Anche quest’anno ho deciso di regalarmi un Capodanno… differente.
Mai come quest’anno ho sentito il bisogno di essere solidale con chi è solidale: con chi salva vite in mare e con chi, sulla terraferma, porta avanti con coraggio e dedizione progetti di accoglienza e integrazione. E allora, quando ho saputo che era possibile passare i giorni di Capodanno tra Riace e Camini con i miei amici di ViaggieMiraggi, in questo caso con l’associazione calabrese Trame Solidali, mi è sembrata la soluzione ideale. Riace e Camini sono paesi di accoglienza e di integrazione in un territorio, la Locride, da sempre minacciato dallo spopolamento e dalla presenza della criminalità organizzata. Paesi che sono rinati proprio grazie all’accoglienza. Di Riace si è parlato tanto negli ultimi anni e tantissimo negli ultimi mesi, spesso a sproposito; di Camini molto meno. Ma andiamoli a scoprire insieme: quello che segue è il resoconto di tre giorni di grande intensità, soprattutto emotiva. Se vi va, seguitemi.
Domenica 29 dicembre 2019
Il nostro volo Alitalia da Roma Fiumicino è atterrato a Reggio Calabria con un certo ritardo, dovuto prevalentemente al fatto che ha dovuto aspettare noi… ritardatari (peraltro incolpevoli) provenienti da Orio al Serio con il volo delle 11.10. Dovevamo essere qui prima delle 14.30, ma in realtà siamo arrivati quasi un’ora dopo.
Comunque, ad accoglierci ci sono Rossella e Gianni, dell’associazione Trame Solidali, che si occupa anche di turismo responsabile ed è affiliata alla rete di ViaggieMiraggi. Rossella e Gianni sono una coppia nel lavoro e nella vita, e saranno le nostre guide in questa (purtroppo) breve full immersion calabrese. Personalmente me ne vergogno molto ma è la prima volta che metto piede in Calabria.
La prima cosa da fare è mettere insieme il gruppo di 10 persone, che sono arrivate con mezzi diversi (qualcuno è già in Calabria da qualche giorno); ma quando arriviamo noi il più è fatto, in pratica siamo gli ultimi. Noi rappresentiamo la componente milanese del gruppo: c’è la mia amica ormai storica Patrizia, e ci sono Antonella e Maurizio, amici di data più recente che ho conosciuto l’estate scorsa grazie a un viaggio in Albania con VeM + Radio Popolare. Ma all’interno del gruppo le provenienze sono varie: Vigevano per restare in Lombardia, l’Appennino tosco-emiliano, l’Umbria, il Lazio e… Bruxelles via Firenze.
Il pullmino guidato da Cosimo ci porta verso la prima tappa, che è il Museo Nazionale di Reggio, dove c’è una preziosa collezione di reperti archeologici ma soprattutto ci sono i bronzi di Riace: non si poteva proprio andare a Riace e non vederli, non fargli almeno un omaggio e un saluto. Di questo si tratterà o poco più, perché il tempo che abbiamo per visitare un museo così ricco è veramente poco.
Lungo il percorso Rossella, forse per prevenire le domande che potrebbero arrivare, ci spiega che se vediamo troppi rifiuti in giro è perché a Reggio la raccolta differenziata porta a porta col sistema dei mastelli, introdotta abbastanza di recente, non funziona perché non ci sono centri di conferimento: ce n’è uno solo attivo per tutta la provincia di Reggio e quella di Vibo Valentia, per cui è chiaro che non può funzionare. La Calabria è anche questo; ma la Calabria che vedremo noi è un’altra Calabria, che ci piace molto di più.
Un elemento caratteristico del paesaggio di Reggio e della Calabria in generale sono le fiumare, corsi d’acqua dal letto largo e sassoso e dall’andamento torrentizio: c’è acqua d’inverno, ma sono secche in estate. Diversi tratti cittadini, però, sono stati coperti.
Un’altra specificità di tutto il Sud e anche della Calabria che ci attira, non possiamo negarlo, sono i dolci. E allora, considerando anche che alcuni di noi causa ritardo aereo hanno mangiato poco o niente (il piano, almeno per me, era di mangiare qualcosa durante la pausa a Fiumicino, che però di fatto non c’è stata perché abbiamo dovuto correre all’imbarco del volo successivo; perciò ho messo sotto i denti solo un mezzo panino con la bresaola gentilmente offerto da Patrizia), chiediamo a Rossella il… permesso di farci un caffè e uno spuntino prima di entrare al museo. Manco a farlo apposta vicino al museo c’è un bar-pasticceria che sembra proprio fare al caso nostro… ed è l’occasione per scoprire una delizia di Reggio: i petrali. I petrali sono dei dolci di pasta frolla ripieni a forma di mezzaluna, con all’interno un ripieno ottenuto facendo macerare per molti giorni nel vin cotto e nel caffè zuccherato un tritato di fichi secchi, noci, mandorle, uva sultanina, buccia d’arancia e di mandarino. L’esterno è di solito guarnito con una spennellata di rosso d’uovo sbattuto e con i diavoletti (piccole palline di zucchero colorate); vengono usualmente preparati e consumati durante le festività natalizie. Se passate da Reggio provateli, vale la pena.
Entrati al museo, ci dirigiamo subito alla sala dei bronzi. Prima di entrare è necessario un periodo di qualche minuto di… decompressione in una sala d’attesa e poi in una sala filtro dove un flusso d’aria dovrebbe consentirci di entrare già decontaminati e acclimatati per non mettere a rischio la conservazione delle statue. Per lo stesso motivo, si entra a gruppi di non più di venti persone per un periodo di tempo limitato. Questo sistema vige dal 2014, quando i bronzi sono tornati al museo dopo il restauro.
In effetti ora pare che i due ragazzi, che si chiamano Bronzo A e Bronzo B, godano di ottima salute, considerando che non sono di primissimo pelo: hanno circa due millenni e mezzo sul groppone.
Il bronzo B non è affatto di… serie B. Anzi, secondo un’ipotesi accreditata, ci racconta Rossella, sarebbe un dio. Ma le ipotesi su chi potrebbero rappresentare i due guerrieri sono praticamente infinite: l’unica cosa certa, appunto, è che si tratta di due guerrieri. Se vi volete sbizzarrire scegliendo quella che vi piace di più, leggete qui.

Lui è Bronzo A

E lui è Bronzo B
Due guerrieri che, come tali, erano – si dice – dotati ciascuno di elmo, lancia e scudo. La domanda che da sempre aleggia è dove siano finiti. Purtroppo nessuno sa dirlo con certezza. Alcuni sostengono che siano stati inventariati, quando le statue furono rinvenute nel 1972, ma poi trafugati e venduti a qualche collezionista ricco e senza scrupoli; altri ritengono che siano andati semplicemente persi nel naufragio. Ma nemmeno sull’ipotesi naufragio gli storici sono concordi. Potrebbe, infatti, essere andata diversamente: potrebbe essere successo che la nave che li portava se ne sia sbarazzata quando il pericolo del mare in tempesta rese il carico insopportabile. Solo loro lo sanno, ma non parlano, e non perché hanno… la faccia di bronzo.
A proposito, un’altra curiosità che non sapevo è che per alcuni particolari è stato usato materiale differente dal bronzo: argento per i denti della statua A e per le ciglia d’entrambe le statue, avorio e calcare per le sclere, rame per le labbra e le areole dei capezzoli di entrambe le statue.
Continuiamo la breve visita cercando di fare un percorso che, per quanto veloce, non ci faccia perdere le chicche principali del museo. Per vederlo bene servirebbe almeno mezza giornata, forse una giornata intera.
Reggio è una città che trabocca di storia, ricostruita svariate volte (questa è una zona che ha subito nella storia terremoti devastanti, più di tutti nella storia recente quello del 1908) ma sempre sulle proprie macerie, quindi gli strati sono infiniti e i resti visibili sono pochi.
È tra le più antiche città d’Europa: L’antica Rhegion fu tra tutte la più antica colonia greca fondata in Italia meridionale. Il sito dove fu fondata la città era già abitato da indigeni (gli Ausoni e gli Enotri), la cui presenza è attestata dal rinvenimento di tombe in loco. Gli Enotri erano il popolo del mitico re Italo, da cui prende il nome l’Italia. Rhegion venne fondata poco dopo la metà dell’VIII secolo a.C. da genti calcidesi e messeniche; secondo il mito, fu l’oracolo di Delfi ad indicare loro il luogo dove fondare la nuova città: «Laddove l’Apsias, il più sacro dei fiumi, si getta nel mare, laddove, mentre sbarchi, una femmina si unisce ad un maschio, là fonda una città; (il dio) ti concede la terra ausone». Una vite abbarbicata a un ulivo venne interpretata come unione della femmina e del maschio. Il toponimo, similmente a Roghudi e Riace, viene interpretato come derivato da “Ruha ake”, luogo del vento nelle lingue sumero-accadiche.
Qui morì Giulia, la figlia dell’imperatore Augusto, passata alla storia per i diversi matrimoni e i molti adulteri, che con l’accusa di aver complottato per uccidere il padre fu mandata in esilio, prima a Ventotene e poi appunto a Reggio dove nel 14 d.C. morì.
Uno dei reperti più importanti del museo è la lastra Griso-Laboccetta, in argilla policroma, un capolavoro di produzione reggina risalente circa al 500 a.C. che rappresenta due fanciulle riccamente abbigliate in movimento, di danza o di fuga. Ben conservata la coloritura originaria: in nero la sottoveste e gli orli della sopravveste e del mantello, dorata la capigliatura.

La lastra Griso-Laboccetta
Un altro reperto unico è una figurina in avorio dell’età del bronzo medio (1700-1300 a.C.) raffigurante un uomo in perizoma, con i pugni stretti sul petto, probabilmente un guerriero o una divinità, realizzata a Creta e ritrovata a Punta di Zambrone.
Poi abbiamo i reperti cosiddetti di Casa Marafioti, dell’antica Locri: il cavaliere e la ricostruzione della decorazione in terracotta del frontone del tempio dorico (400 a.C.).

Il cavaliere di Casa Marafioti

Resti di una statua di Apollo
Locri è associata al mito di Persefone, sposa di Ade e quindi regina dell’oltretomba. La troviamo raffigurata in vari resti di tavolette votive, che ne rappresentano il rapimento e il matrimonio.
Un altro oggetto anche insolito e… divertente è un piccolo unguentario dipinto a forma di cinghiale.
Usciamo dal museo e si parte alla volta di Camini. Pur essendo Riace e Camini sulla costa ionica della Calabria, per arrivarci conviene prendere l’autostrada, la ben nota e travagliata Salerno-Reggio Calabria, che corre a breve distanza dalla costa tirrenica. Passando da Villa San Giovanni, la Sicilia è lì, così vicina che pare di poterla toccare. Rossella ci indica i “piloni”, i tralicci dell’alta tensione che anni fa portavano la corrente al di là dello stretto, prima di essere sostituiti da un elettrodotto interrato. Una volta in disuso si era parlato di abbatterli, ma a parte i costi si era scoperto che per molte persone erano ormai un elemento così caratteristico del paesaggio da esserci quasi affezionati. E così sono rimasti lì, a guardia dello stretto, uno qui sulla sponda calabrese e uno di là, su quella siciliana.
Percorriamo poi la provincia di Reggio verso nord fino a Rosarno-Gioia Tauro. Qui si esce dall’autostrada e si comincia il “coast-to-coast” verso lo Ionio. Da Marina di Gioiosa Ionica, prendiamo la litoranea e sulla nostra destra possiamo immaginare il mare, anche se ormai è troppo buio per poterlo vedere.
Dopo circa un’ora e mezza di viaggio, arriviamo a Riace Marina, che fa parte del comune di Riace con il centro storico, che si trova più su, intorno ai 300 m di quota. Definirla “frazione” forse non è corretto, dal momento che qui vivono i due terzi della popolazione; ma è certamente la parte del paese sviluppatasi più di recente, e che alle ultime elezioni comunali del 2019 ha fatto vincere il candidato di centrodestra Antonio Trifoli (candidato di una lista civica sostenuta dalla Lega), peraltro rivelatosi poi ineleggibile. Ma ne parleremo. È qui però che si può vedere l’ultimo cartello stradale rimasto dove Riace si presenta come “Paese dell’accoglienza”. Gli altri sono stati rimossi dalla nuova amministrazione che in tutta fretta, con uno dei suoi primi atti, ha provveduto a sostituirli con altri in cui Riace è presentato come “Paese dei santi Cosma e Damiano”. Sorvolando sulla volontà di cancellare con un colpo di spugna quanto fatto dalla precedente amministrazione di Mimmo Lucano, che comunque la si pensi ha fatto rinascere il paese e lo ha portato ad essere indicato come modello di integrazione in mezzo mondo, quanto meno è pubblicità ingannevole. Sì, perché i due santi medici del III secolo non hanno mai visto Riace neanche in cartolina, anche perché all’epoca non esistevano cartoline. La loro città natale, Egea, si trova nell’odierna Turchia, ed è lì che passarono tutta la loro vita prima di essere decapitati nei pressi di Antiochia. Poi, certo, sono da sempre oggetto di grande devozione a Riace, che dedica loro una festa di tre giorni, dal 25 al 27 settembre di ogni anno, con tanto di pellegrinaggi a piedi, processione e fuochi d’artificio. Ma questo è motivo sufficiente per appropriarsene? Ho i miei dubbi, ma lascio a voi ogni altra considerazione in merito.
Noi ora passiamo soltanto da Riace ma senza fermarci, anche se per la verità passando viene avvistato Mimmo Lucano seduto al bar del paese, e allora alcune viaggiatrici, che sono in macchina con Gianni perché non ci stiamo tutti sul pullmino, ne approfittano per scendere a salutarlo e baciarlo…
Proseguiamo per Camini, piccolo borgo a 3 km circa da Riace, in cui è stato realizzato un sistema d’accoglienza diffusa simile a quello di Riace. Conosceremo i ragazzi della locale cooperativa che sta attuando un progetto di inclusione, apprezzato e riconosciuto anche a livello internazionale, che vede protagonisti sia gli abitanti del borgo che popoli di culture diverse. Camini, che fa circa 800 abitanti censiti (ma solo 250 vivono effettivamente nel borgo), prende il suo nome dai camini delle fornaci per la cottura delle ceramiche, che anticamente caratterizzavano il borgo.
L’accoglienza è diffusa anche per noi, che ci “diffondiamo” per il paese, in diverse case, a gruppi di 2 o 3 o, come nel mio caso, da soli. Io ho tutta per me una confortevole casetta che è chiamata Casa dell’Uguaglianza, cosa di cui vado subito molto fiero. Tutte le case che fanno parte del progetto di accoglienza sono state ristrutturate rispettandone in pieno l’antica struttura, con i giusti materiali, a volte anche “di riciclo”, cioè provenienti dallo stesso paese, ma sono dotate di tutto, compresi estintori e cassette di primo soccorso. L’artefice di tutto ciò è Cosmano, che conosceremo poi a cena e che per la cooperativa si occupa della parte di edilizia, quindi di tutte le ristrutturazioni. Grazie a lui e a chi lavora con lui, la cooperativa può risparmiare cifre notevoli sui costi della manodopera che dovrebbe sostenere chiamando ogni volta una ditta esterna.

Eccomi orgoglioso davanti alla mia casetta
Gli stretti vicoli del borgo, le sue ripide scalinate e le sue antiche case in pietra sono affascinanti. È tutto un saliscendi e si gira rigorosamente a piedi, qui le macchine non arrivano.
C’è tempo solo per darsi una rinfrescata, dopo di che ci aspettano per cena al bar della cooperativa, che poi è anche l’unico del paese. Giusto per avere un’idea di quanto la cooperativa abbia fatto e stia facendo per il paese, che si stava spopolando e nel giro di non molti anni sarebbe probabilmente andato lentamente a morire.
Fa un freddo pungente abbastanza inaspettato a Camini, ma l’accoglienza invece è calda. Ad accoglierci c’è Rosario Zurzolo, il presidente della cooperativa, con la moglie Giusy, coordinatrice, e la loro bambina. Rosario ha circa quarant’anni e un entusiasmo contagioso, lo si capisce fin da subito. La cooperativa, che si chiama significativamente Eurocoop Jungi Mundu (unisci il mondo nel dialetto locale), è in buona parte una sua creatura e ci tiene a raccontarcela già un po’, anche se poi molto lo vedremo e lo scopriremo direttamente domani. Di sicuro ci tiene a farci assaggiare i prodotti del laboratorio agroalimentare, che produce dell’ottimo olio extravergine di oliva (che si chiama Camini d’Avorio, perché nasce dal primo progetto di accoglienza realizzato nel 2011 dalla cooperativa con un gruppo di ragazzi della Costa d’Avorio), un vino Nero d’Avola e altri prodotti come olive, giardiniera, carciofini, marmellate di arancia e di bergamotto, tutti prodotti che abbiamo potuto assaggiare già nel corso di questa prima cena, che è stata ottima e abbondante: antipasti, pasta al pomodoro, polpette e cime di rapa.
È anche l’occasione per testare la nostra resistenza al livello di piccante ritenuto normale in Calabria, che come si sa è piuttosto elevato. C’è chi fatica un po’ ad adattarsi, ma c’è anche chi non si accontenta e ha bisogno addirittura di un suo personale vasetto di condimento a base di peperoncino per fare all’occorrenza un’aggiuntina.
È venuto a salutarci anche il sindaco Pino Alfarano, eletto nel 2016 dopo un periodo di commissariamento del comune e che ha fin da subito sposato il progetto di accoglienza. Io gli dico che riconosco la sua voce, avendo ascoltato il suo intervento nel servizio che è andato in onda su Radio Popolare nel programma Onde Road a seguito del viaggio svoltosi nel giugno scorso e patrocinato dalla radio, sempre ovviamente col fondamentale supporto di ViaggieMiraggi. In quell’occasione era passato di qui un gruppo di ascoltatori con la giornalista Chiara Ronzani, che aveva raccolto alcune voci tra cui quella del sindaco e quella dell’ambasciatrice del Burkina Faso, che si trovava in quei giorni a Camini. Il sindaco conferma quanto detto allora riguardo alla rinascita del paese, che ha indiscutibilmente avuto luogo negli ultimi anni grazie al progetto di accoglienza. Le famiglie accolte a Camini, oltre a costituire in qualche modo una lezione di vita per chi nascendo nella parte “giusta” del mondo è comunque più fortunato, hanno portato tanto altro. Dei 250 abitanti del paese, 50 lavorano con la cooperativa. E avendo il lavoro, che da queste parti è sempre la prima cosa che manca, si può anche pensare a fare figli. Nel 2017-2018 a Camini sono nati 18 bambini, numeri che non si vedevano da decenni. La scuola primaria, da 12 bambini in un’unica pluriclasse, ha visto un raddoppio del numero di bambini, con una seconda pluriclasse, e la scuola dell’infanzia è stata riaperta.
Alla domanda “Cosa pensa di quello che è successo a Riace? È preoccupato che qualcosa di simile possa succedere anche a Camini?” aveva tentato all’inizio di non rispondere, ma poi si era lasciato andare dicendo che è troppo facile puntare il dito su certe realtà, che i contributi del Ministero nessuno qui se li intasca, e che se avesse potuto avrebbe invitato Salvini (allora Ministro degli Interni) a venire a Camini e vedere, prima di giudicare. Sottoscrivo in pieno.
Rosario conferma che è stata bloccata l’emorragia di persone che se ne andavano dal borgo, dove anche i pochi negozi stavano chiudendo. Si rischiava che le poche persone rimaste, anche per comprare alimentari e beni di prima necessità, fossero costrette ad andare giù fino al mare. Il progetto era ed è finalizzato non solo all’accoglienza, ma visto in un’ottica più complessiva alla rinascita dell’intera comunità, attraverso il recupero degli edifici del centro storico. E i risultati ottenuti finora sono la prova che si può fare, se c’è la volontà di tutti e se anche la politica fa il suo, almeno non si mette di traverso. Gli effetti dei decreti Sicurezza anche qui si fanno sentire. Il progetto ex SPRAR (Sistema Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati) oggi si chiama SIPROIMI – Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati. Concretamente significa che non possono più accedervi i richiedenti asilo, ma solo quelli che sono già titolari di protezione internazionale, cioè la cui domanda di asilo è già stata accolta, e i minori non accompagnati, che restano l’unica categoria “protetta”. Qui a Camini i posti disponibili sono 118, ma attualmente solo una settantina sono occupati. C’è l’idea di creare una fondazione per dare una mano anche alle persone che non hanno i documenti per rientrare nei progetti, ma servono soldi e nel frattempo le persone restano per strada. Anche l’attuale governo (che doveva essere quello della discontinuità e del “nuovo umanesimo”, questo lo aggiungo io) si guarda bene dal toccare i decreti di Salvini e, anzi, ha emanato una circolare che impone con il 1° gennaio 2020 di buttare fuori dagli ex SPRAR tutti i titolari di protezione umanitaria, a cui era stata concessa la protezione in via “eccezionale”.
Come se non bastasse l’impegno di questo progetto, la cooperativa si è ora assunta anche l’onere di gestire la tendopoli di San Ferdinando, che ha di fatto sostituito la baraccopoli dei migranti impiegati come braccianti in agricoltura, che è stata sgomberata e che è tristemente famosa per le condizioni di vita ai limiti dell’umano e per le diverse morti che si sono verificate a causa degli incendi. Rosario ci racconta che su 500 persone c’è una sola donna, che lui ha tentato di far entrare nel progetto di Camini, ma non è stato possibile. Questa donna dorme con suo marito in un container, che era soggetto a infiltrazioni d’acqua e a una serie di problemi; ora, attraverso una raccolta fondi, è stato reso un po’ più vivibile ma sempre di una situazione precaria si tratta. Poi c’è il caso di un ragazzo della Guinea che ha tentato il suicidio, perché vorrebbe tornare nel suo paese ma non ci riesce a causa delle difficoltà burocratiche che bloccano i rimpatri. Insomma, le situazioni drammatiche sono tante.
Qui invece pare che le cose, compatibilmente con le difficoltà quotidiane, vadano bene. Dopo cena abbiamo potuto guardare un bel video della vendemmia, che ci ha fatto vedere tutto quello che c’è dietro il Nero d’Avola che abbiamo bevuto. Qui c’è anche una fattoria didattica. Si vedono i bambini siriani che pigiano l’uva… insomma, sarò buonista (peggior insulto di questo 2019, forse insieme a “intellettuale”), ma queste cose mi piacciono.
Poi si può sorseggiare un limoncello (ovviamente “made in Camini”), chiacchierare ancora un po’ con Rossella, Gianni, Giusy e Rosario, e scoprire che c’è un cauto ottimismo sia per le elezioni regionali del 26 gennaio che per quelle del sindaco di Reggio; almeno, non sembra già tutto perduto, che di questi tempi è già una cosa. Si può andare a nanna un po’ più sereni, non tanto per questo ma per le persone che stiamo conoscendo; e con la certezza che domani avremo ancora di che stupirci.
Lunedì 30 dicembre 2019
Il risveglio a Camini è piacevole ma… fresco. Ho dormito bene grazie al condizionatore usato a pompa di calore, ma se la stanza si può riscaldare il bagno resta freddino. Ci hanno detto tutti che le temperature di questi giorni sono piuttosto eccezionali per il periodo: in effetti questa notte siamo andati vicini allo zero, e anche ora siamo di poco sopra.
Scendiamo tutti dalle nostre case verso il bar della cooperativa, per far colazione e prendere qualcosa di caldo. Così rinfrancati, ci andiamo a fare una prima foto di gruppo nella piazza della chiesa. La chiesa risale al XII secolo, ma quello che colpisce di più è una statua del Cristo Redentore che… insomma, farebbe molto Rio se non fosse che c’è questo freddo pazzesco e ogni tanto anche qualche spruzzata di nevischio.
Scambiamo qualche battuta con un venditore ambulante di pesce che arriva sulla piazza e apre il bagagliaio della Panda per mostrare la mercanzia, dopo di che si parte per il nostro giro alla scoperta di Camini.
La prima tappa, come è giusto che sia, è nel centro di accoglienza, che è anche il centro nevralgico della nuova comunità che si è venuta a creare intorno alla cooperativa. Qui c’è Veronica, un’altra operatrice che ci accoglie e ci parla dei progetti. Gli uffici sono decorati con tante foto e tanti lavori fatti dai ragazzi: c’è un planisfero dove sono segnati i paesi di provenienza dei migranti, e c’è un albero di Natale decorato con bamboline di carta su cui si trovano scritti gli articoli delle convenzioni internazionali su migranti e rifugiati.
Nella scuola primaria di Camini oggi ci sono due pluriclassi: una per 1° e 2°, una per 3°, 4° e 5°. Poi è stato riaperto l’asilo, che era chiuso e che oggi ha 20 bambini. In totale, tra asilo e scuola ci sono circa 60 bambini. Le medie, invece, sono a Riace Marina, mentre per le superiori bisogna andare a Monasterace o a Caulonia; non lontanissimo, ma ci sono soltanto istituti tecnici: agrario, commerciale e per il turismo.
Alcune delle case, che erano tutte disabitate da anni o decenni ormai (Camini, come tutta la Calabria, è sempre stata storicamente terra di emigrazione), sono state rilevate dalla cooperativa, in altri casi i proprietari le danno in affitto.
Una parte dell’equipe si occupa anche di cercare opportunità di lavoro per i beneficiari del progetto, quando è possibile. Ad esempio, sono stati attivati tirocini con ANPAL Servizi (Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro), che danno un primo approccio al mondo del lavoro e una formazione. I settori sono principalmente quelli dell’edilizia, della falegnameria, naturalmente dell’agricoltura e della ristorazione.
Un grosso limite è dato dalla durata del periodo di accoglienza, che è limitata generalmente a 6 mesi. Si cerca di ottenere delle proroghe, ma non sempre ci si riesce; ed è un tempo spesso non sufficiente a inserire le persone al punto da metterle in grado di camminare con le proprie gambe, sia per quanto riguarda il lavoro che la casa e tutte le altre necessità.
Il gruppo di lavoro della cooperativa, in costante evoluzione, oggi comprende un responsabile, una coordinatrice, tre mediatori culturali, una psicologa, un’educatrice, un’assistente sociale, un medico, due operatori legali, un’insegnante per i minori, un’operatrice addetta all’alfabetizzazione degli adulti, tre operatrici sanitarie, un supporto psicologico esterno per gli operatori del progetto, altri mediatori a chiamata, due conducenti, tutor per i laboratori artigianali, figure preposte all’orientamento professionale e lavorativo, manutentori, tecnici e addetti alle pulizie.
Maria Stella ci parla di un altro fiore all’occhiello di Camini, che sono i ragazzi che arrivano qui da tutta Europa per collaborare con il progetto di Camini. La fascia d’età va dai 18 ai 30 anni, e le modalità sono principalmente quelle del volontariato. Ci sono strumenti che consentono ai giovani europei di muoversi e di partecipare a progetti di integrazione come questo. Qui con noi c’è Amalia, dalla Romania, che è arrivata proprio così. Ha iniziato con un progetto a breve termine di soli due mesi, ma si è trovata bene e ha deciso di presentare un altro progetto per fermarsi altri sei mesi. Si è sentita anche lei accolta, come in famiglia, come in una comunità; a vedere il suo sorriso, non sembra che lo dica per piaggeria. La sua attività principale è quella di curare i bambini (il cosiddetto “Baby parking”) alla ludoteca con la maestra Chiara. Ma la mattina, quando i bimbi sono a scuola o all’asilo, lei sta qui in ufficio e lavora alla pagina Facebook e in generale ai social media, in particolare del progetto che si chiama Camini Corps: Chance – Creativity – Community for Solidarity Actions, il progetto di volontariato per l’inclusione sociale e l’integrazione al quale hanno collaborato diversi altri ragazzi prima di lei. Si occupa cioè di far conoscere il progetto: disseminare, dice Maria stella, spargere semi positivi. Se capita, poi, può lavorare anche per i laboratori artistici o dove è necessario.
Per poter partecipare a questo tipo di progetti europei è necessario poter ospitare i volontari (e su questo Camini non ha problemi di disponibilità) e accreditarsi presentando una domanda agli enti preposti presso l’UE e dimostrando di avere competenze, capacità e tutte le caratteristiche richieste. Avendo vinto il bando, Camini da un anno può attivare questi scambi virtuosi, che servono sia alla cooperativa, che si può avvantaggiare dell’opera dei volontari, che ai ragazzi che fanno un’esperienza importante per il loro percorso formativo.
Ritroviamo anche Rosario, che ci spiega che lui e i suoi collaboratori stanno valutando gli effetti su Camini della circolare del Ministro Lamorgese secondo la quale i titolari di protezione umanitaria dovranno uscire dai SIPROIMI. Sembra che verranno anche divise le famiglie, e dato che qui ci sono situazioni in cui, ad esempio, la moglie ha ottenuto l’asilo politico e il marito ha solo la protezione umanitaria questo sarà un problema in più, che si sperava di non dover affrontare.
Ora ci dovrebbe raccontare un po’ meglio la storia della cooperativa: prova a iniziare, ma perde subito il filo. Si scusa, spiega che ha la testa a questa nuova emergenza da gestire, e come non capirlo? Ricomincia, e racconta che i soci fondatori sono tutti ragazzi di Camini che volevano creare qualcosa in questo piccolo borgo, tra mille difficoltà, per mettere un freno allo spopolamento, e siccome all’inizio degli anni 2000 si parlava molto di Europa unita e dell’euro che stava per arrivare, nacque l’idea di chiamarla Eurocoop Servizi. L’idea era di fornire servizi utili al Comune: pulizia del verde e delle aree cimiteriali, scuolabus e altro, favorendo anche l’inserimento di persone svantaggiate, come ex detenuti, nel mondo del lavoro. Riuscirono subito a integrarsi con altre realtà locali, essendo attivi nel sociale e facendo parte anche di diverse associazioni che cercano di tenere vivo il territorio. Ma si resero conto che tutto questo non bastava, perché erano attività di breve periodo, che attiravano persone per un evento ma senza riuscire a coinvolgerle in qualcosa di duraturo e che potesse veramente dare una svolta. Ed ecco che, seguendo l’esempio di Riace che già da qualche anno aveva iniziato il suo progetto di accoglienza, si pensò di provare a creare anche qui un progetto simile, recuperando il centro storico e le case abbandonate, facendole rivivere con le persone che arrivavano e che avevano la necessità di un alloggio. La cooperativa decise di aprirsi all’accoglienza nel 2011, quando a seguito dell’attacco alla Libia gli africani dell’Africa subsahariana che si trovavano in quel paese cominciarono a fuggire attraversando il Mediterraneo; il governo chiese disponibilità e la comunità di Camini diede disponibilità ad accogliere persone. Era il progetto ENA (Emergenza Nord Africa), con il governo Berlusconi che aveva affidato la gestione alla Protezione Civile e agevolato i comuni che erano già titolari di progetti SPRAR o che avevano posti disponibili negli alberghi.
La sindaca di allora, però, bloccò un progetto di accoglienza con le persone che stavano già entrando nelle case. Per questo si persero 3 anni.
Ma l’attività comunque proseguì nel luglio del 2013 con il progetto Ampliamento SPRAR, che vide coinvolte popolazioni provenienti dal Corno d’Africa, e con il quale arrivò il primo bambino, Donat, che con la madre Lemlem scappava dall’Eritrea.
Nel gennaio del 2014 il Comune di Camini rientra finalmente nelle graduatorie del progetto SPRAR con 15 posti, a cui presto se ne aggiungono altri 15. Arrivano i primi minori non accompagnati.
Poi, tra il novembre del 2014 e il maggio 2015, il numero delle persone accolte sale a 70. È il tempo delle famiglie, della presenza di tanti bambini, e dei bambini che cominciano a nascere qui a Camini. Arrivano da Nigeria, Libia, Mali, Ghana, Pakistan, Bangladesh, Iraq, Ucraina, e aggiungendosi a Niger, Gambia, Senegal, Costa d’Avorio, Sudan, Eritrea ed Etiopia, generano un intrecciarsi di mondi, culture e colori che giustificano in pieno il senso della denominazione “Jungi Mundu” che viene data al centro di accoglienza.
Nel marzo del 2016 nasce il laboratorio d’infanzia “I Colori del Mondo”, un microcosmo destinato ai piccolissimi, spazio di incontro, integrazione e gioco dove i bambini in età prescolare incontrano altri bambini per condividere percorsi di crescita socio-educativi attraverso il gioco, la pittura, il disegno, la musica, il teatro, la cucina, la danza e l’espressione corporea.
L’accoglienza prosegue e si intensifica nell’aprile del 2016, quando per la Cooperativa si attiva in maniera concreta il programma Resettlement, predisposto dal Ministero dell’Interno, che prevede il trasferimento diretto in Italia di titolari di protezione o richiedenti da un paese di primo asilo, come la Turchia, il Libano, la Giordania, dove nel tempo la loro incolumità potrebbe essere messa a rischio. Cresce il numero di presenze arrivando ai 118 ospiti a regime, tra cui molte famiglie, in particolare siriane, scampate dagli orrori della guerra. Famiglie numerose, con bambini nati e cresciuti sotto il rumore delle bombe, alcuni con gravi problemi di disabilità, sradicati da un ambiente a dir poco disumano e rifugiati anche per lunghi periodi in una sorta di “limbo”, prima di essere accolti in virtù di questo programma.
Rosario continua, e spiega quale sia tuttora il suo entusiasmo nel vedere persone provenienti da diversi paesi e culture, più colte e meno colte, di diverse estrazioni sociali, che comunicano tra di loro e convivono. Questa è la forza del progetto, di essere riusciti a convivere in un piccolo paese, pur tra tante difficoltà. Lui si immedesima sempre nell’altro e pensa che se una persona ha avuto il coraggio di attraversare il Canale di Sicilia stando tre o quattro giorni accovacciato nella barca con il bambino tra le gambe, senza mangiare e senza bere, sapendo che il rischio di morire è ben presente, significa che davvero scappa da qualcosa di ancora più tremendo e che davvero ha bisogno di aiuto. Sembra quasi banale a sentirlo dire così, ma è incredibile quante persone invece non capiscano una cosa così semplice.
Tutto questo prende ancora più forza se si pensa che i genitori di Rosario, prima che lui nascesse, erano emigrati in Germania; le sue sorelle maggiori sono nate lì, poi dopo 10 anni sono tornati a casa e lui è nato a Camini. Vuol dire che lui, sia pure indirettamente, sa dall’esperienza dei suoi genitori cosa vuol dire emigrare, e ora che può farlo lavora per l’accoglienza e la solidarietà verso chi, 40 anni dopo, vive la stessa esperienza. Perché nessuno lascia il suo paese per divertimento, sarebbe ora di capirlo e, dato che siamo un paese che ha visto milioni di suoi cittadini emigrare in tutto il mondo (molti, soprattutto giovani, lo fanno tuttora, sia pure in condizioni meno difficili), di coltivare la memoria.
Abbiamo la possibilità di conoscere anche Celestino Gagliardi, che lavora anche lui per la cooperativa e che è l’autore del bel libro fotografico su Camini “Un mondo nuovo”, che ci hanno regalato ieri sera. La fotografia è la sua passione, ma qui in ufficio cura gli aspetti gestionali e amministrativi, garantendo che ad ogni verifica (la prefettura ogni due mesi controlla l’attività della cooperativa) tutta la rendicontazione e la documentazione che riguarda il progetto sia a posto. Per farlo, è stato costretto a studiarsi a memoria il manuale che regola la gestione dei progetti di accoglienza, un manuale che viene costantemente aggiornato e modificato. Non si può mai perdere d’occhio la situazione. A maggior ragione dopo quello che è successo a Riace, il suo lavoro è assolutamente fondamentale. Tutto quello che si fa qui deve essere inattaccabile. Un limite dell’esperienza di Riace può essere stato quello di aver accentrato troppe funzioni nella figura di Mimmo Lucano, ma non dimentichiamo che se c’è stata qualche irregolarità è stato perché la Prefettura troppe volte ha sfruttato Riace per gestire le emergenze. Ma soprattutto è stata la notorietà, è stato il diventare un simbolo e un modello che ha messo Riace sotto attacco. Infatti non so se augurarmi che si sappia di più di Camini: è difficile, da una parte vorrei che altri paesi seguissero anche questo esempio, ma dall’altra forse per Camini è meglio restare un po’ sotto traccia. Comunque sia, qui siamo in pochi, e comunque non credo che né Rosario né il sindaco Alfarano finiranno mai su Fortune, tra i 50 personaggi più influenti al mondo, come è capitato (forse bisogna dire purtroppo) a Mimmo Lucano.
Passiamo poi a visitare i vari laboratori artigianali: si parte da quello di tessitura, dove Caterina e Giuliano insegnano l’arte di… riciclare i tessuti. Qui si producono piccoli tappeti originali e coloratissimi riciclando vecchie magliette di cotone o altri tessuti, che vengono tagliati a striscioline e poi riutilizzati. Per farlo è stato riportato in vita niente meno che un telaio di metà ottocento, che come se non bastassero gli anni si è salvato anche da un incendio: si possono vedere i segni di alcune bruciature. Ora è manovrato dalle mani di Harmony, una mamma nigeriana che intanto riesce anche a badare al suo bambino. Intanto Blessing, anche lei nigeriana, si dedica a creare braccialetti e un’altra ragazza eritrea taglia i vecchi tessuti. Con loro altre donne vittime di tratta e di violenza, che tessendo imparano che le loro mani possono creare qualcosa che vale e ricostituiscono il tessuto della loro vita. La supervisione di questo progetto, per quanto riguarda gli aspetti terapeutici, è affidata all’etnopsicologa e antropologa Serena Tallarico, che è arrivata qui da poco dopo una lunga esperienza in Francia.
L’attività della “pezzara” – ci racconta il mastro tessitore Giuliano – è tra le cose più semplici che si possono fare al telaio, ed è radicata nella Calabria grecanica, quella del sud che comprende la provincia di Reggio.
Poi si va da Milena, al laboratorio di arte creativa. Trasformare, riadattare, dare nuova vita a ciò che sembra inutile è il principio sul quale si fonda questo laboratorio. Tra le tante cose, si trovano originali confezioni di sapone fatto in casa con l’antico metodo a freddo combinato con la tecnica di Aleppo, che prevede l’infusione delle foglie di alloro nel tradizionale olio di oliva, per dare profumo al sapone. Lo fanno le donne siriane, insieme con le donne di Camini.
Milena lavora da molti anni con la cooperativa. Riesce, con la sua creatività, a creare una grande sintonia soprattutto con i bambini. Lavora anche con gli adulti, ma ai bambini piace così tanto che quando sono liberi appena possono vengono qui.
Con gli adulti fa i gioielli di carta con la tecnica del quilling, che consiste nel dipingere e arrotolare strisce di carta. Tutto viene assemblato in base alla forma che si vuole dare e passato con un’apposita vernice che serve per dare lucentezza. Vengono realizzate anche delle tavolette “etniche” decorate e dipinte da alcune ragazze siriane, e dei gioielli in legno dipinti.
Poi c’è il maestro Franco, che nel suo laboratorio di ceramica insegna ai bambini siriani l’arte del vasaio, un’arte che per loro è anche terapia.
Franco, che è calabrese, aveva avuto esperienze a Faenza con il metodo di Bruno Munari, e da qui è nata l’idea di cominciare un lavoro pedagogico con i bambini. L’approccio alla materia, in particolare all’argilla, come gioco, per poi capire la tecnica. Si sviluppa così la logica, la capacità di analisi e di sintesi. Camini è una piccolissima comunità, ma è un posto dove l’accoglienza è viva. Se ne accorgono presto anche i siriani (ora sono 40), che all’inizio pensano di essere capitati in un posto “da sfigati” (pensando all’Europa tutti si immaginano una grande città moderna rutilante di luci e di colori), ma poi capiscono che è un posto speciale, dove l’affabilità nei rapporti coltivata anche all’interno della comunità diventa metodo di accoglienza. Franco ha sempre lavorato nel sociale, usando il laboratorio come strumento non solo didattico ma anche terapeutico; ha lavorato anche in altri centri di accoglienza prima, per esempio a Badolato, ma anche nel carcere di Vibo e in quello di Catanzaro. Qui però si è creata un’alchimia speciale. I bambini, pur essendo il paese così piccolo, sono tanti. In questo piccolo laboratorio possono giocare e lavorare insieme fino a 20 bambini, in genere divisi per fasce di età. Ed è bellissimo – dice Franco – vedere come interagiscono e come si aiutano, come i più grandi accompagnano i più piccoli e poi li riportano a casa.
Tra le varie cose, qui ci sono i bicchieri in ceramica nei quali ieri sera abbiamo bevuto il vino di Camini.
Franco poi ci parla con entusiasmo del prossimo progetto: vorrebbe iniziare un’attività per produrre mattoni pieni fatti a mano e far rivivere così l’antichissima tradizione di Camini. Sono mattoni con qualità speciali, che si usano ad esempio per i forni delle pizzerie. Si possono vendere a quasi 2 euro, mentre quelli stampati industriali costano di solito 87 centesimi.
Tra i bambini siriani che vivono a Camini, ce n’è uno con la spina bifida, che va incontro ovviamente a grandi difficoltà, sia per le cure (deve fare avanti e indietro da Roma, essendo seguito dall’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù), sia per la scuola: oltre all’insegnante di sostegno, avrebbe bisogno di un operatore che si occupi delle sue necessità e lo assista nelle cose quotidiane, ma la scuola non è in grado di fornirglielo. Sembra incredibile che il Servizio centrale abbia destinato proprio qui un bambino con questi problemi. Noi lo abbiamo accolto – dice Rosario – perché non potevamo certo rifiutarlo, ma è chiaro che Camini non è il posto ideale per lui. Come non lo è per l’unico rifugiato siriano in sedia a rotelle in Italia, che invece chissà come è finito proprio qui.
Torniamo per il pranzo al bar della cooperativa, piuttosto sul tardi; poi si fa un salto a vedere il presepe meccanizzato. A proposito, com’era quella storia che quando arrivano i migranti si perdono le NOSTRE tradizioni, che vengono calpestate dagli invasori, invariabilmente tutti musulmani e tutti integralisti? Qui c’è un presepe in piena regola e anche in grande stile, con luci, colori, la macina che si muove, il mulino a vento pure… l’unica particolarità, se vogliamo, è che c’è anche la moschea. Aaarrgh!!! Sento già gli strali sovranisti del Capitano e di Io sono Giorgia. Speriamo che non lo vengano a sapere. Non so, di sicuro è insolito e c’è un errore storico (ma allora, se vogliamo metterla così, ce ne sono tanti) però tutto sommato, vi dirò, a me sembra un compromesso e un… sincretismo accettabile. Tra l’altro la moschea è pure in posizione defilata.
Breve pausa e poi, alle 17, appuntamento alla sala polifunzionale del Comune per la presentazione del libro di Tiziana Grassi “L’accoglienza delle persone migranti – Modelli di incontro e di socializzazione” (prefazione di David Sassoli, presidente del Parlamento europeo), edito da One Group, piccola casa editrice aquilana.
Il sindaco parla del percorso di accoglienza di Camini come di un percorso condiviso, che oggi lo porta a dire che con questo progetto è stata data dignità alle persone ospitate, agli operatori e al territorio. Camini – parole sue – era un paese che stava morendo, e che oggi è rinato. Per questo, grazie a tutti quelli che lavorano per il progetto con la cooperativa, e a tutti quelli che da fuori lo sostengono, la comunità va avanti e continua a crederci, anche perché i risultati si possono toccare con mano guardando quanti bambini ci sono in sala. Ed effettivamente il vociare allegro dei bambini sarà una costante durante tutta la presentazione.
Rosario si augura che il governo sostenga questi progetti, perché è impensabile che qui ci siano 50 posti inutilizzati già finanziati, con tutte le persone che hanno bisogno e che non possono essere accolte a causa dei decreti Sicurezza. Chi ha la protezione umanitaria ha il diritto di stare per strada ma non ha il diritto di stare in una casa vuota per la quale il governo stesso sta pagando. L’augurio è che con l’anno nuovo e con l’arrivo di Francesco, un bambino di una famiglia nigeriana che è nato sabato scorso, arrivi anche un po’ di luce e di speranza.
Inizia poi la presentazione vera e propria, con l’autrice che ricorda la sua esperienza da giornalista a Rai International che l’ha portata a contatto con gli italiani emigrati in tutto il mondo, e ricorda che particolarmente la Calabria è terra di emigrazione. Lei ha raccolto spesso il pianto dei nostri connazionali, le loro storie di sofferenza e atroce distacco, di coraggio, di dolore e di conquista. I calabresi erano tra quelli che più sentivano la nostalgia e la sofferenza della distanza dalla terra di origine, alla quale sentivano di appartenere. Oggi le generazioni sono passate, ci sono figli, nipoti e pronipoti che si sono fatti strada, ma non si possono dimenticare le collette fatte dai calabresi per costruire chiese all’estero che li aiutassero a mantenere vive le loro tradizioni, l’identità e il senso di comunità. Vivendo tutto questo lei, che è pugliese e quindi si sentiva vicina a queste storie anche come meridionale legata alla terra, ha maturato una particolare sensibilità anche come studiosa al tema migratorio. Le persone che migrano, oggi come ieri, lasciano tre madri: la propria madre naturale, la propria madre terra e la propria madrelingua, che sono i fondamenti dell’esistenza di un essere umano. E già per questo lutto a cui sono sottoposte meritano il massimo rispetto. Oggi Tiziana Grassi lavora a Roma nell’assistenza sociosanitaria alle persone in difficoltà, sia italiane che migranti, quindi è ancora a contatto diretto con queste sofferenze e questo coraggio. E perciò, indignata dalle politiche che non aiutano – anzi – l’accoglienza, l’empatia e il doveroso rispetto per l’essere umano, tre anni fa, in tempi già bui ma non ancora come quelli di oggi, ha deciso di scrivere questo libro per dare un contributo ad una seria riflessione su questi temi. Temi che, nella loro immensa complessità, non possono essere liquidati con parole come “emergenza” e come “invasione” che è un falso storico da far ribollire il sangue, quando quasi ogni giorno muoiono persone al largo delle nostre coste. Ed è disumano pensare che il 2 dicembre scorso è stato rinnovato il memorandum Italia-Libia. Parole sante, con le quali non si può che essere d’accordo.
Il senso del libro, quindi, per lei, è raccontare un’Italia solidale, accogliente, resistente, che non conquista le prime pagine dei giornali, perché da sempre si dà più spazio alle cattive notizie che alle buone, ma che è la vera spina dorsale di un Paese allo sbando. Luoghi come Camini, in cui integrazione non è solo una parola o un concetto ma un fatto concreto, reale. Se ci fossero anche queste realtà, queste buone pratiche, nella narrazione quotidiana, si toglierebbe spazio alle paure, agli stereotipi e ai pregiudizi. Questa è l’Italia che vogliamo e dobbiamo raccontare per ritrovare la speranza nel futuro. Infatti il libro si chiude con la testimonianza di Enrico, 11 anni, che ha vissuto da volontario l’accoglienza a Riace.
Daniela Maggiulli, docente e attivista volontaria a Riace, fondatrice della “Casa della poetessa”, la cui testimonianza è presente nel libro di Tiziana Grassi, sottolinea la bellezza dell’accoglienza: «Non possiamo che ringraziare Tiziana per il suo straordinario lavoro e luoghi come Camini che hanno scelto come modello di vita la bellezza dell’incontro tra i popoli. L’arte, nelle sue molteplici forme, è un veicolo straordinario di incontro. Immagini, dipinti, poesie, tutte forme di condivisione oltre ogni frontiera».
Seguendo questo principio, nella stessa serata, si dà poi spazio ai giovanissimi, del luogo o giunti come beneficiari del progetto di accoglienza, con riflessioni e poesie per “Natale nel mondo”: un momento di intensa emotività, dove i più grandi, attraverso le loro testimonianze, fanno emergere le paure vissute, le delusioni e le speranze che li hanno portati fin qui, e ancor più il coraggio di ricominciare una nuova vita lontano dai luoghi in cui sono nati.
Per esempio, un ragazzo pakistano (che ha un incredibile e bellissimo accento calabrese!) racconta del viaggio in barca, delle difficoltà che la sua famiglia ha dovuto affrontare (ha anche un padre malato di cuore) e di come, dopo sei mesi a Vibo Valentia, è arrivato qui e si è inserito, conoscendo nuovi amici. Ormai Camini – dice – è parte del suo cuore, ma tra poco si dovrà trasferire con la famiglia ad Arezzo. Gli dispiacerà assai lasciare un posto dove ha passato 5 anni, ha studiato (sta ancora studiando) e si è creato un giro di amici… ma purtroppo non può farci niente.
Un altro ragazzino siriano, che è qui da 3 anni dopo 4 anni passati in Turchia, racconta che lui e la sua famiglia, dopo essere stati cacciati dalla casa dove abitavano in Turchia, sono rimasti due mesi in un campo. Quando è arrivato qui, ricorda, era una notte stellata e ha subito avuto la sensazione di essere in un posto di pace, quella pace che in Siria non esiste e che lui non ha praticamente mai conosciuto, se non da molto piccolo. Ringrazia le maestre che lo hanno aiutato a imparare l’italiano e tutti gli amici che lo hanno aiutato a inserirsi.
Una ragazzina siriana dice che per lei il primo anno è stato difficile, perché si sentiva diversa e le sembrava che tutti la guardassero “strano”, forse per il velo che porta. Ma poi, con il passare del tempo e imparando meglio la lingua, anche lei si è inserita e ha capito che bisogna avere fiducia in sé stessi e non bisogna chiudersi a riccio, perché se tu ti apri verso l’altro anche l’altro si apre verso di te.
Ma la storia più toccante è forse, anche per come la racconta lui in prima persona, quella di nonno Angelo. Nonno Angelo è siciliano, ma viveva da anni a Torino. Qui – dice – ci sono tante persone scappate dalla guerra, ma io diversamente da loro sono scappato dalla fame. Non si vergogna a dirlo. Era andato a lavorare al nord, prima a Milano e poi a Torino. Una volta andato in pensione, è rimasto solo e ha avuto molti problemi. Non sapeva più come tirare avanti, finché un giorno è entrato in un bar e ha chiesto di poter prendere un caffè (gratis, perché non aveva i soldi per pagarlo). Il barista glielo ha dato e lui, in quel bar, ha trovato un giornale che parlava di Camini e del suo progetto di accoglienza. Quel ritaglio di giornale lo ha conservato, ce l’ha ancora qui con sé. Se accolgono tutti – si è detto – accoglieranno anche me. C’era però il problema di come arrivare fin qui senza una lira in tasca. È arrivato passando da un treno all’altro e da una multa all’altra (ovviamente multe mai pagate) fino a Reggio Calabria. Lì però non sapeva dove fosse Camini: sapeva solo che si trovava nella Locride. Ha preso il treno per Locri, e da lì è arrivato fin qui a piedi (sono 42 km!). Poi, siccome sul giornale c’era il nome di Rosario Zurzolo, si è messo a cercare lui. Trovarlo è stato facilissimo – dice Angelo – perché a Camini lo conoscono tutti. Sentita la sua storia, Rosario lo ha abbracciato e gli ha detto: “Non ci sono problemi”. Gli ha dato da mangiare, da dormire e da lavarsi, poi lo ha portato dal sindaco perché doveva essere lui a decidere di ospitarlo. E da lì è cambiata la sua vita. Oggi dà una mano a curare i bambini, ed è diventato per tutti nonno Angelo, un nonno felice. Un nonno a cui uno degli operatori della cooperativa ha perfino dedicato una canzone, scritta apposta per lui.
Mi rendo conto che può sembrare un po’ una storiella strappalacrime, ma visto che va di gran moda dire: “E allora i pensionati italiani che non arrivano alla fine del mese? Dove li mettiamo?”… Be’, ecco, uno l’abbiamo messo qui a Camini, e mi piaceva raccontarlo. È perfino banale dirlo (o dovrebbe esserlo, ma di questi tempi non lo è): non è vero che se si aiutano i migranti non si possono aiutare i poveri italiani, una cosa non esclude affatto l’altra e non serve dire prima gli uni o prima gli altri, serve solo a innescare una guerra tra poveri e a lucrare voti speculando sulle paure.
Sono stati anche distribuiti “I sassi della gratitudine”, a cura della “Casa della poetessa” di Riace: piccoli tasselli di speranza e di lirismo; infine, molto apprezzate la performance d’arte relazionale “L’uomo Carta” e la mostra fotografica di Enzo Correnti.
Dopo di che, grande buffet multietnico per tutti, a base di piatti calabresi e siriani. Così si conclude la nostra intensa giornata a Camini. Alla fine della giornata il freddo c’è ancora, ma il cuore si è molto scaldato.
E domani si va a Riace.
(To Be Continued…)