Ancora un’oretta di strada e raggiungiamo un parcheggio dove possiamo lasciare il pullmino. Per raggiungere il posto dove dormiremo dobbiamo attraversare in barca l’estero, la laguna che separa la terraferma dalla lingua di sabbia dove si trova il complesso di cabañas, gestito da una cooperativa della comunità costiera di Ponteduro.
Saliamo sulla lancia con i nostri bravi giubbetti di salvataggio allacciati e si parte. Dobbiamo dividerci in due gruppi, non ci staremmo tutti su una sola barca. Il nostro timoniere ci dà le prime indicazioni sulla fauna. Ci sono varie specie di uccelli pescatori: le aquile pescatrici, i martin pescatori e altri. Poi ci sono gli avvoltoi, appartenenti ad una specie tipica dell’America centromeridonale; qui si chiamano zopilotes. E sappiamo che ci sono i coccodrilli, ma per il momento ancora non li vediamo. All’imbarcadero un divertente cartello con un coccodrillo a fumetti raccomanda di non gettare loro del cibo, di non nuotare da soli e dopo il tramonto, di non lasciare che animali domestici si avvicinino troppo alla riva (!).
Le acque dell’estero, nella luce del sole calante verso il tramonto, sono scure. Il paesaggio è affascinante, con le mangrovie che affondano le loro radici nell’acqua.
Arriviamo in tempo per fare un primo bagnetto nel pacifico, dopo esserci sistemati nelle cabañas. Come si fa a resistere? L’acqua è calda e le onde non sono molto alte, anche se la spiaggia si affaccia sull’oceano. Restiamo a riva e giochiamo un po’ con le onde, ma al tramonto ci fanno uscire, più che altro perché ci dicono che a quest’ora diventa molto più facile essere attaccati dalle meduse.
Il posto è veramente magnifico. Le cabañas sono un po’ più piccole di quelle che avevamo ai laghi di Colon, e un po’ più essenziali, ma noi non abbiamo pretese. Quello che ci preoccupa un po’ è che tutte sono dotate di ventilatore (ora fa molto caldo, ma qui pare che anche la notte non sia molto diverso, stando ai racconti di Andrea) e di una zanzariera messa direttamente sopra ogni letto, che si può far scendere fino ad avvolgere tutto il letto. È segno che qui le zanzare sono veramente aggressive, del resto eravamo stati avvertiti di questo. A parte gli insetti, ci sono i soliti gechi, ma quelli non ci preoccupano, anzi ci auguriamo che facciano il loro lavoro mangiando un bel po’ di zanzare. È un po’ più preoccupante quello che è successo ad Alberta e Piercarlo, che si sono trovati uno scorpione sul cuscino!
Ci ritroviamo per una cena a base di pesce sotto la palapa, la tettoia che fa da bar-ristorante del complesso. Ci sono tre tipi diversi di pesci tropicali, tutti saporiti e ben cucinati. E poi possiamo far girare anche camarones (gamberetti) fatti in tutti i modi: empanizados (impanati), al mojo de ajo (in salsa di aglio) o alla diabla (in salsa piccante). Ce n’è veramente in abbondanza e sono buonissimi. Da bere birra Indio, ma anche diverse bevande analcoliche rinfrescanti, molto indicate con il caldo che fa da queste parti: agua de limon, agua de piña (ananas) e agua de jamaica, che è come qui viene chiamato il karkadè. Per il dopo cena tequila e quell’avanzo di licor de agave che mi sono portato nello zaino dai laghi di Colon.
Questa volta Roberto ha portato la chitarra, e allora possiamo cantare in maniera più… organizzata e meno spontaneista dell’altra sera ai laghi di Colon. Parte lui con qualche pezzo, poi dà la chitarra a Marcella. È giusto che sia risarcita di quello che le abbiamo fatto patire l’altra sera urlandole sopra con i nostri vocioni e che possa farci sentire qualche canzone cantata come si deve. Dato fondo al repertorio latinoamericano, si passa alle canzoni di lotta italiane. Come “Piazza Fontana” (o “Luna Rossa”), che io ho in mente nella versione della Banda Bassotti ma in realtà è una canzone degli anni ’70 di Claudio Bernieri, interpretata poi dagli Yu Kung. Mentre questa è “La ballata del Pinelli”, un altro pezzo storico di quegli anni:
Ci spostiamo sulla spiaggia e, forse per questo, in maniera quasi automatica il repertorio da cui si pesca diventa quello del cantautorato italiano. Tra un De André e un De Gregori, sotto le stelle scatta l’inevitabile momento nostalgia, ma è una nostalgia piacevole, di quelle che scaldano il cuore; la serata così scivola via facile mentre, anche se al momento ce ne accorgiamo solo in parte, i mosquitos della sabbia banchettano. Ma le conseguenze di questo le vedremo soltanto il giorno dopo.
Ottavo giorno: lunedì 5 novembre 2018
La prima notte in qualche modo è passata. Bisogna assolutamente accendere il ventilatore, perché se no non si sopravvive, e temevo che il rumore non mi facesse dormire, come in genere mi succede in questi casi. Invece qualche ora ho riposato, e anche le zanzare non si sono fatte sentire più di tanto, forse grazie ai gechi di cui ogni tanto durante la notte nelle cabañas sentiamo il verso.
Oggi abbiamo in programma un’escursione a Boca del Cielo, dove nelle acque calme della laguna potremo fare un bagno più tranquillo e più appagante per chi vuole nuotare e dove visiteremo anche il Centro Tortuguero. Andrea per oggi ci abbandona al nostro destino e rimane qui a El Madresal, come peraltro aveva già anticipato da giorni. Lui soffre molto il caldo e farsi buona parte della giornata in barca sotto il sole non rientra proprio nei suoi programmi; dice che pensa di passare quasi tutta la giornata all’ombra sull’amaca, sorseggiando bibite rinfrescanti.
Noi, dopo una bella colazione rilassata, risaliamo in barca con Roberto e solchiamo le acque dell’estero. Possiamo vedere gli avvoltoi, l’aquila pescatrice e altri uccelli caracoleros (che si nutrono di molluschi). Possiamo anche tentare di avvistare, ma è decisamente più difficile, il mapache, un altro animale tipico di queste zone, che è una specie di procione con la coda ad anelli, e ci dicono sia molto simpatico e giocherellone. I coccodrilli qui non si vedono, si possono vedere solo se ci si addentra tra le mangrovie e le altre piante più piccole, dove si nascondono i pesci piccoli. Dalla riva, il mangrovieto si estende fino a 900 metri di distanza.
Ma la navigazione è già spettacolare così: ora, col sole, le mangrovie e gli altri alberi si riflettono nelle acque della laguna creando giochi di colori e simmetrie nelle quali la vegetazione e la laguna diventano un tutt’uno. L’acqua diventa più chiara, man mano che ci avviciniamo alla bocabarra, dove la laguna incontra il mare aperto: qui mare morto e mare vivo si toccano.
Trovata una spiaggetta tranquilla tutta per noi, ci fermiamo per goderci un po’ di sole e farci il bagno. Dopo qualche nuotatina e un po’ di chiacchiere a mollo, all’improvviso spunta una noce di cocco, che iniziamo, sempre stando in acqua, a passarci come fosse una palla. E si sa che in questi casi il passo è breve… prima improvvisiamo una specie di “torello” a squadre, dove dobbiamo cercare di rubarci la palla (anzi la noce) intercettando i passaggi. Ma non è ancora sufficiente, non ci si può divertire veramente giocando con una palla se non c’è una porta. E allora Roberto si inventa un altro gioco. Piazziamo dei legnetti nella sabbia, appena fuori dall’acqua, a formare la porta. La traversa è un po’ traballante, ma non importa, si può fare anche senza. Viene messo un altro paletto a segnare la distanza minima dalla quale si può tirare. Ed ecco fatto, a questo punto si può fare una specie di pallanuoto a una porta sola, senza portiere. Pallanuoto per modo di dire, perché siamo nell’acqua ma si tocca. In realtà potrebbe essere più tipo pallamano nell’acqua, ma con una differenza: il contatto fisico è molto più violento!
Le due squadre vengono formate su base geografica, ed è anche giusto in questi tempi di grandi rivendicazioni di appartenenze… anche se, a dire il vero, adesso va più di moda “Prima gli italiani”. Comunque sia, noi ci dividiamo tra grifoni del nordovest e tritoni del nordest. Il nordest si estende anche alle Marche, per comprendere Giulio che è di Jesi, ma soprattutto i tritoni annoverano anche lo “straniero” Daniel, che è, non dimentichiamolo, ex calciatore di buon livello, dotato di fisico possente e si impegna alla morte.
Già la pallanuoto di per sé non è sport per signorine, ma in questo caso in breve tempo si degenera ancora di più. Benedetto, da ex rugbista, impone uno stile di gioco che gli si addice, fatto di mischie (neanche tanto ordinate, c’è da dire) e passaggi corti “alla mano”, ma alla fine si supera anche il rugby (che, detto per inciso, è sport nobile e generalmente corretto) e si arriva a qualcosa tra il calcio fiorentino e la lotta libera. Tornando alle signorine, che nel nostro caso sono due (Raffaella con il nordest e Anna con il nordovest), sono anche loro a non disdegnare questo tipo di gioco, anche se poi rischiano di farne le spese, perché se all’inizio c’è qualche riguardo poi quando comincia la battaglia punto a punto vale tutto.
Noi del nordovest, lo dico anche se rischio di essere di parte in questa breve cronaca, ci battiamo da leoni, con un grandissimo contributo dell’eroica Anna, che nonostante le botte prese difende come una roccia e va anche a segnare un gol. Io, non so bene come, segno addirittura una doppietta. Ma alla fine dobbiamo soccombere alla strapotenza fisica dei tritoni del nordest: finisce 4-3 per loro. Non sono mancate neanche le contestazioni gol-non gol, ma non abbiamo la VAR e quindi va così. Ci siamo divertiti molto, questo è l’importante.
Ora, però, ci aspetta la parte più seria della mattinata. Riprendiamo la barca e ci spostiamo al Campamento Tortuguero, dove troviamo una graditissima accoglienza: ci offrono freschissime noci di cocco con la cannuccia per bere il latte. Così ritemprati ci disponiamo ad ascoltare la spiegazione.
Il centro si occupa delle tartarughe marine, una specie da proteggere, soprattutto da queste parti, considerando che le loro uova sono oggetto di un grande mercato e quindi non sono i predatori il vero grande pericolo, ma l’uomo. Quella che viene a riprodursi qui è la specie di tartaruga denominata golfina, che da adulta può pesare fino a 50 kg con un carapace che misura da 55 a 85 cm.
Gli operatori del centro, coadiuvati da volontari sia messicani che internazionali, vanno in cerca di nidi e prelevano le uova, che poi vengono portate qui e sotterrate in un’area protetta denominata “Corral de incubaciòn”, dove i nidi vengono riprodotti, con un cartellino che riporta la data di ritrovamento, il numero di uova e la data presunta della schiusa (il tempo di incubazione è circa 55 giorni).
Per questo ogni notte gli operatori, con la quadrimoto, percorrono circa 25 km, fino a dove inizia l’area del campamento successivo. Cercano le impronte lasciate dalle tartarughe quando escono dall’acqua e in questo modo localizzano i nidi. A volte trovano anche la tartaruga nel momento della deposizione, e in questo caso la misurano a fini statistici. Il nido è abbastanza profondo e ha la forma di un vaso. Le tartarughe depongono le uova a 10-12 anni e ogni nido contiene un centinaio di uova.
Quando è il momento, le tartarughe appena nate vengono liberate sulla spiaggia, solo nei momenti che sono i più favorevoli: al tramonto, di notte o al massimo all’alba. Vengono liberate a una decina di metri dalla riva, perché è fondamentale che camminino sulla spiaggia affinché ci sia una sorta di imprinting e ricordino quella spiaggia, perché è lì che, se sopravviveranno, andranno a deporre le uova. Se sopravviveranno perché su mille solo tre o quattro, mediamente, riescono a diventare adulte.
La stagione va da giugno a dicembre, ma solo da settembre iniziano le liberazioni, alle quali a volte invitano il pubblico. Ogni giorno vengono liberati da 1.000 a 5.000 piccoli, 300.000 sono le tartarughe liberate in totale ogni anno. Le liberazioni vanno avanti fino a gennaio.
Andiamo a vedere da vicino il corral, dove uno dei ragazzi del campamento, che ci sta facendo da guida, ci racconta qualche altra curiosità. Ad esempio, il sesso del nascituro dipende dalla temperatura, che quindi viene regolata con l’uso di una tenda che permette di dosare la luce e il calore del sole, in modo da avere all’incirca lo stesso numero di femmine e di maschi. La temperatura maggiore fa sì che si sviluppino più femmine, mentre con una temperatura inferiore si hanno più maschi.
Facendo un giro sulla spiaggia adiacente al centro, assistiamo poi casualmente a uno spettacolo abbastanza cruento, anche se è comunque la natura: una tartaruga giace morta sulla sabbia, e gli uccelli sono intenti a mangiarne le carni.
Ci mettiamo d’accordo per una liberazione che dovrebbero venire a fare questa sera proprio da noi, sulla spiaggia del Madresal: sarà sicuramente un momento emozionante.
Dopo di che, andiamo a mangiare alla cooperativa El Paraiso, che è poco distante dal campamento.
Anche qui il pranzo è a base di pesce, e non potrebbe essere altrimenti. Il pesce si può condire in tanti modi, ad esempio col chipotle (peperoncini essiccati in una salsa con spezie varie) o con l’aioli, che è un’altra salsa che qui è arrivata dalla Spagna. È un superclassico di tutta l’area mediterranea, ma soprattutto della Catalogna (il nome è catalano) e del sud della Francia (ricordo di averne gustata di ottima anche a Marsiglia). È fatta fondamentalmente con aglio e olio, al quale si possono aggiungere tuorlo d’uovo e limone.
Abbiamo la possibilità, però, di assaggiare anche altri prodotti della cooperativa, come una buona marmellata di mango e un insolito miele di mangrovia. Il miele è confezionato in vasetti con una bellissima etichetta su cui campeggia una stella rossa con dentro il volto di Emiliano Zapata, per cui non si può non comprarlo.
Vale la pena di spendere due parole anche sulla colonna sonora di questo pranzo, cioè la musica del gruppo hip-hop portoricano Calle 13 che viene da un vecchio lettore cd. Questo gruppo ha avuto negli ultimi anni un’evoluzione; i loro testi sono diventati più profondi e socialmente impegnati. Hanno intrapreso un viaggio per l’America Latina, più o meno sulle orme di quello che fece Che Guevara con l’amico Alberto Granado nel 1952. Questa è una cosa che hanno fatto in molti, ma loro ne hanno tirato fuori un pezzo veramente apprezzabile, anche se l’hip-hop normalmente non è esattamente il mio genere. Se volete un consiglio, guardatevi il video, con la presentazione fatta in quechua da un DJ peruviano.
Dopo il pranzo, c’è la presentazione della cooperativa, che produce principalmente prodotti alimentari ma ha anche un ruolo politico-sociale che va al di là di questo; si occupa anche, ad esempio, di costruire impianti di potabilizzazione dell’acqua.
A parlarcene sono diversi suoi membri, ma soprattutto Blas, che ha un nome catalano (ma questo l’ho scoperto soltanto dopo), e infatti è di Barcellona; già dal suo accento avevo capito che non poteva essere messicano. Gli chiedo se ci può raccontare cosa lo ha spinto a venire fin qui a fondare una cooperativa, e lui mi risponde in maniera molto semplice: “Lo zapatismo”. “Certo, ora è tutto chiaro” – commento io, e ci facciamo una risata. Anche qui il clima è molto cordiale, ci hanno accolto veramente bene.
Tornando in barca verso El Madresal abbiamo la possibilità di godere ancora un po’ del paesaggio unico della laguna e di vedere pellicani e aironi, tra cui l’airone tigre, che è diffuso in queste zone.
A El Madresal ci facciamo un ultimo bagnetto e ci prepariamo per l’appuntamento con i ragazzi del Campamento Tortuguero, che dovrebbero arrivare alle 18.
Nel frattempo in molti stanno accusando le conseguenze delle punture dei mosquitos della sabbia, che probabilmente soprattutto ieri sera, ma forse anche oggi, hanno colpito duro. Anch’io ho qualche segno, ma c’è chi è messo molto peggio, soprattutto Raffaella che ha le gambe veramente devastate di punture. Le offro un gel lenitivo che ho portato, ma non le fa molto, purtroppo. Dovrà mettersi una pomata al cortisone e prendere anche del cortisone per bocca per avere qualche effetto. Abbiamo scoperto che in effetti, più delle zanzare, che pure ci sono, sono insidiosi questi moscerini quasi invisibili che si nascondono nella sabbia: quando li senti, ormai è troppo tardi. Soprattutto bisogna evitare assolutamente di grattarsi, anche se il prurito che danno le punture è forte. Si rischia di farsi delle escoriazioni che poi fanno fatica a cicatrizzarsi e si possono infettare.
Sulla spiaggia compare un pallone, ma c’è il tempo giusto di fare due palleggi, perché poi inizia a farsi buio, e tra non molto dovrebbero arrivare gli operatori del Centro Tortuguero. Daniel ci rimane un po’ male; progettavamo da giorni questa partitella, invece pare proprio che non se ne farà niente, perché domani mattina dovremo andarcene da qui abbastanza presto. Gli dico scherzando che è un peccato, lo so, ma sarà per un’altra volta, magari torno l’anno prossimo… lui sorride e annuisce.
All’imbrunire compare anche una mucca sulla spiaggia, decisamente insolita.
I ragazzi arrivano un po’ in ritardo rispetto all’orario pattuito, ormai è buio. Si scusano, ma hanno avuto dei problemi. Arrivano con circa 300 tartarughine appena nate da liberare, che si agitano in una bacinella. Sono veramente degli esserini minuscoli e indifesi, lunghi qualche centimetro; si fa fatica a pensare che (se ce la faranno) diventeranno delle bestie di 50 kg. Il momento è davvero emozionante come immaginavamo, vederle zampettare sulla sabbia cercando la via verso il mare è un’esperienza che è difficile da spiegare. Alcune partono decise, altre sembrano disorientate, qualcuna si ribalta, alcune avanzano ma così lentamente che ci potrebbero volere ore per fare quei dieci metri che le separano dal mare. Forse anche le tante luci dei cellulari un po’ le confondono. Nel giro di un quarto d’ora comunque quasi tutte ce la fanno, e quelle che sono ancora lontane dal mare vengono prese dagli operatori e portate in acqua. Dovrebbero farcela da sole, in teoria, ma a questo punto tanto vale rischiare di pregiudicare l’imprinting, perché comunque così finirebbero in pasto ai gabbiani.
È stato bello ma, in queste condizioni, le foto e le riprese ovviamente non sono venute un granché. I ragazzi promettono che torneranno domani mattina alle 6, per chi vorrà. Ci alzeremo presto e avremo una seconda chance.
Con Andrea, Roby e Francesco ci facciamo un bagnetto in piscina al buio chiacchierando di Messico e di… sostanze stupefacenti: pare che uno dei primi provvedimenti del governo di AMLO sarà la depenalizzazione del consumo di cannabis, con una netta svolta antiproibizionista. Anche su questo, vedremo se manterrà le promesse.
Intanto non siamo più soli; è arrivato un nutrito gruppo di ragazzi, sono studenti di qualche università messicana in viaggio di istruzione (non è male come posto, per una gita scolastica). Ovviamente fanno un po’ di casino, ma niente di più, anzi vivacizzano un po’ l’ambiente.
Un’altra cena a base di pesce e camarones e un’altra stellata pazzesca. Dispiace solo che è già l’ultima sera che passiamo qui, ed è anche l’ultima con il gruppo unito. Domani a Tuxtla Giulio ci saluterà per andare a Palenque, mentre Silvia e Giovanni prenderanno un volo per lo Yucatan.
Ma bando alle tristezze. Dato che per dimenticare ci è rimasto solo l’ultimo goccio di licor de agave, proviamo a distrarci con un gioco di ruolo proposto da Roberto. Si chiama Lobos (lupi) e consiste nel dividere il gruppo tra el pueblo e, appunto, los lobos. Tutto avviene con dei bigliettini che si pescano e che può leggere solo il diretto interessato; nessuno del popolo sa chi sono i suoi compagni e chi sono i suoi avversari, mentre i lupi sanno chi sono gli altri lupi. Nel pueblo ci sono alcune persone con poteri “speciali”, come la bruja (la strega) o il niño miron (il bambino guardone). Il gioco, poi, si sviluppa durante la “notte”, nella quale i lupi cercano di uccidere una persona del popolo, che può essere salvata dalla strega. Il popolo, poi, deve discutere e scegliere una persona che, accusata di essere un lupo, verrà a sua volta uccisa… insomma, non è semplicissimo e andrebbe giocato un po’ per entrare nel meccanismo e capire bene cosa si può dire e cosa no, quali sono le strategie e così via. Noi ci proviamo, è anche piuttosto divertente ma la partita si conclude abbastanza rapidamente con la vittoria dei lupi.
A questo punto molti vanno a dormire ma ci sarebbe ancora da fare il collegamento con Radio Popolare, con il programma del mattino Snooze, condotto da Alessandro Braga e Disma Pestalozza. Qui sono le 23.30, in Italia le 6.30 di martedì mattina. Andrea racconta in breve il viaggio e si sofferma un po’ sulle notizie che riguardano le carovane dei migranti, dopo di che passa il telefono a me (a sorpresa, non c’era niente di preparato) in rappresentanza degli ascoltatori; io cerco di improvvisare qualcosa, chiacchierando con i conduttori, che conosco poco personalmente ma parecchio attraverso la radio. Scherziamo su Andrea, che il mio amico Giuseppe, anche lui assiduo viaggiatore, ha definito “un punkabbestia dal cuore tenero”, e racconto qualche episodio del viaggio, in particolare il nostro approccio non facile con la Junta del Buen Gobierno zapatista. Soprattutto ci tengo a dire le cose belle che meritano Roberto, che è qui con noi, e Betty, e a raccomandare a tutti questo viaggio, se come speriamo si rifarà già in primavera.
Dopo di che si chiacchiera ancora un po’ con chi è rimasto e, poco dopo mezzanotte, ce ne andiamo a dormire anche noi, visto che domani mattina quasi tutti vorremmo svegliarci alle 6 per il secondo appuntamento con le tartarughe.
Nono giorno: martedì 6 novembre 2018
Ore 5.50: la sveglia suona. C’è già luce. Mi do una sciacquata veloce e vado in spiaggia. I ragazzi del campamento tortuguero sono già qui, stanno aspettando noi per iniziare. Dei compagni di viaggio non c’è ancora nessuno, ma in pochi minuti, alla spicciolata, arrivano quasi tutti, anche qualcuno che ieri sera aveva detto che preferiva dormire. Evidentemente le tartarughe sono comunque un grosso richiamo.
Si comincia; stavolta c’è anche una delegazione, discretamente numerosa, di studenti universitari. Viene tracciata una linea sulla sabbia, che ci chiedono di non superare per non disturbare le tartarughe. Ne liberano ancora circa 300, ora le possiamo vedere molto meglio di ieri sera. Come ieri sera, alcune partono subito verso il mare, per quanto sempre a velocità… di tartaruga, altre sono in difficoltà. Parte il tifo per quelle che sembrano più deboli e disorientate, nella foga la linea sulla sabbia viene ben presto superata. I primi sono i ragazzi dell’università, ma poi anche noi man mano che le tartarughe vanno avanti le seguiamo come per “spingerle” nella giusta direzione. Sul mare volteggiano a bassa quota stormi di gabbiani, pronti a banchettare. Banale dirlo, ma la natura ha le sue leggi. Le onde si infrangono sulla battigia e si portano via un po’ di tartarughine che hanno già raggiunto la riva, altre vengono ributtate indietro. Sono talmente piccole che sembrano completamente indifese di fronte alla forza dell’oceano. Eppure qualcuna ce la farà.
Lo spettacolo è suggestivo e toccante, ancora di più nella luce del sole appena sorto. Difficilmente dei video potranno rendere il momento, ma ci proviamo; eccone un paio:
Giovanni è attrezzato con una fotocamera per le riprese subacquee, ci fa vedere qualcuno dei video che ha girato ed effettivamente così sì che viene qualcosa di bello.
Quando anche le ultime tartarughine “disperse” sono state prese e portate verso il mare, ci facciamo una passeggiata sul bagnasciuga. È piacevole farlo ora che il caldo è ancora sopportabile.
Poi colazione, si caricano in barca i bagagli e si parte. Il programma di oggi prevede due alternative, e il gruppo si è diviso più o meno a metà: io dovrei andare alla cascata del Aguacero, un gioiello naturalistico che si può raggiungere scendendo 700 gradini dentro il canyon del Rio de la Venta e che si annuncia davvero spettacolare. L’altra parte del gruppo andrà a fare un’escursione in barca sul canyon del Sumidero, un altro luogo molto bello dal punto di vista naturalistico anche se forse un tantino più turistico. È anche meno impegnativo fisicamente, alcuni che si sentono un po’ stanchi (siamo anche alla fine del viaggio) lo hanno scelto per questo.
Logisticamente, riuscire a fare tutt’e due non è un’impresa facile: Daniel, con il pullmino, dovrà accompagnare sia noi che loro e poi dovrà portarci tutti all’aeroporto di Tuxtla Gutierrez in tempo per prendere il volo per Città del Messico. Non sarà facile anche perché sappiamo che sono in corso dei bloqueos (blocchi stradali) dei sindacati dei maestri del Chiapas, che chiedono la ricostruzione delle scuole distrutte dal terremoto un anno fa; per di più molti di loro, che hanno contratti a termine, non prendono lo stipendio da mesi; uno stipendio di 5000 pesos al mese (meno di 250 euro) che è già al limite della sopravvivenza, in certi casi.
Noi proviamo a fare strade alternative per evitare i bloqueos, ma anche così si perde del tempo, perché le strade alternative non sono autopistas, sono strade a una corsia per senso di marcia che non sono in grado di sopportare l’aumento di traffico derivante dai mezzi, anche pesanti, che si riversano su di esse per evitare i blocchi. E poi, a un certo punto, per un bloqueo dobbiamo per forza passare. I bloqueos possono essere di due tipi, permanenti o intermittenti, cioè che ogni tanto si aprono per far passare un po’ di traffico e poi si richiudono. Questa seconda modalità è ovviamente meno dura, ha lo scopo di far passare il messaggio senza pregiudicare troppo la vita delle persone ma cercandone invece la solidarietà. Per nostra fortuna questo blocco che troviamo è di tipo intermittente, ci dicono che tra venti minuti ci faranno passare.
Scendiamo dal pullmino e ci mettiamo a parlare con i manifestanti, all’ombra di un albero perché il sole è già alto e picchia duro. Ci spiegano che il blocco è contro il governo statale, non quello nazionale, ed è a tempo indeterminato perché bisogna fare pressione sul governo e risolvere una situazione che va avanti da troppo tempo. Per questo sono determinati ad andare avanti a oltranza, finché il governo statale non verrà incontro alle loro ragioni. Noi esprimiamo solidarietà e spieghiamo che siamo viaggiatori un po’ speciali, che stiamo facendo un viaggio di turismo responsabile, che siamo andati a Oventik e così via. Ci teniamo a dirlo anche perché, mentre siamo qui ad aspettare, arrivano almeno un paio di autisti di pullman turistici che, a muso duro, chiedono di poter passare perché hanno i turisti. Richiesta che, ovviamente e giustamente, i maestri non accettano.
In generale basta poco per far salire la tensione; è sufficiente che qualcuno si avvicini troppo, o che ci sia un contatto fisico anche minimo, per far scattare la scintilla: “Non mi toccare!”, urla, strattoni, insulti. Uno degli automobilisti, che ha capito che siamo stranieri, continua a urlare verso di noi, indicando i manifestanti: “Ecco! Li vedete? Questi sono i maestri che abbiamo. E loro dovrebbero educare i nostri figli!”. Loro, per fortuna, mantengono il sangue freddo e nel giro di qualche minuto il tipo capisce che non sarà così che riuscirà a passare e la situazione si calma.
Passati i venti minuti previsti, li salutiamo augurando loro di ottenere quello che chiedono e ripartiamo.
Due giorni dopo, il sindacato e il governo statale chiapaneco hanno firmato un accordo che ha posto fine agli otto blocchi stradali che si erano installati. Contemporaneamente, i maestri che erano in sciopero anche loro da tre giorni sono tornati in aula. Nell’accordo sono comprese 280 opere di ricostruzione di scuole, con finanziamenti sia statali che federali. È previsto anche che entro l’8 dicembre si crei un secondo database includendo tutte le scuole che non erano state considerate danneggiate nella prima fase. Inoltre sono stati stanziati 212 milioni di pesos per il pagamento degli stipendi, compresi gli arretrati, di cui 30 milioni subito disponibili. Sembra, insomma, che i maestri abbiano ottenuto qualcosa.
Fatto sta che, però, questo tempo di attesa ha definitivamente fatto saltare i nostri piani per la giornata. Non c’è più tempo per la cascata, possiamo solo andare tutti al Sumidero, che è più vicino a Tuxtla, e da lì direttamente all’aeroporto.
Arriviamo verso le 14 alla partenza delle barche, facciamo subito i biglietti e partiamo. Ci prendiamo uno snack o un gelato, mangeremo qualcosa di più dopo.
Anche se mi resta un po’ di delusione per non aver potuto vedere la cascata, il canyon è decisamente bello, non si può considerare un ripiego.
L’origine del canyon è databile nello stesso periodo di quella del Grand Canyon, nello Stato americano dell’Arizona, con l’apertura di una fenditura nella crosta terrestre della zona e l’erosione successiva da parte del fiume Grijalva, che ancora l’attraversa. Il canyon ha pareti verticali che arrivano ad un’altezza di 1000 metri, ed esegue una stretta svolta a novanta gradi lungo il percorso del fiume. All’estremità nord del canyon c’è la diga Chicoasen, una delle tante sul fiume Grijalva, importante per la conservazione dell’acqua e la produzione di energia idroelettrica. Il canyon è circondato da un parco nazionale che si estende per 21.789 ettari su quattro comuni dello Stato del Chiapas.
Il territorio del parco confina con Tuxtla Gutiérrez, la più grande città dello Stato, il che ha causato problemi di sconfinamento umano nel parco. Cosa ancora più importante, le aree urbane e le zone a monte del canyon hanno causato seri problemi di inquinamento, con un picco massimo di 5000 tonnellate di rifiuti solidi estratti dal fiume Grijalva ogni anno. Questi rifiuti tendono ad accumularsi nel canyon a causa della sua ampiezza limitata, della convergenza dei flussi di acqua e della presenza della diga Chicoasen.
Il Canyon del Sumidero, durante l’invasione dei Conquistadores, fu teatro di un suicidio di massa degli Indios che, per non soccombere agli attacchi dell’esercito di Diego de Mazariegos, divenuti ormai inarrestabili, nel 1532 si gettarono dal punto più alto.
Il disegno del canyon con le sue pareti compare anche sullo scudo che è il simbolo dello stato del Chiapas, come ci mostra Roberto.
Le pareti rocciose sono davvero impressionanti. La roccia è calcarea, e presenta parti nere a causa dell’erosione. Giulio mi fa notare che come aspetto ricorda un po’ le Porte di Ferro, il punto più stretto del corso del Danubio al confine tra Serbia e Romania, ed è vero; forse qui è ancora più alto.
E poi qui la fauna è decisamente diversa. Abbiamo la possibilità di vedere finalmente da vicino i coccodrilli, e ce ne sono veramente parecchi che prendono il sole sulle spiaggette sulle rive del canyon. Per loro, per regolare la temperatura corporea, è fondamentale passare una parte della giornata al sole.
Questi coccodrilli arrivano fino a 5-6 m di lunghezza e pesano fino a 500 kg; quelli che vediamo qui, ci dicono, sono di medie dimensioni, ma fanno comunque una certa impressione. Non avevo mai visto, finora, un coccodrillo nel suo ambiente naturale. Le femmine si distinguono perché hanno il muso di forma più allungata. Mangiano pesci e piccoli crostacei, non si nutrono di carne umana anche se nessuno è disposto a tuffarsi per verificare di persona. Pare però che, soprattutto durante la settimana santa, qui la gente si bagni nonostante i coccodrilli; è una sorta di gesto rituale.
Anche gli avvoltoi, che sono sempre della specie chiamata zopilotes, fanno il bagno.
La profondità, mediamente, è di 25-30 metri, ma nel punto più alto, dove le pareti sono alte 1000 metri, si arriva a 50 metri di profondità.
Le pareti sono in molti punti interessate da formazioni geologiche di tufo, alcune con forme strane: ce n’è una nota come “Albero di Natale”. E c’è una singolare stalattite che ricorda la forma di un cavalluccio marino. Qua e là si vedono anche delle cascatelle.
Nelle pareti ci sono anche nicchie dove sono state installate sculture: non può mancare la classica Virgen de Guadalupe, ma abbiamo anche un Cristo decapitato.
Oltre ai coccodrilli, si vedono martin pescatori, aironi bianchi e grigi, e su un albero perfino, anche se la si vede da lontano e si nasconde tra le foglie, una specie di scimmia chiamata “scimmia ragno”. I giaguari invece ormai non ci sono più, si sono spostati a causa della presenza umana.
In tutta questa bellezza naturale, l’unica cosa che stona è una enorme macchia di plastica galleggiante. Ci dicono che ci sono anche delle barche che si occupano di tentare di tenere pulito il canyon, ma i fondi non abbondano e quindi non sempre riescono a passare tutti i giorni. Dalle zone a monte arriva giù di tutto, e questi sono i risultati. Forse ha qualcosa a che vedere anche con il consumo esagerato di bibite gassate, soprattutto Coca Cola che qui, lo sappiamo, arriva a costare meno dell’acqua.

Il “Cavalluccio marino”

La Virgen de Guadalupe

L’Albero di Natale
Tornati all’imbarcadero, ci facciamo un panino velocissimo e ci prepariamo a ripartire in direzione aeroporto. Nel frattempo, abbiamo raccolto i soldi per dare una meritata mancia a Daniel. Roberto assegna a me e a Francesco, che siamo ispano-hablanti e siamo anche quelli che in questi giorni hanno parlato di più con lui, il compito di scrivergli una dedica. Ne viene fuori qualcosa che, tradotto, sarebbe più o meno così:
All’autista più pazzo del Chiapas e di tutto il Messico
Al più grande guadatore di fiumi e torrenti
Al più grande scavalcatore di “topes”
DANIEL
Da parte di tutto il gruppo
Io aggiungo un P.S. in cui gli ricordo che, dato che mi ha detto che somiglio a un conduttore della TV messicana ma non ha saputo dirmi il nome, deve farmi sapere chi è questo personaggio perché sono troppo curioso.
Salutiamo Giulio, che farà ancora qualche giorno qui e che ora va a prendere un pullman per Palenque.
L’albergo è a due passi dal Paseo de la Reforma, una delle principali arterie della città, è quindi è lì che andiamo a cercare un posto per mangiare, guidati da Andrea che anche qui si sente come a casa.
Lungo il paseo si trovano molte installazioni artistiche, manco a dirlo a tema “Dia de Muertos”.
Troviamo un posto popolare con un bell’assortimento di tacos e altre specialità messicane. Quando usciamo è già tardi, quindi non resta altro che tornare in albergo e riposarsi un po’ dopo un’altra giornata a ritmi serrati.
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(Continua…)