Un viaggio nel magico mondo delle Janas, le fate della mitologia sarda, che secondo le leggende popolari vivevano in case di pietra, le “domus de Janas”, e tramandarono alle donne sarde la meravigliosa arte della tessitura. Un itinerario tra Marmilla, Barbagia e Ogliastra alla scoperta dei simboli ancestrali e delle leggende della cultura sarda, degli antichi saperi delle comunità agropastorali e delle meraviglie della Natura… e tutto volando sulle ali delle Mariposas de Sardinia.

1 – Le Domus

Sabato 8 aprile 2023

Rieccomi di nuovo qui: quarto viaggio in Sardegna e quarto viaggio con loro, le mie adorate Mariposas, quasi due anni dopo il Sulcis on the road.
Un rapidissimo recap per chi si fosse perso le puntate precedenti e non sapesse chi sono le Mariposas:
Le Mariposas sono, in rigoroso ordine alfabetico, Angelica, Laura, Silvia e Viola, quattro amiche che nel 2015 a Mogoro, in Marmilla, hanno fondato un’associazione di promozione sociale che si chiama appunto Mariposas de Sardinia (Mariposas, sia in spagnolo che in sardo campidanese, significa farfalle). Ciò che le unisce è l’amore per il loro territorio e la voglia di viverci, scommettendo su nuovi orizzonti di sviluppo possibili e mettendo insieme le loro diverse competenze, professionalità e personalità. Ma lo faccio dire a loro, riportandovi qui la loro autopresentazione:

In questi anni abbiamo lavorato e continuiamo ad impegnarci con pazienza e creatività per promuovere la bellezza e la biodiversità umana e naturale della nostra affascinante isola, attraverso la messa in rete di attori e stakeholders locali. Il nostro obiettivo è quello di rispettare, proteggere, valorizzare e offrire a tutt*, senza barriera alcuna, la possibilità di godere di ciò che già esiste, in modo leggero e non impattante.
Tutti i nostri viaggi e progetti nascono dalla relazione profonda con il territorio e con chi lo abita, perché siamo convinte che solo conoscendo le proprie radici si possa, poi, volare.
Mariposas de Sardinia fa parte della grande famiglia ViaggieMiraggi onlus: cooperativa sociale-tour operator, rete di soggetti e associazioni in Italia e nel mondo, nata alla fine degli anni ‘90 con l’obiettivo di creare un’impresa sociale che si occupasse di stravolgere i paradigmi del turismo e lavorare a contatto diretto con la società civile dei luoghi visitati, con persone ed associazioni direttamente coinvolte in progetti di sviluppo.
Crediamo in un modo gentile di viaggiare, profondo e responsabile, attento alla cultura locale e alla sostenibilità, passo dopo passo.

Ho detto che sono quattro anche se oggi due, pur essendo ancora pienamente parte del progetto, più che volare insegnano, e quindi sono un po’ meno… on the road. Le due ancora più che mai operative sono Silvia e Viola, e sarà proprio Viola ad accompagnarci in questo tour. Lei, quando non accompagna viaggi in giro per il mondo (ultimamente si è dedicata molto alla Francia, tra Marsiglia, la Bretagna e la Normandia), si divide tra il natio Salento e la Sardegna, terra di adozione che ormai conosce probabilmente meglio di tanti sardi, al punto che parla fluentemente e disinvoltamente anche la lingua (anzi, la limba) sarda, almeno nella sua versione campidanese, ma sono sicuro che non la spaventano neanche le infinite varianti che si possono trovare girando per l’isola (a volte accenti e terminologia cambiano non solo da paese a paese, ma perfino nello stesso paese…).
Questa volta, per motivazioni logistiche con le quali non vi annoierò, io e la mia amica Pat (Patrizia) ci siamo uniti con un giorno di ritardo a un tour che è già partito, e che ieri ha visitato Mogoro, Big City della Marmilla ma anche e soprattutto casa delle nostre eroine alate. Dico nostre perché Patrizia è una loro fan sfegatata almeno quanto me, ed è anzi colei che me le ha fatte conoscere (e non la ringrazierò mai abbastanza per questo), perché fu proprio la sua entusiastica recensione a convincermi a fare il primo tour con loro (Dromos 2018); ed è sempre lei che mi ha convinto a fare questo viaggio pasquale. Per raggiungere il gruppo abbiamo volato su Cagliari e dall’aeroporto abbiamo preso il treno per Mogoro delle 14.37, per poi saltare praticamente al volo sul rosso pullmino Mercedes guidato da Viola (che è guida in tutti i sensi, anche… guidatrice provetta), dove abbiamo trovato Anna e Roberto da Bassano, Luisa da Reggio Emilia, Miriam da Torino con l’amica Nicoletta (la Nico) da San Donato Milanese. E quindi noi tre milanesi siamo in maggioranza, ma è rappresentata una buona fetta di nord Italia.

Fatte sempre al volo (e come se no?) le presentazioni, ci dirigiamo verso Villa Sant’Antonio, nell’alta Marmilla. Il clima è fresco, c’è un pallido sole (pallido per essere in Sardegna) ma il cielo tende a rannuvolarsi. A Villa Sant’Antonio ci aspetta una coppia che fa parte dell’estesissima rete di contatti locali, in grado di raccontare il loro territorio come nessuno, che le Mariposas hanno creato negli anni. Sono Roberto Saccu e Ilaria Marongiu di Boghes, un’associazione che valorizza il territorio con performance artistiche immerse nella natura e nei siti archeologici. Roberto è il presidente dell’associazione e Ilaria, che nella vita insegna disegno e storia dell’arte, è anche lei stessa un’artista che si occupa soprattutto di iconografia al femminile. Oggi però si sono portati anche un valido e instancabile… aiutante di campo a quattro zampe, che di nome fa Ghibli ed è un cane da tartufi (ebbene sì, anche in Sardegna ci sono i tartufi!) che con loro ci accompagnerà alla scoperta delle Domus de Janas.
Eh già, perché un tour che si chiama “La via delle Janas” (forse non l’ho ancora detto? Be’, ve lo dico adesso…) non poteva che cominciare da qui, da questo comune adagiato tra l’altipiano della Giara e il Monte Arci, dove si trova la Necropoli prenuragica di Is Forrus con le sue Domus de Janas (Case delle Fate), considerate tra le più spettacolari dell’isola. Piccola nota a margine: Domus è sardo ma è anche latino (dai, questa è facile). Il sardo è un po’ latino, nel senso che ha una fortissima influenza latina: molti termini sono latino puro, dai sostantivi come appunto domus alle voci verbali. C’è anche molto spagnolo, eredità della lunga dominazione: le nostre mariposas ne sono un esempio, come ce ne sarebbero molti altri. Ma non divaghiamo…
In questa zona ci sono ben 18 domus, tutte diverse e ciascuna legata a una particolare simbologia. Sono articolate in tre gruppi distanti tra loro circa 200 m. Gli ipogei del primo gruppo sono 5, allineati sull’asse Est/Ovest; quelli del secondo gruppo, a Sud del primo nucleo, sono 3, allineati lungo l’asse Nord/Sud; il terzo gruppo, 250 m ad Est, è costituito da 10 grotticelle di difficile accesso e lettura.
Lo schema planimetrico degli ipogei è a sviluppo longitudinale, con un vestibolo per lo più coperto, un’anticella e una cella di dimensioni maggiori; talvolta comunica con questa una seconda cella. I vestiboli delle tombe 7 e 8 sono preceduti da un lungo corridoio, il cosiddetto dromos.
Le domus hanno un’altezza media di circa un metro. Gli ambienti che le compongono sono di varie forme (rettangolari, quadrangolari, tondeggianti, ellittici) e comunicano attraverso portelli rettangolari. I vani presentano nicchie alle pareti o aperture nel piano del pavimento: erano probabilmente destinate a contenere offerte, o, nel caso di quelle più ampie, ad accogliere deposizioni distinte da quelle collettive nelle celle.
Secondo la datazione sono state scavate nel Neolitico finale (cultura di San Michele o di Ozieri, 3200-2800 a.C.). Le genti di questa cultura erano laboriose e pacifiche, dedite all’agricoltura e con una particolare religione che aveva una corrispondenza nelle lontane isole Cicladi. Adoravano il Sole e il Toro, simboli della forza maschile, la Luna e la Madre Mediterranea, simboli della fertilità femminile. Statuine stilizzate della Dea Madre sono state ritrovate in queste sepolture e nei luoghi di culto. Piuttosto numerose sono le rappresentazioni naturalistiche o schematiche della testa taurina, o delle sole corna, che testimoniano il culto di una divinità principio di rigenerazione per i defunti in quanto simbolo della vita e della potenza fecondatrice.
Noi cominciamo dalla serie di domus chiamata l’astronave, perché effettivamente la forma ricorda molto quella dei dischi volanti dei film di quando eravamo bambini. Potrebbe essere vista da qualcuno come una prova della teoria degli antichi astronauti, che sarebbero sbarcati sulla terra in epoche lontanissime, come peraltro c’è chi sostiene che i nuraghi sarebbero porte cosmiche; le ipotesi, più o meno strampalate, sono infinite in questo campo. Non sapremo probabilmente mai se qualcuna di queste ha un fondamento, ma forse è questo il bello.

L’astronave

Non è un cimitero – spiega Ilaria – nel senso che nella sua lunghissima storia è stato più un luogo di vita che un luogo di morte, o meglio un luogo di rigenerazione, perché nella cultura dei popoli prenuragici la morte era una rinascita. È un luogo che è stato vissuto sia per i vivi che per i morti. Potrebbe essere, insomma, chiamata più una biopoli che una necropoli, o se non altro un luogo che presenta entrambe le facce: quella della morte e quella della vita.

La cultura di San Michele è quella del periodo che si avvicina alla prima età del Bronzo, quindi nella fase di passaggio della fine del neolitico che è caratterizzata dalla conoscenza del rame. Insomma, siamo in una “casa” che esiste da più o meno 5000 anni. La prima domus è caratterizzata da una sorta di sedile, su cui ci sono leggende molto interessanti: pare che avesse a che fare anche con la nascita. Quindi, se fosse così avremmo davvero morte e vita insieme. È anche molto alta rispetto alle altre, e ha un dromos monumentale: Una specie di antecedente del Tesoro di Atreo, detto anche Tomba di Agamennone, che è una maestosa tomba a tholos situata nei pressi della Rocca di Micene, in Grecia. C’era un focolare, che qui non si vede bene ma si può vedere nelle altre domus. Questa pietra è facilmente lavorabile, quindi poteva essere scavata anche con una pietra più dura, o col rame. Nella parte sommitale, e anche sui lati, c’è un’interessante serie di incisioni.

Un’altra domus è chiamata in sardo Sa viudedda (la vedovella) perché è molto piccola, quindi avrebbe potuto essere per una persona singola, ma anche in questo caso ovviamente non lo sapremo mai.
I corpi venivano deposti in posizione fetale e si pensa venissero dipinti con ocra rossa, così come le pareti della tomba stessa. Accanto alle spoglie venivano deposti oggetti di uso comune facenti parte del corredo terreno del defunto e si pensa anche che venisse lasciato del cibo per il viaggio ultraterreno. L’archeologo Giovanni Lilliu su questo argomento ha scritto che: «…i cadaveri erano sepolti, non di rado, sotto bianchi cumuli di valve di molluschi. Ma tutti portando con sé strumenti e monili della loro vita terrena: punte di frecce di ossidiana, coltelli e asce di pietra, ma anche collane, braccialetti ed anelli di filo di rame ritorto, e tante ceramiche». Altre ipotesi sostengono che il corpo veniva lasciato all’aperto perché fosse scarnificato dagli animali e solo dopo, quando era ridotto ad uno scheletro, veniva riposto nelle grotticelle.

Nella mitologia sarda, queste dimore scavate nella roccia sono diventate le case delle janas, queste figure femminili sciamaniche, un po’ fate e un po’ streghe perché i loro poteri potevano essere usati per il bene o per il male. Si trattava di creature schive, di natura benevola che dispensavano aiuti gratuitamente a chiunque li richiedesse, con una particolare attenzione ai bambini e ai puri di cuore, ma se veniva loro fatto un torto si trasformavano in esseri estremamente vendicativi e crudeli. Erano anche capaci di volare, ma in genere passavano le loro giornate a tessere con telai magici artefatti composti da preziosi fili d’oro, che occasionalmente potevano donare a chi ne aveva bisogno come amuleto di protezione o di fortuna. Essendo di statura molto piccola, le janas potevano vivere anche nelle domus più anguste. E, se ve lo state chiedendo, la pronuncia è “gianas”. O almeno è così in questa zona, non potrei giurare che sia così in tutta la Sardegna…

Raccogliendo qua e là asparagi selvatici, ci dirigiamo verso il secondo gruppo di domus.
A 150 metri da questo secondo gruppo, ai piedi del Monte Corru Tundu, c’è un menhir, un colossale monolite in tufo dalla sommità troncata alto 5,75 m. È uno dei più grandi della Sardegna, ed è fortemente affusolato, con una faccia spianata e l’altra arrotondata; in questa sembrano individuabili tre coppelle circolari. È stato ritrovato a terra e successivamente rimesso in piedi in quella che si pensa possa essere stata la sua posizione originaria, ma su questo non ci sono certezze. Il significato dei menhir nelle culture preistoriche è tuttora sconosciuto, ma secondo alcuni avrebbero avuto la funzione rituale di mettere in comunicazione la terra con il cielo, come enormi antenne destinate a captare messaggi provenienti dalle divinità o – perché no? – dallo spazio.
Di fianco c’è una pietra più piccola, che potrebbe essere la parte sommitale dello stesso menhir (ma in realtà non combaciano) oppure un betile, una pietra sacra. I betili sono di età nuragica e sono la rappresentazione del femminile o, quando in essi sono praticati dei fori per conficcare delle corna, del maschile. Questo si può vedere, ad esempio, nelle tombe dei giganti di Macomer. Al centro di questa pietra c’è un’incisione che, per la sua forma, potrebbe far pensare a un simbolo femminile.

Qui ci fermiamo a riposarci un po’, e Ilaria inizia a suonare la sua campana tibetana. Il luogo senza dubbio si presta, il suono è evocativo e ci trasporta verso mondi lontani nel tempo o nello spazio.


Roberto ci ha parlato anche del nuraghe Santa Barbara, che sorge nel territorio di Villanova Truschedu, piccolo borgo a venti chilometri da Oristano, e che è famoso perché la luce che filtra dal finestrino sopra l’architrave d’ingresso proietta la figura di una protome taurina (simbolo del dio Toro) dove probabilmente era collocato l’altare. Nel suggestivo effetto luminoso, che si verifica nei giorni di solstizio d’inverno, il popolo nuragico vedeva la manifestazione della divinità.

L’ultima chicca che ci ha poi regalato Ilaria è questa figura scavata nella roccia, che si può raggiungere scendendo qualche metro sotto il piazzale dove abbiamo parcheggiato il pullmino. Si può definire un Lingam: la parola è indiana e indica l’unione di un simbolo maschile e di un simbolo femminile. Qui si può vedere l’unione di un simbolo fallico e di uno femminile, ma a ben guardare potrebbero essere anche un menhir e una domus, che possono essere comunque viste come rappresentazioni l’uno del maschile e l’altra del femminile. È un’interpretazione davvero affascinante.

https://www.facebook.com/boghesvillasantantonio/

Si è però fatto tardi, e così dobbiamo salutare Ilaria e Roberto e ripartire verso Sadali, nella Barbagia di Seulo, dove passeremo la serata e dormiremo in attesa di esplorarla domani.
La strada è tortuosa ma davvero spettacolare, soprattutto nel tratto che attraversa e poi costeggia il lago basso del Flumendosa, prima di salire verso Sadali, che si trova a circa 750-800 m di quota.

Arriviamo che è già buio e ci sistemiamo nel B&B Le case del Folletto, gestito da Daniela, che ci accoglie molto calorosamente. C’è bisogno di un po’ di calore perché la serata è decisamente freddina e umida. Del resto, non può essere altrimenti in un paese che è tutto un ecomuseo delle acque… ma questo lo scopriremo domani. Di sicuro, queste case sono molto antiche e molto belle. Io e Viola ci arrampichiamo su per una scala in pietra ripidissima fino alle nostre due stanze, che come tutte le altre hanno nomi di donna: Laura per me ed Elena per Viola. Chissà se c’è un motivo… penso che anche questo lo scopriremo domani.

https://www.lecasedelfolletto.it/

Per ora, dopo una doccia veloce, si va a cena da Kòru, una agri-risto-pizzeria che offre un menù molto vario. Per noi hanno preparato dei ricchi taglieri di antipasti con salumi e formaggi, poi un bel piatto di culurgiones al sugo. I culurgiones, per quei pochi incolti che non lo sapessero, sono i tipici ravioli sardi con ripieno di pecorino, patate e menta. Qui a Sadali nel mese di agosto c’è la sagra dei culurgiones, quindi non vi sto a dire che il livello è altissimo… ma poi abbiamo anche – omaggio della casa – un’ottima pizza da assaggiare, già divisa in otto fette. E per finire, un tocco di dolcezza con le seadas (la seada è un raviolone tondo ripieno di pecorino e immerso nel miele – o con lo zucchero, ma a me piace così, col miele) e un bicchierino della staffa a scelta: amaro, mirto o filu ‘e ferru (l’acquavite sarda).


Che dire? un posto che ci è rimasto davvero… nel kòru (che in sardo significa cuore).

https://www.facebook.com/koruagriristopizzeria/?locale=it_IT

È tempo di andare a nanna, ché domani è Pasqua ma noi abbiamo un sacco di cose da fare…

(TO BE CONTINUED…)