In omaggio a Jovan Divjak che oggi ci ha lasciato, ripubblico un breve estratto del mio diario del viaggio a Sarajevo con Radio Popolare, accompagnato da Danilo De Biasio, in occasione del centenario dell’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 che fu la scintilla della Grande Guerra.
Durante quel viaggio incontrammo il generale, un incontro che fu forse tra i più significativi di quel viaggio, di cui mi è rimasto un ricordo indelebile. È veramente raro che io esprima stima nei confronti di un militare (anche ex), ma in questo caso si tratta davvero di un uomo di enorme valore (e non parlo certo di valor militare). Questo è quello che ci aveva raccontato…

1/6/2014 – Sarajevo: secondo giorno

Oggi Sarajevo è, se possibile, ancora più fredda.
Dopo la visita al cimitero ebraico, purtroppo ridotto in stato di abbandono, andiamo a vedere quello che resta del tunnel scavato sotto la pista dell’aeroporto che durante l’assedio metteva in comunicazione il sobborgo di Butmir con l’aeroporto stesso, sotto il controllo ONU, e la zona sotto controllo bosniaco alle pendici del monte Igman. Si dice che il tunnel, lungo 800 m, largo 1 m e alto 1,60 m, abbia salvato la città permettendo il passaggio di armi, viveri e persone. È anche la storia che ci racconta Dina, una storia che per quanto un po’ mitizzata è sicuramente affascinante. Molti si chiedono (e chiedono a Dina) come è possibile che i serbi, che avevano scoperto ben presto l’esistenza del tunnel, non siano riusciti a distruggerlo. Lei non lo può dire, ma negli ultimi anni è venuto fuori che continuare il “traffico” conveniva un po’ a tutti; sembra che anche la famiglia Izetbegović ci abbia lucrato. Ma certo l’altra storia è molto più bella.
Ora del tunnel restano solo pochi metri e un piccolo museo. Qui le cose sono cambiate, rispetto a 4 anni fa. Il museo non è più gestito dalla famiglia Kolar, come ricordavo, ma è stato nazionalizzato ed è un po’ più organizzato. La famiglia Kolar è quella che offrì la sua casa per permettere lo scavo e che tuttora abita qui.
Il breve film che racconta la storia del tunnel impressiona parecchio la più giovane del gruppo, Cora, 19 anni, che ne è diventata (direi suo malgrado) un po’ la mascotte. Lei studia storia a Bologna, ma è solo al primo anno. Prima di entrare anche noi nel tunnel, inizia a farmi domande, e non è l’unica. Si è sparsa la voce che sono già stato qui e che qualcosa ne so, così faccio ormai anch’io un po’ da guida, soprattutto per capire l’intricata situazione politico-territoriale bosniaca. A me fa piacere poter essere utile e quello che posso lo faccio volentieri, ma ci vorrebbe altro che saper pronunciare correttamente “Republika Srpska”…
Dopo il tunnel ci aspetta l’incontro con il generale Jovan Divjak, che è sicuramente uno dei momenti più attesi per me.
Lui è l’eroe dell’assedio: è un militare serbo (di etnia e anche di nascita, essendo nato a Belgrado) che ebbe il coraggio, allo scoppio della guerra, di lasciare l’esercito jugoslavo, ormai egemonizzato dai serbi nazionalisti, e di guidare la difesa della città che sentiva sua. Una città dove viveva da anni e che, evidentemente, amava, come racconta nel suo libro “Sarajevo mon amour”. Dina, che è cresciuta con i figli del generale, lo chiama zio.
Ora, 77 anni portati con energia e con spirito nonostante stia combattendo con un tumore alla prostata, dirige l’associazione che ha fondato, Obrazovanje Gradi BiH (L’istruzione costruisce la Bosnia-Erzegovina). Attraverso questa associazione cerca di garantire a tutti i ragazzi, di tutte le etnie, anche i più svantaggiati, un’educazione che sia il più possibile all’unità e al rispetto.
Lo incontriamo nella sede dell’associazione, che festeggia i 20 anni, e abbiamo la possibilità di fargli un po’ di domande. Alcune, un po’ scomode, le elude elegantemente ma molte cose le dice. Per mettere subito le cose in chiaro, quando Danilo gli chiede perché non è stato possibile fermare prima l’assedio chiama in causa pesantemente i governi occidentali/europei, Italia compresa, che in nome della stabilità sostennero troppo a lungo Miloševic. Alla domanda su come si è dichiarato all’ultimo censimento (cioè di quale etnia) risponde con una battuta “peder” (pederasta), che è come lo chiama con disprezzo chi lo considera un traditore. Ma poi spiega che si sente semplicemente bosniaco e ateo. Il suo passato – racconta – fa sì che ancora oggi sia costretto a dormire “con la pistola sotto il cuscino” (forse non solo metaforicamente).
Dice anche che, purtroppo, negli ambienti nazionalisti i figli, che non hanno vissuto la guerra, stanno crescendo più nazionalisti dei padri, ma è per questo che l’educazione è così fondamentale, per fare in modo che col tempo cresca il numero di quelli che non ne vogliono più sapere di divisioni e che si dichiarano solo bosniaci e non anche bosgnacchi (la denominazione “etnica” dei bosniaci musulmani), serbi o croati: adesso il loro numero non supera il 4%.
In realtà sono molti qui a dire “la prossima volta non contate su di me”. Questa frase ha una doppia lettura: Se da una parte è preoccupante che molti pensino che forse una prossima volta ci sarà (qualcuno, ascoltando quello che dice il generale, lo pensa anche tra noi), è anche vero che, se la maggioranza si chiamerà fuori, la prossima volta non ci sarà.
Divagando, finiamo perfino a parlare di calcio, dell’avventura della Bosnia multietnica ai prossimi mondiali (lui prevede che passi almeno il primo turno, forse anche il secondo) e di una sua vecchia fiamma milanese che promettiamo di cercare per lui (ma chissà cosa ne pensa la moglie…).

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Purtroppo la Bosnia multietnica ai mondiali del 2014 non passò nemmeno il primo turno, ma se oggi, con tutti i suoi enormi problemi e con il peso di un passato che non passa, esiste una Bosnia multietnica, lo si deve a uomini come Jovan Divjak.