Un viaggio nel magico mondo delle Janas, le fate della mitologia sarda, che secondo le leggende popolari vivevano in case di pietra, le “domus de Janas”, e tramandarono alle donne sarde la meravigliosa arte della tessitura. Un itinerario tra Marmilla, Barbagia e Ogliastra e alla scoperta dei simboli ancestrali e delle leggende della cultura sarda, degli antichi saperi delle comunità agropastorali e delle meraviglie della natura… e tutto volando sulle ali delle Mariposas de Sardinia.
2 – Sadali e lo scroscio delle acque
Domenica 9 aprile 2023
Il risveglio, dopo la notte del sabato Santo, è piacevole. Almeno io, personalmente, devo dire che era parecchio che non dormivo così bene, e che non venivo svegliato dal canto degli uccelli… scambiandoci saluti, auguri di buona Pasqua e impressioni con i compagni di viaggio, più di una persona dice di aver sofferto un po’ il freddo; effettivamente, è vero che siamo in montagna (fatto che forse, inconsciamente, avevo un po’ sottovalutato) ma anch’io mi aspettavo qualche grado in più. Comunque, stando sotto copertina e piumone ho dormito più che bene. Di sicuro, vista alla luce del giorno, la bellezza di questo posto si può apprezzare ancora di più. Questo è sicuramente un paese dove praticamente ovunque le pietre raccontano la loro storia, ma ancora di più lo fanno quelle di queste case del folletto, che di storie da raccontare ne hanno parecchie.
Noi non vediamo l’ora che Daniela ce ne racconti qualcuna, mentre facciamo colazione, e lei non è certo una che si fa pregare… basta chiedere, e in un attimo siamo nel mondo antico della Barbagia dell’inizio del ‘900. Ma prima, lasciatemi dire che una colazione dove insieme al pane, alle varie marmellate, ai croissant, ai succhi, alla frutta e a tutte le cose buone che ti puoi aspettare ti trovi in abbondanza i dolcetti sardi delle feste non ha prezzo. Io ormai li conosco abbastanza bene, ma stavolta ne ho scoperto uno nuovo, che è a quanto pare il dolcetto pasquale per eccellenza: il pirichittus, che è un delizioso biscottino fatto a pallina, morbido con una glassatura di zucchero aromatizzata al limone e acqua di fiori di arancio. Uno tira l’altro…





E dunque, veniamo alle case, che risalgono alla metà dell’Ottocento. La suocera di Daniela, Ida, è nata nel 1930 nella casa che dà sul giardino, di fronte a quella dove ci troviamo a fare colazione. Quella era la casa di Lorenzo (Larentzu), che era il padre di Ida. Questa dove siamo invece è la casa di Giuanni, che era il fratello di Lorenzo. Nonna Ida raccontava un sacco di storie fantastiche, di quelle che si raccontavano per tenere a bada i bambini un po’ vivaci, facendoli stare buoni ad ascoltare e terrorizzandoli il giusto. E così le aveva sempre prese anche Daniela, come storielle per bambini, finché… finché non ha iniziato l’attività del B&B e, inaspettatamente, ha cominciato a sentire (e registrare) le testimonianze dei suoi ospiti, che – strano a dirsi – raccontavano le stesse cose che aveva sempre raccontato sua suocera. I racconti sono vari: rumore di passi, che si distinguono bene soprattutto quando c’è molto silenzio, cosa che da queste parti capita abbastanza spesso; è successo più volte che gli ospiti dei piani inferiori abbiano sentito dei passi sul soffitto, avanti e indietro (qui i pavimenti dei piani superiori sono di assi di legno), e siano andati da lei a dire “Ma come, mi avevi detto che di sopra non c’era nessuno…” e lei: “Ma infatti non c’è nessuno!”. Ma non solo passi, un altro fatto ricorrente nei racconti è quello degli oggetti che si spostano, e non si trovano più. Per esempio, proprio nella mia camera – racconta Daniela – una volta un signore, d’inverno, ha sentito una ventata d’aria fredda entrare nella stanza. “Si è spento il riscaldamento?” – ha chiesto lei – però no, il riscaldamento funzionava, ma era come se dell’aria fredda attraversasse la stanza e passasse nell’altra casa, quella di Lorenzo. Quella stessa casa dove la suocera di Daniela raccontava che, quando non c’era ancora la luce elettrica, ma si usavano candele o lampade a carburo, molte volte nella notte si sentivano rumori, come se qualcuno non solo passasse, ma aprisse i cassettoni e rivoltasse la biancheria, insomma rumori di persone all’interno della casa. E se si cercava di accendere una candela per capire cosa stava succedendo, arrivava una ventata d’aria a spegnerla, proprio come se qualcuno soffiasse. Allora, terrorizzate, le figlie chiamavano il babbo. Erano bambine orfane di madre, e il padre, che era pastore, era spesso fuori casa per parecchio tempo, con loro sole in casa affidate alle cure di qualche zia. Controllavano che le porte d’ingresso, di sotto, fossero chiuse, anche quella sul retro, ma era sempre tutto chiuso. E poi, a giorno fatto, trovavano i cassetti aperti e le cose in disordine, come se ci fosse stato qualcuno ma… era tutto sbarrato. Pare che il padre, ogni tanto, facesse dire delle messe per allontanare queste strane presenze. Ma a che cosa sarebbero dovute, queste presenze? Ebbene, se torniamo indietro a un secolo fa, nel periodo di grande povertà tra le due guerre mondiali, quando Ida e le sue sorelle sono nate, dobbiamo capire che qui, in quell’epoca, la gente era così povera che in fondo, che ci fosse la guerra o no, cambiava poco: la vita era sempre dura e il piatto piangeva quasi sempre. Ida raccontava che allora la fame era tanta e fuori il cortile era lastricato, con delle lastre rettangolari proprio come quelle che ancora ci sono qui in questa saletta ricavata nella vecchia cantina. Si diceva che quelle lastre di copertura non fossero altro che tombe di un antico cimitero. Ma allora la preoccupazione era sopravvivere, e quindi – diceva Ida – perché avere delle pietre in cortile se potevamo toglierle per farci l’orto? La domanda era lecita, e la risposta poteva essere una sola. Si misero a togliere le pietre e scoprirono effettivamente delle nicchie di antichissime sepolture. Non si sa bene di che epoca, perché la memoria si era persa. Quello che si sapeva, perché si era tramandato, era che da queste parti ci fosse stata la casa di un prete. E perciò non era così strano che nelle vicinanze ci fosse stata una chiesetta, con un antico cimitero. Tolte le pietre, caricarono le ossa su una carriola e le portarono a “Sa ucca manna” (la bocca grande), una grotta-inghiottitoio che c’è sulla piazza del paese, dove buttarono tutto, perché era più urgente far crescere patate e fagiolini.
Ed ecco quindi – secondo la cultura popolare – spiegate le presenze: sono le anime dei morti sepolti in quel cimitero, scacciati per far posto agli ortaggi. È una storia incredibile, direte voi. Certo, ma è talmente bella che mi è parso valesse la pena raccontarla. E poi… e poi vi devo dire che – sarà la suggestione – mentre Daniela raccontava anche a qualcuno di noi pareva di ricordare strani rumori nella notte fredda… e c’era perfino un oggetto smarrito: il pettine di Luisa, che era improvvisamente sparito. Ora, mi piacerebbe poter dire che davvero è stato un fantasma, o almeno tenervi un po’ sulle spine… ma questo è solo un diario di viaggio, e io non sono molto pratico del genere Ghost Stories… oops, scusate, storie di fantasmi; non vorrei incorrere nelle ire di Rampelli (se non sapete chi è Googlate; no, voglio dire, cercate nella Rete… anzi no, se non lo sapete siete fortunati, lasciate stare così) e soprattutto non vorrei essere già in contravvenzione, mi pare che ancora la legge anti-anglicismi non sia stata approvata, ma non si sa mai. Quindi, insomma, ve lo dico subito, anche se è un po’ spoiler… acc… no, di nuovo! Come diavolo si dice in italiano autarchico? Rovinatore? Anticipatore? Guastasorprese? Boh. Comunque, il pettine è stato poi ritrovato nella camera occupata da Luisa nell’agriturismo di Michele Cuscusa dove il gruppo (senza di me e Patrizia, che siamo arrivati dopo) ha dormito la prima notte. Io peraltro conosco bene Michele, sono stato già due volte da lui… ma questa, come direbbe Carlo Lucarelli, è un’altra storia.
Questa storia così particolare delle case ha a che vedere anche con i nomi di donna dati alle stanze, che – spiega Daniela – sono i nomi delle donne della famiglia di Lorenzo e Giuanni. Ecco perché…

Daniela ci ha poi raccontato anche che una mattina una signora, tutta eccitata dall’esperienza, è arrivata nella saletta per la colazione e le ha riferito di essere stata acchiappata ai piedi mentre era a letto e strattonata verso il basso. Sostiene di essere stata sveglia e di non aver sognato. Chissà…
Tutto questo si intreccia con un’altra leggenda di Sadali, che è poi quella da cui Daniela ha preso spunto per il nome di questa casa… fatata: è quella del folletto detto in sardo Su massamurreddu che in molti affermano di aver visto. La leggenda lo vede a guardia di un tesoro scomparso più di un secolo fa. Che fine hanno fatto le monete d’oro che Orsola lavava ed esponeva al sole ad asciugare e che il folletto custodiva gelosamente? Forse non lo sapremo mai…
O, se lo sapremo, c’è un unico posto dove potremmo trovare la storia: il blog di Daniela! Ebbene sì, anche lei è una blogger, e quindi i suoi racconti, o meglio suoi e dei suoi ospiti, si possono leggere proprio lì, nel blog che con piacere vi vado testé a linkare (ok, ci rinuncio, al limite pagherò la multa… voi però, vi prego, non denunciatemi!):
https://lecasedelfolletto.blogspot.com/





Salutata Daniela (anche se poi la rincontreremo in giro per Sadali durante la giornata), la nostra Pasqua comincia con una processione, perché non si dica che siamo dei senza Dio e non santifichiamo le feste. È la processione detta in sardo “S’incontru” (l’incontro), nella quale la statua della Madonna vestita a lutto, portata dalle donne, incontra e abbraccia la statua di Gesù, portata dagli uomini, a simboleggiare l’incontro di Maria con il figlio risorto e quindi la resurrezione stessa. Questo rito fu introdotto dagli spagnoli nel Quattrocento e si celebra in moltissime località della Sardegna. Qui siamo in un piccolo paese (Sadali fa 837 abitanti) e quindi le due processioni, che altrove partono da due chiese diverse, partono entrambe dalla stessa chiesa, quella dedicata a San Valentino (non poteva essere altrimenti, perché San Valentino è il patrono di Sadali). È una chiesa molto antica che risente di cinque diversi periodi storici e stilistici: il primo nucleo fu edificato in stile bizantino tra il IX e il X secolo, la struttura nel suo complesso è stata realizzata nello stile gotico catalano, introdotto nel XIV secolo dagli Aragonesi. Fra il 1500 e il 1600 vennero realizzate le cappelle laterali, e nel 1700 la cappella dell’Assunta, che rispetto alle altre ha una copertura a vela. Nel 1963 venne costruito il campanile a guglia, con la sottostante cappella del Crocifisso. Dentro c’è una statua di San Valentino che, secondo la tradizione, è di buon auspicio scuotere tre volte per trovare l’anima gemella.

Sempre a causa dei pochi abitanti, i numeri sono ridotti: è più numerosa la processione delle donne, tra le quali spicca la sindaca di Sadali, mentre quella degli uomini è davvero “minimal”: solo i quattro portatori della statua, il maresciallo dei carabinieri e noi due “foresti” (io e Roberto). Le due processioni partono dopo la messa delle 10, in tempi leggermente diversi (prima le donne, naturalmente), e si snodano brevemente per le vie del paese fino a ricongiungersi di nuovo nella piazza della chiesa. Qualcuno fa notare che, forse proprio grazie alla brevità del percorso, c’è la possibilità per le donne di sfoggiare il tacco 12. Comunque il rituale, anche se è tutto in piccolo, ha una sua suggestività. Poco prima che i due cortei s’incontrino cala un assoluto silenzio. Il parroco è al centro della piazza e i portatori delle statue compiono tre genuflessioni (sos indrinucones).








Avvenuto l’incontro suonano le campane, che qui a Sadali sono una presenza piuttosto costante (almeno nel giorno di Pasqua, non sappiamo se sia così anche per il resto dell’anno) e hanno un suono dal ritmo decisamente incalzante.
Espletati i riti sacri, è il momento di un altro rituale più profano, quello del caffè in un delizioso baretto sulla piazza, che ci serve come piccola pausa prima di iniziare la visita del paese, nella quale ci accompagna Cristiana, della locale cooperativa “Le 3 fate” (vedete come tutto è a tema col nostro viaggio?).

Partiamo dalla cascata di San Valentino, che è forse l’immagine più caratteristica di Sadali: dove avete visto, altrove, una cascata nel centro del paese?
La spiegazione, ovviamente, ha per sottofondo lo scroscio continuo delle acque, che ancora più delle campane sarà la vera colonna sonora di tutta la giornata. Dice la leggenda popolare che un uomo che vagava portando con sé una statuetta del santo fece sosta a Sadali, di fronte a una cascata e a un albero di noce, che ora non c’è più. Essendo molto stanco, si addormentò sotto l’albero di noce. Al risveglio, l’uomo cercò di riprendere in mano la statuetta per tornare al suo paese, ma quella rimase incollata al terreno. Pur con tutte le sue forze, il viandante non riusciva a staccarla. Decise perciò di chiamare i suoi amici, che vennero in suo aiuto, ma neanche con gli sforzi degli amici la statuetta si spostava. Ci fu una sorta di diluvio universale, con lampi e tuoni, per cui si decise di lasciare la statua lì, dove nel tempo diede il nome sia alla cascata che alla chiesa. Abbiamo detto che San Valentino è il patrono di Sadali, ma la particolarità è che, invece che essere festeggiato a febbraio, viene festeggiato a ottobre. Perché? Perché a febbraio non c’è tanto da mangiare, gli animali sono magri e non si possono macellare… quindi molto meglio spostare tutto a ottobre, quando c’è il raccolto, gli animali sono più grassottelli, e quindi la festa viene meglio. Si festeggia per tre giorni, con una bella processione e delle belle mangiate in campagna. È una tradizione che va avanti da moltissimi anni.
Sàdali (l’accento è sulla prima a) fa parte della Barbagia di Seulo, che è una regione per la maggior parte montuosa; ciò che la caratterizza è la varietà e la spettacolarità dei paesaggi. Pur essendo stato sempre un modesto centro anche Sadali ha la sua storia; una storia lunga e lontana che si perde nei meandri dei secoli. La leggenda vuole che il paese sia stato fondato da un capraio che si sistemò con il suo gregge in una località protetta dal gelo, soleggiata e ricca di acqua e pascoli. Trovandosi bene invitò parenti ed amici a trasferirsi nel sito dando origine ad una nuova comunità che avrebbe preso il nome di “S’aili” cioè la capanna dei capretti. Da qui verrebbe il nome sardo del paese, che è Sadili. La pastorizia, storicamente, è sempre stata l’attività principale, da queste parti.


Si continua con un mulino del 1600, dove è stata ricostruita l’antica macina come doveva essere ai tempi, e poi si fa un po’ su e giù per le vie del paese, che si chiamano in sardo ixinau, cioè vicinato. Cristiana ci spiega che si chiamano così perché nascono, più che come vere e proprie vie, come piccoli quartieri, dove le case non avevano numeri civici ma erano identificate solo in base alla zona. Le strette strade in ciottolato e le facciate di antiche abitazioni lasciano spazio d’improvviso ad ampie vedute della vallata. E arriviamo prima alla Funtana Manna (fontana grande), che alimenta la cascata di San Valentino, e poi a “Sa ucca manna” (la bocca grande), che è proprio la grotta dove un secolo fa vennero gettati i resti delle sepolture che si trovavano sotto le nostre case. Il torrente scorre nella “bocca grande” per 150 metri prima di fuoriuscire nella zona bassa dell’abitato, che si distende sul pendio dell’altopiano detto su Taccu, serbatoio di falde che alimenta una miriade di sorgenti. Durante l’età feudale la forza dell’acqua era usata per azionare vari mulini che costellavano il paese, tra cui quello che abbiamo visto poco fa.











Il giro si conclude con uno sguardo ai tanti murales di Sadali. Dopo Orgosolo, che è stato il primo paese a riempirsi di murales già dalla fine degli anni ’60, il muralismo si è diffuso in molti altri paesi barbaricini e Sadali non vuole essere da meno. Qui si trovano più che altro immagini di vita (e saggezza) contadina e pastorale, radicate nella cultura locale. Per esempio S’Urtzu, un caprone nero manifestazione del dio Dioniso che nasce e muore ogni anno, proprio come fa la vegetazione. Questa è la forza evocativa di una maschera che Sadali annovera da sempre nelle proprie usanze e tradizioni, sin dall’antichità. Il suo valore sacro però si è trasformato nel tempo arrivando ad assumere una veste più carnevalesca. S’Urtzu diventa cosi l’incarnazione di una lotta tra il bene e il male, tra l’uomo e le forze della natura che tenta di dominare tramite riti propiziatori che vengono rievocati in occasione del carnevale quando s’omadori, il pastore che tiene “sa soga” (la cinghia) cerca di dominare s’Urtzu, il rigido inverno e l’oscura forza del male. Le donne di “su pimpirimponi” (un gioco tradizionale delle bambine) aiutano a placare il malvagio con le loro danze e i loro canti. E poi abbiamo Sa corda manna: Sa corda è il tipico piatto sardo ottenuto intrecciando le interiora degli agnellini. A Sadali, in occasione della sagra che si svolge ogni anno, vengono realizzate corde lunghe anche più di 150 metri. Non è proprio uno spettacolo per animalisti, o per vegetariani, ma deve avere una sua suggestione.










E, a proposito di piatti tipici, ormai s’è fatta una certa, come diciamo noi giovani, e cominciamo ad avvertire un certo languorino. Perciò salutiamo Cristiana, che deve andare anche lei al suo pranzo di Pasqua in famiglia, e andiamo a pranzare al ristorante alle Grotte, che oggi è tutto per noi. Qui la tradizione vuole appunto che a Pasqua si pranzi in casa, mentre si può (quasi si deve) mangiare fuori a Pasquetta. Perciò domani – spiega il proprietario – hanno il pienone, mentre oggi hanno davvero aperto solo per noi. Non possiamo che ringraziarli e fare onore alla tavola, che dopo la prevedibile robusta razione di antipasti (salamino, prosciutto, guanciale, ricotta, due tipi di pecorino e due di caprino…), prevede culurgiones al sugo e, come piatto forte, non l’agnello ma lui, il maialetto, altrimenti detto Su porceddu, il re della tavola sarda. In ogni mio viaggio sardo finora non è mai mancato il “Porceddu moment”, e anche stavolta è arrivato (non me ne vogliano i vegetariani). Per finire, non può mancare neanche un assortimento di dolcetti sardi, tra cui anche quelli che sono forse i miei preferiti, i papassini (Sos Papassinos). Sono fatti con un impasto di pasta frolla e uva passa (chiamata appunto papassa), mosto cotto, mandorle, noci, scorza di limone (o arancia) grattugiata, spezie e miele, cotti al forno e glassati. Una delizia. Tradizionalmente sono dolci di Ognissanti, ma ormai si fanno tutto l’anno. Un pranzo con la giusta lentezza, piacevolmente conviviale, con un gruppo che funziona già a meraviglia.


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Dopo di che, per smaltire tutto questo bendidio, niente di meglio che partire per una bella escursione con la quale, sempre a passi lenti e sotto la guida di Doriano, anche lui della Coop. Tre Fate, raggiungeremo la Grotta Is Janas (che per la verità è a pochi passi da qui), la visiteremo e poi partiremo per un percorso di trekking.

Avrete già capito che, con un nome così, questa grotta non potevamo certo perdercela. Ma perché si chiama così? Tutto nasce da una leggenda, come sempre. I nostri nonni – dice Doriano – vedevano le grotte come luoghi ostili, quasi una porta verso il regno del male; luoghi quindi abitati da esseri particolari, soprannaturali e a volte mostruosi. Sappiamo che le janas a volte erano buone e a volte no… quindi a volte fate e a volte streghe. in questo caso la leggenda vuole che un frate, che passava di qui andando verso Seulo, fu attratto dal profumo di dolci che usciva dalla grotta perché le janas stavano preparando le frittelle. Si era nel periodo di quaresima, quasi come oggi che è Pasqua; il frate, affamato, entrò nella grotta dove le janas stavano mangiando, senza rispettare il digiuno. Per questo le rimproverò, ma loro la presero male perché erano a casa loro. Il contatto tra gli umani e le janas è quasi sempre da evitare, soprattutto se loro non vogliono. Perciò le janas, anziché pentirsi, si arrabbiarono molto e picchiarono il povero frate, per poi appenderlo al soffitto della grotta, legato ben stretto a una stalattite, così da renderlo inoffensivo e poter tornare a mangiare le loro frittelle indisturbate in un’altra sala della grotta. All’improvviso, però, arrivò la punizione divina: vennero pietrificate le janas, che diventarono tre stalagmiti, ma anche lo stesso frate, che rimase “appiccau” e si trasformò in stalattite. Effettivamente, guardando la grossa stalattite che rappresenterebbe il frate, con un po’ di fantasia può sembrare di vedere una figura vestita di un saio. Nella realtà questa era una grossa colonna, alla quale manca la parte bassa. Tra 700.000 e un milione di anni fa, in Sardegna, ci furono eventi sismici molto importanti (magnitudo 7-8), e a causa della compressione indotta da questi eventi la colonna si è probabilmente spaccata con un taglio netto nel punto più sottile. La stalagmite deve essere poi crollata nel momento del rilascio della tensione. Probabilmente gli stessi eventi sismici hanno causato il crollo della parte alta della grotta, creando con questo materiale un piano inclinato che arriva all’inizio della seconda sala.
Nella seconda sala si possono vedere delle formazioni tubolari che sono praticamente gli embrioni delle stalattiti, che crescono verso il basso finché c’è una goccia d’acqua che rimane sospesa alla base. Anello dopo anello, il tubicino può arrivare anche a 3 metri di lunghezza, ma avendo le pareti sottilissime crolla poi automaticamente per il suo stesso peso. Se avviene invece un altro fenomeno, cioè arriva acqua con argilla o il calcare cristallizza, l’acqua inizia a scorrere all’esterno e a ingrossare la formazione, che in tempi “geologici” diventa una stalattite.






La grotta è suddivisa in sei ambienti. Nella sala ovoidale lunga 25 metri e larga 8 si trovano le janas diventate secondo la leggenda tre imponenti stalagmiti. Colate, colonne e drappeggi marmorei rendono il luogo affascinante. Dall’alto del soffitto, una tempesta di stalattiti bianche. Superata la sala delle ‘antiche padrone di casa’, si giunge a su Mulinu, terza sala con una massiccia colata color ocra. Vicino c’è una piccola stalagmite che ricorda una Madonna col bambino. L’ambiente successivo è su Longu, un corridoio spoglio sul cui fondo basse colonne si affacciano su un laghetto. Da qui, una lama di roccia che porta all’ultima stanza, che oggi purtroppo non si può vedere: una folta colonia di pipistrelli ne ha fatto il suo riparo.



Doriano ci ha fatto anche un’interessante spiegazione della fauna preistorica, in particolare del Prolagus sardus, un roditore che era l’ultimo del suo genere, presente in Sardegna, Corsica e isole minori a partire dal Pleistocene inferiore e che si estinse molto probabilmente in epoca romana; alcuni indizi lasciano supporre però che possa essere sopravvissuto in piccole isole prossime alla Sardegna (come Tavolara) fino a 300 anni fa circa. Poi c’è anche un cervo gigante che è ancora in fase di studio e che, da frammenti di ossa, è stato datato fino a 800.000 anni fa, un’epoca enormemente più antica rispetto a quella degli altri cervi sardi, che arrivano a 7000-9000 anni fa. È sicuramente il cervo più antico della Sardegna e probabilmente uno dei più antichi al mondo. I resti fossili sono stati trovati nel 2018 nella grotta Su Fossu de Canna, che è un’altra grotta della zona di Sadali.

Oggi nella grotta non c’è molta vita… o almeno non sembra, ma in realtà qualcosa si muove. Noi, grazie all’aiuto di Doriano, siamo riusciti a vedere un piccolissimo gamberetto ipogeo. Questi gamberetti, completamente ciechi e depigmentati (quindi bianchi), vivono in colonie formate da gruppi di oltre dieci esemplari nelle acque carsiche sotterranee e prediligono laghetti ed ambienti acquatici con deboli correnti. Vi agevolo un breve video…
Di pipistrelli non ne abbiamo visti molti, ovviamente nelle parti “turistiche” delle grotte è difficile trovarne: solo uno, molto piccolo e che si mimetizzava così bene da essere difficilmente visibile. Per attenuare la delusione dei bambini, Viola ha l’idea di farci dire da Doriano come si dice pipistrello in sardo… già, ma quale sardo? Lei, da farfalla giovane ma esperta, che pur non essendo “autoctona” ha già volato praticamente in tutta la Sardegna, sa che “pipistrello” è una di quelle parole che basta spostarsi di pochi chilometri e cambiano, in maniera così inaspettata e divertente che… be’, insomma, per esempio a Mogoro, casa delle Mariposas, si dice sizzimurreddu. Ma qui a Sadali si dice napanaponi. Qui, perché poi a 10 km, a Seulo, si dice ferigonca! Andando più lontano, a Sassari si dice tintirriolu, a Nuoro alipedde, a Cagliari ratapinnatu o ratapignata (secondo me il migliore!). È così, giuro. Non mi sono trasformato in Nico di Mai dire Gol (chi di voi se lo ricorda?), ovvero Giovanni Storti; è che davvero esistono più di 40 nomi diversi per il pipistrello in sardo! Poi ditemi che questa non è un’isola meravigliosa…

Usciti a riveder le stelle, ci dirigiamo, passando per l’altra grotta “Is muscas”, verso la nostra meta del pomeriggio, che è la cascata di Su stampu de su Turrunu (il buco del trapano). Su stampu de su Turrunu è un inghiottitoio risorgente le cui acque fuoriescono a cascata da una cavità scavata dall’azione dell’acqua nella roccia calcarea, formando nella caduta un piccolo laghetto per poi confluire nel rio sottostante. La bellezza del luogo, situato in una gola tra le falesie calcaree, è straordinaria; il paesaggio è caratterizzato da un corso d’acqua che crea cascate e pozze in continuazione e da una vegetazione rigogliosa composta da lecci, ontani neri, carpini neri e agrifogli.






Il cielo nel frattempo si è decisamente rannuvolato e minaccia pioggia, ma alla fine vengono solo poche gocce d’acqua. Torniamo indietro con calma, perché il sentiero presenta qualche passaggio non semplicissimo; poi, dalla grotta Is Janas, chi ancora non è troppo stanco può salire ulteriormente fino a un magnifico belvedere, passando da un ovile edificato con pietrame e frascame ben conservato, traccia della storia barbaricina caratterizzata dalla transumanza. Si può vedere anche una carbonaia, ricostruita in piccolo sul modello di quelle che venivano usate per produrre carbone tramite la lenta combustione dei tronchi di leccio in carenza di ossigeno. Per far questo la catasta veniva ricoperta di rami e fogliame fresco, e poi di terra umida.





https://www.escursionisadali.it/
Alla fine dell’escursione, risaliamo sul pullmino rosso: ci aspettano altri 50 km di strada tortuosa per raggiungere Osini, vicino a Ulassai, dove dormiremo per le prossime due notti. Questa volta si tratta di un hotel moderno, anche se nel nome (Hotel dei Tacchi) rende omaggio ai Tacchi d’Ogliastra, che sono monti calcareo-dolomitici il cui nome deriva dalla tipica conformazione simile ad un tacco di scarpa. Sui Tacchi si possono visitare luoghi selvaggi e habitat unici in Sardegna.
Ma noi lo faremo domani, perché questa sera s’è fatto un po’ tardi e la stanchezza per questa Pasqua intensa comincia a farsi sentire, al punto che qualcuno si concede giusto un aperitivo, ma i più vanno a letto senza cena, dopo quattro chiacchiere fatte sorseggiando una tisanina de-tox. Siamo ancora un po’ pieni e sappiamo già che domani ci aspetta un ricco picnic di Pasquetta…
(TO BE CONTINUED…)