Giovedì 16 settembre 2021
Eccoci finalmente di nuovo in viaggio verso i Balcani: questa volta sono i Balcani più… vicini che ci siano, ma in tempi ancora pandemici e purtroppo non ancora del tutto post-pandemici questo è quello che si può fare. Finalmente perché sono più di due anni che, per ovvi motivi, non riesco a fare un viaggio con il mio gruppo di Balkan-addicted, ma io per la verità sono tornato da pochi giorni dalla Sardegna, per la precisione dal Sulcis, di cui se volete potete leggere nei due post precedenti.
Oggi invece si parte da Milano per un viaggio alla scoperta dell’Istria che sarà breve ma si annuncia intenso: tanti sono i luoghi che visiteremo e i temi che tratteremo, prendendo spunto dalla storia lunga, complessa e travagliata di queste terre. Ad accompagnarci non può che essere lui, Eugenio Berra, il mio (e nostro) personale pusher di viaggi storico-letterari nei Balcani, con cui ci siamo tenuti sempre in contatto in quest’ultimo difficile anno e mezzo e con il quale siamo felici di essere ora di nuovo in pista. Questa volta sarà un viaggio totalmente on the road, con un pullmino su cui campeggia la scritta “Passione” che non possiamo che interpretare come rappresentativa della nostra passione per i viaggi nei Balcani. Una passione che in qualche modo ha anche Daniel, che sarà il nostro driver e che vanta una lunghissima serie di viaggi a Medjugorje: certo, per lui è lavoro ma si è affezionato alla cittadina erzegovese al punto che, pur senza esserne completamente catturato a livello religioso (se non un po’ a modo suo), ha scelto proprio Medjugorje come luogo dove dichiararsi alla sua attuale compagna.
Il gruppo questa volta è composto da 14 persone. Oltre a me ci sono (in rigoroso ordine alfabetico) Antonella, Daniela, Elena, Giampiero, Giovanna, Grazia, Guja, Michele, Patrizia, Piera, Rina, Roberta e Rosa. Quasi tutti sono già stati una o più volte miei compagni di viaggio, con parecchi di loro c’è già un’amicizia consolidata e quindi il clima nel gruppo fin da subito è molto piacevole, nonostante l’ora (si parte alle 7 del mattino) faccia sì che non tutti siamo perfettamente svegli e al massimo della forma…

Ad ogni modo, il viaggio scivola via piuttosto veloce, con le classiche soste in autogrill delle quali approfittiamo anche per mettere qualcosa sotto i denti visto che, appunto, il programma è intenso già da oggi e quindi non ci fermeremo fino a cena.
Per rendere più piacevole il tragitto e per entrare subito nel clima, Eugenio ha preparato una playlist di classici italiani anni ’60 rivisti e corretti in chiave jugoslava che, effettivamente, riscuote un certo successo nel gruppo. Sappiamo che l’Italia per molti anni è stato un punto di riferimento, anche musicale, per chi viveva dall’altra parte dell’Adriatico, e quindi questa non è altro che l’anticipazione di un tema che tratteremo in maniera più ampia a Pola con una giovane e brava ricercatrice. Si parte con una versione della “Partita di pallone” di Rita Pavone per proseguire con “Cuore matto” di Little Tony e altre hit più o meno improbabili ma divertenti. Se volete ascoltare anche voi, come assaggio, queste due curiose versioni eccole qui:
Beti Jurković – Nogometna utakmica
https://www.youtube.com/watch?v=-15zq6S8fDE
Đorđe Marjanović – Ludo srce (Cuore matto)
https://www.youtube.com/watch?v=8UCiabVFtCM
In questo modo passiamo Trieste, attraversiamo quel piccolo spicchio di costa slovena che si incontra dopo la frontiera e poi, varcata la Dragogna, siamo in Croazia; noi ci dirigiamo infatti verso l’Istria croata: tutto il nostro viaggio si svolgerà in terra oggi croata.
Piccola spiega per i più distratti: dico oggi croata perché la penisola istriana, da sempre terra di confine, nel ‘900 ha cambiato bandiera con una certa frequenza (non come Leopoli, che penso detenga una sorta di record in materia, ma quasi): è stata parte dell’impero austroungarico, poi dal ’18 Italia, dal ’45 Jugoslavia e “solo” dal 1991 Croazia. È chiaro che anche questo, almeno per me, fa parte del suo fascino. La vicenda dell’esodo degli italiani d’Istria dopo la fine della Seconda guerra mondiale sarà uno dei temi di questo viaggio. Non ci sono cifre accertate, ma secondo alcune stime potrebbero essere state fino a 300.000 le persone che lasciarono l’Istria negli anni tra il 1945 e il 1954.
La prima nostra meta è il faro di Salvore, dove ci accoglie Goran, che sarà la nostra guida nella prima parte del pomeriggio. Lui è prima di tutto un grande camminatore e guida di cammini: ha fatto, per esempio, un cammino che lo ha portato dalla Giordania all’Istria seguendo quella che è oggi la rotta balcanica dei migranti. Goran è di famiglia croata, ma come tanti qui parla comunque un ottimo italiano.
Punta Salvore (in croato Savudrija) è l’estrema propaggine della penisola omonima, sulla costa orientale del mare Adriatico, il punto più occidentale dell’Istria, e quindi di tutta la Croazia, nonché il limite meridionale del Golfo di Trieste.
È nota per la battaglia di Salvore, avvenuta nel 1177. Su questa battaglia non tutti gli storici concordano, ma si dice che vide contrapposte 40 galere veneziane, allestite anche grazie all’aiuto delle città istriane e sostenute da papa Alessandro III, contro 75 genovesi e pisane, alleate dell’imperatore Federico Barbarossa. La flotta veneziana comandata dal doge Sebastiano Ziani e da Nicolò Contarini, nascosta nel vallone di Pirano, colse di sorpresa gli avversari, catturò 45 navi, ne affondò altre e fece prigioniero lo stesso comandante, uno dei figli del Barbarossa. La battaglia confermò ancora una volta la supremazia veneziana nell’Adriatico e fu a lungo celebrata nelle terre veneziane, tanto che secondo alcuni fu più che altro una trovata propagandistica.
Il faro di Salvore fu costruito nel 1818 e come tale è il più antico faro attivo dell’Adriatico. La costruzione, alta 36 metri, è legata a una leggenda locale. Si narra che il conte austriaco Metternich a un ballo viennese si innamorò di una bellissima dama croata, per la quale fece costruire il faro con la casetta. Sfortunatamente la donna tanto amata morì di una grave malattia senza avere mai visto il faro, che era il pegno ed il nido del loro amore mai consumato. Il disperato conte Metternich decise di non visitare mai più il faro, nonostante ancora oggi qualcuno affermi di sentire i passi dell’amante disperato che cerca la sua amata.


Camminando lungo la riva con Goran, cominciamo a scoprire che l’Istria è caratterizzata da diversi tipi di terra: terra bianca, che è quella della zona montuosa-collinare a nord della penisola, fatta di bianche rocce calcaree; terra grigia, nella zona dell’Istria centrale a nord di Pisino, argillosa su fondo marnoso-arenaceo; e poi la terra rossa, che si trova nella zona pedemontana e pianeggiante dell’Istria costiera e quindi anche qui. Il colore rosso è dovuto alla bauxite, un minerale ricco di alluminio e di ferro. La terra rossa (crvenica in croato) è un terreno pesante, compatto e con poco humus, che assorbe facilmente e trattiene a lungo l’acqua consentendo la sopravvivenza delle piante anche nei lunghi periodi di siccità e calura estiva.
Oggi non c’è calura, anzi il cielo è molto nuvoloso con un po’ di pioggerella ogni tanto alternata con sprazzi di timido sole. L’estate è proprio finita, tant’è vero che venendo qui abbiamo incrociato nel senso opposto una lunga coda di auto e camper che andavano verso la frontiera con l’Italia. Sono gli ultimi vacanzieri, prevalentemente dal nord e centro Europa, che hanno anticipato il rientro di un paio di giorni dato che per questo weekend è previsto brutto tempo; la costa croata è per loro un Mediterraneo a prezzi tutto sommato accessibili.
Goran ci mostra anche qualche esemplare della batana di Salvore. La batana è una barca da pesca con il fondo piatto e con vela al terzo o vela latina, imbarcazione tipica di queste parti, che con piccole varianti si trova in tutta l’Istria ma soprattutto a Rovigno, dove è uno dei simboli cittadini ed è conservata come un patrimonio culturale da parte del locale ecomuseo. Noi abbiamo programmato per domani a Rovigno anche un giro in batana, che dipenderà però dalle condizioni meteo, dal vento e dal mare.


Per adesso, ci spostiamo di una decina di chilometri fino al centro di Umago, dove nella locale biblioteca civica ci aspetta Ivana, per introdurci a quella che sarà la successiva passeggiata letteraria dedicata a Fulvio Tomizza.


Fulvio Tomizza, nato a due passi da qui, a Matterada, nel 1935 e scomparso nel 1999, vincitore del premio Strega nel 1977 con il romanzo La miglior vita (romanzo che parecchi di noi, su consiglio ovviamente di Eugenio, hanno letto in preparazione a questo viaggio, e anch’io), è un autore fondamentale per capire questa terra.

Quando si affronta il discorso dell’Istria emerge sempre il problema dell’appartenenza etnica, tema che Tomizza affronta in più opere e di cui si occupò durante tutto il suo percorso di scrittore. L’Istria delle opere di Tomizza è una terra di contadini, immersa in una condizione dialettale, etnicamente e culturalmente mista, una terra che ha visto passare diverse dominazioni, tra le quali, in tempi recenti, austriaci, italiani, tedeschi e infine il comunismo di Tito.
In tutte le opere dello scrittore emerge lo spirito della terra istriana, con le sue luci e le sue ombre, la vicenda travagliata di una terra di confine, una terra di incontro e scontro nella storia di stati, popoli, culture, lingue e tradizioni diverse. In questo ambiente si colloca il concetto di identità di frontiera che, in molti casi, può rivelarsi di estrema complessità come riferirà lo stesso scrittore nei suoi romanzi. Fulvio Tomizza infatti crea personaggi con caratteristiche di individui aventi un’identità legata a più connotazioni culturali ed etniche. Una condizione che impedisce al singolo di esprimere la propria identità in modo definito e distinto, anche se a volte egli viene posto in una condizione di scelta che potrebbe portarlo alla negazione dei suoi tratti essenziali, etnici e/o culturali. Tuttavia è proprio questo individuo che si rivela pronto al confronto e all’assimilazione delle diversità per poter infine comprendere ed accettare consapevolmente la propria natura multiculturale.
[…]
In una terra come l’Istria che nei secoli è stata governata da diversi ‘padroni’, prima i Romani poi la Repubblica veneta, poi l’impero austro-ungarico, poi l’Italia, l’Italia fascista, e poi la Jugoslavia e il regime di Tito, e che vede intersecarsi sul suo territorio popolazioni diverse, miste, non vi è soltanto il problema della definizione dei confini, ma anche, molto forte, quello dell’appartenenza etnica. In questa terra, ma anche in tutte le altre zone di confine, in cui negli individui sono presenti più etnie e si parlano più lingue, molto spesso gli abitanti non si possono identificare con una sola patria ben definita. Di solito in queste persone, per non essere costrette a dover scegliere tra due culture o due etnie, affiora l’idea di appartenere a un mondo più vasto che comprenda più culture e più etnie, o addirittura, per non far torto a nessuno e rimanere imparziali, si arriva ad un sentimento di inappartenenza.
Questo è quanto è successo anche a Tomizza, che sceglierà di appartenere ad entrambe le culture, quella italiana e quella slava, nella speranza, un po’ utopica e un po’ sentimentale (come dirà lui stesso), che un giorno esse possano convivere non soltanto in lui, ma in tutta la popolazione istriana. Lo scrittore fa questa scelta, che è tra l’altro una scelta del tutto legittima, visto che suo padre, Ferdinando Tomizza, era di sentimenti italiani, mentre la madre, Margherita Frank Trento, era invece di origine slovena. Inoltre, egli trascorse la sua infanzia nel paesino natale di Materada, un borgo che si trova tra Umago e Buie, in cui da sempre convivevano in armonia popolazioni di diversa origine etnica. Da questa sua coscienza multietnica, che diventerà una questione di cultura, ma anche e soprattutto di tradizione storica alla ricerca delle proprie origini, in cui identificarsi e riconoscersi per determinare un punto di riferimento per la propria esistenza, prendono il via i temi portanti di tutte le opere di Tomizza.
[…]
La successione storica dei regimi, prima fascista e poi comunista, alimentarono la frattura dell’Istria a più livelli: culturale, etnico e geografico. La lingua divenne punto focale di rivalità tra gruppi etnici, e separò in due fazioni contrapposte la popolazione, inducendo la gente a scegliere un’etnia, una nazione, un linguaggio, sviluppando così il processo di annientamento del modello multietnico omogeneo che nei secoli era stato proprio dell’Istria. Questo mondo così unito, come lo ricorda lo scrittore, aveva subito una prima pressione verso la fine dell’Ottocento, quando improvvisamente nacque il sentimento nazionale, portato dai parroci e dai maestri che venivano nel suo paese da fuori. Questi, a seconda dell’appartenenza all’etnia croata o a quella italiana, cercavano di influenzare le persone a schierarsi da una parte o dall’altra. Secondo Tomizza non si tratta di «conformismo banale», ma di «legittima difesa» da parte di un popolo che sente che, per ragioni di sopravvivenza, ci si debba schierare con chi detiene il potere. È sicuramente una risposta rassegnata che esprime sfiducia nelle istituzioni, nei regimi, nelle ideologie e anche in quelli che agitano tali ideologie.
[…]
Riprendendo le parole del sociologo Ulderico Bernardi potremmo affermare che Tomizza sia riuscito a descrivere quelli che sono i tratti essenziali dell’identità dell’Istria (o se vogliamo di un’identità di frontiera), per cui questa terra è:
intesa come un abecedario spalancato sulle culture. Uno scenario estroso, scabro e armonico, dove le asprezze carsiche sfumano nella dolcezza delle doline, e l’eleganza di umili architetture rurali rispecchia l’urbanità dei centri costieri […] Chi visita l’Istria compie un pellegrinaggio di memoria, per i molti segni di patrie perdute che questa terra conserva. Ma al tempo stesso avverte la percezione di camminare lungo la fresca via del mattino d’una umanità che avrà in orrore le prigioni, etniche o d’altro genere, mentre vive sommessamente ogni giorno, nella quotidianità etica del lavoro e nella solidarietà comunitaria, la speranza tenace di aria nuova per le sue culture. Fulvio Tomizza muovendo dall’appartenenza locale guidava a riflettere sull’universalità perenne della mescolanza: la terra d’origine come tutta la Terra, e la cultura universale come universo di culture. Ciascuna degna di rispetto.
[…]
Tomizza riconosce la propria appartenenza ad entrambi i mondi, quello italiano e quello slavo, e la racconta nelle sue opere, presentando un resoconto realistico di esperienze vissute. Secondo Tomizza l’unica soluzione per giungere alla riconciliazione di queste due realtà è il risorgimento di quella specifica caratteristica che lui ascrive al suo territorio natale: il riconoscimento e l’assimilazione delle diversità. Per questo motivo lui stesso è posto davanti a una scelta che limiterebbe il suo essere: non poteva accettare una sola realtà culturale ed etnica, ma l’unica cosa che poteva fare era quella di considerarle insieme come un’unica identità.
(Da “Nives Zudič Antonič, Andrej Antonič – Frontiera e convivenza nell’opera di Fulvio Tomizza”)
Ivana ci parla del Forum Tomizza, nell’ambito del quale ogni anno vengono organizzati convegni e un concorso letterario, e dell’itinerario storico-letterario Fulvio Tomizza, di cui poi percorreremo un tratto.
Tomizza è tuttora un punto di riferimento importante in Istria, non solo per la comunità italiana ma anche per i croati. Esistono traduzioni in croato di tutti i suoi romanzi ed è ancora oggi molto letto.
Salutata Ivana, noi ci spostiamo proprio verso il luogo di nascita di Tomizza e cioè Matterada, che si scrive così, con due t, in italiano e con una sola t in croato. Ma Tomizza ha intitolato il suo primo romanzo Materada, con una t sola, a dimostrazione che per lui l’identità era assolutamente plurima ed era legittimo esprimersi in una lingua mista in cui si passava con disinvoltura dall’italiano al croato.
Prima però passiamo da Giurizzani, che è il paese più grande del comprensorio matteradese, il centro delle vicende della maggior parte dei romanzi di Tomizza. Qui in passato c’erano gli esercizi pubblici come l’osteria, il negozio di alimentari della madre di Tomizza, l’ufficio postale, la scuola. Dal 1911 fino alla fine della Seconda guerra mondiale operavano sia la scuola elementare croata che quella italiana, poi quest’ultima venne chiusa alla fine della guerra dalle autorità jugoslave. Oggi nel centro rimangono solo la scuola elementare croata e la Casa del Popolo, il Dom costruito nell’immediato dopoguerra con il lavoro volontario e citato ne “La miglior vita”. Noi possiamo ora vederne la sala da ballo col palco riservato alla banda, agli oratori e agli artisti di passaggio, che funziona ancora almeno di tanto in tanto. È qui che una rappresentante della comunità italiana locale, fondata nel 2002 e che ha sede proprio in alcuni locali di questo edificio, ci racconta che la comunità è in calo a causa dei matrimoni misti. Può suonare “male” alle nostre orecchie, ma bisogna capire il suo punto di vista: I diritti di cui gode la comunità dipendono dalla percentuale registrata al censimento, e tra l’altro ce n’è uno alle viste, per il quale non c’è grande ottimismo sul numero di persone che si dichiareranno italiane.
Non tutta l’Istria è bilingue, lo è soltanto quella che fu la cosiddetta “zona B” nell’immediato dopoguerra, e l’uso della propria lingua madre è fondamentale qui per mantenere un’identità plurima, come voleva Tomizza, ma che comprenda anche l’identità italiana. Oggi non si può più avere doppio passaporto, ma bisogna iscriversi all’AIRE, l’anagrafe degli italiani all’estero, perché da questo dipende anche la possibilità di ricevere dallo Stato italiano fondi per le attività della comunità attraverso l’Unione Italiana, che riunisce gli italiani di Slovenia e Croazia.
La Croazia è già nell’UE da diversi anni, anche se non ha ancora l’euro, che arriverà all’inizio del 2023 a sostituire la kuna, e non è ancora nello spazio Schengen, nel quale entrerà solo alla fine del 2023.



Dal Dom ci spostiamo poi, a piedi e sempre in un’alternanza di sole e pioggerella, verso la fontana pubblica di Giurizzani, che è un landmark importante perché per secoli la mancanza di acqua è stata la causa principale delle pessime condizioni di vita igienico-sanitarie delle persone, ostacolando anche lo sviluppo dell’agricoltura. La popolazione attingeva all’unico corso d’acqua che ancora oggi scorre dalle pendici di Buie verso Umago, chiamato Patocco, e dai numerosi lachi (abbeveratoi) e sorgenti d’acqua che sgorgavano a livello del mare lungo la costa, mentre l’unica cisterna pubblica era quella costruita in piazza a Umago nel 1667. Il fontanone di Giurizzani è uno dei tanti realizzati nella penisola istriana negli anni Trenta del XX secolo. Infatti l’intervento infrastrutturale più importante dello Stato italiano in Istria riguarda proprio la costruzione del grande acquedotto istriano composto da tre reti di distribuzione, ognuna delle quali alimentata da una sorgente.


Lungo la strada di campagna che porta a Momichia Goran ci racconta anche della ferrovia Parenzana oggi scomparsa.
La ferrovia Trieste-Buie-Parenzo, meglio conosciuta come Parenzana, era una linea a scartamento ridotto che partendo da Trieste si inoltrava nella regione istriana raggiungendo Buie e in seguito anche Parenzo. La Parenzana, con i suoi 123 km di sviluppo, è stata la più lunga linea a scartamento ridotto da 760 mm tra quelle costruite dall’Impero austro-ungarico.
I primi progetti nacquero già verso la fine del XIX secolo allo scopo di realizzare un sistema di collegamento tra la costa e l’interno del territorio nord-occidentale dell’Istria allora privo di una qualsiasi rete viaria. Una ferrovia, ancorché piccola, costituiva un formidabile mezzo, a quel tempo, per la commercializzazione delle risorse produttive e agricole del territorio che, speravano le popolazioni, sarebbe così uscito dalla sua endemica povertà. Il governo austriaco non volle assumersi l’onere della costruzione e solo dopo anni di insistenti richieste ne concesse la costruzione ad una società per azioni, con sede a Vienna e costituita dai comuni interessati e dalla provincia, che assunse il nome di Localbahn Triest-Parenzo. Nel 1901 iniziarono i lavori e finalmente il 1º aprile 1902 il primo tratto da Trieste a Buie venne aperto al traffico con trazione a vapore assicurata dalle piccole locomotive a vapore saturo tipo U; entro lo stesso anno veniva attivato il restante tratto. La difficoltà del percorso attraverso il nord-ovest dell’Istria impose la costruzione di numerosissime curve e un saliscendi continuo che ottenne il duplice effetto negativo di dilatare i costi e abbassare la velocità massima raggiungibile a 25/30 km/h.
Dopo la Prima guerra mondiale la linea passò sotto l’amministrazione italiana, che nel 1921 per rispondere all’aumento di traffico passeggeri e merci fece costruire alle Officine Meccaniche Reggiane 6 nuove locomotive del tipo P. Nonostante l’aumento del traffico tuttavia le spese di esercizio rimanevano elevate rispetto ai ricavi del traffico di un territorio non ricco come quello attraversato dalla piccola ferrovia. La crisi del ’29 portò ad una contrazione del già modesto traffico merci, mentre il nascente trasporto su autobus, molto più veloce della lentissima e tortuosa ferrovia, provocò un forte calo dei viaggiatori trasportati. La chiusura di tutta la linea avvenne il 31 agosto 1935. La linea venne presto smantellata e il materiale rotabile in parte demolito, in parte alienato. Si dice – racconta Goran – che binari e traversine furono portati in Etiopia per costruire lì la nuova ferrovia vanto del futuro impero fascista, ma è più probabile che vennero fusi riutilizzando il ferro per la produzione di armi. Oggi, come tante vecchie ferrovie dismesse, la Parenzana è diventata un bel percorso ciclabile tra golfi azzurri e paesini gioiello.
A Momichia, un paesino un po’ appartato, negli anni ’70 Tomizza acquistò una piccola casa dove ritornare alla vita semplice in sintonia con i ritmi della natura. Proprio in questa casa che abbiamo davanti Tomizza aveva la sua stanzetta con una vecchia carega (sedia) di legno, con vista sull’uliveto, e qui si spostava ogni estate da Trieste per scrivere: per lui l’estate era la stagione dedicata alla scrittura.

La tensione tra le zone si era notevolmente allentata e, nella scia della rinnovata frequentazione tra le popolazioni confinarie, tornai anch’io a trascorrere alcuni giorni che in seguito sarebbero diventati mesi. I mesi pieni della mia estate contadina, quando anche il cervello trasuda umori segreti, bizzarri. Da un rudere abbandonato in un villaggio più appartato della parrocchia, tra boschi e ulivi che non impedivano di vedere il mare, ricavai una casetta secondo le mie non eccessive esigenze di rimpatriato. Ripresi lentamente contatto col paesaggio impareggiabile e con la poca gente rimasta, imparai a coltivare l’orto e a tenere a bada la vegetazione trascurata e fin troppo rigogliosa, mi costruii nel solaio una stanza di lavoro col tavolino appoggiato alla finestra e il solito armamentario indispensabile. Qui, dal ’72 a oggi, alternandomi alle fatiche agresti, ho scritto la seconda metà della mia produzione narrativa.
(F. Tomizza – Le mie estati letterarie, Marsilio, Venezia 2009)
Il percorso letterario finisce, per noi, con la piccola parrocchia di Matterada, che vide nascere Tomizza ed è anche il luogo dove riposa nel locale cimitero. Tomizza è profondamente legato a questa parrocchia fondata da un suo avo, il castaldo Giorgio Tomice, nel 1668, come testimonia l’antica iscrizione sull’architrave della chiesa.
Il paese è costituito da un piccolo nucleo di case presso la chiesa, dove tra l’altro si trovano le uniche due epigrafi vergate in caratteri glagolitici (l’antico alfabeto slavo antenato del cirillico) che confermano la presenza dell’identità slava già dal 1500 nel territorio umaghese. Proprio da queste due lapidi il buon prete slavo Don Stipe, nel romanzo “La miglior vita”, ricava materiale per i suoi studi con i quali vuole dimostrare che sotto il dominio della repubblica veneta preesisteva una piccola comunità slava, probabilmente distrutta dalla peste del 1630, dotata di una propria cappella retta da un prete illirico che usava il glagolitico.

Qui si possono ancora vedere anche la casa del prete (più grande) e quella del sagrestano (più piccola) citate nello stesso romanzo, di cui il sagrestano Martin Crusich è protagonista, mentre intorno a lui passano i parroci e con essi le diverse entità statali dominanti, dall’Impero austroungarico all’Italia fascista alla Jugoslavia.
Nel romanzo “Materada” invece, attraverso la storia di una famiglia e di una proprietà frodata e inottenibile, Tomizza racconta il destino di un popolo diviso alla ricerca di una nuova, definitiva, identità. Francesco Kozlovic e suo fratello Berto coltivano la terra dello zio che la lascia in eredità al figlio che vive a Trieste. Consigliati dallo zio i due fratelli acquistano il terreno che sarà poi nazionalizzato dalla Jugoslavia. Non trovando via legale per riavere la terra, Francesco prende la difficile decisione di abbandonare il paese natio, di strappare le radici che lo legano da generazioni alla sua terra, e i due si uniscono con le loro famiglie all’esodo istriano del dopoguerra.
“Tu cosa ne pensi?”
“Io non lascerei la terra. Non possiamo lasciarla, Francesco. È nostra ed è una buona terra. Per il mondo dove ne troverai di eguale?”
“D’accordo. È nostra, ma noi non l’avremo. Forse aspettando altri dieci anni le cose si metterebbero in chiaro. Ma che cosa sarà di noi, dei nostri figli tra dieci anni?”
“Allora tu saresti per partire? Non resta altro. Io, oggi come oggi, partirei lo stesso.
“Anche se ti dessero la terra?”
E io risposi calmo: “Anche se mi dessero la terra.”
(…) “Ha ragione barba Nin: noi non siamo per questo regime. Forse ci vuole altro fegato. Oppure ci si fa un poco alla volta, ma io questo non lo voglio, io di questo ho paura.
(…) Dal mare veniva su un po’ di tramontana e portava con sé il profumo della terra rossa, che non se ne trova un altro eguale. Berto abbassò la testa e disse:
“Partiamo Franz. Saremo sempre dei disgraziati, come quegli altri. Partono adesso che la campagna si fa sempre più bella. Te la ricordi un’altra annata così?”
(F.Tomizza – Materada, Rizzoli, Milano 1983)

https://www.unione-italiana.eu/index.php/it/le-comunita-degli-italiani-2/item/282-ci-matterada
Finito il percorso tomizziano, ci spostiamo a Buie (Buje in croato), un borgo di circa 5000 abitanti, con una storia che si legge nelle sue antiche pietre. Il primo insediamento urbano, in cima al colle, consisteva in un castelliere preistorico abitato dal popolo degli Histri. In epoca protostorica, il castelliere fu occupato dai Càtali, una delle tribu celtiche che si stabilizzarono in una buona parte dell’Istria in quell’epoca. Con l’arrivo dei romani, divenne Castrum romano col nome di Bullea. Venezia controllò Buie dal 1412 fino alla sua caduta, nel 1797. Risale al periodo veneziano la chiesa parrocchiale di San Servolo, con campanile separato, costruita nel XVI secolo sulle fondazioni di un tempio romano e ricostruita nel XVIII secolo in stile barocco. In quell’epoca la città fu inoltre fortificata: per la sua posizione strategica, fu soprannominata la “Sentinella dell’Istria”.
In seguito al trattato di Campoformio (1797), Buie passò all’Impero austriaco. Nel 1803 fu occupata dalle armate napoleoniche francesi ma dopo la sconfitta di Napoleone, nel 1813, ritornò sotto il dominio dell’Impero austriaco.


A Buie per farci da guida ci aspetta Bruno, che si rivelerà davvero un grande personaggio. Dopo una prima breve passeggiata, inizia a raccontarci la storia di Buie a modo suo: scopriamo ad esempio che fino al 1100 qui c’erano qualcosa come 700 asini, più di uno per famiglia se si pensa che le famiglie del borgo erano 600, con 130 nomi che Bruno (se non lo fermassimo) sarebbe probabilmente in grado di sciorinare tutti a memoria… o quasi. Il cognome più popolare era Bonetti: c’erano ben 35 famiglie Bonetti; questo se lo ricorda ma poi, più che comprensibilmente, deve dare un’occhiata agli appunti: “Vedemo qua cossa g’ho scrito mi…” – cominciamo ad avere conferma che le radici venete dell’Istria sono davvero forti. Prima che abbia il tempo di elencare gli altri 129 cognomi, Eugenio lo blocca chiedendo che ci racconti qualcosa di più interessante, dato che il tempo che abbiamo a disposizione non è infinito. Per esempio – gli suggerisce Goran – perché si dice “Buie spia”? Prima di tutto va detto che siamo a 222 metri sul livello del mare e quindi, in un’epoca in cui ogni città era praticamente uno stato, in una posizione strategica. C’erano spesso scontri tra le diverse città: per dirne una nel 1300, dopo una battaglia vinta da Buie contro Cittanova, l’allora vescovo vietò di celebrare messe a Buie per sei mesi. Buie, essendo l’unico borgo con due campanili, poteva avere una visuale perfetta in tutte le direzioni, su tutte le valli circostanti.
In seguito, Buie decise autonomamente di “darsi” a Venezia, perché era meglio essere con la Serenissima che essere una piccola città contadina indipendente. Venezia ha fatto quasi tutto qui: per esempio la bellissima chiesa di San Servolo, denominata così in onore del patrono della città e ubicata a pochi metri dal campanile-belvedere, in pieno centro della città vecchia, sul colle.
San Servolo è la chiesa principale di Buie e uno dei più importanti monumenti tardobarocchi in Istria. Presenta dimensioni monumentali e viene usata soltanto nelle ricorrenze più solenni, per le messe in occasione della festa di San Servolo o per il festival dell’organo che di per sé è l’evento culturale per eccellenza. La chiesa come la vediamo oggi fu eretta nella seconda metà del XVIII secolo, nel punto in cui prima si trovava una chiesa romanico-gotica a tre navate del XIII secolo. Gli elementi dell’edificio più antico sono inseriti in quello nuovo, di modo che ancor oggi sono visibili sulla facciata, e si crede che nello stesso luogo molti secoli prima sia esistito un antico tempio. In uno dei muri della chiesa è inscritta una nicchia che alloggia i resti di due statue romane.
Il portale presenta delle ricche decorazioni ed è uno dei più belli in Istria, mentre la facciata inconclusa testimonia anche le condizioni durante la tarda amministrazione veneziana, epoca in cui fu costruita la chiesa. San Servolo è anche, insieme a San Giusto, protettore di Trieste. Sulla piazza della chiesa si affaccia anche una vecchia scuola elementare e media sulla cui facciata, tra il primo e il secondo piano, campeggia un leone di San Marco.






Bruno ci ha portato anche in cima alla torre di San Martino, di cui lui sale i gradini di corsa, nonostante l’età non proprio verdissima. La torre è una rara parte ancora conservata delle mura cittadine, risalente al periodo veneziano.


Poi, sempre a passo di carica (da quando Eugenio gli ha detto che abbiamo poco tempo ha cominciato a parlare in fretta e a correre), si va a vedere la chiesa di Santa Madre della Misericordia, del 1587, costruita in Piazza della Libertà. Sulla parte esterna dell’architrave della porta laterale sinistra della chiesa è scolpito proprio l’anno 1587, come ricordo della conclusione dei lavori, mentre dietro la chiesa si trova un campanile alto 22 metri con orologio.
Un insolito avvenimento determinò il destino della chiesa di S. Maria della Misericordia, per cui questa fu costruita fuori dalle mura cittadine. Nei vecchi documenti è scritto che nel 1497 al ricco Paolo Razizze (Pavle Račica) di Buie (Buje) apparve in sonno la Madonna; a seguito di quest’esperienza, si recò in un’officina veneziana per portare a Buie la statua della Vergine. Al ritorno faceva già buio e la porta cittadina era chiusa. Passata la notte davanti alle mura cittadine, la mattina non riuscì, neanche con l’aiuto della gente del posto, a spostare la statua dal luogo in cui l’aveva posata. Questo fu il segno che qui, fuori dalle mura cittadine, doveva venir costruita la chiesa. La notizia dell’evento miracoloso si diffuse fra i fedeli del posto che così divenne luogo di pellegrinaggio. Gli storici dell’arte ritengono che la scultura della Madonna della Misericordia, opera degli artigiani veneziani Paolo Campsa e Giovanni di Malines, sia una delle statue in legno più belle dell’Istria.



Salutato, un po’ a malincuore, il buon Bruno ci dirigiamo ormai verso l’Hotel La Parenzana (si chiama proprio così, come la vecchia ferrovia), nei dintorni di Buie, che ci ospiterà per questa notte.
A cena si unisce a noi Giovanni Vale, giornalista friulano da 7 anni corrispondente da Zagabria per il Piccolo di Trieste e Osservatorio Balcani e Caucaso, ma soprattutto autore di “Extinguished countries”, una collana di guide di viaggio su paesi e imperi che non esistono più, il cui primo volume è dedicato alla Repubblica di Venezia. Abbiamo già cominciato a capire quanto profondamente la Repubblica di Venezia abbia segnato la storia di questi territori, e lo capiremo ancora meglio a Rovigno, probabilmente la città più bella dell’Istria, dove le influenze veneziane nell’architettura sono ancora più evidenti. Sarà proprio Giovanni (e chi meglio di lui?) a spiegarcelo, insieme con un altro grande personaggio locale, l’ex vicesindaco Marino Budicin (ovviamente cognome che più veneto non si può, non ve lo sto neanche a dire). Ma di tutto questo parleremo domani…
(TO BE CONTINUED…)
L’ha ripubblicato su Il mio viaggio.
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Ho partecipato al viaggio è mi sembra di riviverlo. Grazie Piero!
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