Venerdì 17 settembre 2021

Oggi una buona colazione e si parte per Rovigno (Rovinj), che ci dicono sia la città più bella dell’Istria. Il tempo non è dei migliori, anche se guardando il cielo la situazione sembra meno tragica rispetto alle previsioni. Il nostro giro in batana è comunque fortemente a rischio. La batana, ricordo per i più distratti, è la tipica barca istriana da pesca con il fondo piatto e la vela triangolare.
A Rovigno avremo una guida davvero d’eccezione, l’ex vicesindaco Marino Budicin, che nel presentarsi si definisce “l’unico vicesindaco con la batana” (e forse per dimostrarlo si presenta in tenuta super-sportiva) ma ci anticipa purtroppo che, date le condizioni meteomarine previste, è molto improbabile che noi si riesca effettivamente a fare il programmato giro per guardare Rovigno dal mare.
È lui a spiegarci che Rovigno è una città particolare anche perché si è sviluppata su un’isola: come abitato insulare, veniva considerato molto sicuro per eventuali attacchi. Ci troviamo in Trg na mostu, la piazza al ponte: proprio qui passava il canale che separava Rovigno dalla terraferma. In origine l’abitato era un castelliere costruito su un colle di quest’isola. Il castelliere è una forma di insediamento che era caratteristica dell’Istria, del Quarnero e del Carso nelle due epoche finali dell’età del Bronzo. In Istria ce ne sono oltre 400.

Di qui sono passati tutti: i re “barbari” d’Italia Odoacre e Teodorico, i bizantini, i franchi, e poi per lungo tempo Venezia: per Rovigno, come per altre città istriane, di solito si fa partire il periodo veneziano dall’atto di dedizione a Venezia nel XIII secolo, ma in realtà l’influenza veneziana in Istria inizia molto prima, fin da quando Venezia si sviluppa come ducato nel IX secolo. I franchi non erano una potenza marinara, nell’Adriatico. Venezia invece nasce come repubblica marinara di mercanti, che avevano un occhio di riguardo verso l’Oriente, e per andare a Oriente bisognava passare dall’Adriatico. La costa italiana non offriva porti sicuri, per questo Venezia rivolse fin da subito le sue attenzioni a Istria e Dalmazia. “Appena hanno messo fuori la prua delle navi” – dice Marino – “hanno incontrato gli istriani”. Ed ecco quindi i patti di fidelitas con cui Venezia offriva protezione sul mare, in particolare dai pirati, soprattutto saraceni, e in cambio gli istriani offrivano una testa di ponte per navigare verso Oriente. Dall’atto di dedizione con cui si “ufficializza” il rapporto, che per Rovigno arriva nel 1283, il periodo veneziano dura per più di cinquecento anni, fino al 1797, quando la Repubblica cade sotto i colpi di Napoleone e avviene un primo grande stravolgimento, che porta poi alla dominazione austriaca.
Ma nei secoli successivi l’impronta di Venezia è rimasta indelebile, non solamente nell’aspetto urbano (le casette colorate in riva al mare, le finestre gotiche, i balconi rinascimentali, le piazze, le fontane, i leoni alati) ma anche dal punto di vista culturale e linguistico. Sappiamo che l’Istria è una regione bilingue, dove vive una minoranza italiana, quindi si parlano croato e italiano. Eh no, sarebbe troppo semplice se fosse così; si sente parlare anche l’istroveneto: ne abbiamo avuto un piccolo assaggio ieri da Bruno a Buie, e infatti proprio a Buie ogni anno all’inizio di giugno si tiene un festival dedicato all’istroveneto. Ma esiste anche un dialetto croato detto čakavo, ricco di parole di origine veneta. Gli esempi sono infiniti: si dice bićerin invece del croato čašica, marangun (falegname) sostituisce la parola croata stolar, e così via. Tutto qui? Neanche per sogno, c’è anche un’altra lingua istriana detta istroromanzo o istrioto, che è precedente all’arrivo dei veneti e che si conserva ancora in una manciata di paesi e città, tra cui Rovigno (prevalentemente lo parlano persone anziane). Ah be’, poi c’è il dialetto rovignese che fa storia a sé. Tutto chiaro, no?
Il periodo austriaco finisce con la Prima guerra mondiale e nel 1918 arriva l’Italia. Ma gli italiani no, non sono stati paracadutati qui allora; loro erano qui da sempre, o almeno da molti secoli prima. E avevano sempre convissuto pacificamente con i croati, fino al risveglio dei nazionalismi che anche qui sembra sia passato attraverso i preti. I preti – dice Marino – qui sono sempre stati abbastanza schierati sul fronte del nazionalismo croato. Ovviamente tutto precipita con il fascismo e con la Seconda guerra mondiale, che inasprisce lo scontro, e a quel punto diventa facile confondere gli italiani con i fascisti. Nel ’45 l’Istria diventa jugoslava, ma qui a Rovigno gli italiani sono l’89,9% della popolazione. E si arriva alla grande questione dell’esodo. Perché tante persone, che avevano casa, terra e vita qui, decisero di partire? Cosa li spinse? A domanda diretta, Marino Budicin risponde che per capirlo bisogna partire da lontano. Nel ’36 il Partito Comunista Italiano e quello jugoslavo fecero un accordo che suonava così: bisogna liberare l’Istria dal nemico, che è il fascismo; dopo decideremo il suo destino. Con lo sviluppo del movimento partigiano jugoslavo, prevalse l’idea di una rivalsa anche nazionale che voleva l’Istria jugoslava. Gran parte della popolazione italiana in Istria, e anche a Rovigno – persone che erano di sinistra – accettarono quest’idea perché i partigiani jugoslavi rappresentavano il fronte della lotta al nazifascismo. A guerra finita, gli alleati accettarono la situazione che si era creata sul terreno con l’imposizione del potere jugoslavo e, con la conferenza di pace, si decise il sistema dell’opzione (gli italiani potevano optare per la cittadinanza italiana o per quella jugoslava) che fu una tragedia per l’Istria. De Gasperi, da parte sua, non volle un plebiscito in Istria per paura che lo chiedesse anche l’Alto Adige, dove i cittadini di lingua tedesca avrebbero potuto scegliere l’Austria. Il potere jugoslavo, instauratosi già nel 1945, era piuttosto duro e non tollerava i nemici “di classe”, perciò faceva paura a chi non era d’accordo. Ma anche chi, da comunista, vedeva nel comunismo jugoslavo l’internazionalismo, condiviso dal Partito Comunista Italiano a cui molti antifascisti qui erano legati, si trovò invece a sentirsi isolato e a rischiare l’accusa di “cominformismo” (il Cominform era l’organizzazione internazionale dei partiti comunisti egemonizzata dai sovietici, ndr) quando nel 1948 ci fu lo strappo tra Tito e Stalin. Bisognava scegliere: o con Tito o con Stalin, quando fino alla sera prima si era sicuri di poter stare sia con Tito che con Stalin. E se stavi con Stalin finivi a Goli Otok, un’isola non molto lontana da qui che è rimasta tristemente famosa proprio per il campo di “rieducazione” dove in quegli anni venivano mandati gli jugoslavi accusati di essere filosovietici, e quindi in dissenso con Tito e con il comunismo jugoslavo. In Istria tutta la vecchia guardia proveniva dalle file del Partito Comunista ed era legata all’internazionalismo e a Stalin, attraverso Togliatti; solo i giovani, che si erano avvicinati al comunismo durante la guerra, avevano una storia diversa. Perciò gran parte della vecchia guardia comunista istriana dovette affrontare la tragica esperienza di Goli Otok. Anche questo fu un fattore che spinse le persone a partire.
E naturalmente partirono quelli che avevano sostenuto il fascismo, ed erano parecchi, molti anche venuti da fuori: circa 35.000 persone arrivarono in quegli anni dall’Emilia Romagna e dal Veneto, quasi tutti comunisti della prima ora che nel giro di pochi anni diventarono fascisti, perché Mussolini aveva dato loro la terra e perfino gli attrezzi per lavorarla, dalla carriola al rastrello. Un po’ come successe, in quegli anni, nell’Agro Pontino. Tutti avevano la bicicletta, una bella casetta dove vivere, le feste del sabato… e tanto bastò per convincere molti che erano stati comunisti ad andare a combattere per l’impero fascista in Africa orientale.
In tutto ciò, hanno avuto un peso anche le foibe? L’hanno avuto sicuramente, è impossibile negarlo. È un argomento che è ritornato spesso e volentieri, negli ultimi anni, e anche in questi giorni per combinazione è di gran moda. Il grido “E allora le foibe?” si leva alto ogni volta che qualcuno prova a dire che forse – forse – il fascismo e il nazismo si sono macchiati di crimini contro l’umanità. Come se fosse sempre necessario un bilanciamento: sì, però in fondo era tutto uguale, ci sono stati orrori da entrambe le parti… dimentichiamo tutto e guardiamo avanti. È molto comodo per qualcuno far passare il messaggio che non c’era una parte che aveva ragione e una parte che aveva torto marcio.
Ma non è certo questo il posto per parlarne, questo è solo un umile diario di viaggio. Io mi limito soltanto a dire che forse – sempre forse – un fenomeno come quello delle foibe, che fa sicuramente orrore a tutti, è difficilmente paragonabile alla shoah o alle altre nefandezze che, secondo qualcuno, dovrebbe controbilanciare: per i numeri (è brutto parlare di numeri in questi casi, ma meno di tremila persone sul piano storico non possono avere lo stesso peso di sei milioni), per il contesto, per tutto quello che è successo prima in Istria, in Dalmazia e in tutta la Jugoslavia… per molte valide ragioni. Mi fermo qui, ma se qualcuno vuole davvero approfondire consiglio di leggere il sunto di un’interessante e documentata conversazione con tre storici:

Tutto questo fece sì che dopo il ’45 se ne andassero praticamente tutti i professionisti: medici, professori, ingegneri… rimasero quelli che erano legati alla terra e al mare, cioè di fatto la gente povera, gli strati più bassi della società. Negli anni ’50 mancavano maestri, giudici, avvocati… la prima iniziativa privata qui è stata aperta alla fine degli anni ’60. Solo dal ’91 in poi anche gli italiani hanno cominciato a portare avanti con successo qualche attività. Prima era quasi impossibile per tutti, ma soprattutto per gli italiani. “Noi abbiamo resistito a tutto” – dice Marino. Spesso, però l’Italia è stata più matrigna che mamma, perché non basta l’aiuto finanziario, che pure c’è stato: ci vuole anche un sostegno politico.
Attualmente, in Croazia, sono ancora presenti 15.000-16.000 italiani. Rovigno è un comune di circa 14.000 abitanti a statuto bilingue, è abitata prevalentemente da croati ma vi risiede anche una forte minoranza italiana di circa 1.650 persone riunite nella locale Comunità degli Italiani. La Comunità conta circa 2.400 soci con diritto di voto, ai quali si aggiungono bambini e ragazzi; Marino Budicin, storico di formazione (e si vede) ne è stato presidente, oltre che Vicesindaco di Rovigno. Secondo le regole locali, tra il sindaco e il suo vice uno dei due deve essere italiano; i consiglieri italiani hanno inoltre diritto di veto – unico caso in Istria. Altri gruppi etnici sono costituiti da serbi, bosniaci, sloveni e albanesi.
L’Arco dei Balbi, restaurato nel 2018, segna l’ingresso della parte più antica del nucleo storico di Rovigno. La sua costruzione è stata ultimata nel 1679, ai tempi del podestà Bernardo Barbaro sul sito dell’allora Porton della Pescheria Vecchia, il quale da tempo immemorabile portava al nucleo storico all’interno della cinta muraria. A sinistra dell’Arco è ancora oggi ben visibile una parte delle mura cittadine che si è conservata. L’Arco deve il suo nome al podestà Francesco Almorò Balbi che, un secolo dopo la sua costruzione ovvero attorno agli anni settanta del XVII secolo, commissionò l’aggiunta della nuova trabeazione sulla quale furono posti i due stemmi della sua famiglia. Sulla parte superiore si trova una lastra di pietra recante il rilievo del leone marciano che reca l’iscrizione VICTORIA TIBI MARCE EVANGELISTA MEVS, che è una prima particolarità perché in genere l’iscrizione usate per il leone alato di San Marco è PAX TIBI. Qui forse la vittoria era considerata più importante della pace… l’altra particolarità sta nel motivo architettonico delle pietre di volta dell’Arco. Infatti, esso presenta un mascherone su entrambi i lati; rivolta verso la Città vecchia c’è una testa “veneta” (alla veneziana), mentre affacciata verso la piazza c’è una testa “turchesca” (alla turca). I due mascheroni possono essere ricollegati al ruolo del podestà Bernardo Barbaro e dalla sua famiglia nei rapporti tra la Repubblica di Venezia e la Sublime Porta ottomana, ai tempi in cui in Istria il pericolo di un attacco delle truppe turche non era ancora del tutto passato.

L’Arco dei Balbi

ha una storia da raccontare, ma bisogna saperla ascoltare e capire. Per un istriano nato qui e di famiglia istriana da sempre, italiano o croato che sia, è molto facile; tutto viene naturale, come se fosse scritto nel patrimonio genetico. È molto più difficile, invece, entrare davvero in simbiosi con questa città per uno dei tanti croati che, dal dopoguerra in poi, sono arrivati da altre zone della Croazia per sostituire gli italiani che erano partiti. Non avevano quel patrimonio, quell’eredità, e perciò per loro il rapporto con le pietre è stato tutto da costruire. Le pietre qui sono importanti, e molto. La pietra d’Istria, chiamata anche biancone, proveniente dalle cave di Orsera, Rovigno e Brioni, era diffusissima a Venezia e richiesta in tutto il territorio della Serenissima. Dal Trecento in poi Venezia, ormai ricchissima, si trasforma: da città di legno diventa città di pietra. Il Ponte dei Sospiri, il Ponte di Rialto, lo stesso Palazzo Ducale o ancora la Chiesa del Redentore sono ricoperti di pietra d’Istria, che si trova anche a Padova, a Verona, a Bologna (nella facciata della chiesa di San petronio) e ovunque si realizzino le ville venete dal Cinquecento in poi.
Dopo la pietra, Rovigno nel Settecento decolla grazie al contrabbando del pesce salato, tanto che a metà del secolo la città conta più di 14.000 abitanti, gli stessi che ha oggi e più di quanti ne ha allora Capodistria, il capoluogo della regione.
Dalla fine dell’Ottocento la città vive un intenso sviluppo manifatturiero, grazie anche all’arrivo della ferrovia. A un certo punto Rovigno arriva ad avere dodici tra piccole, medie e grandi manifatture: la più grande era la Manifattura Tabacchi, che dal 1872 era la manifattura tabacchi col più grande assortimento di tutto l’impero austroungarico. Oggi gli edifici sono dismessi, non c’è più la produzione che è stata portata fuori. Poi c’era un grande conservificio che era chiamato “combinato” perché aveva il cantiere, 50 pescherecci che andavano a pescare con le lampare, la fabbrica di scatolette, i sottoprodotti come la farina fatta con gli scarti del pesce. “Con la Jugoslavia” – dice Budicin – “è andato tutto a remengo” (altro modo di dire tipicamente veneziano) e ora dal sistema socialista siamo passati al capitalismo iperliberista.

Marino Budicin

L’ex vicesindaco è veramente una miniera di piccole e grandi curiosità, non solo sulla sua città. Ad esempio, lo sapete perché si si dice che le gambe fanno “Giacomo Giacomo”? Non ci avevate mai pensato, eh? Il riferimento è alle gambe stanche dei pellegrini del cammino di Santiago (cioè San Giacomo), che rischiano di cedere prima dell’arrivo e quindi invocano “Giacomo, Giacomo!”.
Tra una curiosità e l’altra le nostre gambe non hanno ceduto e siamo saliti fino al punto più alto del nucleo storico, dove sorge la chiesa di Sant’Eufemia. Da qui, sulla sommità del colle, lo sguardo si perde nel blu del mare a nord fino allo splendido arcipelago delle Brioni, mentre dal lontano nord-ovest emergono le Prealpi.
Questa chiesa è il più bell’esempio di barocco istriano del Settecento e la chiesa più grande dell’Istria. “Non fatevi ingannare dai bùmbari che vi diranno che la loro è più grande” – ecco un’altra perla di Marino – “Loro hanno solo il campanile più alto!”. Ma chi saranno mai questi bùmbari? Non posso ancora svelarvelo, per adesso. Questa è solo la prima anticipazione di quello che diventerà un piccolo tormentone della giornata, e di questo viaggio. “Più alto, ma non più bello” – ci tiene a precisare. Questo è proprio un campanile tipico veneziano, che ha lo slancio verticale determinato da delle false lesene, il loggione campanaro posto a due terzi dell’altezza e la cuspide. Tutti i campanili veneziani finiscono con una cuspide, ma questo, pur venezianissimo, ha una sua particolarità che è anche una specie di punto di contatto con Milano: spieghiamo perché. La chiesa è stata rifatta completamente dal 1725 al 1736: allargata, innalzata e rifatta in stile barocco. Prima era una chiesa molto più piccola, del X secolo, con tre cupole che ora sono sparite. Ora c’è questa falsa facciata, che nasce dal fatto che gli architetti si accorsero che, ingrandendo e insieme innalzando di tanto la chiesa, questa sarebbe potuta crollare; allora la abbassarono rispetto al progetto originale, ma così non era molto elegante e perciò fecero un rialzo di circa tre metri che fa sembrare la facciata più alta. Ma, venendo al campanile, questo fu costruito prima, dal 1654 al 1687, e ci lavorarono solo architetti milanesi. A Milano tutti i palazzi più alti del Duomo costruiti in successione (il Pirellone, Palazzo Lombardia e la torre Isozaki) hanno sul loro tetto una piccola Madonnina, perché per tradizione la Madonnina deve stare nel punto più alto di Milano, nulla può superarla. Qui tutto è più piccolo di Milano, ma la statua di Sant’Eufemia che troneggia sul campanile è più grande della Madonnina: 4,70 metri contro 4,10.
Per quanto riguarda l’interno della chiesa, la sua principale particolarità è quella di avere tre altari a giorno, cioè che non si trovano sulla parete ma si ergono davanti e staccati da essa. Gli altari sono opera del più grande altarista del ‘700, Girolamo Laureato. Le statue di San Marco, San Giorgio e San Rocco sull’altare maggiore sono invece opera di Alvise Tagliapietra, uno dei più grandi scultori veneziani del ‘700. Ci sono anche otto altari laterali con bellissime pale d’altare. L’altare del SS. Sacramento è riccamente rivestito in marmo, particolarmente belle le sue colonnine e gli angeli, splendido il paliotto sbalzato in argento con la scena centrale in oro del 1777 forgiato nelle officine veneziane, un’opera fondamentale dell’argenteria veneta. Il paliotto è una tavola, in questo caso in argento, che copre l’altare per abbellirlo. Questo raffigura il celebre episodio evangelico della cena di Emmaus.

La chiesa di Sant’Eufemia
E il campanile
L’altare del SS. Sacramento

Si torna giù verso il mare, anche se nel frattempo il tempo è peggiorato e ormai è chiaro che per il nostro giro in batana non c’è proprio speranza. Ci consoleremo visitando un pezzo importante dell’Ecomuseo della Batana, che è una grande istituzione rovignese. Il museo è ovviamente dedicato a questa barca che ormai abbiamo imparato a conoscere, anche se non ci potremo salire: una barca che è stata eletta a simbolo di una comunità e che rispecchia la continuità del patrimonio marittimo locale, ma anche la continuità del modo di vivere quotidiano della popolazione autoctona istriana e soprattutto rovignese. Lei è il prezioso e peculiare collegamento che unisce gli abitanti di etnia diversa: gli italiani, oggi minoritari, e i croati. Per questo L’Ecomuseo Batana è registrato nel Registro UNESCO delle migliori pratiche per la conservazione del patrimonio culturale immateriale del mondo.

http://www.batana.org/it/casa/

Il museo si compone di una mostra permanente (muostra), ubicata su due piani di una tipica casa rovignese costruita alla fine del XVII secolo sulla riva del nucleo storico peninsulare, e dello Spacio Matika, che è il luogo dove noi potremo entrare in contatto con la cultura locale anche attraverso la gastronomia, che è una cosa che ci piace sempre.
Lo spaccio, o spàcio nella parlata rovignese, è in realtà il negozio di vendita del vino al dettaglio ed è ancora una peculiarità rovignese che contribuisce a formare l’identità di questa città e dei suoi abitanti. Sembra che la parola derivi dal provenzale, e indicava un tempo un posto dove veniva chi voleva comprare il vino direttamente dal produttore e senza pagare i dazi imposti da Venezia. L’agricoltore serviva i suoi clienti di nascosto e in fretta, un modo di fare detto già all’epoca “spàciar”.
Oltre alla vendita del vino, spillato dalle grandi botti, questo era anche il luogo dove si stava in compagnia, mangiando qualcosa, giocando a briscola e tressette, cantando e divertendosi. Uno di questi spàci che ha mantenuto il proprio aspetto originario, che si trova in Via Švalba 35 e di cui è proprietario Romano Matika, è diventato nel 2006 parte integrante dell’Ecomuseo e da allora nei suoi ambienti vengono organizzate serate gastronomico – musicali e programmi d’intrattenimento a cura dei soci dell’Associazione.
Qui si sposano i frutti più nobili della terra e del mare: i vini locali delle specie malvasia e terrano, l’olio d’oliva e i pesci catturati di fresco dai pescatori locali. La visita allo Spaccio Matika è una vera e propria iniziazione nel mondo della cultura marinara rovignese. E noi non vediamo l’ora, perché il posto è suggestivo, l’appetito c’è e a dirla tutta ci torna anche comodo avere un riparo dove mettere le gambe sotto il tavolo ora che fuori si è scatenato una specie di diluvio.
Ma prima abbiamo un appuntamento irrinunciabile: quello con Giovanni Vale, che ci presenta il suo libro sulla Repubblica di Venezia, primo volume della collana “Extinguished Countries”, una serie di guide dedicate agli stati scomparsi tra storia, mito e realtà di oggi. Dal giro di questa mattina, abbiamo già capito che Rovigno è un posto perfetto per questa presentazione.
Giovanni è già stato con noi questa mattina e ci ha già buttato lì qualche chicca qua e là mentre Marino Budicin faceva da mattatore, ma ora è il suo momento. È il momento di raccontare questo progetto, lanciato a inizio 2020 e finanziato tramite una campagna di raccolta fondi on line. La casa editrice è zagabrese e si chiama Paper Boat Stories.

Il libro, nella sua parte iniziale, racconta cosa è stata la Repubblica di Venezia in un modo che vuole essere molto accessibile. La guida è stata stampata sia in italiano che in inglese e la metà delle copie, quelle appunto dell’edizione in inglese, sono state vendute a un pubblico straniero, soprattutto statunitense, che non ha molto idea di cosa sia stata la Repubblica di Venezia. Dopo questa introduzione, si procede stato per stato. La Repubblica di Venezia al suo apogeo (il libro considera tutti i territori che ne hanno fatto parte anche in tempi diversi) ha coinvolto territori che oggi appartengono a sette stati: Italia, Slovenia, Croazia, Montenegro, Albania, Grecia e Cipro. In ciascuno di questi stati Giovanni, con le sue interviste, è andato a vedere cosa è rimasto della Repubblica di Venezia dal punto di vista dell’architettura, della lingua, della gastronomia, delle tradizioni (ad esempio quella del Carnevale, che è rimasta a Corfù) e come quel passato è interpretato. In Croazia era interessante vedere se si associa ancora il fascismo alla Repubblica di Venezia (il regime fascista ha sfruttato molto la passata appartenenza alla Repubblica di Venezia come giustificazione ideale dell’italianità dell’Istria), quindi se c’è ancora rancore. Un sintomo visibile di questo, e un tema che è stato molto discusso, sono i leoni scalpellati in Istria e in Dalmazia nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale. Giovanni racconta però che a Rovereto c’è stato un fenomeno opposto: Rovereto è stata veneziana per ottant’anni nel ‘400, poi per quattro secoli asburgica, ed è passata al Regno d’Italia nel 1918; quindi tutti i leoni che si trovano nel centro di Rovereto sono novecenteschi, costruiti proprio per “aggiungere italianità”. La guida mostra quindi che la nostra identità di oggi è fatta di varie stratificazioni e che le identità sono in realtà mutevoli nel corso del tempo, e con esse i simboli.
Sono innumerevoli le storie affascinanti e curiose che questa guida contiene, e Giovanni ce ne ha accennata qualcuna.
Ad esempio, proprio per come era fatto lo “Stato da Mar” veneziano (cioè i possedimenti oltremare della Repubblica, che contrariamente a quello che si può pensare sono venuti ben prima storicamente di quelli dello “Stato da Terra” in Veneto e Lombardia), la Repubblica ha unito città tra loro molto distanti: per dirne una, la capitale cipriota Nicosia ha una pianta a stella come Pola, che vedremo domani.
Un’altra storia poco nota è quella che c’è alla radice dell’odierna disputa tra il prosecco veneto (di Valdobbiadene, soprattutto) e il Prosek Dalmata. Non è un semplice caso di prodotto “italian sounding” che fa concorrenza a un prodotto italiano, c’è di più. A fine Cinquecento, quando la Repubblica di Venezia vive il suo momento di massimo splendore, tra i vini che vanno più di moda c’è il Prosecco, un vino liquoroso, che si beve sia in accompagnamento a piatti salati che dolci. Quel vino deve il suo nome ad una località, Prosecco (la traduzione italiana del toponimo sloveno Prosek, che significa «zona disboscata»), che si trova vicino a Trieste e che oggi fa parte del comune. La Serenissima controlla allora la Dalmazia e il Prosecco viaggia raggiungendo anche quelle terre. Vi è menzionato per la prima volta, in forma scritta, nel 1774. Più tardi appare anche la traduzione croata del nome, ovvero Prošek, menzionato per la prima volta nel 1867. Fino a qui, il Prosecco di cui parliamo è quasi un liquore, una sorta di vin santo. La moda dell’epoca è d’altra parte questa: i vini devono poter viaggiare per molte settimane per mare e l’alta gradazione permette loro di sopravvivere al viaggio. Basti pensare alla Malvasia, che deve il suo nome alla località greca di Monemvasia (allora un hub commerciale di primo piano, soprattutto per i vini detti «viaggiati»): anch’essa era nel Rinascimento un vino liquoroso e non il bianco fermo o frizzante che conosciamo oggi. Quando avviene allora la trasformazione del Prosecco in spumante? Nel 1821 un viticultore francese fa a Trieste l’esperimento della spumantizzazione del Prosecco: In città c’è una nutrita comunità francese che conosce la tradizione dello Champagne e la moda è cambiata: il mercato chiede altri vini, meno dolci e più effervescenti. Ad inizio Ottocento, dunque, nasce il Prosecco moderno, che si diffonde in tutto il Triveneto. Mentre il Prosecco dalmata, col tempo detto Prošek, rimane un vino dolce e non “evolve” in spumante. Se volete leggere meglio tutta la storia, c’è questo bell’articolo scritto proprio da Giovanni per OBC:

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/Prosecco-e-Prosek-di-cosa-stiamo-parlando-212961

Poi c’è Pietro Querini, mercante, navigatore, nonché senatore della Repubblica di Venezia nel XV secolo. Il 25 aprile 1431 Querini salpò da Candia (Creta) verso le Fiandre con un carico di 800 barili di Malvasia, spezie, cotone, cera e altre mercanzie di valore. Il 14 settembre però, superato Capo Finisterre (a nordovest delle coste spagnole), l’imbarcazione di Querini venne sorpresa da ripetute tempeste e fu spinta al largo dell’Irlanda. Il peggio arrivò quando si ruppe il timone e la nave restò disalberata, andando alla deriva per diverse settimane. Il 17 dicembre l’equipaggio decise di abbandonare il relitto e si divise: alcuni si imbarcarono su una scialuppa, altri (e Querini tra questi) su una lancia più grande. Della prima imbarcazione non si ebbero più notizie, ma la lancia andò a lungo alla deriva, toccando finalmente terra il 14 gennaio 1432 nell’isola di Sandøy, vicino a Røst, nell’arcipelago norvegese delle Lofoten, con sedici marinai superstiti. Pietro Querini e i suoi compagni vissero per undici giorni sulla costa nutrendosi di molluschi e accendendo fuochi per scaldarsi, fino a quando non furono avvistati dai pescatori dell’isola di Røst che andarono in loro aiuto. I pescatori locali ospitarono Querini e gli altri superstiti nelle loro case per circa quattro mesi, ed è proprio durante questo periodo che Querini ebbe modo di scoprire e conoscere i metodi di essiccazione, conservazione e preparazione del merluzzo.
Il 15 maggio del 1432 Querini ripartì alla volta di Venezia su una barca diretta a Bergen (Norvegia) con 60 stoccafissi essiccati. Qui li vendette per assicurarsi le risorse per tornare in Veneto. Proseguì poi per Londra e da lì giunse finalmente a Venezia nell’ottobre del 1432. A Venezia, Querini importò l’idea dello stoccafisso, che riscosse subito grande successo tra i veneziani: gustoso, leggero e soprattutto a lunga conservazione. Con il tempo lo stoccafisso, in Veneto chiamato comunemente baccalà, divenne un classico, preparato con ricette che si tramandano da generazioni.
Insomma questa guida forse non risolverà il dubbio storico se Venezia sia stata, nelle terre che ha amministrato, portatrice di civiltà o soltanto un impero coloniale, ma è sicuramente originale e ben scritta (io la sto leggendo e posso confermare).
Se volete qui si può ascoltare un podcast di Giovanni Vale tutto dedicato a Rovigno:

https://soundcloud.com/extinguishedcountries/sets/la-repubblica-di-venezia

È arrivato poi il momento di dedicarci alla cultura… gastronomica e vi posso assicurare che noi, in tal senso, ci siamo impegnati a fondo e abbiamo apprezzato enormemente la cucina dello spàcio, dagli antipasti a un ottimo risotto a un fritto davvero spettacolare.

Un’altra componente fondamentale della cultura istriana, e nello specifico rovignese, è la musica; noi, ovviamente, grazie all’impeccabile organizzazione di Eugenio, non ci siamo fatti mancare neanche quella.
Ad intrattenerci durante e soprattutto dopo il lauto pranzo è Alessio Giuricin, che studia all’Università di Pavia – Dipartimento di musicologia e beni culturali di Cremona e ha approfondito le tradizioni musicali locali. Per darvi un’idea, vi farei sentire prima di tutto questa ode dedicata alla Viecia (vecchia) Rovigno.

Viecia Rovigno

Ma mi pare che valga la pena di sentire e… vedere anche quest’altra canzone cantata da Alessio con la… collaborazione di Marino, che non si tira assolutamente indietro neanche quando c’è da cantare.

Qui in realtà cantano un po’ tutti: canta benissimo anche la ragazza che ci ha fatto da cameriera allo spàcio, e che qui si esibisce interpretando “La tabacchina”, un altro pezzo tradizionale.

La tabacchina

Ma la forma musicale forse più tradizionale dell’Istria e di Rovigno è la bitinada. L’antico significato di questo canto deriva da una serenata fatta da strumenti musicali che accompagnavano una voce solista. La bitinada (termine analogo a mattinata) cantata a Rovigno è una forma di canto popolare in cui i cantori sostituiscono gli strumenti musicali d’accompagnamento con una sorta di polivocalità ritmica con sillabe onomatopeiche che costituiscono la base armonica e ritmica per il canto del solista. Quando il solista, o i solisti in duetto, intonano la canzone prescelta, i “bitinadùri” (così vengono definiti i cantori di questo particolare complesso, composto in media da una quindicina di membri) si destreggiano a imitare i suoni degli strumenti musicali di un’ipotetica orchestra. Gli strumenti maggiormente imitati sono la chitarra, il contrabbasso e i mandolini. Per ottenere un effetto armonico complessivamente buono, almeno tre o quattro “bitinaduri” imitano il “basso” della chitarra a mo’ di contrabbasso, conferendo il ritmo necessario all’esecuzione (il vero registro del contrabbasso non è imitabile dalla voce umana poiché tonalmente troppo basso). Poi, a gruppetti o singolarmente, vengono imitati i suoni delle altre corde della chitarra: almeno tre le voci, che definiscono così l’accordo e di conseguenza l’armonia. Queste parti vengono sostenute dai cosiddetti preimi (tenori), sagòndi (tenori II) e tièrsi (baritoni). I rimanenti membri del gruppo a piacere imitano il suono di alcuni strumenti di complemento quali mandolini e mandole, che vengono in gergo detti tintini.
La tradizione vuole che la bitinada nasca tra i pescatori rovignesi che, intenti per ore a cucire e riparare le loro reti oppure durante il mestiere, non avendo le mani libere, si dilettavano ad accompagnare alla loro maniera colui che aveva la voglia e la bravura di trainare il gruppo con una canzone. I testi delle canzoni, in gran parte di anonimi e di stampo popolaresco, sono in italiano mentre le canzonette novecentesche di autori locali, quindi di epoca più recente, sono in genere in istrioto. Qualsiasi canzone di tipo mediterraneo potrebbe essere cantata usando questa forma caratteristica di esecuzione. Infatti un simile modello di imitazione strumentale è riscontrabile in diversi canti popolari italiani (nei tenores sardi di Bitti in Sardegna, per esempio, oppure in Liguria o in Toscana attorno al Monte Amiata).
Quindi, insomma, per una bitinada occorrono almeno una quindicina di persone… e quindi noi eravamo proprio nel numero giusto. Il clima, nel dopo pranzo, era allegro e conviviale, perciò Alessio non ha dovuto faticare più di tanto a convincerci a provare a fare la nostra bitinada. Io e Michele abbiamo avuto il fondamentale ruolo di “bassi”, un compito importante perché dovevamo scandire il ritmo dell’esecuzione; alle signore, divise in gruppi, sono stati assegnati gli altri ruoli di accompagnamento alla solista e… questo è il risultato finale: siate magnanimi nel giudizio, tenete conto che era pur sempre la nostra prima (e probabilmente unica) bitinada… avete non uno ma ben due punti di vista.

La nostra bitinada
La nostra bitinada – 2

Se poi volete fare un confronto impietoso con una versione “da professionisti” della stessa canzone, che narra le vicende di una giovane fanciulla e del suo “giovanetto remator”, eccola qua. Alla fine secondo me non ne usciamo neanche malissimo, grazie soprattutto alla nostra bravissima solista.

https://www.youtube.com/watch?v=grVqOqPVA5U

Successivamente, Alessio e Marino si sono divertiti e ci hanno divertito con un vasto repertorio di canzoni un po’… sconce, ma preferisco non riportarne nessun resoconto qui perché altrimenti dovrei vietare l’accesso ai minori.
Dopo il pranzo allo spàcio, che ovviamente si è prolungato parecchio ma è stato piacevolissimo, dobbiamo ripartire verso Dignano, dove dormiremo questa sera. Nel frattempo, per fortuna, ha smesso di piovere.
Prima di arrivarci, però, incontriamo Barbara, che sarà la nostra guida locale, presso una località un po’ fuori dal paese dove si trova un’area allestita come “Parco delle casite”.
La casita (kažun in croato) è una tradizionale costruzione istriana in muratura a secco, la quale fungeva da rifugio e deposito di attrezzi per gli agricoltori e i pastori. Veniva costruita nelle aree in cui, per rendere il terreno coltivabile, questo andava liberato dalle pietre.
L’“epoca d’oro” della casita è quella del XVIII e XIX secolo, quando per motivi di incremento della popolazione sorse l’esigenza di coltivare più olivi e viti e di creare nuovi campi e pascoli.
Le peculiarità di questa “forma architettonica senza architetto” sono l’uso di un unico materiale edile per l’intera costruzione, gli scarsi elementi architettonici, una cupola che, vista la tecnica di sistemazione delle pietre, si distingue da quella classica meritandosi così il nome di “falsa cupola”, come pure la rapidità e il basso costo dei lavori.
Il parco delle casite è stato realizzato nel 2015 come museo a cielo aperto, il cui compito principale è di presentare ad un ampio pubblico la tecnica e il metodo di costruzione di questa tipica costruzione rurale. Per illustrare chiaramente di che cosa si tratti, la costruzione di una casita viene qui suddivisa in quattro fasi, oltre a porre in luce pure quali siano le forme di casita presenti nel circondario. I quattro momenti di edificazione di una casita presentati in loco sono: il primo con le sole fondamenta; il secondo presenta il muro fino al tetto; il terzo mostra l’edificazione del tetto con lo strato interno della cupola e il quarto, fase conclusiva, mette in mostra una casita completa.

Ci spostiamo nel centro di Dignano (Vodnjan in croato), che visiteremo sempre con Barbara. Passeggiando nella parte vecchia della città, che oggi ha circa 6000 abitanti, sorprende la moltitudine di edifici appartenenti a diverse epoche: gotico, rinascimento e barocco. Va sottolineato il palazzo della famiglia Bettica, costruito nel 1300, oggi sede del museo. Poi c’è la chiesa parrocchiale di S. Biagio il cui campanile, come ci aveva già detto Marino Budicin a Rovigno, è in assoluto il più alto in Istria (62 metri). Nella chiesa vengono conservati i corpi mummificati di alcuni santi, fra i quali San Sebastiano e Santa Barbara, e una collezione di reliquie. Pare che l’attuale parroco, per raccogliere un po’ di fondi, abbia deciso di concedere l’accesso solo dietro pagamento di un biglietto piuttosto salato.

La chiesa di San Biagio
E il suo campanile (il più alto dell’Istria)

E qui cominciamo a capire, quindi, che i bùmbari da cui Marino diceva che non ci saremmo dovuti far ingannare riguardo alla loro chiesa sono gli abitanti di Dignano, che si portano addosso questo curioso soprannome da tempo immemorabile. Talmente immemorabile che pare si sia persa l’origine esatta della parola: abbiamo provato più volte a chiederla a Barbara, ma lei ci ha sempre rimandato a più tardi, per concludere poi che sarebbe stato meglio chiedere ai nostri padroni di casa. Sì, perché qui a Dignano saremo ospitati in una sorta di albergo diffuso composto da vari piccoli B&B o affittacamere, e quindi avremo un’occasione in più di scambio con persone locali.
L’odierna piazza del Popolo è relativamente recente, essendo stata creata nel 1808 in seguito alla demolizione del castello che vi sorgeva. Con la scomparsa dell’antico castello si ottenne un’area vasta e ben delineata dai palazzi circostanti, che tuttora mettono in risalto il bel palazzo comunale costruito nel 1910 in stile neogotico veneziano. Per la sistemazione della piazza va dato merito alla nobile famiglia dignanese dei conti Dalla Zonca che donarono i soldi necessari. Con le pietre del castello demolito furono lastricate pure tutte le vie adiacenti.
Nella parte più antica del centro storico le vie sono già di per sé molto anguste, ma Dignano vanta quella più piccola e stretta in assoluto, visto che ci si passa mettendosi di fianco: è la via Cittavecchia. Una storiella del periodo austro-ungarico racconta che un giorno una guardia sorprese un ladro a rubare e prese a rincorrerlo: il ladro, più esile, si intrufolò nella viuzza in questione e scappò, mentre la corpulenta guardia vi si incastrò e non riuscì ad acciuffarlo.
Altre cose curiose che si possono vedere nel centro storico di Dignano sono degli anelli in pietra sui muri, che servivano per far passare il cavo di una carrucola utilizzata per sollevare i mobili, e delle mensole, anch’esse di pietra, messe vicino ad alcune finestre. Sull’uso di queste mensole Barbara ci ha fatto un piccolo quiz: erano utilizzate per appoggiare fuori il vaso da notte (rendiamo merito a Michele che è stato il primo nel gruppo ad arrivarci).

Dignano (inaspettatamente) è anche città di murales
Il palazzo comunale
Una curiosa, antica iscrizione

Ma il vero quiz, che ancora non abbiamo risolto, è quello sull’origine della parola bùmbari. Ne abbiamo capito qualcosa di più solo dall’incontro con i nostri padroni di casa, che ci hanno aspettato al parcheggio dei pullman per poi accompagnare ciascuno il suo piccolo gruppetto a casa sua. Sembra che le teorie siano davvero le più svariate, vi riporto solo le tre più plausibili.
Secondo la prima, il nome deriverebbe dal fatto che molti dignanesi erano (e forse sono ancora) forti bevitori. Del resto, l’Istria è terra di ottimi vini. E quindi si farebbero delle “bumbe”, delle grandi bevute.
La seconda fa riferimento a una visita di un sovrano, che in genere è Francesco Giuseppe ma potrebbe essere anche un altro. Si narra che l’imperatore avesse notato il carattere un po’ rozzo di alcuni abitanti e avesse detto, naturalmente in tedesco, qualcosa che l’interprete aveva tradotto con “In questa città siete burberi”. Questa parola strana, storpiata in “bùmbari”, sarebbe diventata talmente proverbiale da fungere da soprannome per tutti i dignanesi.
La terza ipotesi è che qualcuno, dopo aver visitato Dignano in un giorno di festa o di mercato, l’abbia trovata particolarmente caotica e affollata e abbia detto, più o meno, che i suoi abitanti sono come uno sciame di insetti (“bumbar”, in croato, significa bombo o calabrone).
Sia come sia, anche se a qualcuno questo soprannome sembra un po’ dispregiativo o canzonatorio, i dignanesi la prendono con filosofia e anzi ne vanno perfino orgogliosi, tanto che esiste anche una “Festa dei bùmbari”.
Per cena, siamo ospiti della “Casa delle tradizioni” dell’Ecomuseo di Dignano (ebbene sì, anche qui c’è un ecomuseo), dove conosciamo Helena che ne è una delle animatrici, coadiuvata da due volontarie straniere che stanno passando un periodo qui: Anastasia dalla Russia e Macarena dall’Argentina.
L’Ecomuseo ‘ISTRIAN de Dignan’ lavora per migliorare la qualità della vita all’interno della comunità di Dignano, attraverso la cooperazione e la solidarietà sia tra i suoi membri che tra quelli della comunità locale.
I progetti sviluppati dai membri dell’Ecomuseo hanno il fine di soddisfare i bisogni locali tramite la valorizzazione e l’utilizzo delle risorse locali, anche a livello globale.
Lo sviluppo del territorio e la rivitalizzazione della cultura rurale, materiale e immateriale, sono ottenuti attraverso un approccio etico con un’attenzione particolare all’integrazione sociale dei gruppi a rischio. In Istria, e a Dignano in particolare, oltre alle comunità che sono eredi delle persone arrivate da altre repubbliche della ex Jugoslavia (soprattutto dalla Bosnia) per frenare lo spopolamento negli anni successivi all’esodo degli italiani, c’è anche una piccola comunità rom. Anche loro sono stati “spinti” qui in alcune fasi storiche in cui c’era la necessità di non farli vedere quando una città per qualche motivo finiva in vetrina, come accadde per esempio a Sarajevo per le olimpiadi invernali del 1984.
L’associazione è inoltre un punto d’incontro per persone da tutto il mondo, le quali condividono la volontà di lavorare per una società migliore con la possibilità di godere della natura circostante.
Il lavoro dell’associazione è dedicato alla salvaguardia delle tradizioni, alla rigenerazione urbana e rurale, all’artigianato e alla valorizzazione dei prodotti locali di eccellenza.
Nella Casa delle Tradizioni, ricavata in un edificio storico, il tempo si è fermato grazie a un’attenta opera di restauro degli spazi e grazie all’esposizione e all’uso quotidiano di oggetti d’epoca originali (ad esempio un forno d’epoca), strumenti e accessori donati dalla comunità locale.
I visitatori possono fare esperienze multisensoriali attraverso degustazioni, visite guidate, eventi culturali, esposizioni, esperienze pratiche, workshops, visite di studio e con il coinvolgimento nella vita rurale.
Tra le sue attività l’ecomuseo si prende cura dell’ultima famiglia di asini autoctoni, i quali ricambiano il favore aiutando persone diversamente abili o affette da diverse malattie a sentirsi meglio attraverso sessioni di onoterapia.
Hanno riutilizzato il giardino della Scuola Elementare e una struttura dismessa trasformandoli in una fattoria didattica, in cui praticano agricoltura biologica unendo la conoscenza tradizionale e quella moderna per la coltivazione di diversi tipi di alberi da frutto, verdure e piante aromatiche.

Helena dell’Ecomuseo di Dignano
Il vecchio forno
La storia di un famoso calzolaio locale

Helena ci ha raccontato di come, in una cittadina che come tante altre in Istria si era letteralmente svuotata con l’esodo e ancora in parte ne risente, una realtà come l’ecomuseo sia fondamentale per costruire il futuro ricostruendo il legame con il passato. Lei lavora con l’associazione solo da un anno ma ne è entusiasta: dopo essere andata a studiare fuori (come molti ragazzi di qui) e aver vissuto 28 anni a Bologna, è tornata con la volontà di fare qualcosa di culturale e ha scoperto che qualcuno aveva già iniziato un percorso che poteva essere giusto anche per lei. Quando è stato aperto l’ecomuseo le nonne e i nonni, le persone che erano rimaste a Dignano, erano così entusiasti dell’idea che tutti hanno voluto dare qualcosa. Tutti gli oggetti che ora sono esposti nel museo sono frutto di donazioni. All’inizio il museo era fatto di una sola stanza, ora pian piano negli anni si è ingrandito fino a 340 mq. Ogni oggetto ha una piccola targhetta con il nome della persona, e tutto è visibile anche on line. Fatevi un giro sul sito del museo, ve lo consiglio veramente: è davvero ricchissimo e ben fatto, c’è anche la possibilità di una visita virtuale.

http://istrian.org/it/

Noi ci siamo concessi una bella visita reale, anche se breve, salendo pian piano dagli ambienti al piano terra fino alla soffitta, dove c’è una sezione dedicata ai lasciti di un importante personaggio politico, funzionario di partito ai tempi della Jugoslavia e ambasciatore in diversi paesi africani: maschere africane, vari oggetti decorativi e perfino alcune sue tessere del partito comunista jugoslavo. È veramente come un viaggio nel tempo, tra oggetti di uso quotidiano di diverse epoche, capi di vestiario e fotografie che ci raccontano un mondo che non c’è più.
E poi una cena che è stata anche questa di grande qualità: l’associazione che gestisce il museo, infatti, è anche fiduciaria del Convivium Slow Food Istria. Dignano è un importante centro di produzione per l’olio di oliva, che è peraltro un altro prodotto caratteristico di tutta l’Istria. Un’altra specialità che abbiamo potuto assaggiare, come accompagnamento al dessert, è il Vin de rosa di Dignano, un passito che fa parte del patrimonio locale: nel passato non c’era festa importante nella vita delle famiglie del luogo che non venisse celebrata con un bicchiere di questo vino particolarissimo. In anni più recenti, visti gli scarsi benefici economici e i rischi di produzione, il prodotto fu quasi dimenticato, ma ora grazie a un progetto specifico sta prendendo di nuovo vita. Viene prodotto in genere con uva malvasia, pur esistendo la tendenza a farlo anche con altre varietà, soprattutto di moscato.
E così si chiude in bellezza anche questa seconda giornata, molto piena. Domani ci aspetta Pola.

(TO BE CONTINUED…)