Sulcis on the road… volando con le Mariposas
Un emozionante tour attraverso la Costa Verde tra mare cristallino, dune dorate e miniere fantasma, che ci condurrà, passando per il profondo Sulcis, fino a S. Antioco, estremo sud dell’isola, ripercorrendo le tappe principali della storia mineraria sarda: luoghi sospesi nel tempo, simboli dell’archeologia industriale. Un on the road nella natura selvaggia, con dolci distese di sabbia, aspre scogliere rocciose che cadono a picco sul mare e i profumi del ginepro, del lentisco e della ginestra.
Rieccomi qua: dopo parecchi mesi segnati da coprifuoco e chiusure, poi i vaccini e le prime aperture, i momenti di incertezza… insomma, dopo tutto quello che sappiamo, alla fine l’estate è arrivata, anzi ormai è praticamente finita. Il momento di partire per me si è fatto attendere, ma è stata un’attesa assai ben ricompensata perché poi, tra la fine di agosto e i primi di settembre, c’è stato il viaggio che ora vi voglio raccontare, e che mi ha riportato nell’amata Sardegna con le amatissime Mariposas. Solo un veloce remind per chi si fosse perso le puntate precedenti e non sapesse chi sono:
le Mariposas sono, in rigoroso ordine alfabetico, Angelica, Laura, Silvia e Viola, quattro amiche che nel 2015 a Mogoro, in Marmilla, hanno fondato un’associazione di promozione sociale che si chiama appunto Mariposas de Sardinia (Mariposas, sia in spagnolo che in sardo campidanese, significa farfalle). Ciò che le unisce è l’amore per il loro territorio e la voglia di viverci, scommettendo su nuovi orizzonti di sviluppo possibili e mettendo insieme le loro diverse competenze, professionalità e personalità. Ma lo faccio dire a loro, riportandovi qui la loro autopresentazione:
In questi anni abbiamo lavorato e continuiamo ad impegnarci con pazienza e creatività per promuovere la bellezza e la biodiversità umana e naturale della nostra affascinante isola, attraverso la messa in rete di attori e stakeholders locali. Il nostro obiettivo è quello di rispettare, proteggere, valorizzare e offrire a tutt*, senza barriera alcuna, la possibilità di godere di ciò che già esiste, in modo leggero e non impattante.
Tutti i nostri viaggi e progetti nascono dalla relazione profonda con il territorio e con chi lo abita, perché siamo convinte che solo conoscendo le proprie radici si possa, poi, volare.
Mariposas de Sardinia fa parte della grande famiglia ViaggieMiraggi onlus: cooperativa sociale-tour operator, rete di soggetti e associazioni in Italia e nel mondo, nata alla fine degli anni ‘90 con l’obiettivo di creare un’impresa sociale che si occupasse di stravolgere i paradigmi del turismo e lavorare a contatto diretto con la società civile dei luoghi visitati, con persone ed associazioni direttamente coinvolte in progetti di sviluppo.
Crediamo in un modo gentile di viaggiare, profondo e responsabile, attento alla cultura locale e alla sostenibilità, passo dopo passo.
Ho detto che sono quattro, ma in realtà non è proprio così: quattro sono le fondatrici, ma ora si sono aggiunte altre due ragazze, due nuove leve che purtroppo ancora non ho avuto la possibilità di conoscere, ma sono sicurissimo che anche loro saranno all’altezza.
Questa volta si tratta, come da titolo, di percorrere “on the road” le strade del sudovest della Sardegna, del Sulcis e dell’Iglesiente, muovendosi – appunto – tra mare e miniere, tra le spiagge più spettacolari della Costa Verde e le miniere che hanno segnato la storia di questo territorio nel profondo, in tutti i sensi. Questo è il programma; è un viaggio che volevo fare da parecchio tempo, e ora il momento è arrivato.
Il gruppo è composto da otto persone, con provenienza in prevalenza da Milano e Lombardia, ma sono rappresentate anche Genova e la provincia di Pisa.
A guidarci sarà Silvia, la mariposa forse più adatta per un viaggio on the road, anche se tutte lo sarebbero. Lei sicuramente conosce bene questi luoghi, per averli già percorsi più volte sia con un pullmino, come faremo noi, sia a piedi. Lei infatti è anche guida di trekking, e qui in Sardegna uno dei percorsi di trekking più importanti è proprio il cammino di Santa Barbara, che attraversa queste stesse zone, soltanto più lentamente (Santa Barbara, per chi non lo sapesse, è la patrona dei minatori e degli esplosivi).
Ma prima di partire davvero, non c’è modo migliore di iniziare un viaggio in Sardegna con le Mariposas che un passaggio dall’agriturismo di Michele Cuscusa, situato nelle campagne tra Mogoro e Gonnostramatza (Mogoro, la “Big City” della Marmilla con i suoi circa 4000 abitanti, è come abbiamo già detto la “casa” delle Mariposas). Io sono già passato di qui tre anni fa, all’inizio del viaggio tra Marmilla e penisola del Sinis che seguiva il Dromos Festival. Quella volta una sera mi capitò anche di dover entrare dalla finestra… ma questa è un’altra storia.
Michele è un pastore, e molto fiero di esserlo, molto orgoglioso della sua storia e delle sue radici. Ma è anche molto di più, è uno che si è inventato un’accademia del latte dove si può imparare il mestiere di casaro, uno che ha amici giapponesi che hanno pubblicato libri di ricette sarde in giapponese, e tante altre cose ancora.
Una cena da Michele è un’esperienza sensoriale che va assaporata con la giusta calma: richiede il suo tempo, prima di tutto perché tante sono le portate: nel nostro caso ravioli dolci con sugo di carne, lorighittas (le lorighittas sono una pasta tipica della cucina sarda originaria di Morgongiori, ai piedi del monte Arci; si preparano a mano attorcigliando tra le dita un doppio filo di pasta fino a creare una treccina chiusa a formare un anello, in sardo loriga), carne di capra, l’immancabile porceddu. E poi c’è il bere: c’è il vino di Michele, vermentino e cannonau, c’è il mirto e c’è una novità, l’insolito amaro di olivastro.
Ma non è solo questo: non solo ogni portata è in qualche modo un racconto, ma anche il dopo cena è fatto di infiniti racconti, con Michele che come sempre tiene banco e spazia con disinvoltura dalle razze ovine a Putin e Xi Jinping… e si arriva facilmente alle due di notte.
Un sonno ristoratore, magari non molto lungo, almeno nel mio caso, avendo ascoltato Michele fino all’ultimo aneddoto, e siamo davvero pronti a partire… on the road.
Sabato 28 agosto 2021
Se la cena da Michele è un’esperienza sensoriale completa, altrettanto lo è la colazione, con la differenza che si svolge in un tempo molto più breve e quindi tutto è più concentrato: lui ti porta roba a getto continuo, dalla torta di carote a uno yogurt di pecora e capra che è qualcosa di unico, innumerevoli marmellate e tipi di miele, e poi budino al cioccolato, crème caramel, panna cotta… e sicuramente dimentico qualcosa. Vorresti assaggiare tutto, ma non è proprio fisicamente possibile. Diciamo che è qualcosa che sicuramente non si dimentica facilmente, e infatti Michele verrà spesso e volentieri citato nei giorni successivi e preso come “benchmark” di tutto quello che è cibo e ospitalità.
http://web.tiscali.it/cuscusa/
https://www.facebook.com/fattorie.cuscusa

Dopo di che si parte col pullmino rosso guidato da Silvia verso la prima tappa del tour: la miniera di Montevecchio.
A scrivere l’inizio della storia mineraria di Montevecchio fu un prete, Giovanni Antonio Pischedda, nativo di Tempio. Attratto dagli affari, seguì il padre a Guspini per commerciare in sughero e pelli. Qui conobbe, dagli anziani del posto, la ricchezza dei filoni minerari di Montevecchio, noti da sempre perché affioravano in superficie; tanto fece che riuscì ad ottenere, nell’ottobre del 1842, un permesso di ricerca e di scavo per 25 quintali di galena, sul filone di Montevecchio. Intuita l’importanza dell’affare comprese che, per far fruttare l’impresa, doveva trovare dei capitali adeguati. Recatosi a Marsiglia ebbe fortuna e trovò presto quattro soci. Nel mese di giugno dell’anno 1844, era di nuovo a Marsiglia alla ricerca di soluzioni quando incontrò un giovane sardo, dinamico, pieno d’iniziativa e di entusiasmo. L’uomo si chiamava Giovanni Antonio Sanna e sarebbe diventato presto il padre fondatore delle miniere di Montevecchio. A Marsiglia e a Torino trovò i capitali necessari ad avviare le coltivazioni ed ottenere le concessioni. Il 28 aprile 1848, il re Carlo Alberto firmò l’atto di concessione perpetua per lo sfruttamento della miniera di Montevecchio che divenne nel 1865, con 1100 operai, la miniera più importante non solo dell’isola ma del Regno intero.
La Montevecchio si distinse, tra l’altro, nell’elettrificazione esterna e interna della miniera e nell’adozione di nuovi sistemi di perforazione: prima a secco e, quasi subito, quelli ad acqua che erano meno nocivi per il minatore perforatore.
La miniera chiuse la propria attività nel 1991 dopo un’ultima occupazione dei pozzi da parte dei minatori che, dal pozzo Amsicora, rivendicavano ancora uno sviluppo alternativo.
Come in tutte le miniere (avremo modo di scoprirlo) anche Montevecchio ha la sua chiesetta di Santa Barbara, alla quale i minatori affidavano le loro preghiere e le loro suppliche perché li aiutasse a sopportare una vita estremamente dura.
La miniera di Piccalinna, scoperta nel 1874, si estende per circa 370 ettari. Il nome viene dal fatto che il suono degli attrezzi con cui si batteva sulle rocce ricordava quello del picchio (piccalinna in sardo). Venne data in concessione alla società italo-francese Nouvelle Arborese. Nel 1897, quando ormai si riteneva esaurito il filone minerario, fu ceduta alla Società Montevecchio già concessionaria delle altre aree della zona.
Nel piazzale di Piccalinna una serie di edifici, tutti con muratura in pietra a vista, decori in laterizi e una certa ricercatezza architettonica, costituiscono quello che in passato era il nucleo operativo di questo cantiere minerario: il pozzo San Giovanni e la lampisteria, la sala argano, la sala compressori e la cabina elettrica, la laveria Piccalinna, gli uffici e la forgia.
Altri edifici, ormai in parte distrutti dall’incuria e dal tempo, si scorgono, immersi nella vegetazione. Si tratta delle abitazioni per operai scapoli: un complesso di sette edifici, realizzati intorno agli anni Quaranta del Novecento.
Il Pozzo San Giovanni venne scavato, con una profondità di 100 m, intorno agli anni Settanta dell’Ottocento e venne poi approfondito sino alla quota di 400 m. Lungo la sezione del pozzo, due gabbie munite di sistema di frenatura del tipo a “paracadute”, che assicurava un ridottissimo margine di rischio, consentivano il trasporto dal sottosuolo alla superficie sia del personale sia del minerale.
Adiacenti al pozzo, verso la fine dell’Ottocento, furono costruiti altri due edifici: il locale forge in cui un fabbro eseguiva la manutenzione dei fioretti danneggiati, utilizzati nei martelli perforatori; la lampisteria, edificio in cui i minatori, prima di scendere in sotterraneo, depositavano i propri effetti personali, si attrezzavano di lampada a carburo e prendevano la piccola medaglia di riconoscimento che portavano con loro in galleria.
La sala argano e la sala compressori sono state realizzate in pietra basaltica a vista e vari elementi in laterizio, verso la fine dell’800.
All’interno della sala argano si trova ancora l’imponente macchina d’estrazione, inizialmente a vapore ed elettrificata intorno agli anni Trenta. Ubicata in asse rispetto al pozzo, serviva alla movimentazione delle gabbie.
Alla sala compressori si può accedere direttamente dalla sala argano. Ospitava le macchine per la produzione dell’aria compressa introdotta in miniera per l’eduzione delle acque dal sottosuolo e, in seguito, sfruttata anche per alimentare la laveria e per azionare le perforatrici e le altre macchine utilizzate nel sottosuolo o in superficie. L’ottocentesco compressore marca Sullivan piace ai bambini perché è un grosso mostro metallico, ma sembra che abbia due occhi e una bocca.



Lungo il percorso, tanti sono i punti che colpiscono nel racconto della guida. Per dirne una, non solo i minatori lavoravano duramente nelle gallerie e passavano qui nel borgo costruito intorno alla miniera la gran parte della loro vita, ma anche le donne e i bambini (da sei anni in su) facevano la cernita delle pietre e le spaccavano a mano col martello per separare gli inerti dai minerali più ricchi di piombo e di zinco (i due metalli che si estraevano qui).
Tanti anche gli incidenti che hanno funestato la storia della miniera: 400 morti sul colpo in circa 150 anni. Sono incalcolabili i morti per malattie professionali, prima tra tutte la silicosi, ma anche il saturnismo legato all’esposizione al piombo. La vita media dei minatori era di 35-40 anni.
Inoltre la separazione finale del minerale avveniva per flottazione, un processo chimico che comporta l’utilizzo di sostanze tossiche. La flottazione si basa sulla diversa bagnabilità delle superfici dei materiali da separare da parte di un liquido; tale diversità viene notevolmente esaltata per aggiunta di adatti composti chimici. Quando tali composti (agenti flottanti) vengono addizionati a una sospensione acquosa di un minerale metallico macinato, introdotto nella cella di flottazione, il materiale inerte è bagnato dal liquido e in questo affonda, fuoriuscendo da un’apertura praticata sul fondo cella e collegata con le celle successive, mentre le particelle del minerale metallico sono pochissimo o per nulla bagnate dal liquido nel quale tendono a galleggiare se nella massa s’insuffla una corrente d’aria. La flottazione selettiva permette di ricavare, separatamente, più minerali metallici. Così, galena (PbS) e blenda (ZnS) si separano insieme dall’inerte: se si ripete la flottazione sulla miscela dei due minerali, aggiungendo un passivante (cianuro alcalino ecc.) capace d’indurre temporaneamente bagnabilità su uno dei due minerali (blenda), con un meccanismo analogo a quello degli agenti flottanti si può realizzare anche la separazione dei due costituenti.
Il piombo era estratto, con le tecniche dell’epoca, già dai Romani, che lo usavano per le condutture dell’acqua. Nei secoli, è stato usato per produrre caratteri per la stampa e, agli albori della radiofonia, il cristallo di galena fu utilizzato nella cosiddetta radio a galena. Oggi, essendo stato riconosciuto come altamente tossico, l’impiego del piombo è molto limitato sia nelle benzine sia nelle ceramiche (altro storico utilizzo), mentre è stato del tutto eliminato negli utensili di uso domestico.
I carrelli contenenti il materiale estratto, almeno per un primo lungo periodo, erano tirati dagli asini, che avevano una stalla tutta per loro, forse addirittura più dignitosa di alcune dimore degli operai.
Un’altra cosa che colpisce è che, per molto tempo, i minatori furono pagati non in lire ma con una moneta appositamente coniata detta gettone di Montevecchio. Una moneta che, ovviamente, poteva essere spesa solo nei negozi del borgo minerario, al di fuori del quale i lavoratori non avevano alcun potere di acquisto. Per di più i prezzi erano naturalmente fatti dai padroni della miniera ed erano tali da mangiare completamente il misero salario. In pratica il padrone con una mano pagava e con l’altra si riprendeva i soldi con gli interessi. Una sorta di schiavitù legalizzata.







http://www.minieramontevecchio.it/
Piccola curiosità: nella ex centrale elettrica della miniera oggi si produce una birra, la Quattro Mori.


Noi, terminata la visita, ci concediamo un pomeriggio per riprendere contatto col mare sulla bellissima spiaggia di Scivu, famosa soprattutto per le sue formazioni rocciose. Alcuni anni fa la spiaggia fece da sfondo al video di Jesus’ Son dei Placebo, girato in parte qui e in parte nel borgo “western” fantasma di San Salvatore, nella penisola del Sinis (tappa di un mio precedente viaggio con le Mariposas). Se vi va, cercatelo su Youtube.


Raggiungiamo poi l’agriturismo Sa Perda Marcada (la pietra segnata), nel territorio di Arbus, dove passeremo le prossime due notti.
Per cena abbiamo gnocchetti sardi (malloreddus) con zucca e zucchine, agnello con patate, per dessert ricotta col miele e, per chi vuole, un bicchierino di mirto o di filu ‘e ferru, l’acquavite sarda. Il nome risale a qualche secolo fa e deriva dal metodo utilizzato per nascondere gli alambicchi quando l’acquavite veniva prodotta clandestinamente. I contenitori con il distillato e gli alambicchi venivano nascosti sottoterra e, per poterne individuare la posizione esatta in momenti successivi, venivano legati con uno o più fili di ferro con un capo che sporgeva dal terreno.
Dopo cena, si può stare un po’ fuori a chiacchierare e prendere il fresco. Qui la temperatura la sera è davvero piacevole dopo una giornata calda, ci sta perfino una felpina.
https://www.saperdamarcada.it/
Domenica 29 agosto 2021
Anche oggi… in miniera! Il tour prevede ovviamente di visitarne diverse, quasi una al giorno, e oggi siamo a Ingurtosu, un altro sito fondamentale della storia mineraria sarda.
La Sardegna, pur con la sua estensione relativamente limitata, è stata teatro di eventi magmatici, tettonici, sedimentari e metamorfici che hanno creato le condizioni per la formazione di giacimenti di minerali utili fin dal Cambriano. Rappresenta quindi un caso geologicamente molto interessante, poiché i minerali presenti, pur non essendo in ingenti quantità, sono dei più svariati tipi. Qui, come a Montevecchio, si estraevano piombo, zinco e, in misura minore, argento, che può essere anch’esso contenuto nella galena. Il filone era di natura vulcanica.
Il nome Ingurtosu deriva da su gurturgiu, il gipeto, un avvoltoio che popolava i cieli di quest’area. Secondo altri il nome sarebbe la contrazione di ingurtidroxiu, che significa “inghiottitoio”, forse riferito a qualche scavo minerario con origini antichissime.
Oggi è un villaggio semidiroccato e quasi deserto ma quando fu abitato, fino alla fine degli anni sessanta, era arrivato a ospitare quasi cinquemila persone, fungendo da centro direzionale della miniera di Ingurtosu e di quella vicina di Gennamari, che facevano parte entrambi del complesso minerario chiamato filone di Montevecchio.
La miniera, che aveva iniziato la sua attività estrattiva nel 1855, raggiunse la massima espansione all’inizio del XX secolo. La prima crisi, con il licenziamento di molti operai, si ebbe nel 1943. Nel dopoguerra l’attività riprese, ma il declino era ormai avviato e nel 1968 la miniera fu definitivamente chiusa.
Nel villaggio minerario si trovavano il palazzo della direzione, chiamato “Il castello”, costruito verso il 1870 in stile neomedievale a imitazione di un palazzo tedesco, in posizione dominante rispetto al resto del complesso, che comprende abitazioni di impiegati, la chiesa, lo spaccio, la posta, il cimitero e persino un ospedale.
Lungo la vallata che collega il villaggio al mare si trovano alcuni pozzi minerari, tra cui il Pozzo Gal, recentemente restaurato e trasformato in area museale, e gli imponenti ruderi della laveria Brassey, costruita in località Naracauli nel 1900. La vallata termina poi nelle splendide dune di Piscinas dove il minerale estratto veniva trasportato, grazie a una piccola ferrovia costruita nel 1871, per essere poi imbarcato.
Oggi Ingurtosu è un monumento di archeologia industriale mineraria e fa parte del Parco Geominerario Storico e Ambientale della Regione Sardegna, inserito nella rete GEO-PARKS dell’UNESCO.



La nostra guida per la miniera è Beatrice, che non è solo brava e preparata ma riesce a comunicare anche tutto il dolore e tutta la rabbia di generazioni di minatori sfruttati.
Ci racconta che la parte nord del filone, lungo 12 km, era stata data agli italiani, cioè alla Montevecchio, mentre la parte del pozzo Gal era sfruttata da società straniere: all’inizio una società anonima francese, poi nel 1890 un lord inglese, Lord Brassey, che morì senza eredi nel 1919. La moglie diede le concessioni a una società franco-spagnola, pur tenendo per sé una quota delle azioni. Il pozzo è intitolato a Paul Gal, un direttore spagnolo. Nel 1961, dopo cent’anni di sfruttamento, gli operai riuscirono a ottenere un trattamento più umano. A quel punto però i costi aumentarono e la società franco-spagnola decise di non volerne più sapere. Nel 1965 le concessioni furono date alla Montevecchio, si andò avanti ancora per cinque anni dopo di che questa parte fu completamente chiusa, continuando però a estrarre più su fino al 1991, anno di chiusura dell’ultimo pozzo. Lavoravano qui circa 5000 persone, sino al 1938 anche molte donne e bambini.
I bambini venivano generalmente assunti a sei anni per fare la cernita, a dodici erano considerati adulti e potevano essere mandati in galleria, mentre per le donne le gallerie erano precluse: erano ritenute non adatte a quel tipo di lavoro, ma secondo la credenza popolare portavano anche sfortuna. Le donne prendevano la metà del già misero stipendio degli uomini, i bambini la metà delle donne. Si lavorava dodici ore al giorno.
Era impedita qualunque forma di aggregazione, per la paura che gli operai potessero pensare agli scioperi. Nonostante questo gli scioperi ci furono, il primo nel 1904 a Buggerru (dove saremo domani) con anche dei morti. Poi, a catena, le miniere sarde continuarono a scioperare. Qui si chiedeva di diminuire le ore di lavoro, i prezzi dei beni di prima necessità, gli affitti delle case, ma soprattutto gli operai non volevano più dover acquistare l’olio di lentisco utilizzato nelle lampade per l’illuminazione delle gallerie, ma anche delle abitazioni. Una donna percepiva 2 lire e 40 centesimi come paga giornaliera per dodici ore di lavoro, ma un litro di olio costava 4 lire.
Le lampade a olio, che tenevano la fiamma anche con poco ossigeno, furono causa di molti casi di asfissia. Le lampade a carburo invece, che si spengono immediatamente quando l’ossigeno viene a mancare, erano dei salvavita e per questo sono sempre state considerate amiche dei minatori. La lampada a carburo è una sorta di caffettiera nella quale l’acqua, che si trova nella parte alta, viene fatta gocciolare sul carburo di calcio, che si trova sotto. La reazione produce acetilene, un gas infiammabile che può essere acceso con una scintilla e che dà questa fiamma “amica” che permetteva ai minatori di scappare al primo segnale di riduzione di ossigeno. Qui le gallerie non furono mai elettrificate e quindi le lampade portatili erano l’unico sistema di illuminazione. Nell’ultimo periodo vennero utilizzate lampade, sempre portatili, a dinamo e al neon.
Con lo sciopero del 1904 si arrivò a dieci ore di lavoro, e poi a otto nel 1938. Solo nel 1961, dopo un altro grande sciopero, gli stipendi furono finalmente aumentati, furono applicate le norme di sicurezza e i lavoratori poterono iscriversi ai sindacati.
Il piombo, ovviamente, fu molto sfruttato a scopi bellici durante le due guerre, ma anche per la benzina e per le vernici al piombo. Lo zinco era utilizzato in vari settori industriali, altri metalli che venivano estratti in piccole quantità come cadmio, germanio e rame nel settore dei transistor. Nel suo periodo d’oro questa miniera fu quotata alla borsa di Londra, mentre quella di Montevecchio alla borsa di Milano. Quella di Ingurtosu era la miniera di piombo argentifero più importante in Europa.
Esistevano anche alberghi per gli operai che non avevano la famiglia qui, ovviamente a pagamento. Anche qui i lavoratori guadagnavano un misero stipendio che in buona parte erano costretti a spendere. Dopo il 1950 ci fu anche una colonia per i figli dei minatori, ricavata da un vecchio magazzino. I bambini, anche quando non hanno più lavorato, si ammalavano ugualmente alle vie respiratorie e quindi avevano bisogno di sole e aria buona per risanare i polmoni.
C’era una ferrovia a scartamento ridotto per il trasporto dei carrelli che, con un sistema di apertura basculante, venivano poi scaricati nelle tramogge di stoccaggio. Sotto i camion caricavano, portavano all’arricchimento all’interno delle due laverie meccaniche e poi risalivano per portare il materiale da caricare a Portoscuso (che divenne il porto di imbarco dopo il primo periodo di Piscinas). Da qui le bilancelle (piccole imbarcazioni da carico in legno) andavano a Carloforte, dove poi il metallo era smistato verso La Spezia o Crotone. Dopo il 1965, con l’unione con Montevecchio, furono utilizzate le laverie e la fonderia di quella miniera e non vi furono più spedizioni via mare.
Per la separazione i minerali venivano trattati nelle laverie meccaniche con veleni come cianuri, arsenico e mercurio, che naturalmente erano anch’essi causa di molte malattie.
Beatrice, stimolata dalle donne del gruppo, ci parla anche un po’ più in dettaglio della vita delle donne, che se non era certo facile quando erano lavoratrici della miniera (cernitrici) o mogli dei minatori, diventava ancora più grama quando, come spesso succedeva, perdevano il loro uomo. Le morti premature erano la regola per i minatori, la vita media non superava i 40 anni. Non dimentichiamo che, se riuscivi a schivare sia la silicosi che il saturnismo, c’era anche la malaria, che all’epoca era endemica.
Le donne rimaste sole venivano continuamente minacciate e violentate sia dai caporali che dai superiori. Tanti bambini nascevano figli di N.N. e tanti addirittura venivano buttati nei forni, perché per le vedove era una vergogna tenere un bambino “figlio di nessuno”. Così le donne, per sfuggire a questo destino, si risposavano anche tre o quattro volte, perché ogni volta il nuovo marito dopo qualche anno se ne andava. La nonna di Beatrice è una di queste donne, che fu cernitrice in questa miniera e si sposò due volte. Tutti e due i mariti morirono molto giovani, e alla fine anche lei morì di silicosi.
Quando le donne arrivavano al lavoro erano sempre controllate dai caporali. Se rispondevano con un solo secondo di ritardo all’appello venivano rimandate a casa con due o tre giorni di paga decurtata. Paga che, va ricordato, era già la metà di quella degli uomini. Sono cose che non sono mai state raccontate, che non sono mai entrate in un libro di storia. All’epoca venivano ovviamente nascoste, perché la miniera doveva apparire come un luogo salubre e piacevole, dove venire a lavorare volentieri. Sembra impossibile con gli occhi di oggi, ma c’era davvero la fila per venire a lavorare in miniera. E non solo di sardi, molti venivano anche dal “continente”, come si dice qui. I sardi, generalmente, avevano salari inferiori, mentre chi veniva da fuori stava leggermente meglio.
Le donne poi, se non vivevano nel borgo, facevano a volte due o tre ore di cammino per arrivare alla miniera. Lasciavano i bambini con i fratellini più grandi, uscivano col buio e col buio rientravano. La sera dovevano portarsi a casa anche una fascina di legna, perché dovevano pur cucinare. Le prime cucine “economiche” arrivarono solo intorno al 1950.
Beatrice ci parla poi dello sciopero del 1961, che qui ha fatto davvero epoca. I minatori bloccarono la miniera e resistettero per trenta giorni chiusi in galleria, supportati solo da parenti e amici che entravano nelle gallerie portando indumenti, cibo e medicine. Uscirono il giorno di Pasqua del 1961, solo quando avevano ottenuto i propri diritti: un aumento dei salari, che furono più che raddoppiati, l’applicazione di tutte le più basilari norme di sicurezza e la possibilità di iscriversi ai sindacati. Questo però, come detto, provocò la fuga della proprietà di allora verso l’Africa e la cessione dei diritti di estrazione alla Montevecchio. È sempre così, no? È storia anche di oggi. C’è sempre un altro posto dove andare a sfruttare altre persone che sono ancora più disperate, e a devastare altri luoghi. Lo sfruttamento minerario dell’Africa continua ancora oggi con le miniere di coltan in Congo, ma fa abbastanza impressione pensare che fino a una sessantina d’anni fa l’Africa d’Europa eravamo noi. Forse un po’ di memoria storica, anche nel guardare i fatti di oggi, non guasterebbe, che ne dite?
Tutte queste storie anche oggi sono davvero poco conosciute, anche se da quando c’è il museo di Pozzo Gal c’è almeno la possibilità di raccontarle.


Oggi qui a Ingurtosu c’è anche un Centro di educazione ambientale, che lavora per la riscoperta delle tradizioni, della memoria storica e per la valorizzazione delle attività di tutela ambientale; ha come ente titolare il Comune di Arbus, l’Associazione Zampa Verde lo gestisce dal 2003, anno della sua fondazione. Presso l’ex Mensa Impiegati vengono svolti vari programmi di educazione ambientale rivolti a scolaresche di ogni ordine e grado e a chiunque ne faccia richiesta. L’obiettivo è quello di operare a favore di una società basata su un equilibrato rapporto uomo-natura, prendendo come modello lo sviluppo eco-compatibile fondato sull’uso appropriato delle risorse naturali ed umane. Il CEAS è una struttura aperta che si prefigge di raggiungere, con differenti proposte, il maggior numero possibile di persone per sensibilizzare il prossimo nei confronti dell’ambiente e della cultura locale.
Particolarmente interessante è la sezione dedicata agli insetti e ai ragni, tra cui quello chiamato “S’argia”. Argia è un termine che deriva dal latino e significa di colore vario, screziato. Indica una particolare specie di ragno (Latrodectus Tredecenguttatus) o, a volte, anche certi insetti simili a grosse formiche di colore rosso e nero. Nella tradizione popolare sarda, che affonda le sue radici nella remota antichità (epoca prenuragica), l’argia era temutissima e per scongiurarne il pericolo legato al lavoro manuale nei campi si sono tramandate pratiche magiche utili a lenire il dolore del morso del ragno (o della puntura dell’insetto) considerato grave e talvolta mortale. Nel caso del ragno, effettivamente, il morso provoca uno stato morboso definito “latrodectismo” che in certi casi, in soggetti sensibili, può portare anche alla morte.
Per esorcizzare gli effetti del morso o della puntura si ricorreva a una vera e propria “terapia musicale” che consisteva nel danzare attorno al malcapitato alternando diverse categorie di ballerine (vedove, sposate, nubili) così da coprire il ventaglio delle possibili cause (le vedove andavano bene per il ragno e le sposate o nubili per le formiche). C’è un’evidente analogia con la tradizione salentina della Pizzica e della Taranta.
Ma la nostra attenzione si focalizza anche sulle innumerevoli specie di farfalle dai mille colori: non possiamo farne a meno, ne abbiamo una proprio qui con noi…


Finita la visita e ringraziata Beatrice, la tappa successiva non può che essere Piscinas, che è davvero a due passi.
Qui imponenti e sinuose dune di sabbia fine, calda e dorata, alte fino a 60 metri, modellate dal maestrale, si estendono dall’entroterra per vari chilometri sino a tuffarsi nel mare azzurro e lucente. Piscinas, ‘gioiello’ della Costa Verde – nel territorio di Arbus –, è, un paesaggio che lascia senza fiato, una spiaggia inserita tra le più belle del mondo dal National Geographic. Le dune di sabbia brillante, dichiarate patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, si mescolano ai colori della macchia mediterranea. La vegetazione cresce rigogliosa: ginepri secolari dai rami contorti, lentischi e olivastri che formano piccoli boschetti e, in primavera, violacciocca, giglio di mare e papavero della sabbia. Qui, ogni tanto, si aggira il cervo sardo, mentre sulla riva depongono le uova le tartarughe marine.
Un ampio tratto della spiaggia (800 metri) è divenuto ufficialmente dal 2018 la spiaggia naturista più grande in Europa. I centri abitati sono molto lontani e le strutture ricettive sono poche: un campeggio e un albergo a ridosso delle dune.
Il fondale limpido è quasi subito profondo, con una conformazione a gradini: da un minimo di due-tre metri arriva presto a decine di metri. Il mare selvaggio della Costa Verde raramente è calmo, sempre da rispettare. Il vento costante alza onde lunghe e alte, rendendo il sito meta di surfisti.




Lunedì 30 agosto 2021

Oggi siamo diretti alla terza miniera del nostro percorso, quella di Buggerru. Arriviamo con un po’ di anticipo sull’orario di apertura e abbiamo quindi tempo per una passeggiata al porto. Scherzando, Silvia ci avverte che stiamo andando sempre più a sud e che i sardi del sud sono chiamati maureddus (si pronuncia maureddusu, aggiungendo una u alla fine), cioè moretti, perché sono più mischiati con gli arabi, a causa delle ripetute incursioni dei saraceni. O almeno così si dice… dovremmo anche sentire un accento diverso, ma probabilmente per noi “continentali” è difficile da percepire.
Avrete già capito che il sardo mi affascina; in realtà, un po’ tutte le lingue mi affascinano (sì, perché il sardo è una lingua, non ve lo sto neanche a dire: non azzardatevi a chiamarlo dialetto), ma il sardo mi affascina particolarmente. Ha dentro tante cose: parole che sono latino puro come die, domo/domus, deu/deus, mannu (grande) che deriva direttamente da magnus, e i verbi, che sembrano quelli latini (est, sunt..), ma anche molte influenze spagnole (come le nostre mariposas), e altre espressioni antichissime e misteriose. Quando dico sardo – meglio precisarlo – mi riferisco al sardo campidanese, quello del centro-sud dell’isola, quello che parla Silvia e che quindi considero anche un po’ il “mio” sardo. In realtà di sardo ce n’è più di uno: al nord si parla il logudorese, nella zona di Nuoro il nuorese, poi c’è il gallurese, che è simile al corso. Per non parlare delle varianti locali, pressoché infinite. È veramente un mondo, che mi piacerebbe scoprire. Chissà se un giorno ne avrò il tempo… be’, intanto comunque qualche chicca ve la butterò lì, se capita. Ad esempio, già tre anni fa ho imparato da Silvia l’espressione sciadau/sciadada, che significa poverino/a, nel senso di sfortunato, e che si può usare in tante situazioni: è più o meno l’equivalente del siciliano mischino/mischineddu.
Tornando a noi, Buggerru è un paese cresciuto intorno a un borgo minerario che ha vissuto giorni quasi… di gloria, tanto che veniva chiamato “la piccola Parigi”. La proprietà della miniera era francese, e perciò qui le novità della Ville Lumiere arrivavano prima di qualunque altro posto d’Italia. Un giorno del 1904 arrivò qui la prima auto che si sia mai vista in terra sarda: era così “primordiale” che non aveva nemmeno la retromarcia, e per questo alla miniera dovettero realizzare un piazzale apposta per farla girare. Quei giorni sono lontani, e oggi Buggerru è un paese cresciuto disordinatamente, senza una vera pianificazione urbanistica e con parecchie brutture.


A Buggerru, però, si può vedere la Galleria Henry, che è il motivo per cui siamo qui: un labirinto di tunnel scavati nella roccia che si aprono scenograficamente su panorami da sogno a strapiombo sulla costa sud-occidentale dell’Isola. La visita è un viaggio nel tempo all’interno della miniera di Pranu Sartu, la più celebre e produttiva di Buggerru, all’andata a bordo di un trenino elettrico sul percorso della vecchia ferrovia a vapore, al ritorno a piedi lungo la vecchia galleria ‘pedonale’, un tempo percorsa dai muli da soma. I camminamenti scolpiti nella roccia percorrono tutta la falesia: alcuni tratti sono al buio, rotto ogni tanto dalla luce proveniente da enormi finestroni ricavati nella parete della montagna e affacciati sul mare. Lo scorcio più spettacolare è alla fine del percorso: ci si affaccia 50 metri sopra il livello del mare, su uno scenario mozzafiato che domina costa e case del paese.
Gli scavi della galleria interessarono gli ultimi tre decenni del XIX secolo. Per l’epoca si trattava di un’avveniristica opera d’ingegneria, al pari della galleria di Porto Flavia, che vedremo dopodomani. Le notevoli dimensioni della Henry – il cui nome deriva dal dirigente francese della società Anonime des Mines de Malfidano, concessionaria dello sfruttamento, che ne decretò la realizzazione – si devono all’impiego, da fine XIX secolo, di una locomotiva a vapore che la attraversava e consentiva il trasporto dei minerali grezzi dai cantieri sotterranei alle laverie e poi al porticciolo, dove i minerali ripuliti venivano imbarcati su battelli. Il trasporto su rotaie, su cui scorrevano i vagoni del treno alimentato a carbone, soppiantò in un baleno quello lento e costoso sui muli da soma e rappresentò un enorme passo avanti nella produttività dello stabilimento. Al momento dell’innovazione, l’attività estrattiva era iniziata da trent’anni, nel 1865, con il passaggio delle concessioni all’Anonime de Malfidano.
Lo sfruttamento del sito, tra fine XIX secolo e prima metà del XX secolo, trasformò un piccolo borgo di contadini e pescatori, di colpo, in uno dei principali centri dell’epopea mineraria. La ‘rivoluzione’ industriale fu più improvvisa e repentina che in altri siti iglesienti e sulcitani.
La visita alla ‘Henry’ è impreziosita dai racconti sulla vita mineraria. Le miniere erano luoghi di sofferenze, dove si è sviluppato il più alto grado di solidarietà fra operai e coscienza di classe. In particolare, Pranu Sartu è il simbolo della lotta operaia, teatro nel 1904 del famoso eccidio di Buggerru. I minatori, sfruttati all’inverosimile, ‘osarono’ inscenare uno storico sciopero, il primo nella storia industriale d’Italia. La compagnia mineraria in risposta chiamò l’esercito. Alla sassaiola dei minatori, i soldati risposero sparando: morirono tre operai e altri undici furono feriti. Dall’episodio scaturirono altri scioperi in tutta Italia, che culminarono nel primo sciopero generale italiano. La causa scatenante della tragica rivolta fu la modifica degli orari di lavoro estivo, ma il malcontento era molto più profondo. Lo sfruttamento da parte dei padroni francesi e belgi, in quel periodo, era totale: turni massacranti, nessun riposo, i salari più bassi d’Europa, lavoro minorile, obbligo di pagarsi persino gli strumenti di lavoro, straordinari per sopravvivere. Anche dopo lo sciopero, la schiavitù legalizzata continuò per altri 50 anni.









All’ingresso in galleria, il silenzio è rotto solo dal rumore di ferraglia dei vagoncini: nel buio, si possono immaginare (a fatica, con gli occhi di oggi) i momenti vissuti da uomini d’altri tempi che, con enormi sofferenze, permettevano una vita appena decorosa alle loro famiglie.
La domenica, intesa come giorno di riposo, divenne un diritto solo dagli anni ’30; prima c’era solo un giorno di riposo al mese. Si lavorava con perforatori manuali che pesavano almeno 20-25 kg, quelli più moderni e “maneggevoli”, perché prima pesavano ancora di più. Le vibrazioni che si trasmettevano alle mani, alle braccia e a tutto il corpo erano tremende. Dopo 5 giorni di infortunio (e sappiamo quanto fossero frequenti gli infortuni, date le condizioni estreme di lavoro) il licenziamento era praticamente assicurato.
Nei negozi del borgo non si pagava in denaro, ma tutte le spese venivano segnate sul cosiddetto “libretto”… peccato che all’epoca pochissimi lavoratori sapevano leggere, e così erano completamente senza difesa, potevano essere facilmente imbrogliati sui conti.
Eppure qui si estraeva lo zinco sardo usato anche per il restauro ottocentesco della Cattedrale di Notre Dame: anche per questo Buggerru era la piccola Parigi. Nella sua epoca d’oro ci vivevano 10.000 persone.
Anche qui, come nelle altre miniere che abbiamo visto, è incredibile il contrasto tra l’orrore che si viveva qui dentro e la bellezza mozzafiato della Costa Verde che appare da ogni apertura della galleria. Orrore e bellezza, come spesso accade, si guardano da vicino.
Solo bellezza, invece, nella natura incontaminata di Capo Pecora, dove dopo pranzo Silvia ci porta per un graditissimo fuori programma.

Capo Pecora è un promontorio con riconoscimento SIC (Sito di Importanza Comunitaria) posto all’estremo sud della Costa Verde. La spiaggia si caratterizza per un fondo di sabbia chiara a grani grossi, con suggestive scogliere a strapiombo sul mare. È un luogo generalmente poco frequentato, un posto di quelli dove si portano le ragazze per stupirle (o i ragazzi, perché no?): le acque limpide, la sabbia dorata, gli scogli e i colori della macchia mediterranea si fondono perfettamente tra loro, creando un quadro paesaggistico molto particolare. I fondali sono apprezzati dagli appassionati di immersioni e pesca subacquea, perché ricchi di spigole, muggini, saraghi, ricciole, mormore e orate.
Nel corso degli anni, le acque cristalline hanno lentamente levigato le rocce del litorale dando loro forme particolari, tanto che una delle calette della zona è chiamata la spiaggia delle uova di dinosauro. A sud della località si trova un’importante riserva di pesca per il ripopolamento del riccio di mare.





Partiamo poi alla ricerca di una spiaggia tranquilla, che troviamo tra Portixeddu e San Nicolau.


Da qui ci spostiamo nel nuovo agriturismo dove dormiremo questa sera: passiamo da Sa Perda Marcada a Sa Rocca (la roccia), quindi rimaniamo decisamente in tema. Il posto si chiama così “in onore” di una grossa roccia che si trova nelle vicinanze. Siamo a Nebida, nel comune di Iglesias.

A cena il piatto forte sono i Culurgiones, i mitici ravioli sardi con ripieno di pecorino (o ricotta di pecora o di capra), patate e menta.
https://www.facebook.com/agriturismo.sarocca
Martedì 31 agosto 2021
Oggi niente miniera: è previsto un giorno di… decompressione che inizia con una piacevolissima mattina di relax sulla spiaggia di Cala Domestica, una splendida baia incorniciata da alte falesie e dominata da una torre spagnola, dove storia mineraria e natura selvaggia si fondono in un unico scenario.
Fino al 1940 da qui si imbarcavano i minerali estratti dalle miniere. La cala maggiore è una profonda e deliziosa insenatura, quasi un fiordo, con un’ampia e riparata spiaggia di sabbia dai colori tra il bianco, l’ambrato e il dorato, soffice e compatta. Piccoli arbusti di macchia mediterranea spuntano sulle dune alle spalle della distesa di sabbia. Davanti, si affaccia un mare tra i più belli della Sardegna, dai colori turchese e azzurro.
Le imponenti e bianche falesie calcaree che delimitano la spiaggia danno la sensazione di stare in un angolo di paradiso, dove la natura incontaminata la fa da padrona. Il fondale è basso e sabbioso, con la presenza di qualche scoglio al largo e vicino ai promontori. La cala è dominata dall’alto da una torre spagnola del XVIII secolo, alta circa 10 metri, che fu usata durante la seconda guerra mondiale come torre d’avvistamento.



Pranzo al sacco e poi ci addentriamo di nuovo nelle viscere della terra: visto che oggi non c’è la miniera, per non perdere l’abitudine visitiamo una bella grotta. Detto così può sembrare che io faccia dell’ironia, ma la grotta di Su Mannau è davvero tra le più belle che abbia mai visto.
Su Mannau (il grande) era, secondo la leggenda, un mostro enorme, una specie di orco ma dal cuore buono, che gli uomini avevano rinchiuso nella grotta per paura e che qui piangeva tutte le sue lacrime per la sua triste sorte, formando i fiumi che scorrono nella grotta.
Le grotte sono sempre stati considerati luoghi tetri di paura e oscurità: non a caso l’inferno è rappresentato come una enorme caverna e il diavolo con ali di pipistrello.
Questa grotta, situata nel territorio di Fluminimaggiore, è un complesso carsico ‘scolpito’ 540 milioni di anni fa e ancora ‘vivo’: le formazioni calcaree sono in continua evoluzione. L’antro s’insinua per otto chilometri nel cuore della terra con due rami principali: quello sinistro originato dal fiume Placido, con spettacolari condotti e saloni, quello destro, il maggiore e quasi ‘orizzontale’, originato dal fiume Rapido, che poi esce sulla strada e arriva a Fluminimaggiore. Non si sa ancora invece dove arrivi esattamente il fiume Placido, sul quale sono ancora in corso esplorazioni speleologiche, come ci racconta la nostra guida che è proprio una speleologa.
La parte visitabile è nel primo ramo, suddivisa in archeologica e speleologica. La sala archeologica è un grande tempio ipogeo sin da epoca prenuragica: i resti di lucerne a olio, ritrovati qui, ricordano i riti del culto dell’acqua. I nuragici (ca. 1200 a.C.) venivano qui ad adorare la Dea Madre, che era poi la dea dell’acqua e della fertilità. Le lucerne più antiche sono di epoca nuragica (a forma di barchetta), poi ci sono quelle puniche (tonde) e quelle romane (più ornamentali).
La parte speleologica inizia con la sala Centrale, da superare con l’aiuto di corde. Ci si può addentrare, insieme alla guida, per 500 metri, in un’escursione di un’ora che si snoda su passerelle sospese su sale, cascatelle e laghetti d’acqua limpida, dove vive un piccolissimo gamberetto (stenasellus nuragicus), quasi trasparente, specie unica al mondo. Si tratta di un crostaceo di origine marina che in milioni di anni si è adattato all’ambiente della grotta. Potrebbe esserci arrivato risalendo un fiume o, secondo un’altra ipotesi, essere addirittura precedente all’emersione delle terre. Non supera i due millimetri di lunghezza ed è senza occhi, che non servono nelle grotte, ma ha delle piccole ciglia sulla coda per smuovere il fango e catturare i batteri di cui si nutre.
Lungo il ramo sinistro, fatto di imponenti pozzi e sale, una scala porta alla galleria Puddu. Si prosegue, tra stalattiti quasi fossili, sino a pozzo Rodriguez. Attraverso una scala si arriva al suo belvedere. Una colonna di sette metri troneggia al centro: è una stalattite collegatasi a una stalagmite a formare un pilastro. Il pozzo è profondo 23 metri: grazie alla scala si può scendere sino alla sua base.









Usciti dalla grotta a… riveder le stelle, raggiungiamo il vicino tempio di Antas.
Il tempio si trova in mezzo a una valle dominata dal monte Conca s’Omu. Il monumento attuale è quello romano, scoperto dal generale La Marmora nel 1836. Restano in piedi una gradinata d’accesso e un podio ornato da eleganti colonne perfettamente allineate. Nell’Antichità era già famoso, citato dal geografo egiziano Tolomeo (II secolo d.C.).
Nel sito, sacro già in età nuragica (IX secolo a.C.), alla fine dell’età del Ferro si stanziarono i cartaginesi, poi (a metà del III secolo a.C.) giunsero i romani. La zona era una grande attrazione per gli abbondanti giacimenti di piombo e ferro, tanto che la valle di Antas è stata individuata come possibile sede di Metalla, città mineraria romana mai rintracciata e divenuta ‘mito’. L’area archeologica è la sovrapposizione di un insediamento nuragico e due santuari, dedicati al dio punico, guerriero e cacciatore, Sid Addir e al corrispettivo sardo Sardus Pater Babay. Antistanti le gradinate del tempio romano, si vedono i resti di quello punico precedente. Il primo sacello fu su un affioramento di roccia calcarea ritenuta sacra: le tracce di bruciato documentano i sacrifici alla divinità. Il santuario fu completato nel V secolo a.C. e ristrutturato a fine IV secolo a.C.. Il tempio era orientato da sudest verso nordovest, perché la credenza dell’epoca era che la casa delle divinità fosse in quella direzione, ed era costruito in arenaria, un fatto piuttosto strano se si pensa che nella zona non sono note cave di questa pietra.
In epoca romana il tempio fu ricostruito e conobbe il massimo splendore; la costruzione, sui resti del tempio punico, avvenne per volere di Augusto (27 a.C. – 14 d.C.). Ci fu poi un nuovo restauro durante l’impero di Caracalla (213-17 d.C.), al quale si riferisce l’epigrafe sul frontone: “Imperatori Caesari M. Aurelio Antonino. Augusto Pio Felici templum dei Sardi Patris Babi vetustate conlapsum (…)”. Il pronao presenta quattro colonne frontalmente e due sui lati: sono alte circa otto metri, dal fusto liscio, con basi attiche e capitelli ionici. La cella, accessibile dai lati, è profonda undici metri. Il pavimento era rivestito di un mosaico bianco, in parte ancora visibile. L’adyton (area cultuale) ha due vani dotati di cisterne quadrate, profonde un metro, che contenevano l’acqua per i riti di purificazione. Il prospetto, in origine, era coronato da un frontone triangolare. Della gradinata restano tre ripiani – in parte ricostruiti – ma un tempo si componeva di numerosi altri; sul quarto si elevava l’ara sacrificale, come da canoni romani. Forse era presente una statua del dio dei sardi. Quello che si vede oggi è purtroppo una ricostruzione del tutto ipotetica eseguita nel 1967 con alcune parti originali ma anche molto cemento armato, sopra il basamento originale ma con un concetto di restauro che oggi non sarebbe più pensabile. Ad esempio, solo uno dei capitelli è originale, gli altri sono stati costruiti ad hoc. Inoltre, successivamente il sito è stato abbandonato per un lungo periodo, fino a non molti anni fa. Per questo anche il mosaico del pavimento è molto danneggiato: la nostra guida ci racconta che era usato per scampagnate e a volte anche per partitelle di calcio estemporanee.


A circa venti metri dal podio romano, sono state ritrovate tombe a pozzetto di meno di un metro di diametro, appartenenti a un’estesa necropoli risalente all’inizio dell’età del Ferro. Una di esse ha restituito il bronzetto di una divinità maschile nuda con… attributi maschili piuttosto evidenti che impugna con la sinistra una lancia, e si ipotizza che sia proprio il Sardus Pater. Insomma, sembra proprio che i nuragici avessero un dio padre, oltre che una dea madre, e che questo culto sia stato proseguito prima dai punici e poi dai romani in un’ottica di integrazione tra la cultura locale e quella dei popoli stanziatisi qui come “conquistatori”.



Oggi tra la grotta e il tempio abbiamo camminato abbastanza, e questo ci fa apprezzare ancor di più la lauta cena, che propone tra l’altro lumache (ci ho riprovato a mangiarle, ma onestamente non fanno per me, non me ne vogliano gli amanti del genere) e fregola con ragù di capra: a questa sì che ho fatto davvero onore!

Domattina dovremo salutare anche Sa Rocca, e dopo un’altra giornata di peregrinazioni tra mare e miniere ci sposteremo a Sant’Antioco, isola quasi all’estremo sud dell’isola.
(TO BE CONTINUED…)