Sulcis on the road… volando con le Mariposas

Un emozionante tour attraverso la Costa Verde tra mare cristallino, dune dorate e miniere fantasma, che ci condurrà, passando per il profondo Sulcis, fino a S. Antioco, estremo sud dell’isola, ripercorrendo le tappe principali della storia mineraria sarda: luoghi sospesi nel tempo, simboli dell’archeologia industriale. Un on the road nella natura selvaggia, con dolci distese di sabbia, aspre scogliere rocciose che cadono a picco sul mare e i profumi del ginepro, del lentisco e della ginestra.

Mercoledì 1° settembre 2021

Oggi, dopo una giornata senza miniere, torniamo a indossare i caschetti e a provare anche solo per pochi minuti a immedesimarci nei minatori di un passato che sembra così lontano, ma se ci pensiamo bene non lo è poi così tanto.
Siamo a Porto Flavia, un luogo che rappresentò una vera e propria rivoluzione: più che una miniera, un porto sospeso a metà di una parete rocciosa, da cui parte una lunghissima galleria. Il tunnel, lungo circa 600 metri, scavato nella roccia dai minatori, sbuca a metà di uno strapiombo che offre una vista mozzafiato sul suggestivo faraglione chiamato Pan di Zucchero, monumento naturale di 133 metri modellato dal tempo. La miniera di Porto Flavia, all’interno del promontorio che domina Masua, nel territorio di Iglesias, realizzata tra 1922 e 1924, è un’ardita opera sospesa fra cielo e mare, che permetteva l’imbarco diretto dei minerali, destinati alle fonderie nord-europee, sulle navi, riducendo in maniera drastica tempi e costi di trasporto.
Due gallerie sovrapposte sboccano a picco sul mare, intervallate da giganteschi silos capaci di contenere fino a diecimila tonnellate di materiale. Nella galleria superiore si caricavano i silos; da quella inferiore, dotata di nastro trasportatore, si imbarcavano piombo e zinco sui piroscafi grazie a un braccio mobile. A progettare il capolavoro d’ingegneria senza precedenti fu il direttore Cesare Vecelli. Al ‘porto’ diede il nome della figlia, Flavia, che campeggia sulla torretta in stile medievale all’ingresso del tunnel. Per capirne la portata rivoluzionaria, bisogna immaginare che fino ad allora i minerali da trasportare al porto di Carloforte, da dove partivano verso il Continente. erano caricati a mano sulle bilancelle (navi a vela).
L’inizio dell’attività estrattiva risale a metà del 1800. Sul finire del secolo, con oltre 700 addetti, la miniera di Masua era una grande realtà estrattiva. Dopo un breve appannamento, nel 1922 la società belga de la Vieille Montagne le conferì rinnovato impulso. Poi la crisi negli anni Trenta, sino al lento declino. Il complesso di Masua comprende un villaggio minerario sul ripido pendio di Punta Cortis: scuola, ospedale, chiesa, laboratori e case immerse nel verde dislocate su vari livelli rocciosi.

Durante il suggestivo percorso all’interno della galleria, la guida ci racconta la storia della miniera, a partire dalle prime ricerche fatte per valutare le potenzialità estrattive del sito. Si sapeva da tempi lontanissimi (sembra che i primi tentativi primordiali di estrazione risalgano al neolitico) che la Sardegna, e questa zona in particolare, era ricca di minerali, ma per esserne sicuri in qualche modo bisognava provare a sondare la roccia. Come si faceva? Le zone ritenute interessanti venivano portate ad alta temperatura con dei grandi fuochi, e poi altrettanto velocemente si raffreddava la roccia buttando acqua fredda. Lo shock termico spaccava la roccia, permettendo di dare le prime picconate. Anche oggi, in fondo, la procedura non è cambiata di molto. Nel piccolo museo realizzato all’interno della galleria si può vedere un piccone del 1200, di epoca pisana, a testimonianza che già nel medioevo c’era un’attività estrattiva.
Dalla presenza di paioli di diverse dimensioni si può capire che in miniera lavoravano gli uomini, ma anche le donne e i bambini. Solo nel 1859, sotto il Regno di Sardegna, fu emanata una legge che vietava il lavoro dei bambini sotto i dieci anni. In precedenza, i ragazzini venivano introdotti in miniera già da molto piccoli per svolgere l’attività di cernitori, spesso al fianco delle mamme, con il compito quindi di separare il più possibile lo sterile dal minerale. Lo sterile veniva poi spesso riutilizzato per produrre calcestruzzo. Dai dieci-dodici anni i maschietti erano considerati pronti per essere mandati nel sottosuolo, il che ovviamente significa che già a 40 o 50 anni (quando ci arrivavano) questi uomini avevano il fisico già fortemente provato dal lavoro in miniera.
Anche qui la lampada a carburo era la fedele compagna dei minatori che non solo faceva luce ma, con il cambio di colore della fiamma verso il celeste, segnalava anche la scarsità di ossigeno. I martelli ad aria compressa che si possono vedere qui sono del modello T21, dove 21 erano i kg di peso dello strumento, che veniva appoggiato a seconda dei casi sulla spalla, sul fianco o sulla gamba. Solo nel 1950 fu introdotto il servosostegno, che rappresentava almeno un aiuto in questo senso. Lavorando a secco, ovviamente si respirava una grande quantità di polveri di silice, con conseguente grande incidenza della silicosi tra i minatori. Per ovviare a questo problema fu introdotto un sistema idraulico. Pensato per i minatori, per agevolarne il lavoro e proteggerne la salute? Non proprio. Fu introdotto perché il surriscaldamento del fioretto che lavorava sulla roccia portava a un consumo molto rapido del fioretto stesso, quindi costi per l’azienda. Come svantaggio, però, l’uso del sistema idraulico comportava dover lavorare con le gambe immerse in acqua per gran parte del tempo; per questo i minatori avevano anche spesso malattie reumatiche. E poi c’era una patologia dal nome davvero strano: la generosi. Si tratta in realtà del nome dato dai minatori a una malattia che si chiama angioneurosi e che porta alla perdita di sensibilità in particolare degli arti superiori, dovuta alla rottura di legamenti e al consumo delle cartilagini causato dalle vibrazioni a cui i lavoratori erano costantemente esposti. Un nome troppo difficile per persone con un livello di scolarità basso o nullo, che quindi lo avevano “semplificato” in “generosi”. Ancora oggi, se si chiede agli anziani di qui che conoscono la vita di miniera, si ricordano sempre di uno zio che “teniat sa generosi” (aveva la generosi).
Il progetto di Porto Flavia era innovativo perché consentiva di tagliare i costi e velocizzare il sistema. Due gallerie, a 38 metri e a 15 metri sul livello del mare, sono unite da 9 silos. Il trenino, che aveva vagoncini a pantografo, arrivava e si fermava all’altezza del silo; con un sistema basculante il vagoncino si inclinava lateralmente scaricando nel silo, per poi tornare in asse e completare il suo giro. Il vagone basculante prese il nome del suo ideatore e fu quindi chiamato “vagone Vecelli”. Una volta che nei silos era stato accumulato il giusto quantitativo di materiale, venivano aperte delle tramogge alla base dei silos, con un sistema di leve e pulsanti. In questo modo il minerale scendeva direttamente su dei nastri trasportatori della lunghezza di 100 metri e poi, tramite un braccio meccanico, veniva portato fuori e attraverso un tubo gommato arrivava nella stiva del piroscafo. All’epoca, negli anni ’20, nessun’altra miniera aveva un sistema di questo tipo. L’impianto continuò a funzionare fino al 1963, quando venne ritenuto obsoleto.
Qui, in quarant’anni, si ebbe un unico incidente, quando nelle miniere mediamente il numero di incidenti mortali era di 4 o 5 all’anno. L’incidente si verificò a causa del blocco di una delle tramogge: il sistema meccanico di apertura si era inceppato. In questi casi bisognava liberare la tramoggia manualmente, con il martello pneumatico e con piccole cariche esplosive. I minatori si calavano dall’alto tramite una scala a pioli, legati con una fune in vita. Altri minatori stavano sotto, nella galleria inferiore, per aprire da sotto la bocca della tramoggia. Durante questa operazione un minatore di nome Piras, che si trovava sotto la tramoggia, fu investito da una frana dovuta a una finta parete di calamina staccatasi dalla parete dell’imbuto della tramoggia e morì per asfissia in pochi minuti. Chi si trovava sopra, invece, fu risucchiato dalla frana e intrappolato fino a metà busto, con la possibilità quindi di chiamare aiuto. I soccorsi arrivarono immediatamente, ma purtroppo per Piras non c’era più niente da fare.

Uscendo dalla galleria, ci troviamo di fronte l’incredibile spettacolo del Pan di Zucchero, con i suoi 133 m il faraglione più alto del Mediterraneo.

Il Pan di Zucchero

Qualche ora in spiaggia e poi si riparte verso sud fino a Sant’Antioco, che è un’isola ma è raggiungibile via terra attraverso un istmo artificiale. Qui faremo base per le prossime tre notti, divisi tra due B&B: a me tocca Domo Sa Barra, in pieno centro della cittadina, a due passi da Piazza Umberto. Qui Silvia purtroppo ci abbandona: abbiamo due giorni liberi, che passeremo tra le diverse spiagge che offre l’isola e le altre numerose attrattive. Ci sono alcuni musei interessanti, che ospitano le vestigia del lungo e glorioso passato di Sant’Antioco (erede dell’antica Sulki, che dà il nome all’odierno Sulcis), ma c’è anche la possibilità di fare passeggiate, giri in barca, bici o e-bike, a cavallo e chi più ne ha più me metta. Non dovremmo annoiarci.
Sant’Antioco fa circa 11.000 abitanti; non si può dire che sia una grande città, ma rispetto ai posti sperduti e alla natura selvaggia a cui ci eravamo abituati, ci sembra già caotica. C’è chi apprezza il ritorno alla vita “civile” ma i più già rimpiangono il silenzio rotto solo dai grilli o dalle cicale (a seconda dell’ora), o al massimo da qualche belato. Per la prima serata decidiamo, dopo una breve esplorazione del centro storico e del porto turistico, di concederci una scorpacciata di pesce. Tutto il resto è rimandato a domani.

Giovedì 2 settembre 2021

Sant’Antioco è città di lunga storia, feniciopunica e romana, che conserva ancora antiche tracce del remoto periodo nuragico e pre-nuragico. L’isola, come detto, offre varie attrattive: storia, con un’enorme area archeologica e la necropoli punica più grande della Sardegna; artigianato, con il celebre museo del Bisso di Chiara Vigo, e cammini naturalistici nelle coste o all’interno. E poi le bellissime spiagge: Cala Sapone, Maladroxia e Coaquaddus, tra le altre.
Dopo la colazione, che come da consiglio di Silvia facciamo tutti insieme al panificio Calabrò, che ha i tavolini all’aperto e offre un bell’assortimento di dolcezze mattutine, ci dividiamo: c’è chi vuole dirigersi subito verso le spiagge (qualcuno nel gruppo conosce già Sant’Antioco), ma c’è anche chi preferisce vedere qualcosa in città e poi spostarsi in traghetto a Carloforte, nella vicina isola di San Pietro, caratterizzata anch’essa da una storia affascinante che si riflette nelle sue architetture e nella particolare lingua tuttora parlata dai suoi abitanti più autentici. Io propendo per questa seconda ipotesi, e quindi si parte dalla basilica di Sant’Antioco Martire.
L’impianto originario della basilica, bizantino, fu costruito tra la fine del V e gli inizi del VI secolo con pianta a croce greca e corpo cupolato. L’orientamento era Nord-Sud e presumibilmente l’altare maggiore si trovava sopra la tomba del beato martire Antioco. Dopo lo scisma, nel 1089 d.C., i monaci vittorini di Marsiglia, oggi facenti parte dell’ordine dei benedettini, furono inviati in Sardegna con il compito di “occidentalizzare” il culto, ovvero sradicare le tradizioni e gli apparati liturgici appartenenti alla cultura e al rito bizantino. I monaci apportarono numerose modifiche: l’allungamento della navata centrale, trasformando così la croce greca in croce latina; l’orientamento secondo l’asse Est-Ovest con conseguente spostamento dell’altare in direzione Est; la creazione dell’abside e di una cappella laterale absidata; tutta l’intera struttura fu, inoltre, interamente intonacata e dipinta.
Intorno al XVIII secolo la navata centrale venne allungata ulteriormente e la chiesa venne dotata di una facciata in stile neobarocco ancora esistente.
Nella seconda metà del XX secolo un nubifragio provocò il distacco di parte dell’intonaco e il parroco, don Salvatore Armeni, pensò di riportare la chiesa allo stato originale. Spogliata la chiesa dagli arredi barocchi ci si rese conto della vera epoca originale della chiesa, perché fino ad allora si era erroneamente pensato che risalisse all’XI – XII secolo.
Nel 2019, la basilica ha subito un ulteriore restauro. Il nuovo pavimento, l’altare e l’ambone sono stati realizzati in marmo bianco di Orosei. L’edificio sacro è stato riaperto al culto il 1° agosto 2020, dopo un anno e mezzo di lavori.

Sant’Antioco Martire

Il legame tra la città e il suo santo è eterno, rinnovato ogni anno da un rito identico da secoli: 15 giorni dopo Pasqua il simulacro di Sant’Antioco, partendo dalla chiesa, che si trova nel punto più alto del paese, viene condotto in processione. Da tempi antichissimi l’isola di Sant’Antioco era animata da festeggiamenti in onore del santo, considerato patrono di tutta la Sardegna. Il primo documento della festa, datato 1360 e conservato nell’archivio della Corona d’Aragona a Barcellona, consente di identificare le celebrazioni del santo come la festa più antica della Sardegna.
Sant’Antioco è un santo maureddu (moretto), essendo originario della regione che i romani chiamavano Mauretania, cioè del nordafrica. La leggenda vuole che egli sia stato condannato a lavorare nelle miniere dell’isola, allora considerata inospitale, che veniva chiamata Plumbaria in quanto fonte di rifornimento del piombo. Egli doveva essere un medico, che operava in Cappadocia e in Galazia convertendo molte persone al Cristianesimo. Incarcerato per questo e sottoposto a tortura, fu quindi esiliato in Sardegna, dove morì pregando per i sulcitani il 13 novembre dell’anno 127, mentre attendeva di essere prelevato dalle guardie romane che dovevano condurlo a Karales (l’antica Cagliari). La sua figura è quindi associata alle miniere sarde dalle quali i romani estraevano minerali e metalli pregiati: i romani condannavano spesso sia i prigionieri di guerra che i cristiani a lavorare in queste miniere.
Nel luogo della sua morte i cristiani, desiderosi di essere sepolti vicino a lui, crearono l’unica area catacombale della Sardegna e il primo nucleo di una delle chiese più antiche dell’isola.
Il santo riposò in una tomba appartenente alla necropoli punica del VI secolo a.C. fino al 18 marzo 1615, giorno del rinvenimento del suo corpo nella catacomba a lui dedicata.

Dopo la chiesa, proviamo ad andare al museo del bisso di Chiara Vigo. Sappiamo che per visitarlo occorre prenotare via mail, ma visto che abbiamo un po’ di tempo prima della partenza del traghetto per Carloforte decidiamo di fare comunque un tentativo. Troviamo lì lei, Chiara, con una coppia, alla quale sta già raccontando sé stessa e il suo museo. Ci dice di entrare e di accomodarci anche noi, senza problemi.
Il bisso è un particolarissimo e antichissimo tessuto, di cui Chiara Vigo si considera l’ultima maestra (anzi lei dice “maestro”) vivente. Abbiamo scoperto poi che la questione è parecchio controversa, perché lei ha avuto negli ultimi anni pesanti screzi con il Comune di Sant’Antioco e perché ci sono altre due donne di Sant’Antioco, le sorelle Pes, che sostengono di essere anche loro maestre dell’arte del bisso almeno quanto Chiara Vigo, che forse è solo più brava a far parlare di sé e ad accreditarsi come unica depositaria di questo prezioso sapere. Io non lo so, onestamente non ho approfondito più di tanto; ve la butto lì, se volete provateci voi a dirimere la questione. Comunque, sembra che la rottura definitiva tra Chiara Vigo e l’allora sindaco sia dovuta a uno sgarbo fatto da lei in occasione di una visita del ministro dei Beni Culturali Franceschini, per il quale si sarebbe rifiutata di aprire appositamente il suo museo. Non so se sia vero ma potrebbe essere, considerato che è noto a tutti a Sant’Antioco il carattere non proprio “malleabile” di Chiara. Di sicuro, anche ascoltandola per una mezz’oretta o poco più, si capisce che ha un’altissima opinione di sé, per così dire. Fatto sta che nel 2016 le è stato tolto l’uso dei locali dello storico palazzo del Monte Granatico, ufficialmente per via dell’impianto elettrico non a norma. Lei, però, ha riaperto un piccolo museo in quella che definisce “la stanza che fu il laboratorio di mia nonna”, a pochi passi dalla Basilica di Sant’Antioco, grazie alle donazioni e senza alcun contributo pubblico.
Ma come è fatto il bisso? Prima di tutto bisogna dire che nella laguna di Sant’Antioco prolifera (o proliferava, dovremmo forse dire) un mollusco chiamato gnacchera, scientificamente Pinna Nobilis; è una sorta di incrocio tra cozza e ostrica, alto fino a un metro e mezzo. Nel 1992 è stato dichiarato in via di estinzione. Oggi è tutelato da una legge europea e una regionale: non solo chi lo pesca con qualsiasi mezzo, ma anche chi ne possiede degli esemplari in spiaggia o in barca rischia una multa o l’arresto. Il mollusco un tempo si mangiava fritto come una bistecca. Pesa fino a un chilogrammo e produce piccole perle colorate. Lo disturbano i movimenti di barche e yacht, l’acqua non salata al punto giusto, la temperatura troppo bassa o troppo alta e gli inquinanti che le industrie riversano in mare.
La Pinna Nobilis, madreperlacea dentro e ruvida fuori, nasconde una ghiandola setacea stimolata dal continuo movimento delle due valve. Di tanto in tanto sputa una bava formata di cheratina, come i capelli. La bava, a contatto con l’acqua, si solidifica e produce un bioccolo color marrone incrostato di conchigliette, alghe, piccoli coralli; in apparenza una sorta di radice: con essa la Pinna Nobilis si ancora al fondale. O piuttosto sembra una barba grezza e incolta, con la quale il mollusco si difende dai polpi. Ma una volta lavorata e sbiondata diventa bisso, splendente come oro, soffice e forte.
Chiara Vigo utilizza solo gli ultimi 5 centimetri dei circa 40 di bioccolo che ciascun esemplare adulto di Pinna Nobilis produce: 300 grammi di fibra grezza, una volta cardata (pettinata con un cardo a spilli, così da togliere le impurità) e dissalata, producono 30 grammi di bisso, cioè 12 metri di “seta del mare”. Ma il processo di lavorazione è molto lungo: il bioccolo deve rimanere per 25 giorni in acqua dolce, cambiando l’acqua ogni 3 ore, poi si bagna con succo di limone per sbiondarlo, lo si passa in un mix segreto di 15 alghe che lo rende elastico e si ritorce con un fuso di ginepro (la torsione deve essere a S per il ricamo, a Z per la tessitura con le unghie nel lino). Il bisso marino non si deteriora, non viene attaccato dagli insetti ed è più sottile di un capello, ma mille volte più resistente.
Chiara ha un modo di parlare della sua arte sicuramente capace di affascinare: il suo atteggiamento a tratti diventa quello di una vera sacerdotessa, con toni quasi da profetessa. Poi facilmente divaga, parlando della sua arte parla di tutto, dal Covid-19 (sul quale pare abbia un approccio quanto meno scettico) ai suoi rapporti con il sindaco, altri maggiorenti locali, gli studenti (vanta diverse collaborazioni con università di mezza Europa). In certi momenti si fa anche fatica a seguirla, perché senza preavviso tira fuori citazioni bibliche o sciorina nomi e fatti locali, a noi ignoti, come se dovessimo conoscerli. Probabilmente quello a cui abbiamo assistito è un’esibizione che si ripete da anni, ma che è anche ogni giorno diversa. Lei dà per scontato – credo – che se le persone sono lì abbiano voglia di ascoltarla e siano anche armate di pazienza per poter aspettare che, tra una divagazione e l’altra, lei spieghi la sua arte. È un rituale che, per quanto abbiamo potuto vedere, può durare ore. Noi però tanto tempo in realtà non l’avevamo, per cui abbiamo potuto assistere in pratica solo al “miracolo” che consiste nel vedere il bisso che, dal suo colore naturale, se esposto alla luce diventa splendente come oro. Chiara sostiene che ciò è dovuto a una trasformazione che il tessuto subisce per effetto della sua voce quando lei lavorando canta canzoni antiche, ma – detto tra noi – è più probabile che sia l’effetto del trattamento con alcune sostanze, che sono sicuramente naturali ma che, attraverso un processo chimico, conferiscono al tessuto questa proprietà. Lei si definisce una “alchimista”, che fa cose che la chimica non riesce a fare, ma diciamo che questo fa parte del personaggio. Va presa così com’è.
L’importante è che quest’arte, che lei ha appreso dalla nonna, riesca effettivamente a tramandarla: lo sta già facendo, per quanto siamo riusciti a capire. Ci ha parlato di una bambina, che abbiamo dedotto essere la sua nipotina; pare che questo sapere tenda a saltare una generazione, nel suo tramandarsi.
Dal bisso, effettivamente, si ricavavano pregiatissimi e costosi tessuti con i quali probabilmente già nell’antichità si confezionavano vesti ostentate come veri e propri status symbol dai personaggi più influenti delle società babilonese, assira, fenicia, ebraica, greca e infine romana. Si dice che il re Salomone, ad esempio, vestisse di bisso.
Tuttavia la comunità scientifica riteneva che il bisso fosse una qualità superiore di lino o addirittura di cotone, ignorando praticamente l’esistenza dell’omonima fibra animale. Il più antico manufatto in seta marina rinvenuto archeologicamente risale al IV secolo: le fibre, riconosciute in sezione al microscopio elettronico come bisso di Pinna nobilis, vennero alla luce nel 1912 in una tomba femminile ad Aquincum (oggi Budapest), per essere poi distrutte da un bombardamento durante la Seconda Guerra Mondiale.
Prima di salutarci, Chiara ci ha mostrato una cravatta di bisso fatta per il marito e ha regalato un filo di bisso ad Alessandro, il più giovane del gruppo con i suoi 16 anni, che si è mostrato interessato e anche preoccupato per il rischio di estinzione della pinna nobilis, di cui sapeva da precedenti esperienze con il WWF.

Chiara Vigo al telaio di sua nonna
La Pinna Nobilis

https://www.chiaravigo.it/

Da Sant’Antioco città, per prendere il traghetto di linea per Carloforte è necessario spostarsi a Calasetta, all’estremo nordovest dell’isola. Da qui, in una mezz’ora di navigazione, si arriva all’isola di San Pietro, di cui Carloforte è l’unico centro abitato importante.

Quello che caratterizza Carloforte più di ogni altra cosa e la rende interessante è la sua storia.
Carloforte è un’isola linguistica ligure in quanto l’isola di San Pietro fu colonizzata, dopo secoli di abbandono, nel 1738 da liguri originari di Pegli, oggi un quartiere di Genova, e provenienti da Tabarka, isola oggi collegata alla costa tunisina.
I suoi abitanti erano partiti nel 1542 da Pegli al seguito dei Lomellini, casato genovese che aveva avuto concessioni territoriali in quei luoghi, e si erano insediati nell’isolotto di Tabarka dove pescavano corallo e si dedicavano a traffici e commercio; vennero per questo chiamati “tabarchini”.
Nel ‘700 a Tabarka era diminuito il corallo ed erano aumentati i dissidi con i rais che li rendevano liberi o viceversa li facevano schiavi a seconda di chi regnava a Tunisi o ad Algeri in quel momento. Per questo motivo, stanchi di queste vessazioni, nel 1738 alcuni tabarchini, con a capo Agostino Tagliafico, chiesero al Re Carlo Emanuele III di Savoia un luogo per continuare in tranquillità i loro commerci, soprattutto di spezie e stoffe pregiate, con il resto del Mediterraneo. Il re acconsentì alla loro richiesta e concesse, mediante una regolare infeudazione, l’isola degli Sparvieri (Accipitrum Insula), allora deserta, oggi chiamata isola di San Pietro.
In onore del Re, a cui i nuovi abitanti eressero una statua nella piazza principale del paese e come segno di riconoscimento e fedeltà, il paese si chiamò Carloforte (Forte di Carlo).
Gli abitanti di Carloforte conservano ancora intatto il dialetto dei loro avi liguri che è detto tabarchino. Gli abitanti di Carloforte sono detti carlofortini o carolini; parlando di sé stessi, in termini di etnia, si definiscono tabarchini.
I primi periodi della colonizzazione furono durissimi per la presenza di aree insalubri, con conseguenti vere e proprie epidemie, che decimarono la popolazione; in seguito a bonifiche del territorio la colonia riuscì a migliorare le proprie condizioni e a prosperare; fu di supporto l’arrivo di altri coloni da Tabarka e di un gruppo di famiglie provenienti direttamente dalla Liguria. Un’ampia zona paludosa bonificata presso il paese fu allestita a salina, che risultò essere molto redditizia.
Un secondo insediamento di coloni provenienti da Tabarka si ebbe nel 1770 nella vicina isola di Sant’Antioco, sul lato prospiciente all’isola di San Pietro, dove fu fondato il paese di Calasetta. Per questo Calasetta è strettamente legata a Carloforte e anche lì si parla ancora il tabarchino.

Nel 1798 Carloforte subì una feroce incursione piratesca: più di novecento suoi abitanti furono catturati e tenuti schiavi a Tunisi per cinque anni. Durante questo periodo uno dei carlofortini catturati, Nicola Moretto, rinvenne sulla spiaggia di Nabeul, vicino a Tunisi, una statua lignea che si ritenne rappresentante la Madonna (sicuramente la polena di una nave, portata sulla spiaggia dal mare). Il ritrovamento fu considerato miracoloso, diede conforto e costituì fatto di coesione, dando origine al culto della “Madonna dello Schiavo” quale protettrice dei tabarchini. Successivamente gli schiavi furono liberati, pagando un oneroso riscatto, dal re Carlo Emanuele IV di Savoia. Al momento della liberazione la piccola statua della Madonna fu portata anch’essa a Carloforte e per accoglierla fu costruita l’omonima chiesa della “Madonna dello Schiavo”.
Le persecuzioni piratesche però continuarono ancora per diversi anni, fino a quando il fenomeno fu definitivamente represso in tutto il Mediterraneo. A testimonianza delle incursioni barbaresche restano ancora alcuni tratti di mura di cinta a difesa del paese, la dotazione di forti e diverse torri di avvistamento.
Pochi anni prima, nel 1793, la cittadina era stata invasa dai francesi nelle fasi post-rivoluzionarie che travagliarono l’Europa: l’isola fu definita “isola della libertà” dagli occupanti. Con l’avvento della breve dominazione francese (durata pochi mesi: 8 gennaio – 26 maggio) una parte della popolazione inneggiò ai nuovi principi sociali di libertà, uguaglianza e fraternità della rivoluzione, altri furono avversi: ci furono di conseguenza disordini e conflitti nel paese. In questo periodo convulso i sostenitori del Regno di Sardegna rimossero la statua del re, tentando di nasconderla seppellendola il più presto possibile (i rivoluzionari erano ovviamente nemici del re sardo) perché non fosse deturpata o per dimostrare ai nuovi conquistatori francesi di essere dalla loro parte, o per rimetterla al suo posto una volta allontanati i francesi dall’isola, come infatti poi avvenne. Nei ristretti tempi concessi prima dell’arrivo della soldataglia francese, la buca faticosamente scavata in fretta sotto il piedistallo si rivelò non abbastanza profonda, e dopo aver calato la statua nella buca il braccio della statua rimaneva fuori; non essendo possibile risollevare la statua per fare la buca più profonda, il braccio fu spezzato intenzionalmente con un colpo di mazza, affinché nulla sporgesse e non ci fosse alcun segno visibile del seppellimento. La statua fortunosamente salvata, non deturpata ma col braccio destro spezzato, è così ancora oggi, ritornata sul piedistallo nella piazza del lungomare, a ricordo e testimonianza di quel momento storico.

Nel 2004 Carloforte è stato riconosciuto come comune onorario dalla provincia di Genova in virtù dei legami storici, economici e culturali con il capoluogo ligure e, in particolare, col suo quartiere Pegli, luogo di partenza dell’emigrazione. Nel 2006 questo riconoscimento è stato dato anche alla vicina città di Calasetta.
Tutte le architetture e i colori di Carloforte, che ha oggi seimila abitanti, ricordano Genova: viuzze e vicoli che si inerpicano su un lieve pendio, scalinate, scorci colorati e vedute sul mare, con il porticciolo e le antiche fortificazioni difensive.
Uno degli esempi più tipici è l’archiottu, chiamato così da tutti i carlofortini. Nessuno sa con precisione quando e perché sia stato costruito, ma si dice che risalga più o meno alla fine del Settecento e che fosse la porta d’ingresso del giardino della famiglia Rapallo, a quei tempi una delle più ricche di Carloforte. Soggetto di un numero infinito di quadri e fotografie, è considerato uno dei simboli cittadini, ed è per questo che fa da sfondo anche per le foto delle feste di compleanno o di Carnevale, e che davanti ad esso in estate si leggono poesie o si cantano canzoni tradizionali.

L’Archiottu
Chiesa della Madonna dello Schiavo
Chiesa della Madonna dello Schiavo – Interno

Un’altra chiesa interessante, che abbiamo purtroppo trovato chiusa, è quella dei Novelli Innocenti, che è la sola sopravvissuta antecedente alla colonizzazione dell’isola. Vi fu eretta in memoria dei giovani e bambini facenti parte della cosiddetta “Crociata dei fanciulli” che partì da Marsiglia nel 1212. Due delle sette navi che componevano la flotta affondarono al largo dell’isola di San Pietro, tutti i naufraghi perirono e alcuni vi furono sepolti. La chiesa dei Novelli Innocenti fu eretta in memoria di essi per volere del Papa Gregorio IX. La piccola chiesa, ridotta a rudere, fu poi restaurata dai tabarchini all’epoca della colonizzazione.

Chiesa dei Novelli Innocenti

Le strade del centro cittadino brulicano di locali che sicuramente prendono vita nelle sere d’estate. A noi è piaciuto particolarmente un pub che si chiama Barone Rosso e che è letteralmente strapieno di cimeli di modernariato che il proprietario ha raccolto in occasione di chiusure di altri bar o negozi. Si capisce subito, poi, che è un posto piuttosto alternativo e con un orientamento “politico” che ci piace.

Il tabarchino, lingua tradizionalmente parlata nei comuni di Carloforte e Calasetta, ha origine direttamente dal ligure e fa parte del Genoise d’Otre Mer, vale a dire la lingua parlata nei secoli nella Repubblica Genovese, anche dai suoi abitanti dei possedimenti nei territori d’oltremare, che dall’anno 1000 in poi si insediarono presso tutte le rotte marittime controllate dalla Repubblica. La lingua parlata ancora oggi a San Pietro è forse l’ultimo baluardo di quell’epoca e conserva tutti gli elementi caratteristici della lingua d’origine, anche se oggi alcuni termini sono diventati desueti. Il tabarchino conserva molti termini antichi ma ne contiene anche tanti di origine francese, a testimonianza dei possedimenti della Repubblica nel Nizzardo e dei contatti commerciali tra la repubblica e i territori tra Francia e Spagna. L’80% della popolazione di Carloforte usa correntemente l’idioma tabarchino. Noi non abbiamo avuto purtroppo occasione di sentirlo molto nel corso del nostro breve passaggio a Carloforte, anche perché è una località molto frequentata da turisti nel periodo estivo; ma già da poche parole scambiate da due addetti alla nettezza urbana e dai discorsi al tavolo di una gelateria, dove gli avventori erano tutti carlofortini, vi posso dire che è proprio vero: non tutto si capisce, ma l’accento, il sound, è decisamente genovese! E del resto, se i vicoli sono chiamati carruggi non si può sbagliare…

Rientrando a Sant’Antioco, c’è il tempo solo per una doccia e poi si va a cena. Cena ancora a base di pesce, che però per me si conclude con una seada, un altro dei dolci sardi che adoro: è un raviolone tondo ripieno di pecorino e immerso nel miele (esiste anche la versione con lo zucchero, ma a me piace così, col miele). So che non piace a chi non ama i dolci troppo… mielosi, ma per gli altri vale la pena.

La seada

Venerdì 3 settembre 2021

Oggi ho deciso di concedermi anch’io ancora un po’ di spiaggia, perché probabilmente sarà l’ultimo bagno di questa stagione: domani abbiamo in programma le ultime due miniere e poi il rientro a Cagliari, quindi non ci sarà tempo. Si va a Cala Sapone, che è la spiaggia più facilmente raggiungibile, anche con un bus (purtroppo non molto frequente, soprattutto nel pomeriggio), da Sant’Antioco, ma è comunque una spiaggia molto piacevole, anche se col caldo di oggi lo è un po’ meno: è da ieri che soffia lo scirocco, e come sanno da queste parti significa che il caldo può essere micidiale. Oggi, in realtà, soffia meno ma proprio per questo si soffre di più: soprattutto dopo pranzo l’aria è ferma e il sole è rovente. Insomma siamo tutti un po’… sciroccati.
L’unico diversivo è il passaggio di un ragazzo che vende formaggi in spiaggia, una cosa piuttosto curiosa che francamente finora non mi era mai capitata. Non ha con sé un… campionario, ma cerca comunque con impegno di convincerci a provare le sue specialità, che potremmo assaggiare in un baracchino poco distante. Purtroppo per lui, pare che nessuno sia dell’idea.

Torniamo a Sant’Antioco nel tardo pomeriggio, ma mi resta ancora il tempo per visitare, sia pure un po’ di corsa, il museo archeologico, che è veramente imperdibile.
A fondare la città furono, probabilmente nella prima metà dell’VIII secolo a.C. (pare, stando alle fonti letterarie, quasi nello stesso periodo in cui venne fondata la stessa Cartagine) alcuni mercanti e navigatori provenienti da un’area grosso modo corrispondente all’attuale Libano: i Fenici. Il dato relativo alla fondazione della città è desumibile con buona approssimazione sia rifacendosi alle fonti letterarie, sia basandosi sulle testimonianze archeologiche: il materiale riportato alla luce nell’area del tofet e in quella del cosiddetto cronicario indicano che il centro fosse pienamente attivo almeno a partire dalla metà dell’VIII secolo a.C.

Vari studiosi indicano Sant’Antioco come la città più antica della Sardegna. Alla fine del VI secolo a.C. i Cartaginesi, i fenici d’Occidente, presero possesso della Sardegna e dunque anche dell’isola di Sant’Antioco. La città nordafricana controllerà la Sardegna sino all’epoca delle guerre puniche, quando verrà spodestata dalla nuova potenza egemone del Mediterraneo: Roma.
La città fu testimone, durante quelle guerre puniche che rappresentarono un vero e proprio spartiacque negli equilibri del Mediterraneo, di un evento bellico di una certa rilevanza. Fu probabilmente tra le isole della Vacca e del Toro che si combatté la battaglia di Sulci (258 a.C.), che vide trionfare la flotta romana guidata dal console Gaio Sulpicio Patercolo su quella sardo-punica capeggiata da Annibale Giscone, che in quanto responsabile della disfatta venne condannato e successivamente crocifisso. In epoca romana, ossia a partire dal 238 a.C., Sulci continuò a fiorire sino a diventare, a detta del geografo greco Strabone (vissuto a cavallo tra I sec. a.C. e I sec. d.C.) la città più florida della Sardegna romana insieme a Karalis. Lo sfruttamento dei bacini minerari dell’Iglesiente non era infatti cessato (venne eretto in età augustea il tempio romano di Antas, sulle rovine di quello punico), e con esso l’intenso traffico nel porto sulcitano: di qui l’appellativo dell’antica Sulci “Insula plumbea”.
Per la visita al museo si parte dal tofet punico, che fa parte di una più ampia area archeologica che richiederebbe molto più tempo. Il tofet (termine di origine ebraica che compare nell’Antico Testamento) è un’area sepolcrale destinata ad accogliere le sepolture di una particolare categoria di defunti: i bambini nati morti o deceduti in tenera età. Per lungo tempo gli studiosi, condizionati dalle fonti greche e latine, hanno ritenuto che fosse il luogo preposto ai sacrifici cruenti dei primogeniti immolati alla divinità, tanto che il tofet era diventato il simbolo della crudeltà e dell’implicita inferiorità della civiltà fenicio-punica. Solo in anni più recenti, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, si è accertato che in realtà si trattava, sostanzialmente, di propaganda contro quella civiltà. Dalle analisi osteologiche, infatti, è emerso, qui come in altri tofet punici (ad esempio quello di Tharros), che i resti erano riconducibili a feti o bambini deceduti entro i due anni, e privi di qualsiasi segno di morte violenta. Oggi si sa che quei resti, sepolti in pentole di terracotta, facevano parte di un santuario che serviva a invocare la benedizione divina per nuove nascite, che era parte integrante del rituale, in un’epoca in cui la grande mortalità infantile rende irrealistico il sacrificio sistematico di un numero considerevole di vite umane.
Un altro elemento interessante del tofet sono le stele, oggi esposte nel museo, la cui funzione era legata ai rituali praticati dalla famiglia del piccolo defunto. Infatti, attraverso le offerte alle divinità, i genitori chiedevano la grazia di una nuova nascita. Le stele, spesso recanti iscrizioni di gratitudine, testimoniano il ringraziamento da parte della famiglia del defunto agli dei Tanit e Baal Hammon per averli benedetti con un nuovo figlio.
La produzione litica di Sulky, compresa tra il VI e il I secolo a.C., ha assunto nel corso dei secoli caratteri artigianali peculiari, rivelando originalità e capacità di recepire e rielaborare gli influssi tipicamente punici e gli elementi distintivi dell’età ellenistica. Sono stati identificati quattro grandi gruppi cronologici: il più antico comprende le rappresentazioni più semplici di figure antropomorfe stilizzate come le figure femminili frontali con le mani al seno, nell’atto di un antico gesto simbolo di fecondità, all’interno di edicole di tipo egittizzante. Le colonne e i pilastri diverranno più elaborati nel secondo gruppo attraverso l’inserzione di capitelli, mentre l’architrave sarà decorato con simboli astrali (disco solare e falce lunare). Compare in questo periodo il tipo più diffuso (circa 250 stele), che è quello della figura femminile con una lunga tunica e disco al petto, verosimilmente un tamburello usato nelle cerimonie sacre. A metà del IV secolo a.C. diviene evidente l’influsso greco: prevale il tempietto di tipo ionico, e l’architrave ora è sormontato dal frontone dei templi greci. Compare un altro tipo: personaggio con lunga tunica, stola sulla spalla sinistra e segno egiziano della vita (ankh) nella mano destra. Nelle stele dell’ultimo gruppo prevale il gusto ellenizzante, vengono privilegiati esemplari di ridotte dimensioni inserite in un grande blocco di arenaria. Compaiono personaggi che reggono le coppe per la libagione sacra e animali passanti, perlopiù pecore o arieti.
Un altro pezzo forte del museo sono i leoni di Sulky, rinvenuti nel 1983 in un’area dedicata all’anfiteatro romano, edificato intorno al II secolo d.C.. Le statue si trovavano addossate ad un muro con probabile funzione decorativa, forse a sostegno di una sorta di tribuna d’onore per le autorità. I leoni in origine erano verosimilmente collocati in posizione araldica davanti alla porta nord dell’abitato punico, in coerenza con un’antichissima tradizione definibile genericamente come orientale. La loro realizzazione, in tufo vulcanico locale, potrebbe essere contemporanea all’erezione delle fortificazioni della città, nel IV secolo a.C.. La postura dei leoni, la resa dei dettagli e lo stile richiamano in maniera chiara esemplari siriani e ittiti del II millennio a.C. con la stessa funzione, quella di simbolo del potere regale.
Ancora più spettacolare il pavimento a mosaico raffigurante due pantere che si abbeverano al calice di vino del dio Bacco, dal quale nasce un tralcio di vite. Il pavimento doveva costituire un emblema, ossia la parte centrale di un mosaico più ampio che decorava il triclinium, la sala dei banchetti della domus.
Le ceramiche rinvenute nell’abitato ci offrono un quadro dei commerci dell’antica città di Sulci in età tardo-repubblicana e imperiale. In particolare, le ceramiche fini da mensa acquisiscono una dimensione mercantile notevole in quanto, divenute una “moda” in tutto l’impero, vengono esportate su lunghe distanze come merci di accompagnamento delle principali risorse commerciate: vino, olio e conserve di pesce.

Il tofet
Un leone di Sulky
Pavimento a mosaico romano
Una stele del tofet

https://mabsantantioco.it/

Finito di visitare il museo, di corsa a casa: doccia veloce e si va a cena. Per l’ultima sera a Sant’Antioco abbiamo scelto il birrificio artigianale Rubiu, dove ci facciamo una pizza accompagnata da una delle tante birre prodotte dalla casa. Io, in omaggio al nostro tour minerario, non posso che scegliere la Flavia, che è così definita: una Golden Strong Ale chiara, alcolica, complessa e appagante, ma anche pericolosamente beverina.

https://rubiubirra.it/

Sabato 4 settembre 2021

Siamo arrivati purtroppo all’ultimo giorno di viaggio, ma è una chiusura col botto: oggi ci aspettano due miniere, quella di Serbariu a Carbonia e quella di Monteponi.
Silvia arriva puntuale dopo colazione a prenderci col pullmino rosso, si ricaricano i bagagli e si riparte, prima tappa Carbonia.
Carbonia, oggi capoluogo della provincia del Sud Sardegna con 26.000 abitanti, è una città costruita intorno alla miniera, con un’impronta tipicamente razionalista, dovuta ovviamente al periodo: la città fu fondata nel 1937 e fortemente voluta dal regime fascista come uno dei suoi fiori all’occhiello. Prima ancora di andare alla miniera, noi ci fermiamo nella centrale piazza Roma, dove questo è di un’evidenza totale. Sulla piazza si affacciano la Torre Civica, il Teatro Centrale, il Dopolavoro Centrale e il Palazzo Municipale (i primi tre sono dello stesso architetto, Gustavo Pulitzer Finali). La Torre Civica, alta 27,5 metri, è il primo edificio della città, dove nelle fondamenta fu deposta la “prima pietra” il 9 giugno 1937 e nota come Torre Littoria durante il regime fascista; da questo edificio Benito Mussolini pronunciò il discorso di inaugurazione della città il 18 dicembre 1938. Nata come casa del fascio, fu utilizzata per vari scopi nel corso degli anni, fu tra le altre cose sede della Pretura sino agli anni settanta. Oggi ospita alcuni uffici comunali.

La grande miniera di Serbariu oggi è un museo del carbone, basato su tre spazi principali: la lampisteria, dove i minatori prendevano le lampade e facevano la doccia a fine turno, la galleria sotterranea e la sala argani, da dove le gabbie (ogni gabbia poteva contenere 25 persone) venivano calate in galleria.
La Grande Miniera di Serbariu ha rappresentato, tra gli anni Trenta e Cinquanta del Novecento, una delle più importanti risorse energetiche d’Italia. Iniziò ufficialmente la sua attività produttiva nel 1939 e cessò la produzione nel 1964.
La Società Mineraria Carbonifera Sarda operò nel bacino carbonifero del Sulcis un’intensa campagna di sondaggi di ricerca negli anni 1936-37, riscontrando l’esistenza di un esteso giacimento di carbone a sud della miniera di Sirai (in attività già dal 1918) e ad ovest della zona dove a breve sarebbe sorta la città di Carbonia. L’area venne richiesta in concessione con la denominazione di “Serbariu” nel 1937, ottenuta poi ufficialmente il 18 gennaio 1939. Nell’intervallo tra le due date ebbero luogo i lavori di allestimento della miniera e vennero scavati i primi pozzi. L’originaria estensione venne ampliata nel tempo fino a inglobare anche le concessioni minerarie limitrofe e fino a raggiungere la profondità di 179 metri dalla superficie e 103 metri sotto il livello del mare.
Negli anni ’50, con l’ingresso dell’Italia nella CECA e il ridimensionamento dell’intero settore, ebbe inizio un periodo segnato da riassetti societari, dalla chiusura di molti cantieri e dallo spostamento dei lavori verso il centro del bacino con la costruzione della nuova miniera di Seruci. Si assistette ad un progressivo smantellamento del bacino carbonifero con una tendenza all’esodo. Nel decennio 1947-57 il numero delle maestranze passò da 14.000 a 5.000 unità. È questo il periodo delle lotte e degli scioperi per il mantenimento del posto di lavoro. Nel 1948 si svolse uno degli scioperi più lunghi della storia italiana, che durò ben 72 giorni. La drastica riduzione dell’attività mineraria in una regione che si reggeva sulla monoeconomia carbonifera causò un susseguirsi di emigrazioni. Nel 1965 i minatori ancora in attività furono assunti dall’Enel, la concessione mineraria fu rinunciata e i beni immobili passarono alla Regione Sarda, e poi da questa furono rivendute alla MCS.
La miniera di Serbariu venne chiusa ufficialmente nel 1971. Da allora gli impianti sono stati soggetti ad un rapido deterioramento e ad un’opera di spoliazione che ha portato alla rovina edifici e macchinari. I fabbricati abbandonati divennero sede di diverse attività artigianali non autorizzate, di discariche abusive e furono occupati da famiglie di senzatetto che ne accelerarono il degrado.
L’Amministrazione comunale intervenne in diversi frangenti nel tentativo di acquisire il patrimonio immobiliare della ex miniera e per impedire lo smantellamento dei castelli minerari destinati alla rottamazione, fino a concludere l’acquisto del sito nel 1991. Da quel momento sono stati elaborati diversi progetti di recupero e di riapertura al pubblico fino al 4 dicembre 2002, data ufficiale di inizio del primo cantiere per il restauro della lampisteria.
Il Museo del Carbone è stato infine inaugurato il 3 novembre 2006 alla presenza di autorità nazionali, regionali e locali, dei minatori ancora in attività nella miniera di Nuraxi Figus, degli anziani minatori di Serbariu e di tutti i cittadini che hanno voluto essere presenti all’evento.
Il momento della riapertura dei cancelli della Grande Miniera è stato sottolineato dal suono della vecchia sirena della stessa miniera, rimessa in funzione da un anziano minatore. La riattivazione della sirena ha fatto commuovere quanti ne conservano il ricordo legato al tempo in cui scandiva l’attività lavorativa indicando i cambi turno e, spesso, gli incidenti in miniera.
Nell’occasione alcuni ex-minatori della Miniera di Serbariu hanno apposto l’impronta delle mani e la firma su un grande telo bianco. Da allora il telo si trova in uno dei locali delle docce nella lampisteria, pronto ad accogliere altre firme ed impronte degli anziani minatori di Serbariu che si recano a visitare il Museo.

Le bici dei minatori
Le docce della lampisteria…
Con le impronte dei vecchi minatori

La fondazione di Carbonia arriva in un momento storico singolare per l’Italia degli anni trenta quando, per via delle sanzioni internazionali, si avvia un programma di sfruttamento delle risorse minerarie autarchiche per soddisfare il fabbisogno energetico nazionale. Si stima che il giacimento carbonifero di Serbariu possa fornire oltre un milione di tonnellate all’anno, pari al 10-15% del fabbisogno nazionale.
Gustavo Pulitzer Finali, Ignazio Guidi, Cesare Valle ed Eugenio Montuori sono i progettisti che disegnano la nuova città, un insediamento che inizialmente deve ospitare 12.000 abitanti-minatori, numero destinato a crescere esponenzialmente. Il progetto urbanistico assume alcuni principi della città-giardino, come i grandi viali alberati e i quartieri residenziali a bassa densità, ma Carbonia deve essere anche una città moderna e razionale, che tiene conto delle innovazioni tecnico-igienistiche, infrastrutturali e viabilistiche. L’idea è quella di un nucleo di case compatte intorno alla piazza principale, con la fabbricazione che poi si degrada in intensità andando verso l’esterno. La città è, secondo questi principi, organizzata in una rigida gerarchia sociale che si traduce nella separazione funzionale dei percorsi che collegano la miniera e della residenza, progettata in quartieri autonomi: quelli per dirigenti e impiegati, collocati nella zona centrale della città, e quelli dei minatori, progressivamente distanziati dal centro amministrativo e pubblico. La qualità dell’impianto urbano è una forma di compensazione degli effetti umani e paesaggistici della miniera. Questo modello coniuga riformismo e paternalismo, in una modalità consueta in tutte le company towns dall’800 in poi. L’originalità di Carbonia consiste nel particolare mix tra l’autoritarismo della gerarchia sociale e la qualità domestica e “amichevole” delle tipologie abitative.
Mussolini, dopo l’inaugurazione, dice alla Petacci: “La città è sorta dal nulla, d’incanto. Queste cose mi emozionano, mi rendono orgoglioso. Sono le opere più belle. Pensa che da lì fuggivano tutti. C’era una malaria tremenda, morivano come mosche. Avevano terrore di vivere lì, invece ora ci corrono”.
Allineate e ordinate con precisione e ripetitività, così appaiono nelle foto storiche le case di Carbonia. Il principio ordinatore della grande macchina per l’estrazione del carbone governa allo stesso tempo anche la città, vera macchina da riproduzione della forza lavoro.
Le prime famiglie operaie vengono alloggiate in oltre 600 villini quadrifamiliari, con quasi 1000 mq di terreno per ciascuno. Le abitazioni sono standardizzate, ma il modello culturale è rassicurante: le case si elevano tutte su basamenti di trachite locale, sono fatte della stessa pietra e coperte da familiari tetti a capanna. Ciascuna, per quanto piccola, ha stanze separate, servizi igienici ed energia elettrica, in una fase storica in cui questo standard era tutt’altro che scontato nel resto dell’isola. Inoltre, gli affitti sono moderati.
Carbonia è stata appena inaugurata ma già si pensa a progettare la “Grande Carbonia”, vera e propria capitale nazionale del carbone. Il numero di abitazioni non è più sufficiente per l’afflusso costante di nuovi minatori. Tra il 1938 e il 1940 vi è un’attività di intensificazione della residenza senza un piano urbanistico, che porta a una riduzione del verde. Si avviano nuove lottizzazioni, che sostituiranno definitivamente i primi modelli abitativi. Il piano di ampliamento del 1940 è il definitivo abbandono della visione di Pulitzer Finali, che non è coinvolto in questa nuova fase e che anzi è costretto ad abbandonare l’Italia a causa delle sue origini ebraiche.
Non più quindi un abitato per 12.000 abitanti fatto di piccole casette, ma una città di 55.000 abitanti costituente il centro di una vasta zona con altri nuclei abitati periferici. Il piano non sarà poi realizzato per lo scoppio del secondo conflitto mondiale, ma la città crescerà comunque in 12 anni fino a 52.000 residenti nel 1950. In quel periodo la miniera dava lavoro a 18.000 persone, di cui 12.000 sottoterra.
La miniera di Serbariu ha 11 pozzi, si scende di 327 metri, fino a 212 metri sotto il livello del mare. Sono stati sfruttati otto livelli, per 130 km di sviluppo sotterraneo. Serbariu ha chiuso definitivamente nel 1971, mentre l’ultima miniera di carbone del Sulcis, e ultima italiana, quella di Nuraxi Figus, ha chiuso nel 2018.
Qui si iniziava a 14 anni: i ragazzi già sottoterra, mentre le ragazze facevano le cernitrici manuali in laveria. Si lavorava a cottimo puro. Il carbone andava in ferrovia a Sant’Antioco e da lì con le navi nel resto d’Italia. L’ingresso dei lavoratori era salutato da una scritta che riportava una frase di Benito Mussolini: “Coloro che io preferisco sono quelli che lavorano duro, secco, sodo, in obbedienza e possibilmente in silenzio”. In poco più di 30 anni di attività, la miniera conterà 357 morti sul lavoro per incidenti e circa 3000 morti per malattie respiratorie.
Scendendo in galleria, al primo livello, con la guida, si riesce a capire meglio, ancora una volta, quanto era duro il lavoro. Gli incidenti erano frequenti anche perché dopo aver scavato un tratto, retrocedendo, si recuperavano le armature posizionate, e questo provocava il crollo degli ambienti spogliati dal minerale, salvo la galleria che permetteva ai minatori di uscire che doveva rimanere strutturata. I vagoni, fino ai primi anni ’40, venivano spinti a mano da due vagonai. Pieni pesavano 1800 kg e due vagonai dovevano spingerne 20 in otto ore di turno, dal cantiere alla cosiddetta “ricetta”, per guadagnare la giornata. Se stavano sotto i 12 rischiavano il licenziamento. Dopo questo periodo entrarono in uso i locomotori con motori elettrici per trainare i vagoni. Nelle miniere moderne si scavano anche rampe carrabili che, con i nastri trasportatori, portano in superficie continuamente il carbone.
Durante la guerra, i minatori persero il giorno libero settimanale; lo mantennero solo le squadre agli avanzamenti, che però durante i sei giorni di lavoro furono obbligate a fare i doppi turni, lavorando quindi sedici ore, e a produrre dodici tonnellate invece di sei. In questo modo si ebbe un aumento degli incidenti, che porterà il 2 maggio 1942 11.000 minatori a fare sciopero. Uno sciopero che si risolse rapidamente a loro favore perché il governo, avendo bisogno assoluto della materia prima, fu costretto ben presto a cedere sugli orari.
In un cantiere “d’epoca” si scavava a mano col martello pneumatico, in uno spazio alto anche solo 50 cm perché se lo spessore della lente di carbone era piccolo e sopra c’era roccia era antieconomico scavare tutto per altezze maggiori, quindi si lavorava solo nella lente, a oltre 40° di temperatura, in condizioni disumane sia di polvere che di rumore. Quelli che lavoravano in questo modo, non a caso, venivano chiamati “topi”. A questo lavoro, durante il ventennio, erano a volte destinati a scopo punitivo anche prigionieri di guerra, dissidenti politici, omosessuali ecc. L’azienda che gestiva la miniera richiedeva l’iscrizione al Partito Nazionale Fascista per l’assunzione, e quindi tutti i minatori non qualificati che arrivavano dalla campagna nella speranza di sfamare la famiglia erano costretti a prendere la tessera. I minatori qualificati, in genere più politicizzati, per orgoglio rifiutavano. Se erano considerati “necessari” venivano assunti comunque ma finivano nelle liste dei sovversivi e venivano quindi mandati nei posti peggiori.
Per quanto riguarda le polveri, c’è da dire che le maschere respiratorie furono in dotazione per tutti i minatori solo dal 1956. I perforatori le usavano già da una quindicina d’anni, ma non per proteggere la loro salute, soltanto per aumentare la produttività, perché senza maschera un perforatore si muoveva molto più lentamente, essendo per lui impossibile avanzare senza riuscire a respirare. Del resto, era da poco finito l’uso dei canarini in gabbia per avvertire i minatori del rischio di asfissia: quando l’uccellino moriva, significava che l’ossigeno si stava riducendo e bisognava scappare al più presto.
Si trattava di un lavoro estremamente pericoloso anche perché sia le polveri di carbone, in nube, che ancora più facilmente il grisou (gas tipico delle miniere di carbone composto prevalentemente di metano con azoto, anidride carbonica ed etano più altri gas in percentuali minime) possono generare esplosioni, essendo facilmente infiammabili. Nel primo periodo venivano addirittura utilizzate anche qui lampade a carburo, a fiamma libera, mentre quelle di tipo antideflagrante arrivarono solo negli anni ’50. Problemi analoghi di innesco del grisou erano legati agli impianti elettrici.

La sala argani
In galleria


Una volta risaliti, visitiamo il bellissimo e ricco museo multimediale dove, oltre ai molti oggetti d’epoca in mostra e alle foto, sono riportate molte altre informazioni sulle condizioni di lavoro dei minatori.
Riguardo alle malattie, la più diffusa qui era la pneumoconiosi, una sindrome polmonare interstiziale dovuta alle polveri respirabili (diametro inferiore a 5 micron) di carbone misto a quarzo, che provoca fibrosi bronchiolo-alveolare, riduzione dei volumi polmonari e insufficienza respiratoria cronica. La forma di pneumoconiosi tipica dei minatori del Sulcis, nota come antraco-silicosi, può degenerare anche in forme di tumore dei polmoni. Ma non vanno dimenticati, ovviamente, i deficit uditivi causati dal rumore e gli effetti delle vibrazioni sul sistema mano-braccio, di tipo osteoarticolare, vascolare, neuromuscolare e muscolo-tendineo.
Tutto questo, insomma, era quello che si nascondeva dietro l’immagine rassicurante della città-giardino dove tutti volevano andare a lavorare e a vivere.

Lasciata Carbonia, ci aspetta l’ultimo pranzo tutti insieme, con l’ultimo piatto di malloreddus,e poi ci dirigiamo all’ultima miniera di questo tour: Monteponi, nel comune di Iglesias. Qui a farci da guida è Michele Pinna di Sulcis Hiking & Bike, esperto di cammini ma anche grande conoscitore della storia di questa miniera. È l’ideale, perché qui non scenderemo sottoterra ma, pur restando… in superficie, ci faremo una bella passeggiata a piedi tra i luoghi più significativi di questo che è anche un parco geominerario.

Come e quanto la miniera abbia influenzato il paesaggio di questo territorio lo si capisce già fermandosi per un attimo sul ciglio della strada Statale 126 a guardare gli accumuli di fanghi rossi che da decenni sono diventati lo scenario di questo pezzo di Sardegna. Nei pressi di Iglesias sorgono infatti le imponenti discariche, per certi aspetti monumentali, note con il nome di Fanghi Rossi. Da qui si estendono per un tratto di circa un chilometro; catturano l’attenzione dei passanti per la loro colorazione rosso-arancio nelle giornate soleggiate, virando al rosso cupo nelle giornate umide. La discarica dei fanghi rossi è una testimonianza delle attività metallurgiche degli impianti della miniera di Monteponi. Dobbiamo la loro presenza all’Impianto di Elettrolisi che dal 1926, per circa mezzo secolo, ha recuperato lo zinco con un processo chimico-fisico: la colorazione rossa è legata alla presenza di notevoli quantità di ferro.

Citata in un documento del XIV secolo, sfruttata a fasi alterne nel XVII e XVIII, poi portata al massimo sviluppo e all’avanguardia tra XIX e XX, successivamente abbandonata e infine riqualificata. La miniera di Monteponi è una delle più affascinanti testimonianze della storia mineraria della Sardegna: nel corso dei secoli ha visto succedersi proprietà e attività, sviluppandosi fino a diventare uno degli impianti estrattivi principali in Italia, con edifici moderni e strutture all’avanguardia (per i tempi), fino all’irreversibile crisi e alla chiusura. Oggi il complesso minerario a pochissimi chilometri da Iglesias è uno dei siti compresi nel parco geominerario della Sardegna, nonché tappa del cammino minerario di Santa Barbara. In pratica, da alcuni decenni ha iniziato una nuova vita come sito di archeologia industriale.
Le origini dell’attività mineraria nell’Iglesiente sono probabilmente puniche e romane, ma è durante il controllo di Pisa e della nobile famiglia Della Gherardesca, nel XIV secolo, che appaiono le prime fonti scritte a testimoniarla. Il passo decisivo avvenne cinque secoli più tardi, nel 1840, con la legge dello stato sabaudo, che agevolava l’ottenimento delle concessioni estrattive, che da queste parti erano destinate a piombo, argento e zinco. A partire dalla costituzione della società di Monteponi fu avviato un processo di modernizzazione e sviluppo: si realizzarono le strutture principali, i pozzi Vittorio Emanuele II e Sella, collegati dalla galleria Villamarina, nuove laverie, l’elegante palazzina Bellavista, realizzata nel 1865 e sede della direzione, e una linea ferroviaria che collegava la miniera con Porto Vesme, scalo portuale vicino a Portoscuso. Il villaggio di Monteponi arrivò a ospitare fino a mille operai: sorsero ospedale, scuola, asilo e chiesa. Nella seconda metà del XX secolo costi insostenibili dell’energia elettrica, impoverimento dei minerali e crollo del loro prezzo nei mercati internazionali portarono al definitivo tramonto della produzione. L’inevitabile chiusura definitiva risale al 1992.

La palazzina Bellavista
Tornando al parco geominerario, Michele ci racconta che siamo in una fase che lui definisce di vergogna: si tende a non parlarne più, del geoparco, perché purtroppo il riconoscimento dell’UNESCO, che era stato conferito al Parco Geominerario Storico e Ambientale della Sardegna (che comprende anche la miniera di Monteponi) nel 1998, è stato perso nel 2019. Dopo due “cartellini gialli”, l’ultimo ricevuto con l’ispezione del 2017, è arrivato il cartellino rosso, con la motivazione che il parco è costituito di fatto da otto realtà separate, non ha una gestione unitaria e dei confini chiari. Il parco sta per essere commissariato, ma non bisogna dimenticare – dice Michele – che è stato il primo parco geominerario al mondo. È stato proprio grazie a questa idea che l’UNESCO ha “scoperto” questo genere di patrimoni, che prima non valorizzava. Ora stanno nascendo molti geoparchi nel mondo, dieci solo in Italia, ma qui in Sardegna tuttora non si riesce a garantire che questi siti possano essere conosciuti, visitati e che facciano rete tra di loro: ad esempio, ci dovrebbero essere guide del parco in grado di portare in giro le persone, invece le guide sono solo del Comune. È un inizio, ma non si va al di là di questo e non si riesce a concretizzare il progetto. Siamo vent’anni in ritardo, ammette Michele senza nascondere il suo disappunto. Le responsabilità della Regione, non solo dell’ultima giunta ma anche delle precedenti, chiaramente ci sono, ma non tutto si può spiegare con il classico immobilismo “della politica”, è anche un problema dell’attuale gestione del parco, e anche più generale. I responsabili del parco hanno dichiarato: “Ce l’abbiamo messa tutta anche con i pochi mezzi, la scarsità di personale e molta parte che remava contro. Ma sapevamo che sarebbe stato difficilissimo unire aree della Sardegna sotto un unico sistema, laddove c’è frammentazione, chiedere collaborazione laddove c’è crisi e resistenza, chiedere condivisione laddove c’è scarsissima conoscenza del patrimonio geominerario dei propri territori. E noi, arrivati solo due anni fa, sapevamo di avere ricevuto un compito ben arduo. Fare il miracolo di chiudere il processo, e rendere unite, collaborative e consapevoli del proprio patrimonio, tutte le aree del Geoparco”.
Carbonia e Iglesias sono state sempre storicamente due città vicine ma in contrasto, con cicli di vita ed economici alterni: negli anni ’60 Carbonia stava male perché stava chiudendo la miniera di Serbariu, mentre a Iglesias si viveva bene; successivamente, Carbonia si è ripresa perché Porto Vesme funzionava a pieno ritmo, mentre Iglesias stava male. Oggi le due città dovrebbero collaborare per valorizzare il comune patrimonio geominerario, ma non ci riescono. Adesso la sola speranza è che il progetto del parco, magari ridimensionato e più gestibile, possa rinascere e passare un nuovo esame UNESCO, ma ci vorrà del tempo.
Detto questo, la nostra passeggiata con Michele, nonostante il caldo, è stata molto piacevole e interessante. Lui è un’ottima guida, che ci ha saputo spiegare con competenza e passione la storia dei luoghi più evocativi di Monteponi, dalla palazzina Bellavista al pozzo Sella (che prende il nome da Quintino Sella, Ministro delle Finanze del Regno d’Italia), opera di particolare pregio ingegneristico costruita fra il 1872 e il 1874 per l’eduzione delle acque nell’attività estrattiva, ai forni, a bordo strada, dove la soda cotta diventava calce viva e dalle ceste usciva polvere di calce che ustionava le pelli sudate dei minatori.

https://www.facebook.com/search/top?q=sulcis%20hiking%20%26%20bike

E con questo, ahimè, si conclude davvero il nostro tour del Sulcis on the road. È stato davvero una meraviglia continua e anche un alternarsi di emozioni, dove era fortissimo il contrasto tra le storie terribili di una vita così dura che oggi facciamo fatica anche solo a immaginarla e la bellezza mozzafiato del mare e di tutti i paesaggi che abbiamo attraversato, anche i più aspri.
Da Iglesias Silvia ci ha riportato a Cagliari, dove ci siamo salutati con un abbraccio caloroso, sia pure con mascherina (la prudenza non è mai troppa), e la promessa di rivederci presto.
Io so già che non potrò stare per troppo tempo lontano dalla Sardegna e dalle mie farfalline predilette, e quindi appena possibile tornerò. Aggiungo, come mi ha giustamente suggerito Silvia, “Deu bollada… e is carabineris!” (voglia Dio e i carabinieri; qui non ve la spiego oltre, se volete capirla meglio andatevi a leggere, o rileggere, il diario del Dromos 2018).
Per adesso, mi piace concludere questo diario di viaggio continuando una tradizione che ho instaurato dal mio primo viaggio con le Mariposas in terra sarda, e cioè con qualche rima da poetastro dilettante ispirata a questo viaggio:

È stato un viaggio di mare e miniere
Sardegna da capire, non solo da vedere
Tanta bellezza, a volte un peso al cuore
Perché a un passo dall’incanto c’è stato l’orrore.
Ma chi non ha visto la Costa Verde
Non sa davvero cosa si perde
E la bellezza vince su ogni cosa
Se a guidarti è una dolce mariposa.

A si biri ❤🦋

Grazie a Michele Cuscusa (e a tutti quelli che lavorano con lui), all’Agriturismo Sa Perda Marcada, all’Agriturismo Sa Rocca, al B&B Domo Sa Barra, a tutto il gruppo con cui ho condiviso il viaggio e soprattutto alle impareggiabili Mariposas de Sardinia, in particolare Silvia che ci ha guidato (noi e il pullmino) con mano sicura e pazienza infinita.