Geografie friulane di Pier Paolo Pasolini – Con Radio Popolare e ViaggieMiraggi

Dedica.
Fontana di aga dal me país.
A no è aga pí fres-cia che tal me país.
Fontana di rustic amòur.

Dedica.
Fontana d’acqua del mio paese.
Non c’è acqua più fresca che nel mio paese.
Fontana di rustico amore.

Da “Poesie a Casarsa” (1941-43)

Venerdì 21 ottobre 2021

Quest’anno Pier Paolo Pasolini avrebbe compiuto cent’anni, essendo nato il 5 marzo 1922. Quindi anche noi viaggiatori di Radio Popolare e ViaggieMiraggi non possiamo fare a meno di celebrare la ricorrenza… e quale modo migliore di farlo, se non con un viaggio a tema? Potrebbero diventare anche due, in realtà. C’è anche in programma una seconda tappa nella prossima primavera, che non può che essere a Roma. Ma intanto siamo qui in Friuli, che non è la terra natale di Pasolini (che è nato a Bologna) ma è quella di sua madre Susanna, e non serve che stia qui a dirvi quanto importante è stata questa terra nella formazione del giovane Pier Paolo, che ci ha vissuto per qualche periodo, seguendo il padre militare nei suoi frequenti spostamenti, e fin da bambino ha passato tutte le estati a Casarsa. Le acque dei fiumi friulani, il Livenza e il Tagliamento in particolare, sono state in qualche modo il suo liquido amniotico: rappresentavano il legame sicuramente più forte della sua vita, quello con la madre, e dunque anche con la terra friulana. Per questo mi è sembrato appropriato intitolare questo diario di viaggio “Aga dal me paìs”, acqua del mio paese, citando una sua breve poesia giovanile dedicata a Casarsa. Il cordone ombelicale che lo lega al Friuli si traduce anche nell’uso della lingua friulana, e specificamente del friulano casarsese, che negli anni giovanili rappresenta per Pasolini la lingua più pura, la lingua del cuore e dell’espressione letteraria. Con alcuni giovani appassionati di poesia (Cesare Bortotto, Riccardo Castellani, Ovidio Colussi, Federico De Rocco e il cugino Domenico Naldini) nel 1945 fondò l’Academiuta di lenga furlana, che si proponeva di rivendicare l’uso letterario del friulano casarsese contro l’egemonia di quello udinese.
Il nostro tour parte da Sacile, dove PPP trascorse alcuni anni dell’infanzia, in una casa situata di fronte al Duomo di San Nicolò. Ci siamo arrivati partendo in pullman da Milano questa mattina presto. Il gruppo è composto da una ventina di persone, tra cui molti miei amici e compagni (soprattutto amiche e compagne) di altri viaggi. Ci guida Claudio Agostoni, nume tutelare di tutti i viaggi targati Radio Pop e ovviamente ispiratore e organizzatore anche di questo.
Arrivando a Sacile, l’importanza dell’acqua nella vita di questo borgo salta subito agli occhi: qui passa il Livenza, che disegna sinuoso le sue curve nel centro del paese, regalandogli un’atmosfera molto “veneziana”, dove gli eleganti palazzi, spesso in stile lagunare, si specchiano nelle acque azzurre del fiume. Non per niente questa cittadina è stata definita “il giardino della Serenissima”. Attraversando i ponticelli e le viuzze si scoprono suggestivi scorci ad ogni piè sospinto. Perfino il santo patrono, San Nicolò, è legato al fiume, essendo il santo protettore della navigazione fluviale.

Fu nel 1929 che da Casarsa i Pasolini si spostarono nella vicina Sacile, in ragione del mestiere del capofamiglia. In quell’anno Pier Paolo, che aveva 7 anni, aggiunse alla sua passione per il disegno quella per la scrittura, cimentandosi in versi ispirati ai semplici aspetti della natura. Sotto i porticati del centro si trovano diverse targhe che riportano quei versi. C’è ad esempio questa poesia, intitolata Un’avventura e datata 1932.

Fu in fondo alla scarpata presso il fresco
tenebroso, verdissimo Livenza.
In una grotta, tra immondizie e marcia
verdura (udivo il pallido frastuono
del mercato) io ero prigioniero
e un ambiguo sgomento mi agghiacciava:
la fierezza e una languida vergogna
di fronte a quei fanciulli prepotenti
(vento salato d’un felice mare…).
Ma essi, i laceri, i volgari, un riso
amico mi volgevano, onorando
le mie vesti decenti, il mio coraggio.

Il duomo
Il duomo di Sacile

La casa dove visse la famiglia Pasolini

Dopo questa prima tappa di “acclimatazione”, e dopo un pranzetto leggero e veloce, noi ci spostiamo verso Villa Manin, che si trova a Passariano, frazione di Codroipo. Il “pretesto” è una mostra fotografica che si è aperta circa un mese fa: “Pier Paolo Pasolini sotto gli occhi del mondo”. Con oltre 170 ritratti inediti e rari di Pier Paolo Pasolini, l’esposizione riporta alla luce interi servizi fotografici – fino ad oggi misconosciuti – puntando soprattutto sui grandi fotografi stranieri (alcuni di eccezionale fama, come Richard Avedon, Herbert List, Henri Cartier-Bresson, Jerry Bauer, Jonas Mekas, Lütfi Özkök, Erika Rabau, Duane Michals, Philippe Koudjina, Marli Shamir e tanti altri) e sui luoghi, i momenti e gli incontri che hanno contraddistinto la vita di Pasolini, restituendone l’immagine di uomo e artista nel mondo, fissata per sempre in decine e decine di pose diverse.
Ma la villa merita senz’altro una visita “a prescindere”, tale e tanta è la sua magnificenza. E infatti noi, prima di dedicarci alla mostra, ne approfittiamo per esplorare i diversi ambienti visitabili.

La villa risale più o meno alla metà del ‘600, ma in realtà la famiglia Manin arriva qui già alla fine del ‘300. Allora però non erano ancora Manin, arrivavano dalla Toscana e si chiamavano Manini. Essendo commercianti e proprietari terrieri, cominciano a comprare delle proprietà e si imparentano con le famiglie più influenti del Friuli. Qui a Passariano hanno una casa padronale che funge, nel ‘600, da centro di amministrazione delle terre, delle proprietà e delle filande. Nelle due esedre si potevano trovare allora bachi da seta e filande, ma anche cantine e botti di vino, fornaci, mulini e altre attività legate alla terra. Nel corso del tempo si decide di trasformare quella che era soprattutto un centro di amministrazione e gestione delle proprietà in una casa di rappresentanza. Quindi, a partire dalla seconda metà del ‘600, gli esponenti della famiglia decidono di ampliare progressivamente il complesso per renderlo sempre più fastoso. Il corpo centrale della villa diventa un emblema della grandezza e della potenza della famiglia, in grado di rivaleggiare con le residenze dei re d’Europa e di superare in magnificenza le numerose ville che i patrizi di Venezia edificano in terraferma. Non c’è un unico architetto, non nasce come un progetto organico. Il primo architetto è il ticinese Domenico Rossi, che sviluppa in parte le esedre, ma poi ci sono interventi che si succedono; alcuni elementi vengono anche tolti, ad esempio le foresterie che chiudevano il primo cortile, che ora non esistono più. La villa è davvero enorme; la mostra, ad esempio, è stata allestita in uno spazio che è stato appena recuperato (oggi la villa fa parte del patrimonio regionale del Friuli Venezia Giulia) dopo essere stato a lungo un ristorante.
Gli ospiti più illustri arrivavano da Venezia, cioè da sud, e arrivando da lì la villa si vede in lontananza prima di essere abbracciati dalle due enormi esedre. La lunghissima strada che arriva da sud prosegue poi verso nord attraversando il grande parco fino ad arrivare a San Daniele. La villa intenzionalmente estromette, attraverso delle quinte architettoniche, il paese di Passariano, che era abitato da popolani. Al centro della piazza tonda c’erano un tempo delle case, che furono abbattute per far posto a questa dimora nobiliare.
Il giorno certamente più glorioso della villa coincide, paradossalmente, con la fine della Repubblica di Venezia, della quale i Manini diventati Manin furono una famiglia nobile tra le più illustri.
È qui, infatti, che secondo molti storici fu firmato il trattato di Campoformido (o Campoformio, se detto alla veneziana) che, oltre a sancire la pace siglata da Napoleone con gli austriaci, segna nel 1797 anche il tramonto della Serenissima, ceduta proprio all’Austria in cambio del riconoscimento della Repubblica Cisalpina. Il trattato fu firmato in realtà a villa Manin in quanto dimora estiva dell’ultimo doge, Ludovico Manin. Secondo la teoria che va ormai per la maggiore, avrebbe mantenuto il nome di Campoformido soltanto perché questo doveva essere il luogo della firma, che sarebbe dovuta avvenire alle ore 17.00 nella località situata quasi a metà strada tra villa Manin, dove Bonaparte risiedeva dalla fine di agosto, e Udine, sede del comando austriaco. A ridosso dell’ora della firma il generale Bonaparte avrebbe però chiesto ancora tempo, dicendo di attendere un corriere da Parigi. Temendo che fosse una mossa per modificare gli accordi, i plenipotenziari austriaci si sarebbero precipitati a villa Manin. Sempre secondo questo racconto Napoleone Bonaparte rassicurò il conte Cobenzl sulle sue buone intenzioni e si scusò per quel disguido, dovuto, a suo dire, alla sua scarsa esperienza diplomatica. Le carte sarebbero quindi state firmate a Villa Manin, pur riportando il luogo scelto originariamente.
È per questo che è arrivato fino a noi quello che si mormorava a Venezia dopo l’elezione di Manin nel 1789, un motto di spirito poi diventato una triste profezia che si è avverata: “I gà fato doge un furlan, la Repubblica xé morta!” (non credo che serva la traduzione).
Ed è per ricordare quegli eventi che a Villa Manin è stata allestita in una sala una divertente ricostruzione, con dei ritratti “trasformati” in video. Si possono vedere (e ascoltare) i personaggi chiave, ovvero il doge e Napoleone, che raccontano ciascuno la propria “versione”.
Ecco qui il doge “furlan”, Ludovico Manin, che ci rivela un segreto: lui il doge non lo voleva neanche fare! Aveva già capito tutto…


Ed ecco il giovane Bonaparte che spiega perché ha scelto Villa Manin e quanto poco poteva fare il povero doge contro la sua ambizione e sete di potere.


Passando alla mostra, ci prendiamo tutto il tempo che serve per apprezzarla.
Questa mostra, che nasce con l’importante contributo di Cinemazero, scaturisce da un progetto di ricerca condotto per molti anni negli archivi di tutto il mondo dalla curatrice. Proprio grazie a questa attività di ricerca, il pubblico può vedere per la prima volta alcuni servizi fotografici del tutto inediti: l’incontro di Pasolini con Man Ray, per proporgli di disegnare il manifesto di Salò; Pasolini a Stoccolma (pochi giorni prima di essere ucciso), per farsi conoscere nell’ambiente del Premio Nobel; Pasolini nei Sud del mondo, con Alberto Moravia, Dacia Maraini, Maria Callas.
Quando Pasolini va a cercare l’alterità, l’anomalia, che poi ricostruisce sui set dei suoi film. O ancora nei Festival cinematografici e altre occasioni, dove incontra e si confronta con intellettuali e cineasti della sua stessa caratura come Orson Welles, Agnès Varda, Jonas Mekas e Jean-Luc Godard.
Pier Paolo Pasolini è stato probabilmente l’artista più fotografato del Novecento. Dai primi anni Cinquanta, quando arriva a Roma, fino ai giorni che precedono la sua morte, è stato colto in centinaia di situazioni, sia pubbliche che private, come se l’obiettivo fotografico lo avesse inseguito in ogni momento della sua vita. La curiosità intorno al Pasolini uomo e artista ha scatenato le macchine fotografiche di tutto il mondo.
Ogni servizio fotografico dedicatogli implica un aspetto particolare del luogo e del momento in cui lo scrittore si trova. Ogni fotografia che lo ritrae costituisce “un mondo”.
Pier Paolo Pasolini ha messo al centro della sua opera i luoghi dove non dominano le regole del mondo borghese occidentale: il Friuli, le periferie di Roma e del Sud, i continenti inesplorati, le grandi città moderne, da Parigi a New York. E i fotografi lo hanno ritratto proprio in questi luoghi, “dove la gioia è gioia e il dolore dolore”, come scrive lui nelle Ceneri di Gramsci (1957).
Così è nata una lotta segreta tra lo scrittore e la macchina fotografica: quando si trova in spazi domestici, Pasolini assume il ruolo dell’intellettuale che sta alla scrivania o del figlio adulto che non si vergogna di presentarsi sempre affiancato dalla madre; quando invece si trova in mondi lontani concentra su di sé la forza degli obiettivi riempiendo ogni scatto con la sua fisicità. Ogni fotografo ha sottolineato in modi diversi questo rapporto: uno scrittore che si mostra con eleganti vestiti borghesi ma anche in canottiera e costume da bagno, un volto che sembra – talvolta – sorridere ma anche guardare ferocemente verso il mondo, come per sfidarlo, occhi che catturano l’obiettivo ma anche che si sottomettono dolcemente allo scatto del diaframma.
Pasolini è sempre “diverso”: differente da come ci aspetteremmo di vederlo, “altro” da come anche grandi autori come Avedon o Cartier-Bresson pensavano di fissarlo con l’obiettivo.

Pier Paolo Pasolini con Maria Callas, Alberto Moravia e Dacia Maraini nella moschea Djenné – Mopti (Mali), 1969-70

Pasolini e Anna Magnani sul set di Mamma Roma

https://www.villamanin.it/

https://www.villamanin.it/evento/pier-paolo-pasolini-sotto-gli-occhi-del-mondo/

Finita la visita, ci tratteniamo un po’ a scambiarci impressioni e a cercare di chiarire un dubbio che ci è sorto leggendo una didascalia da cui sembrerebbe che Laura Betti sia stata moglie di Pier Paolo Pasolini. In realtà, almeno da una breve ricerca che ho fatto io (ma se qualcuno di voi trova qualcosa di diverso, me lo faccia sapere…) non risulta niente del genere, se non da un’intervista della stessa Laura Betti a Panorama nel 1977 (quindi dopo la morte di Pasolini), dove sembra peraltro parlare abbastanza chiaramente di un matrimonio “metaforico”:

Ho conosciuto Pier Paolo nel ’57. Ci siamo subito fidanzati, poi sposati. Io sostenevo che sarei poi diventata il bastone della sua vecchiaia e – data la mia tendenza ai chili in più – lui sosteneva che sarei diventata la “palla” della sua vecchiaia. Avevamo poche cose in comune: una disperata vitalità e una canzone dal titolo Amado mio che aveva cantato Rita Heyworth in Gilda. E un’altra cosa avevamo in comune: la disubbidienza.
Eravamo una coppia tipica con i regolari problemi del ruolo. Io mi ero assunta – come tutte le donne – un compito duro, pesante, quasi impossibile. Lo facevo ridere. Non sapeva ridere quando l’ho conosciuto. Teneva le labbra sottili sbarrate, chiuse. Era un uomo braccato, respinto, schedato dalle destre e dalle sinistre come “diverso”. Era un uomo assetato d’amore. Farlo ridere non era dunque facile perché non c’era nulla da ridere. Il nero fascismo del “nuovo fascismo” era tutt’intorno a noi, alla nostra pazza isola di sole, di colori, di sapori; un’isola resa superba dalla poesia sparsa ovunque, a piene mani.
Una coppia tipica. E se lo dico è per disubbidire a chi ha deciso che una coppia tipica non possa essere anche insolita. Lo dico per disubbidire a chiunque scheda gli omosessuali, le donne, gli handicappati stabilendo una normalità, “quella normalità”, non tre, mille normalità. Una. Approvata dall’alto, da chi sa in che modo si deve allevare l’individuo di comodo; l’individuo lobotomizzato a cui nascondere qualsiasi stimolo rivelatore di mondi cosiddetti proibiti quali, per esempio, un’unica sessualità con mille sublimi ramificazioni più o meno selvagge, e beati coloro che si guadagnano il più che comprende tutto quanto offre la vita.

Dopo di che ci spostiamo verso Lignano, dove dormiremo in un hotel sul lungomare. Ci accoglie una Lignano ovviamente fuori stagione, con il cielo grigio e quella tipica atmosfera malinconica delle località balneari che in autunno diventano quasi un deserto urbano, abitato solo da quei pochi che ci vivono per tutto l’anno.
Davanti al nostro albergo c’è un pontile con una sorta di moderna “rotonda sul mare”, che per noi diventa subito “l’ecomostro” e che però fa molto parte di questa atmosfera.

Una bella cena di pesce al ristorante Cason (uno dei pochi aperti) conclude la prima giornata di questo viaggio pasoliniano. Domani, tempo permettendo (è almeno una settimana che incrociamo le dita e facciamo tutte le danze CONTRO la pioggia possibili), abbiamo in programma un’escursione in barca in laguna che, da Grado, ci porterà all’isolotto di Mota Safon, dove Pasolini nel 1969 girò alcune scene di Medea con una sontuosa Maria Callas come protagonista.

(TO BE CONTINUED…)