Geografie friulane di Pier Paolo Pasolini – Con Radio Popolare e ViaggieMiraggi
Domenica 23 ottobre 2022
Ciasarsa ta chel luzòur di estàt
ch’a no mòur mai,
blanc e sec come la cialsina,
i la jot cà vissina,
e jo frut,
cu li barghessis e li majs
tala ciar ch’a mi trima.
La poura granda ciasa
cu li mos’cis ta la taula onta
da la cusina, ta la vampa
dal soreli, vuèita, stanca
ch’a sbrova
tal curtìl la vecia pompa,
i marciapiès e i ciamps.
I jès di fièr ta li ciàmaris,
e i cujertòurs blancs
ch’a san di vecis puls muartis,
tal timp dai me barbis,
co la miseria
a roseava fin i brancs
dal figar tal ort àrsit.
Casarsa in quel chiarore d’estate che non muore mai, bianco e secco come la calce, la vedo qui vicina, e io bambino, coi calzoni e le maglie sulla carne che mi trema.
La povera grande casa con le mosche sulla tavola unta della cucina, nella vampa del sole, vuota, stanca, che brucia nel cortile la vecchia pompa, i marciapiedi, i campi.
I letti di ferro nelle camere, e i copriletti bianchi che sanno di vecchie pulci, morte al tempo dei miei zii, quando la miseria rodeva perfino i rami del fico nell’orto bruciato.
Oggi si conclude il percorso pasoliniano di questo viaggio in Friuli, e non può esserci conclusione più degna di Casarsa: qui il giovane Pier Paolo passava le estati, qui è nata sua madre Susanna e questo luogo ha avuto un’enorme importanza nella sua formazione. Casarsa della Delizia, è il nome completo di questa cittadina; nome piuttosto curioso, che merita una spiegazione, o un tentativo di spiegazione, perché le versioni sono molteplici e non abbiamo certezze su quale sia la reale origine del toponimo. È abbastanza chiaro che Casarsa deriva da casa arsa, cioè bruciata, e quindi potrebbe riferirsi a un incendio, secondo alcuni avvenuto in epoca romana, secondo altri ad opera di un battaglione ungherese nel XIX secolo. Ma potrebbe anche significare arsa nel senso di arida, con riferimento al tipo di suolo che c’è da queste parti. Anche sull’aggiunta “della Delizia”, che storicamente risale sicuramente a un Regio Decreto del 1867, ci sono diverse versioni: la più probabile è che derivi da un luogo nelle vicinanze, ma le dicerie popolari, che sono arrivate fino a noi, attribuiscono il nome niente meno che a Napoleone, che da queste parti ha combattuto la battaglia del Tagliamento e che avrebbe trovato questo luogo delizioso… secondo la storia più divertente, a dirla tutta, Napoleone avrebbe trovato qui il posto giusto per liberarsi finalmente di un “bisogno” che era diventato davvero impellente, e dopo avrebbe esclamato soddisfatto “Che delizia!”. Ma di questa storia non esiste prova alcuna.
Questo particolare aneddoto ce lo ha raccontato la nostra guida di quest’oggi, che curiosamente si chiama Claudio come Claudio Agostoni. Perciò oggi abbiamo due Claudio a guidarci… il nostro percorso parte dal cimitero di Casarsa, dove riposa tutta la famiglia Pasolini.
C’è il fratello Guido Alberto, partigiano “bianco” delle brigate Osoppo ucciso nel febbraio 1945 da partigiani comunisti filo-titini e ora sepolto insieme ad altri cinque casarsesi caduti durante la Resistenza. Guido morì nel contesto della tristemente famosa strage di Porzûs, nella quale perse la vita anche Francesco De Gregori, omonimo e zio del cantautore. E c’è il padre Carlo Alberto, morto a Roma nel 1958.
A pochi passi da loro, Pier Paolo riposa al fianco della madre Susanna alla quale è stato profondamente legato per tutta la vita, in una semplicissima tomba ombreggiata da un alloro, antico simbolo dei poeti. La tomba è meta di un pellegrinaggio continuo, ogni giorno ci puoi trovare cose diverse. Noi ci abbiamo trovato una macchinina, un disegno a matita con dedica e un melograno, simbolo di immortalità e di resurrezione.





Qui il 6 novembre 1975 una folla enorme e attonita accolse la salma di Pasolini dopo il funerale con la commovente omelia di Padre David Maria Turoldo.
I versi di Pasolini si possono leggere poi su altre tombe, come quelle dei morti del 4 marzo 1945. Il 4 marzo 1945, poche settimane prima della fine della guerra, Casarsa subì un devastante bombardamento aereo, nel corso del quale oltre agli ingentissimi danni alle case e alla stazione ferroviaria morirono 21 civili. La chiesa di Santa Croce fu colpita da una bomba che la sventrò, distruggendo gran parte degli affreschi del Pordenone e di Pomponio Amalteo. Pier Paolo Pasolini, a testimonianza della commozione che coinvolse tutto il paese, dedicò a questa tragedia la poesia intitolata A plansin li vis (Piangono le viti).
A plansin li vis
e Santìn Pagura a li aveva sarpidis pulìt!
Vuei al à lassàt il nit,
e a restin, pleàs in tal so cuarp, i fis.
Crist, pietàt di lui e di lour
e di duciu chei ch’a patissin,
e di dut chel sanc inutil.
A plansin li vis
e in quanciu di lour ch’a li vevin sapidis pulìt!
E vuei, nuja:
muart, sanc, dolour,
e il soreli in tai nis.
Crist, fà passà chistis oris
di dolour massa alt
ch’a no rivin i cours a puartalu.
A plansin li vis,
e tu, Crist, dani coragiu di vivi enciamò
in ta chei cuarps finìs.
Piangono le viti
e Sante Pagura le aveva potate bene.
Oggi ha lasciato il nido,
e rimangono, curvi, nel loro corpo, i figli.
Cristo pietà di lui e di loro
e di tutti coloro che soffrono
e di tutto quel sangue inutile.
Piangono le viti
e quanti di loro che le avevano potate bene!
E oggi nulla:
morte, sangue, dolore,
ed il sole nei nidi.
Cristo, fai passare queste ore
di dolore troppo alto
che non arrivano i cuori a portarlo
Piangono le viti,
e tu, Cristo, dacci coraggio di vivere ancora
in quei corpi esausti.

Lasciato il cimitero, noi ci dirigiamo verso il Centro Studi Pier Paolo Pasolini, ricavato proprio nella casa della famiglia Colussi dove il giovane Pier Paolo passava le estati, che si affaccia sulla piazza di Casarsa.
Qui si può trovare un’infinità di memorabilia, a partire dalle pagelle del Pier Paolo bambino (sembra incredibile, ma fu rimandato in italiano in quinta elementare!). Poi foto di famiglia e molte poesie, soprattutto quelle giovanili in friulano dedicate a questi luoghi e ai sentimenti che suscitavano nella sua anima ipersensibile. Qui sono conservati i manoscritti delle opere del periodo friulano, le prime edizioni delle opere a stampa e le pubblicazioni successive, il repertorio cinematografico completo e altre opere di critica.






Si può vedere anche la stanza, recentemente restaurata, che ospitò l’Academiuta di Lenga Furlana che Pasolini nel 1945 fondò con alcuni giovani appassionati di poesia e che si proponeva di rivendicare l’uso letterario del friulano, e in particolare di quello casarsese, quello della destra orografica del Tagliamento, contro l’egemonia di quello udinese. Da queste parti il veneto è sempre stato la lingua “alta” (era ovviamente la lingua della piccola nobiltà e della borghesia della Repubblica di Venezia), mentre il friulano era la lingua del popolo, ed è per questo che anche il giovane Pasolini la considerava la lingua più pura e più adatta alla poesia. E questo in un periodo in cui il friulano non aveva ancora come oggi la dignità di una lingua minoritaria europea, ma era considerato soltanto un dialetto. Per Pasolini invece i contadini friulani erano quasi delle divinità, li idealizzava mettendoli nel suo personale Olimpo. Quel mondo fatto di sudore, sacrifici, privazioni, spesso alcolismo, famiglie in cui le donne avevano un ruolo ben preciso e a volte subivano angherie, era comunque per lui il “suo” mondo e questo lo portava perfino a edulcorarne certi aspetti.






Una stanza è dedicata alla passione di Pasolini per il calcio, che ha definito “L’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”.


Poi c’è l’importante fase “politica” del dopoguerra: Nel 1947 Pasolini si iscrisse al PCI di San Giovanni di Casarsa, di cui divenne segretario nel 1949. Qui si vedono i manifesti politici affissi sotto la vecchia loggia comunale di San Giovanni nelle domeniche del ’48.


Di questo periodo è anche una breve storiella che venne esposta in uno di questi tazebao: è una bellissima metafora sulla forza che avrebbe il popolo se solo ne prendesse coscienza e si intitola “La cuarduta dal bo”, cioè la cordicella del bue. Tradotta, suona così:
Uno che passava per la strada ha visto un contadino che conduceva un bue con una cordicella, e si è fermato a domandargli: “Senti,se il bue fosse a conoscenza della sua forza, potresti condurlo al macello con una corda così piccola?”. “No di certo”. “Bene, così noi poveretti: siamo come il bue, abbiamo una gran forza e ci portano al macello con una piccola corda”.

E si finisce con i dipinti e i disegni del Pasolini artista del periodo casarsese che, ancora incerto sulla priorità della poesia, dipinge paesaggi con casolari o libere vedute campestri, a olio, secondo ricette della pittura impressionista che il pittore Federico De Rocco, entrato nella cerchia degli amici più cari, ha messo a punto per lui. Come un vero vedutista, Pier Paolo è uscito spesso di casa con il cavalletto e la cassetta dei colori legati alla canna della bicicletta e, dopo essersi inoltrato nei campi che circondano il paese, si è fermato in qualche luogo solitario, dove ha piazzato la tela bianca – tela da sacco inchiodata da lui stesso al telaio – ai bordi dei campi coltivati circondati da boschetti di robinia, oppure davanti a stalle e casolari. Alla levità lirica della pittura italiana del Novecento cui manifestamente si ispirava, Pasolini aveva intuito di dover aggiungere la qualità forte della luce della Bassa friulana tra contrasti e accensioni dilaganti.


http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/
Usciti dal museo, ci dirigiamo verso la chiesa di Santa Croce, dove nel 1975 venne celebrato il funerale di Pasolini. Sul percorso si incontra una fontana anch’essa dedicata a lui, che è composta da due parti: un libro e una “pizza”, una pellicola, a simboleggiare l’unione delle due arti della letteratura e del cinema.


Gli affreschi che decorano il presbiterio della chiesa sono di Pomponio Amalteo e rappresentano scene legate alla storia della Santa Croce. Sono attribuibili all’Amalteo anche la Vergine col bambino, i santi sulla navata sinistra e la pala con la Deposizione. Un altro affresco rappresenta la battaglia di Ponte Milvio del 312 tra Costantino e l’usurpatore Massenzio, un soggetto frequente nell’arte sacra perché secondo alcuni cronisti dell’epoca l’evento segnò l’inizio della conversione di Costantino al Cristianesimo: Lattanzio narra che la notte prima della battaglia Costantino ebbe un sogno in cui gli fu detto di porre un simbolo cristiano sugli scudi dei suoi soldati; Eusebio racconta invece che Costantino e i suoi soldati ebbero una visione celeste inviata dal Dio cristiano.


All’interno della chiesa si trova anche una lapide votiva che ricorda l’invasione dei turchi del 1499. Questa lapide proviene dalla chiesa della Beata Vergine delle Grazie, che venne portata a compimento con pitture e decorazioni nel 1529 in segno di ringraziamento della comunità per essere stata risparmiata dalle invasioni turche. A questa lapide è ispirato il dramma teatrale di Pasolini I Turcs tal Friul, un atto unico in friulano scritto nel 1944 e pubblicato postumo nel 1976, che è anche la sua unica opera teatrale.

Risaliamo sul pullman per un breve spostamento a Versuta. In questa località, frazione di Casarsa, Pasolini e la madre Susanna arrivarono da sfollati nell’autunno del 1943, quando anche Casarsa era bombardata, con la ritirata tedesca che stava iniziando. In quei giorni difficili i ragazzi di Versuta non potevano andare a lezione, e così Pier Paolo e Susanna decisero di aprire una scuola totalmente “irregolare”, usando le stanze dove abitavano e anche un casolare – casel in friulano – utilizzato dai contadini come ricovero per gli attrezzi. Sono passati quasi 80 anni, e di quei ragazzi ne sono rimasti pochi, ma nessuno di loro ha mai dimenticato quella scuola. Quel “maestro” giovane e bello, che parlava di poesia e leggeva poesie di poeti sconosciuti con voce dolce e piena di passione, insegnava cose che da queste parti, e non solo da queste parti, nessuno aveva mai insegnato. L’esperienza proseguì anche a guerra finita e andò avanti finché al provveditorato qualcuno si accorse che nessuno, lì, aveva titolo per insegnare, nemmeno Pier Paolo che non si era ancora laureato.
Oggi del casel non resta altro che un rudere sotto un albero, che non si può vedere perché l’attuale proprietario (che non apprezza particolarmente Pasolini, per usare un eufemismo) vorrebbe buttarlo giù per allargare la vigna. Ma si può vedere invece tra i gelsi (si dice che il gelso sia l’ulivo del Friuli) la chiesetta di Versuta, dedicata a Sant’Antonio Abate, del XIV secolo. Sopra la porta si trova una statua del santo con il maialino, iconografia simbolica di una tradizione contadina rimasta viva fino all’ultimo dopoguerra: ogni anno un maiale era allevato dalla comunità e la sua carne doveva servire per l’alimento delle famiglie più povere.
All’esterno della chiesa c’è una fontana, rinnovata dall’architetto Paolo De Rocco, figlio di Federico che fu amico di Pasolini. La struttura è realizzata con sassi del Tagliamento e vecchi mattoni, ed è sormontata da uno stilobate di marmo bianco che porta incise nella parte superiore la scritta “gioventù” e sui due fronti “la meglio” e “la nuova”, in riferimento alle due opere poetiche pasoliniane.


All’interno il ciclo affrescato della parete destra, raffigurante scene di Sant’Orsola, Santa Caterina e il Salvatore in gloria, attribuito a un artista facente parte della scuola di Vitale da Bologna e Tommaso da Modena, che operò tra il 1370 e il 1380. L’abside, dedicato all’incoronazione della Vergine, è di un artista che assume i modi di Masolino da Panicale. All’epoca della permanenza di Pasolini a Versuta, molti di questi affreschi erano nascosti da una spessa ricopertura. Così Pier Paolo e i suoi ragazzi si incaricarono di riportarli alla luce sfregando cipolle sull’intonaco, come consigliato proprio dall’amico pittore Federico De Rocco. E noi, in omaggio a quei ragazzi, abbiamo provato a “replicare” la loro foto davanti alla chiesa.







Fatto anche questo, ci trasferiamo a San Vito al Tagliamento. Ormai è ora di pranzo, e quindi ci concediamo una pausa. C’è un baretto che fa proprio al caso nostro, che offre la possibilità di assaggiare un altro prosciutto friulano, quello di Sauris, che non ha niente da invidiare al più noto San Daniele e si distingue tra tutti i prosciutti italiani tutelati per la leggera affumicatura ottenuta per combustione naturale esclusivamente di legna di faggio.


Ma a San Vito c’è anche la chiesa della Beata Vergine Annunziata, più nota come Santa Maria in Castello. Si trova in borgo Castello, l’antico nucleo cittadino ove sorgeva l’originario complesso fortificato, nato come semplice rocca difensiva con la sua cinta muraria, documentata già prima del XIII secolo. Gli affreschi interni, emersi grazie ai lavori di restauro, sono datati alla seconda metà del 1300 (anni 1370-80 circa). La loro attribuzione è tuttora fonte di dibattito.



Ci spostiamo poi a Valvasone, dove Pasolini insegnò per due anni (1947-48 e 1948-49) materie letterarie alla scuola media, che raggiungeva ogni mattina in bicicletta. Ma prima di iniziare il successivo anno scolastico avvenne l’episodio che lo portò alla sospensione dall’insegnamento e anche all’espulsione dal PCI. Il 29 agosto del 1949, alla sagra di Santa Sabina a Ramuscello, Pasolini si appartò con tre minori con cui ebbe dei rapporti di masturbazione. La voce arrivò ai carabinieri della Stazione di Cordovado, competente per territorio. La famiglia di Pasolini intervenne e l’avvocato Bruno Brusin convinse le famiglie dei ragazzi a non sporgere denuncia, offrendo 100.000 lire a testa alle famiglie per il danno subito. L’indagine proseguì, con l’imputazione di atti osceni in luogo pubblico. La sentenza arrivò nel gennaio del 1950: Pasolini e i due ragazzi sopra i sedici anni vennero giudicati colpevoli di atti osceni in luogo pubblico e condannati a tre mesi di reclusione ciascuno; la pena venne interamente condonata per effetto dell’indulto. Il processo di appello si tenne nell’aprile 1952, e stabilì che il prato era proprietà privata e non visibile durante le ore notturne: tutti gli imputati furono perciò assolti. Ma i dirigenti del PCI di Udine, il 26 ottobre, decisero comunque di espellerlo dal partito “per indegnità morale e politica”.
Valvasone ha un centro medievale molto ben conservato, nel quale spicca la chiesa di San Pietro e Paolo, con gli affreschi del XV secolo di Pietro da Vicenza e altri affreschi del XIV secolo.



Molto interessante è anche il duomo di Valvasone, noto anche come chiesa del Santissimo Corpo di Cristo. La chiesa fu edificata nel corso del XV secolo, ma fu sottoposta a completa ristrutturazione in stile neogotico fra la fine dell’Ottocento e inizio del Novecento. Il vero elemento di interesse, però, è l’organo che risale al 1532, lavoro del veneziano Vincenzo Colombi, e che è l’ultimo esemplare della grande scuola veneta del Cinquecento.


Posizionato in una cantoria sulla parete destra dell’edificio, iniziò a suonare nel 1533, ma la cassa lignea venne completata solo nel 1535. Fra il 1535 e il 1538 la cassa fu decorata dall’intagliatore Girolamo da Venezia e dal doratore Tommaso Mioni da Udine. I dipinti sulle portelle vennero commissionati al Pordenone, che però morì nel 1539, lasciando incompiuto il lavoro. L’opera venne portata a termine pochi anni dopo da Pomponio Amalteo.
Le portelle presentano temi dell’Antico Testamento: nella parte esterna è raffigurata la Caduta della manna dal cielo, mentre nella parte interna, quando le portelle vengono aperte, è visibile il Sacrificio di Isacco (sull’anta sinistra) e il Sacrificio di Melchisedech (sulla destra). Numerosi interventi su canne e registri, eseguiti fra il XVII e il XIX secolo, finirono per stravolgere l’impostazione fonica rinascimentale originaria. All’inizio del XX secolo la manutenzione dell’organo, ormai divenuto insuonabile, venne interrotta e lo strumento fu, di fatto, abbandonato. L’organo subì un primo importante restauro fra il 1972 e il 1974, al quale ne seguì un altro nel 1999. Quest’ultimo restauro, condotto seguendo precisi criteri filologici, riportò lo strumento alle sue condizioni originarie. Tant’è vero che oggi possiamo sentirlo suonare.

Ma ormai sono più delle 16.30 e io, purtroppo, devo prendere un treno a Casarsa alle 17. Devo per forza rientrare a Milano per dei lavori condominiali da fare nella giornata di domani, e così mi perderò l’ultimo giorno di viaggio, con Aquileia e Palmanova. Per fortuna, però, sono riuscito almeno a portare a termine il percorso pasoliniano, devo dire con grande soddisfazione. E ora ho a disposizione un pullman tutto per me per rifare il breve tratto di strada che porta alla stazione di Casarsa. Mica da tutti…
Non posso fare altro quindi, che salutarvi e ringraziarvi per l’attenzione con trenta secondi di note solenni emesse da questo antico organo che ancora suona per noi. Mi sembra un’ottima chiusura. Alla prossima!
Grazie a Radio Popolare e soprattutto a Claudio Agostoni, a ViaggieMiraggi, all’Associazione Graisani de Palù, al Centro Studi Pier Paolo Pasolini e all’altro Claudio che ci ha fatto da ottima guida, a tutte le compagne e tutti i compagni di viaggio.