Geografie friulane di Pier Paolo Pasolini – Con Radio Popolare e ViaggieMiraggi
Sabato 22 ottobre
Oggi si va a Grado, da dove partiremo per la nostra navigazione in laguna fino all’isola di Mota Safon, dove Pasolini nel 1969 girò alcune scene di Medea. Per fortuna i nostri scongiuri hanno avuto successo, il tempo tiene. Non c’è un sole che spacca le pietre, il cielo è coperto ma non piove, è questo che conta; e per essere alla fine di ottobre non fa nemmeno particolarmente freddo.
Partiamo con due “taxi” della laguna, ci accompagnano due ex pescatori che fanno parte dell’associazione dei “Graisani de palù”, cioè i gradesi della laguna. Loro c’erano, quando arrivarono Pasolini e la Callas.
Mota Safon, con il suo casone, si trova sul lato ovest della laguna di Grado. Ed è lì che ci dirigiamo, stando al coperto in cabina per evitare gli spruzzi (ma ogni tanto, a turno, usciamo anche a prendere un po’ di vento in faccia) e ascoltando i racconti delle nostre due “guide”.




Partiamo con due “taxi” della laguna, ci accompagnano due ex pescatori che fanno parte dell’associazione dei “Graisani de palù”, cioè i gradesi della laguna. Loro c’erano, quando arrivarono Pasolini e la Callas.
Mota Safon, con il suo casone, si trova sul lato ovest della laguna di Grado. Ed è lì che ci dirigiamo, stando al coperto in cabina per evitare gli spruzzi (ma ogni tanto, a turno, usciamo anche a prendere un po’ di vento in faccia) e ascoltando i racconti delle nostre due “guide”.
Sull’isola di San Pietro, che è quasi attaccata a Grado, c’era un antico monastero benedettino che, con alterne vicende, fu attivo per quasi mille anni prima di essere definitivamente distrutto da una mareggiata nel 1780. Il primo canale che navighiamo si chiama proprio canale di San Pietro, ed è profondo circa 15 metri, ma la profondità è variabile. Poi il canale della Berigola, il canale Palon e infine il canale delle Mee che, collegandosi col fiume Natisse, porta ad Aquileia. Il cosiddetto Taglio Nuovo, che è l’ultimo tratto di canale da percorrere per arrivare a Mota Safon, fu scavato dagli italiani nel 1915, durante la Grande Guerra. Grado è appartenuta all’Austria fino al 1918, quindi questa allora era una zona di confine.
Francesco, con i suoi baffi a manubrio, sembra quasi voler ricordare proprio quel periodo. Lui è vicino agli ottant’anni, e si ricorda che quando era bambino molti vecchi rimpiangevano gli anni in cui Grado era un porto austriaco. Ora non ci sono più pescatori nelle isole della laguna – ci racconta – ma quando lui era un giovane pescatore in laguna abitavano più di mille persone. La vita era molto dura, perché la laguna è un ambiente affascinante ma per sua natura fragile e precario, esposto alle maree, alle mareggiate e comunque ai mutevoli umori del vento e del mare. E anche le abitazioni erano precarie, prive di qualsiasi comodità: I casoni erano semplici edifici a pianta rettangolare, con tetto a spioventi ricoperto di paglia, pareti in muratura o rami e paglia, un tempo molto diffusi soprattutto nell’area lagunare da Grado a Comacchio. Venivano utilizzati spesso come ricovero per attrezzi e imbarcazioni, ma sulle isole fungevano anche da abitazione. All’interno una sola grande stanza con il focolare, la porta orientata verso Ovest per riparare dai venti che soffiano da est.
I casoni sono stati abitati fino agli anni ’70, poi questo tipo di vita è sostanzialmente scomparsa: ora i pescatori usano barche moderne e partono da Grado. Un tempo, invece, l’imbarcazione tipica dei pescatori era la batèla, una caratteristica imbarcazione a fondo piatto, senza chiglia, che ben si adatta al basso fondale che caratterizza la laguna, condotta da un rematore in piedi o, a volte, dotata di motore.
Nei casoni della laguna le famiglie erano matriarcali: comandavano le donne, anche perché gli uomini spesso, con il tipo di vita che facevano, morivano presto. Non che la vita fosse meno dura per le donne, ovviamente; dovevano farsi carico delle famiglie, che allora erano quasi sempre numerose. A scuola – racconta Francesco – si andava in barca. Su alcune isole c’erano delle piccole scuole, con delle classi che riunivano bambini di età diverse. Ma raramente si andava oltre la quinta elementare, e così è stato anche per lui.
Poi si cominciava a fare la vita del pescatore e si viveva quindi di quello, a volte facendo baratti con i contadini: pesce o capelunghe (detti anche cannolicchi, sono molluschi tipici della laguna) in cambio di musetti, salsicce, farina, olio e in generale prodotti della terra. Un’economia di sussistenza, anche se la pesca, in certi periodi, rendeva.
“Noi della laguna di grado” – afferma con orgoglio Francesco – “abbiamo dato ostriche alla Francia, dico alla Francia, per vent’anni!”.
Il dialetto gradese – lo si sente anche dall’inflessione di Francesco e lui ce lo conferma – è decisamente più veneto che friulano, anche se dal punto di vista geografico-amministrativo siamo in Friuli: la vicinanza alla laguna veneta e la lunga storia di dominio della Serenissima hanno il loro peso.
Francesco, anni fa, è stato anche proprietario di un isolotto che poi ha rivenduto quando è andato in pensione. Lì si era costruito una casetta in legno, era un po’ la sua riserva di pesca. Ha anche una trattoria, di cui è tuttora proprietario, ma da alcuni anni non la gestisce più, l’ha data in affitto. Ha avuto anche un tumore al polmone: “Era un granchio, poi è diventato un polipo” – dice lui. Del resto, ammette con disinvoltura che ai bei tempi fumava 60 sigarette al giorno… Ha fatto un numero enorme di sedute di chemio e radioterapia, ma alla fine la sua tempra di vecchio pescatore ha avuto la meglio.


Questo periodo dell’anno, in laguna, è la stagione dello scirocco, e qualche volta dell’acqua alta. Ma oggi a noi, tutto sommato, non va male, rispetto alle previsioni.
Con un’oretta o poco più di tranquilla navigazione arriviamo a Mota Safon. Il nome viene dal sifone che si trova sulla piccola isola, dal quale sgorga acqua dolce potabile, utilizzata dai pescatori.








Entriamo nel casone, dove ci possiamo accomodare per un piacevole aperitivo, ormai l’ora è quasi quella giusta. Siamo venuti ben attrezzati con le bottiglie di vino, le patatine, i salatini e tutto l’occorrente… l’unico problema è che oggi, per qualche ragione che non si riesce chiaramente a identificare, non arriva la corrente elettrica. Siamo quindi un po’ in penombra, il che in realtà è un fastidio sopportabile; si crea un’atmosfera più intima e più vicina a quella che doveva essere la vita nei casoni del tempo che fu.
Ma prima una breve spiegazione: visto che il casone di Mota Safon, dal 1969, è conosciuto da tutti come “il casone di Pasolini”, l’associazione ha deciso nel 2002 di farsi carico di portare avanti la testimonianza di questo luogo, che è un luogo della tradizione per i pescatori della laguna ed è anche un luogo “consacrato” da Pasolini al cinema e al mito, perché qui è stata ambientata parte di una storia mitologica e quella storia è stata interpretata da una donna che è diventata lei stessa un mito, Maria Callas. Dopo lunghe pastoie burocratiche, l’associazione è riuscita ad avere la concessione dell’isolotto. L’isolotto originale era più piccolo di quello che si vede oggi, è stato ingrandito con dell’altro fango e ritombato per poter costruire un altro casone, con caratteristiche diverse, che consentisse di ospitare più persone e organizzare eventi legati alla tradizione e alla memoria. Il casone “di Pasolini” era piccolo, fatto tutto “alla vecchia maniera”, con pali di acacia, pali di castagno e canna palustre. In laguna oggi c’è un piano regolatore che prevede le misure dei casoni e le altezze che possono avere. Il nuovo casone è stato costruito della misura più grande. Secondo il piano regolatore ogni isolotto può avere un casone grande, un casone piccolo, i servizi igienici e nient’altro; anche una semplice legnaia sarebbe abusiva. Il casone grande di Mota Safon ha un ruolo istituzionale, appunto quello di ospitare gruppi come il nostro, eventi culturali o musicali, letture di poesie di Pier Paolo Pasolini e quant’altro. Qui troviamo anche immagini, libri e oggetti che ricordano Pasolini, arricchiti quest’anno da alcune opere a lui dedicate dal pittore Vincenzo Munaro (opere stilizzate in bianco e nero con i profili sia di Pasolini che della Callas) e dalle fotografie della visita di qualche anno fa di Ninetto Davoli, il quale, come interprete e amico, aveva vissuto con il regista la realizzazione di alcune scene del film. Ninetto Davoli aveva peraltro animato con Pasolini anche la vita di Grado, poiché oltre alle rassegne internazionali del cinema e alla proiezione in anteprima di alcune pellicole, assieme ad altri attori, registi e calciatori si erano pure sfidati a calcio all’isola della Schiusa. Pasolini si era infatti innamorato dei luoghi, che gli aveva fatto scoprire l’amico pittore Giuseppe Zigaina, e aveva frequentato per lungo tempo la laguna di Grado facendo capo proprio alla Mota Safon.




Un brindisi e ci spostiamo poi nell’altro casone, quello piccolo, che è stato ricostruito seguendo fedelmente la tipologia delle costruzioni di un tempo, ma adattandola naturalmente ai nostri tempi. Un percorso con un obiettivo fortemente voluto dall’Associazione Graisani de Palù: valorizzare il patrimonio storico, etnico e ambientale della laguna attraverso la realizzazione di un casone-museo per scuole, iniziative culturali, manifestazioni artistiche e sociali. All’interno si trovano attrezzi per la pesca, ma anche quelli un tempo utilizzati dagli abitanti della laguna per le riparazioni delle loro batèle o per altre esigenze; e poi immagini di vita “a cason”, ricordi del tempo andato: circa 50 metri quadrati nei quali si possono ritrovare i tempi dei vecchi pescatori, scanditi dal ciclo solare e dalle maree.
In questo casone piccolo ora ristrutturato, per quanto a noi ora sembri difficile da credere, dormivano undici persone: la famiglia era composta da mamma, papà, sette figli, e coi nonni fanno undici.








http://www.graisanidepalu.org/
È in questo mondo lagunare un po’ fuori dal tempo che Pasolini decise di far muovere la sua eroina, interpretata da Maria Callas. Pasolini ha detto che Medea è l’eroina di un mondo sottoproletario, arcaico e religioso, mentre Giasone è l’eroe di un mondo razionale, laico e moderno. Il loro amore rappresenta il conflitto tra questi due mondi, quel conflitto che è stato un tema costante di tutta l’opera poetica e artistica di Pasolini. Lui stesso disse anche che ogni autore, che lo voglia o no, per tutta la vita o almeno per un lungo periodo scrive sempre lo stesso libro o fa sempre lo stesso film.


Penso che questo conflitto si veda bene nella scena che potete vedere in questo spezzone: Medea e Giasone raggiungono la zattera degli argonauti e tornano insieme veso Jolco. Medea, raggiunta di nuovo la terra, cade nel panico: non sente più la voce del sole e della terra, e mentre gli argonauti, lontano, cantano, lei avverte il disastro del cambiamento. Ma Giasone giunge a prenderla per mano, la porta nella sua tenda, e Medea si calma nell’atto d’amore.
https://www.youtube.com/watch?v=U2rOPVITWrs&t=266s
C’è da dire che non solo Maria Callas era al suo esordio nel cinema (dichiarò di aver già rifiutato importanti ruoli in passato, perché nessun progetto l’aveva interessata e convinta come quello di Pasolini) ma anche per il ruolo di Giasone fu scelto un non-attore, l’atleta Giuseppe Gentile, medaglia di bronzo nel salto triplo alle olimpiadi di Città del Messico del 1968.
A questo punto, se non avete visto il film, forse vi sarà venuta la curiosità di vederlo (lo spero). Se è così, cercate su Youtube e lo troverete facilmente (e a gratis). Non è un film “facile”, ma vale la pena.
Tornando a noi, dopo la visita al piccolo casone-museo non ci resta tanto tempo: dobbiamo ripartire prima che il tempo peggiori, perché per il pomeriggio è prevista pioggia.



Ritornati a Grado, abbiamo un po’ di tempo libero per vedere il centro storico.
L’insediamento fortificato d’epoca tardo antica era dotato di possenti mura, spesse 9-10 piedi romani, ovvero poco meno di 3 metri; il loro livello di fondazione si trova a circa 2 metri e mezzo sotto l’odierno suolo di calpestio e parti murarie sono ancora rintracciabili in alcuni punti della pittoresca città vecchia, che nel tempo si sovrappose con case, campi, campielli e calli all’antico nucleo.
Se lo scopo primario fu naturalmente quello difensivo, la costruzione del perimetro fortificato e l’aumento del numero di edifici racchiusi al suo interno testimoniano fondamentali cambiamenti socio-economici, politico-militari e, non da ultimo, religiosi: l’indubbio sviluppo e il rapido aumento d’importanza di Gradus (da qui il suo nome, da intendersi appunto come gradino, scalo, approdo sul mare aperto) contribuirono a renderla un vero e proprio centro urbano; questo dopo aver svolto funzioni principalmente portuali per Aquileia che, fondata a partire dal 181 a.C. e dotata di un grande porto fluviale, venne annientata dagli Unni di Attila nel 452. Proprio a causa della distruzione della metropoli romana, Grado antica non solo offrì riparo alla popolazione e al clero in fuga, ma divenne poi sede del potere ecclesiastico dell’epoca, con la presenza determinante del Vescovo e, successivamente, del Patriarca di Aquileia. Storicamente quindi può essere considerata “figlia” di Aquileia e in qualche modo “madre” di Venezia: non tanto perché, secondo la leggenda, gli abitanti di Aquileia stabilitisi a Grado avrebbero in seguito popolato le isole della laguna fino a ‘Rivus Altus’, insediamento originario della futura città di Venezia, bensì in quanto Grado fu genitrice del capoluogo veneto dal punto di vista ecclesiastico. I Patriarchi gradesi ebbero un periodo di splendore, con grande potere ed esteso controllo su vasti territori dell’Alto Adriatico ai tempi del dominio bizantino fino al declino di quest’ultimo. Successivamente Venezia venne a essere un centro religioso in crescita continua, per quanto ancora sottoposta al Patriarca gradese che però, dal XII secolo, vi trasferì la propria residenza, tornando a Grado solo in particolari ricorrenze; la bolla papale del 1451 mise fine alla tradizione patriarcale gradese, cui subentrò la figura del Patriarca di Venezia.

La basilica paleocristiana di Sant’Eufemia venne costruita su una chiesa preesistente, la basilichetta di Petrus, di cui si possono osservare alcuni resti all’interno dell’edificio. I lavori di costruzione cominciarono all’inizio del V secolo e vennero portati a termine nel 579 per opera del vescovo Elia che dedicò la basilica a santa Eufemia, martire di Calcedonia. Lo stile semplice, lineare e severo della costruzione viene esaltato dai mattoni chiari a vista che la ricoprono.
L’interno della chiesa è suddiviso in tre navate da due file di colonne, tutte diverse tra di loro. Notevoli sono i mosaici della pavimentazione che si estendono per 700 mq e per il prevalere dei motivi geometrici testimoniano l’influenza bizantina su Grado. Sul lato destro della chiesa si eleva il campanile, visibile a distanza grazie ai suoi 42,60 metri di altezza, sormontato dall’anzolo, una statua in rame di san Michele Arcangelo che indica la direzione del vento. Questa fu donata alla città dai veneziani nel 1462.



Dopo una passeggiatina sul lungomare, si cominciano a far sentire i morsi della fame… e allora ci concediamo almeno uno “spuntino” alla prosciutteria di Grado: un piatto di San Daniele di 16 mesi con due fette di melone è quello che ci vuole.




Si ritorna poi in pullman a Lignano, dove quello che resta del pomeriggio è libero: alla fine il meteo è stato nel complesso piuttosto clemente, e ci possiamo quindi godere anche un bel tramonto passeggiando fino al faro e al porticciolo turistico.





Un fritto misto a cena e piacevoli chiacchiere, nonostante le notizie che arrivano sul governo che sta nascendo: scorrendo la lista dei ministri c’è un po’ da ridere e anche un po’ di che preoccuparsi, ma non è questo il posto per parlarne. Domani saremo a Casarsa, che dovrebbe rappresentare la più che degna chiusura del percorso pasoliniano, e per me sarà purtroppo anche l’ultimo giorno di viaggio.
(TO BE CONTINUED…)
grazie Piero , fa piacere rivivere con le tue scritture quei bei giorni piacevolissimi..
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