Viaggio in Sardegna tra Marmilla, Campidano di Oristano (Penisola del Sinis) e Guilcer con Radio Popolare e ViaggieMiraggi sulle note del Dromos Festival
Seconda parte: Cabras, il Sinis e il Guilcer
Domenica 5 agosto 2018: Terzo giorno – I giganti di Mont’e Prama e le antiche pietre di Tharros
Ultima colazione da Michele Cuscusa: il clima è come sempre allegro e ciarliero ma ci dispiace andare via, ci mancheranno le impareggiabili colazioni di Michele e anche i suoi racconti.
Oggi quello che si racconta è il Michele movimentista: lui ha fatto e fa parte del movimento dei pastori sardi. Dice che si sono dovuti autorganizzare perché il sindacato, ormai, fa solo consulenza: pensa a fare le cose che rendono, e non a difendere realmente gli interessi e i diritti dei lavoratori. Ricorda i blocchi stradali, e le varie volte in cui è stato schedato.
Noi sardi siamo un popolo di pastori, dice Michele, non di pescatori. Sì, ci sono anche i pescatori, ma… e fa un’espressione come per dire: non contano, non sono la vera Sardegna, quella profonda. È per questo che anche la cucina sarda, a ben guardare, è più una cucina di terra che di mare. Quello dei pastori è un mondo antico, fatto di lavoro duro senza sosta, di orgoglio, di attaccamento alla propria terra e alla tradizione. Ma in tutto questo rientrano, apparentemente senza stonare, senza guastarne l’armonia, dei guizzi di modernità difficilmente immaginabili. Ad esempio, abbiamo scoperto che non si usa più marchiare le pecore o pinzarne le orecchie. Ora si fa ingoiare all’animale un bolo che rimane nello stomaco, così la pecora diventa “microchippata” e la si può identificare con un apposito lettore di codici.
Nel frattempo, Diletta sta trattando gli ultimi dettagli per l’acquisto e la spedizione di dieci bottiglie di vino, riuscendo a ottenere anche un pacco di fregola in regalo. Lei è una che di enogastronomia se ne intende, si capisce subito. Un po’ perché la sua terra, l’Umbria, è tra le più ricche in Italia da questo punto di vista, e un po’ perché le capita di occuparsene anche per lavoro: è laureata in scienze politiche indirizzo Relazioni internazionali, specializzata in diritto dell’Unione Europea, e si occupa di consulenza sui fondi europei, diretti e indiretti. Ma soprattutto si è dichiarata fin da subito una mangiona, e devo dire che sta tenendo fede a questa sua dichiarazione, che era anche… programmatica, per quello che riguarda questi giorni. Senza, peraltro, che il suo invidiabile fisico ne risenta. È vero che è talmente alta che, come dire, ha modo di distribuire quello che immagazzina. Starle vicino è imbarazzante, soprattutto per noi… diversamente alti. Praticamente una sua gamba è lunga come me, grosso modo…
Ma, insomma, anche se un po’ a malincuore dobbiamo andare. Le colline e i boschi della Marmilla sono piacevolissimi e ci resteranno nel cuore, ma ci aspetta il mare cristallino di Cabras e della penisola del Sinis.
Partiamo con Silvia alla guida del pullmino e con il reggae degli Arrokibi Roots, il gruppo dove fino a poco tempo fa suonava il fidanzato musicista-ingegnere di Gegia, a farci da colonna sonora. E così siamo sicuri anche di prendere “The Right Directions”… ascoltatevene un pezzetto anche voi, non sono niente male.
Arrokibi Roots – Right Directions
Per quanto, ad indicarci la strada, c’è la macchina di Lalli, anche se ogni tanto corre un po’ troppo per le possibilità del povero pullmino.
Arriviamo a Cabras e, sia pure con qualche difficoltà legata alla viabilità (le strade sono strette, quasi tutte a senso unico, e in alcune col pullmino non si passa o non si riesce a girare), ci sistemiamo tutti nei nostri B&B. Qui ci dovremo dividere in tre posti diversi: uno di questi è una casa antica ristrutturata, molto suggestiva, dove è stato girato recentemente anche un film (Figlia mia, di Laura Bispuri, con Valeria Golino e Alba Rohrwacher). Io sarò alla “Locanda” con Antonella e Umberto; anche il nostro B&B è carino e confortevole, e Giorgia, la padrona di casa, è molto gentile.
Cabras sorge sulle sponde della vasta laguna omonima; l’abitato di origine medioevale possedeva un castello dei signori d’Arborea, di cui permangono scarsi resti sul bordo dello stagno, dietro la cinque-seicentesca Chiesa di Santa Maria. Il paese, popolato da circa 9.000 abitanti, è dalla notte dei tempi vocato alla pesca ed è noto anche per la produzione di ottimi vini, tra cui la Vernaccia.
A Cabras, la prima cosa che dobbiamo fare è visitare il museo civico Giovanni Marongiu, inaugurato nel 1997, che ospita un’ampia raccolta di reperti archeologici che ci consentono di ripercorrere la millenaria storia della penisola del Sinis, la vasta regione che con il capo San Marco delimita a nord-ovest il golfo di Oristano.
L’esposizione museale si articola in diverse sezioni. La prima è dedicata alla località di Cuccuru is Arrius, sita lungo la sponda meridionale dello stagno di Cabras, dove recenti scavi hanno evidenziato fasi di frequentazione particolarmente intense in età preistorica e protostorica. La seconda è riservata all’antica città di Tharros, fondata dai Fenici all’estremità meridionale della penisola e fiorente centro urbano anche nelle successive età punica e romana. Tharros la visiteremo poi nel pomeriggio.
Nel 2014 è stata aggiunta una nuova sezione dedicata ai Giganti di Mont’e Prama, considerati le prime sculture a tutto tondo del Mediterraneo: statue megalitiche dalla forma umana con occhi concentrici e dalla genesi sconosciuta. È questa la sezione del museo che ci interessa di più e sulla quale ci concentreremo, con l’aiuto di una guida.
La necropoli di Mont’e Prama (Monte della Palma) si trova alla base del colle omonimo, a una distanza di circa 2 km dallo stagno di Cabras. La scoperta del sito avvenne casualmente nel marzo del 1974 ad opera di contadini che eseguivano lavori agricoli. Seguirono diversi interventi di scavo e di recupero, tra il 1975 e il 1979, condotti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici di Cagliari e Oristano e dall’Università degli Studi di Cagliari. La prima campagna di scavo fu condotta nel 1975 e consentì di individuare una decina di sepolture a cista litica quadrangolare e altre a pozzetto circolare, alcune delle quali associate a materiali ceramici nuragici.
Con il secondo intervento, condotto tra il 1977 e il 1979, vennero individuate altre trenta tombe allineate su un unico filare da sud a nord, più altre tre poste ad est delle precedenti; immediatamente a ridosso delle tombe fu riconosciuto un tratto di strada cerimoniale con lo stesso orientamento. Le sepolture, scavate nel terreno, sono del tipo a pozzetto subcilindrico, con un diametro da 60 a 70 cm e una profondità dai 70 agli 80; queste erano coperte da lastroni quadrangolari di arenaria gessosa. Gli individui sepolti, in posizione seduta o inginocchiata, appartengono ad entrambi i sessi e sono tutti in età adulta. La posizione è stata dedotta dal ritrovamento delle ossa del cranio all’interno della cavità dove si trovavano le viscere. Le tombe scavate con il secondo intervento erano del tutto prive di corredo, ad eccezione di una che ha restituito uno scaraboide egittizzante di incerta attribuzione. Queste erano ricoperte da un accumulo di materiali scultorei in cui erano compresi 5178 frammenti di statue maschili e di altri elementi scultorei in calcare arenaceo. Tali materiali, recentemente restaurati nel Centro di Conservazione e Restauro di Li Punti (Sassari), sono pertinenti a statue maschili, modelli di nuraghe e betili (personificazioni della divinità). Le 28 statue finora identificate, tutte frammentarie, rappresentano 16 pugilatori, 5 arcieri e 5 guerrieri. I pugilatori indossano un gonnellino e sono a torso nudo; proteggono la testa con uno scudo tenuto dalla mano sinistra posta alla sommità del capo, mentre la mano destra, protetta da un guanto, regge l’altro lato dello scudo. Gli arcieri, che indossano una corta tunica e una protezione sul petto, hanno un elmo a due corna sulla testa da cui spuntano lunghe trecce; il braccio sinistro, protetto da una guaina e da un guanto, tiene un arco. Il braccio destro ha avambraccio e mano protesi in avanti. Le gambe sono protette da schinieri. La presenza di frammenti non riconducibili alle iconografie descritte ha suggerito la possibilità che vi siano altre figure di guerriero tra cui quella connotata dalla presenza dello scudo. Quasi certamente il modello di riferimento furono i bronzetti, piccole statuine in bronzo dei quali le statue in pietra riprendono abbastanza fedelmente i personaggi e gli stilemi. Allo stato attuale degli studi sulla civiltà nuragica, si ritiene che la necropoli di Mont’e Prama possa aver costituito lo spazio funerario riservato ad un gruppo familiare dominante nella società nuragica della Prima età del Ferro.
Per quasi quarant’anni, ci racconta la guida, tutto il materiale recuperato è rimasto di nuovo sepolto e quasi dimenticato in uno scantinato del Museo Archeologico di Cagliari. Poi però è stato varato il progetto “Sistema Museale di Mont’e Prama”, che prevede due fasi espositive, una temporanea, inaugurata il 22 marzo 2014, e una definitiva, che prevede l’ampliamento del Museo di Cabras per poter riunire il complesso statuario in un’unica sede museale.
L’esposizione temporanea si sviluppa su due poli espositivi, il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, in cui si offre la lettura delle statue all’interno del disegno complessivo dell’archeologia sarda e mediterranea, e il Museo Civico di Cabras, in cui invece vengono approfonditi il contesto della scoperta, il luogo e le condizioni di rinvenimento, all’interno di un percorso che attraversa tutta l’archeologia del Sinis.
Nel Museo di Cabras, in particolare, è esposta una selezione di statue maschili, sei in totale (tre pugilatori, due arcieri e un guerriero), oltre che quattro modellini di nuraghe.
All’esterno del museo, nel cortile, si trova la riproduzione, a grandezza… naturale, quindi molto più grande dell’originale, di una statuina femminile della Dea Madre, di epoca neolitica, ritrovata a Cuccuru is Arrius.
La guida ci racconta anche, con orgoglio, che il museo ha vinto un importante premio internazionale battendo addirittura Stonehenge.
Stefania mi fa notare che c’è una curiosa somiglianza tra i giganti e il robot di Star Wars… sapete, C-3PO… insomma, lui:
Questo potrebbe accreditare l’ipotesi dei nuraghi porte cosmiche… c’è da pensarci su.
Lasciamo il museo per dirigerci verso la spiaggia di San Giovanni di Sinis. L’archeologia ci affascina, ma ora c’è anche un po’ di voglia di vedere finalmente questo mare, e di fare un tuffo rinfrescante. Questa mattina siamo partiti con il costume sotto ed è giunto il momento di usarlo… o quasi. Dato che nel frattempo s’è fatta l’ora di pranzo, ci concediamo prima uno spuntino in un bar nei pressi della spiaggia. Spuntino abbondante a dire il vero, a base di insalatone, patatine e birra gelata.
È durante questa pausa che scopro qualcosa che per me è sensazionale: Antonella e Umberto hanno un gatto che si chiama Lopez! L’associazione mi viene istantanea. “Ma… Lopez come Gato Lopez? La canzone degli Ska-p?” – chiedo – e Antonella mi conferma che sì, è proprio per quello. Ovviamente il nome è stato scelto dai loro figli, lei e Umberto hanno un’idea abbastanza vaga del perché, ormai lo hanno accettato come una cosa normale. Be’, per chi non lo sapesse, gli Ska-p sono una leggendaria band di ska-punk, che ormai si è sciolta da qualche anno e che veniva dagli ambienti dei centri sociali e dalla periferia sudest di Madrid, Vallecas per la precisione. Gato Lopez, un pezzo del primo disco, a metà degli anni ’90, è per loro un brano fortemente simbolico, da cui è nato anche il logo che hanno poi utilizzato per tutta la loro carriera. Loro sono naturalmente una band di estrema sinistra e Gato Lopez è un gatto operaio, un randagio tosto che si contrappone ai gatti dei padroni e dei borghesi, agli “aristogatti” insomma, che è perennemente in cerca un po’ di cibo nella spazzatura e perennemente inseguito da “perros policia”, cani poliziotto. Perché lui “desde cachorrito ya bailaba ska”, già da cucciolotto ballava lo ska, e soprattutto “no està adomesticado, ama la libertad!” (qui non serve traduzione). Praticamente, è questo micetto qua:
Insomma, è stupendo: forse si è capito, ma gli Ska-p quando ero giovane (sob) sono stati tra i miei idoli musical-politici e non pensavo che avrei mai trovato un gatto che si chiama davvero Lopez. Ma è anche da queste cose che si capisce che è un gruppo di Radio Popolare…Non è male anche scoprire che Gato Lopez rappresenta qualcosa anche per i figli di Antonella e Umberto, che sono decisamente molto più giovani di me.
Rinfrancato da questa scoperta, mi avvio con il gruppo verso la spiaggia. Il tempo oggi non è eccezionale, a tratti il sole si copre, ma anche questo non è male per chi ha la pelle chiara come me. Io ho bisogno di espormi in modo molto graduale e di usare per le parti più sensibili come minimo una protezione 30, se no vado incontro a scottature epocali. E quindi qui, avendo solo tre giorni di mare, mi incremerò per bene le parti che finora quest’estate non ho mai esposto, ben sapendo e dando per scontato che tornerò a casa con la più classica delle abbronzature da muratore.
Tra l’altro devo dire che a livello di pelle c’è chi è messo peggio di me: per non fare nomi Stefania, la psichiatra del gruppo, che è una grande arrampicatrice (non sociale, però, eh?) ma è poco avvezza alla vita da spiaggia, tant’è vero che non è riuscita a imparare a nuotare neanche facendo il corso con la terza età (parole sue, spero che mi perdonerà…). Per completezza d’informazione, lei sostiene di possedere la verità su questo argomento: sono sbagliati quelli che nuotano, non quelli che vanno a fondo, giacché tutta l’evoluzione di noi umani procede dall’acqua a fuori dall’acqua; per cui gli umani che non sanno nuotare sono quelli più avanti nella scala evolutiva. È una teoria affascinante. Ma, per dirla tutta, neanche Diletta sa nuotare, anche se poi durante il viaggio l’ho vista fare progressi…
Comunque la spiaggia è decisamente bella e tranquilla, è libera e di gente non ce n’è tantissima. Abbiamo la possibilità di piantare tranquillamente i nostri ombrelloni e di goderci un primo bagnetto: l’acqua è una favola, pulita e a temperatura perfetta.
Verso le 17 veniamo via, perché di sole praticamente non se ne vede più ma soprattutto perché abbiamo programmato, nel tardo pomeriggio per evitare di farla con il sole a picco, la visita del sito archeologico di Tharros.
Le ragazze ci devono temporaneamente abbandonare perché devono andare a prendere Roberta, la cugina di Silvia, che vive a Firenze ma che ogni estate viene in Sardegna e che si unirà al gruppo da questa sera.
In loro assenza, per acclamazione viene eletta vice-guida, cioè vice-mariposa, Diletta, che ha varie caratteristiche che ben si adattano al ruolo: la si segue facilmente, vista la statura, senza neanche bisogno dell’ombrellino da guida (anche se, per lo stesso motivo, ogni tanto tende ad allungare il passo fino a una falcata che per noi non è neanche avvicinabile); ha una bella parlantina ed è preparata, se non altro conosce il programma di viaggio meglio della media del gruppo, me compreso, ma non solo questo.
Lei è contenta e anche piuttosto compresa nel ruolo, anche se un po’ si schermisce con una battuta molto divertente: “Io sto ancora studiando da farfalla, al massimo potrei essere un bruco”. Come bruco è il bruco più lungo che abbia mai visto, però l’immagine funziona e da quel momento diventa “Diletta la bruchetta”.
Guidati quindi dalla nostra bruchetta, ci avviamo verso la biglietteria del sito archeologico, dove però ci informano che la prossima visita guidata è prevista per le 18.30. Decidiamo quindi di fare un piccolo cambio di programma e di andare a vedere prima la torre di San Giovanni.
Tra il XVI e il XVII secolo, su iniziativa della Corona di Spagna, furono costruite lungo il litorale del Sinis di Cabras le torri di San Giovanni, di Torre Vecchia (o di San Marco) e del Sevo (Turr’e Seu). Come le altre torri costiere sarde, esse furono edificate per proteggere le popolazioni locali dalle incursioni dei pirati e dei corsari barbareschi provenienti dal vicino Nord-Africa. La torre di S. Giovanni, così denominata per essere vicina alla chiesa di San Giovanni di Sinis, fu costruita tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo sulla sommità dell’altura (50 m s.l.m.) che sovrasta l’area archeologica di Tharros. Di notevoli dimensioni e con ampio dominio visivo sul Golfo di Oristano e verso il mare aperto, era armata con cannoni e spingarde e presidiata da una guarnigione composta da un alcaide, un artigliere e quattro soldati. La torre fu costruita, si suppone, sui resti di un nuraghe monotorre e di una torre punica, con pietre di spoglio della città di Tharros; essa si compone di due corpi cilindrici sovrapposti con un diametro di base di 14 m e un’altezza complessiva di 15 m. L’ingresso si apre ad una quota di circa 8 m da terra, raggiungibile oggi tramite un vano scala esterno realizzato nell’Ottocento; un’ampia sala circolare voltata a cupola, illuminata dall’alto tramite un lucernario, presenta sul pavimento una botola che permetteva l’accesso alla cisterna per la raccolta dell’acqua piovana, mentre intorno si collocano il caminetto e il locale della “santabarbara”. Dalla terrazza, accessibile tramite una scala interna, si gode una magnifica vista su Capo San Marco. L’edificio è stato restaurato tra il 1987 ed il 1990.
E ci accingiamo quindi alla visita dell’importantissimo sito archeologico di Tharros, con la nostra guida, il simpaticissimo Renzo.
La città di Tharros, ubicata all’estremità meridionale della Penisola del Sinis, venne fondata alla fine dell’VIII sec. a.C. o nel VII da genti fenicie in un’area già frequentata in età nuragica. Su una delle tre colline su cui sorge la città, la più settentrionale, nota con il nome di Su Murru Mannu (in sardo “grande muso”), è visibile ancora oggi un importante villaggio protostorico (età del Bronzo medio-recente) che doveva essere già abbandonato al momento dell’arrivo dei Fenici. I resti di un monumento nuragico sono stati riconosciuti alla base della torre spagnola del colle di S. Giovanni; altri due nuraghi si trovano sul Capo S. Marco, uno nella parte più alta del promontorio, l’altro presso l’insenatura di Sa Naedda.
L’arrivo dei Fenici dall’attuale Libano-Siria, nell’VIII secolo a.C., e la fondazione della città su un’area al riparo dai forti venti occidentali coincidono con un momento di straordinaria attività coloniale da parte dalle genti levantine in tutto il bacino occidentale del Mediterraneo. Tharros era, per i Fenici che erano grandi navigatori, un approdo doppiamente strategico. Ci hanno spiegato che il golfo di Oristano è un tratto di mare molto protetto e quindi molto calmo con il vento prevalente, che come si sa qui è il maestrale. Così calmo che nella tradizione viene chiamato addirittura “Mar morto”. Ma se il vento soffia nella direzione opposta, da scirocco o da levante, ecco che il golfo può essere agitato, e calmo il mare aperto. Qui a Tharros, data la sua posizione sul capo, erano possibili due approdi: col vento dominante di maestrale si approdava nel golfo “a mar morto”, ma col vento da direzione contraria si poteva approdare sull’altro lato, “a mare vivo”, che in quel caso si appiattisce come fosse mar morto. I Fenici sapevano navigare anche di notte, orientandosi con la stella polare che infatti i greci chiamano “stella fenicia”.
I Fenici erano anche un grande popolo di commercianti. Un’altra ragione che li trattenne qui era l’opportunità di scambi con le popolazioni autoctone nuragiche che già abitavano questo territorio. Cercavano materie prime, soprattutto metalli come ferro e argento.
Non conosciamo tuttavia l’esatta ubicazione dell’abitato fenicio, che certo non doveva avere carattere di monumentalità, mentre abbiamo alcune testimonianze di ambito funerario e votivo. Fin da questo periodo sono in uso contemporaneamente due necropoli, ubicate a una distanza di qualche chilometro l’una dall’altra: quella più nota è posta sul Capo S. Marco, l’altra, mai indagata in maniera sistematica, si trova oggi all’interno del villaggio moderno di S. Giovanni di Sinis.
Quanto all’ambito del sacro, si possono ricordare i materiali più antichi rinvenuti nel tofet, il tipico santuario fenicio-punico a cielo aperto, circondato da un recinto sacro e contenente le urne, con i resti incinerati dei bambini morti in tenerissima età e degli animali sacrificati, e le stele in pietra con il simbolo o l’immagine della divinità posta su un trono o all’interno di un tempietto in miniatura. Ancora si discute sulla natura del santuario tofet (la parola è di origine ebraica), se luogo di sacrificio dei fanciulli in offerta alla divinità o, più probabilmente, necropoli destinata ai bambini nati morti o a quelli deceduti prematuramente prima di aver subito un rito di passaggio e dunque di essere stati accolti nella comunità degli adulti. Gli storici sono divisi, ma alcuni sottolineano che le fonti che accreditano la teoria del sacrificio dei bambini sono storici greci e romani, cioè di due popoli storicamente nemici dei fenici e dei punici, per cui potrebbe trattarsi in realtà di una storiografia influenzata da una propaganda ante litteram.
Nella seconda metà del VI secolo, momento di grandi cambiamenti non solo in Sardegna per il prevalere della politica espansionistica di Cartagine, Tharros non sfugge al controllo da parte della metropoli africana. Ad età punica deve riferirsi la monumentalizzazione della città il cui centro viene ora a trovarsi sul versante orientale della collina di S. Giovanni. Nel periodo compreso tra la fine del VI secolo e il 238 a.C., anno della conquista romana dell’isola, vengono costruiti numerosi edifici che ancora in parte si conservano sotto quelli di età successiva.
Il tofet, che viene ora compreso all’interno dello spazio fortificato, continua la sua attività, subendo varie risistemazioni dovute anche al saturarsi degli spazi per l’alto numero delle deposizioni (si sono recuperate circa 5000 urne e oltre 300 stele). Da notare che nell’area immediatamente ad ovest del santuario, nello spazio compreso tra questo e le mura, si impianta, verosimilmente alla fine del V sec. a.C., un importante quartiere artigianale specializzato nella lavorazione del ferro.
Ad età punica sono da riferire alcuni tra i più importanti luoghi di culto di Tharros, tra cui il cosiddetto tempio monumentale o “tempio delle semicolonne doriche”, una struttura in parte risparmiata nel bancone naturale di roccia, in parte costruita con grossi blocchi squadrati. Tale monumento, in gran parte smontato in età primo-imperiale, doveva essere costituito da una grande piattaforma gradonata al culmine della quale doveva ergersi un tempietto o un altare.
A partire dalla conquista romana dell’isola, avvenuta nel 238 a.C., inizia un processo di profondo cambiamento che ebbe compimento solo in età romano-imperiale. Ad età repubblicana viene attribuita la risistemazione delle fortificazioni di Su Murru Mannu. Per quanto riguarda gli edifici di culto, va segnalato il cosiddetto “tempietto K”, attribuito al II secolo a.C. che, pur rifacendosi a schemi architettonici tipicamente italici, conserva alcuni elementi di tradizione punica.
Nella successiva età imperiale la città si trasforma notevolmente. Viene effettuata una imponente risistemazione urbanistica che prevede l’organizzazione secondo schemi ortogonali del quartiere di Su Murru Mannu; attorno al II secolo d.C. le strade vengono dotate di una pavimentazione in basalto e viene realizzato un sistema fognario molto articolato per lo smaltimento delle acque bianche. Vengono edificati numerosi edifici pubblici monumentali, tra cui tre impianti termali, ubicati nella parte centrale della città, a poca distanza l’uno dall’altro. Tali edifici, realizzati in laterizi, erano dotati di spogliatoi, ambienti riscaldati artificialmente e altri in cui potevano farsi dei bagni freddi, in vari casi decorati con mosaici policromi. Ancora ad età imperiale deve attribuirsi l’acquedotto, i cui resti sono in parte visibili lungo la strada moderna che conduce agli scavi; a questo viene connesso il cosiddetto castellum aquae, un grande edificio posto al centro della città, all’incrocio tra le due principali arterie stradali. La struttura, di pianta quasi quadrata, con all’interno otto pilastri delimitanti tre navate, pareti prive di aperture verso l’esterno e con tracce di malte idrauliche, viene generalmente interpretata come deposito dell’acqua portata a Tharros dall’acquedotto; davanti ad essa sono stati riconosciuti i resti di una fontana monumentale.
In età paleocristiana e altomedievale le principali strutture pubbliche romane subiscono delle modifiche; in particolare le terme vengono annesse ad un complesso cultuale cristiano o cambiano comunque d’uso.
Il continuo spoglio delle strutture antiche, perpetrato per secoli, ha notevolmente pregiudicato la ricostruzione di questa fase tarda della storia del centro. Sappiamo di una lenta decadenza, dovuta anche alle incursioni dei Saraceni, e di un progressivo spopolamento. Fino al 1000 Tharros mantenne un ruolo di preminenza rispetto ai paesi vicini, poi, con le continue incursioni dei Saraceni, gli abitanti furono costretti a spostarsi verso l’interno. La costruzione del nuovo centro avvenne con l’ausilio dei materiali del vecchio insediamento, come anche nei secoli successivi Tharros fu costantemente soggetta alla spoliazione delle sue antiche pietre. Questo fatto è rimasto nella cultura locale fino al giorno d’oggi. Lo scopriamo grazie a un piccolo quiz del nostro Renzo che, dopo essersi accertato che non ci siano sardi tra noi, ci chiede di provare a tradurre l’espressione sarda “Portant de Tharros sa perda a carros”. Io ci provo e vado anche parecchio vicino alla soluzione giusta, dicendo “Da Tharros si portano via la preda coi carri”. Ma sono stato tratto in inganno dalla parola perda: io ho pensato alla preda, nel senso di bottino, che aveva comunque un senso. In realtà significa pietra, quindi “Da Tharros si portano via la pietra coi carri”, cioè a dire “a carrettate”. Renzo mi fa lo stesso i complimenti, dicendo che si trattava comunque di una buona traduzione letterale. “È sicuro che non ha origini sarde?” – mi fa. Ma io rispondo di no, che non ne ho. Probabilmente parlare spagnolo aiuta, con il sardo, ma comunque era abbastanza intuibile. Insomma, diciamo che ho fatto la mia porca figura…
E quindi direi che, visto anche che è una giornata dove c’è stata molta archeologia, è giusto che perda = pietra sia la parola sarda del giorno.
Già dal XVII sec. le necropoli di Tharros erano meta di cercatori di tesori, attirati dalla ricchezza dei corredi funerari. Fu però nel corso dell’Ottocento che si compì l’esplorazione e lo scavo delle aree necropolari, soprattutto con interventi non scientifici che determinarono la distruzione di parte delle tombe e la dispersione dei materiali.
Tanta era la fama della necropoli che perfino il Re Carlo Alberto e suo figlio Vittorio Emanuele nell’aprile del 1841 presenziarono e parteciparono allo scavo di alcune sepolture.
Solo nel 1850, però, fu condotta la prima indagine scientifica ad opera del Canonico Giovanni Spano, prontamente pubblicata nelle Notizie sull’antica città di Tharros. L’intervento effettuato nell’anno successivo dall’inglese Lord Vernon, che partì da Tharros con il prezioso contenuto di oltre quattordici tombe a camera inviolate, scatenò quella sorta di «caccia all’oro» che vide circa cinquecento uomini di Cabras e dei paesi vicini operare uno dei più grandi saccheggi che la necropoli mai conobbe; per tre settimane, alla disperata ricerca di gioielli e suppellettili varie, questi uomini, scavando giorno e notte, depredarono più di cento tombe, contribuendo alla dispersione dei corredi in numerosissime collezioni pubbliche e private.
Negli anni successivi, così come anche era avvenuto in precedenza, continuò l’opera di saccheggio sistematico da parte di cercatori occasionali che contribuirono ulteriormente alla dispersione dei corredi.
Dopo la fortunata stagione degli scavi ottocenteschi, effettuati principalmente nella necropoli meridionale, Tharros per oltre un cinquantennio non conobbe ricerche regolari. È probabile però che scavi clandestini siano continuati soprattutto nelle sue necropoli, benché non se ne abbia notizia ufficiale.
La ripresa delle indagini, avvenuta nel 1956, si deve alla pervicace volontà dell’allora Soprintendente Gennaro Pesce che, con fondi della Cassa per il Mezzogiorno, poté scavare per lunghi periodi, dal 1956 al 1964, ampi tratti della città. La scelta del Pesce ricadde infatti non sulla necropoli meridionale, che appariva ormai irrimediabilmente compromessa e devastata, ma sull’abitato punico-romano che, grazie alla presenza di strutture affioranti in superficie, venne correttamente individuato sul versante orientale del colle di S. Giovanni. E da lì gli scavi, in diverse fasi, sono andati avanti fino al giorno d’oggi.
L’abitato della città punico-romana di Tharros si sviluppa sul versante orientale del Colle di S. Giovanni e sull’altura di Murru Mannu, quest’ultima indagata solo in minima parte.
Per quanto riguarda la prima area, il lungo utilizzo, lo spoglio che ha interessato la città da epoca medievale e la mancanza di dati di scavo impediscono di datare in maniera puntuale le strutture che si sviluppano senza soluzione di continuità lungo tutto il versante orientale del colle. I quartieri di San Giovanni, verosimilmente di origine punica, si dispongono su terrazzamenti digradanti scavati nel banco di arenaria affiorante.
I pavimenti erano costituiti da semplici battuti in terra o erano rivestiti in cocciopesto (calce, inerti e piccoli frammenti ceramici); le coperture erano piane e realizzate con elementi vegetali (travi lignee, canne, frasche). L’approvvigionamento idrico era assicurato dalla presenza di cisterne a “bagnarola”, vale a dire di forma allungata con i lati corti arrotondati, coperte con lastre poste in orizzontale o contrapposte (“a schiena d’asino”); tali cisterne sono tipiche del mondo punico, ma continuano ad essere realizzate ed utilizzate anche in età successiva.
L’impianto viario risulta assai irregolare, probabilmente perché di tipo punico; le strade in tale epoca sono a fondo naturale rappresentato dalla roccia affiorante; questa talvolta era segnata dai solchi prodotti dal passaggio dei carri. Alcuni di questi solchi sono ben visibili ancora oggi.
In età imperiale l’abitato subisce interventi di urbanizzazione importanti che prevedono anche l’impianto di un efficace sistema fognario scavato al di sotto del piano stradale in cui confluivano le acque reflue sia degli edifici pubblici che di quelli privati, scaricando poi a mare. Nella stessa epoca le strade irregolari a fondo naturale di epoca punica vengono lastricate in pietra vulcanica nera (basalto).
Nel quartiere di Murru Mannu, urbanizzato probabilmente in età romana, le strade si sviluppano con un impianto ortogonale, vale a dire si intersecano ad angolo retto, delimitando così isolati di forma regolare. La strada più importante di tale settore, denominata cardo maximus, è stata interpretata come via cerimoniale in quanto non presenta traccia di solchi carrai; su di essa si aprivano numerosi edifici privati, alcuni dei quali probabilmente destinati ad accogliere botteghe artigianali.
Il Tempio delle semicolonne doriche è il principale edificio di culto punico, ubicato al centro della città. La caratteristica principale del tempio, detto “monumentale” per la sua imponenza, è il fatto di essere costituito da una rampa gradonata non costruita, ma risparmiata nel bancone di arenaria. La roccia affiorante, infatti, appare tagliata in maniera tale da far risaltare la struttura al centro di uno spazio ribassato, circondato da un muro costruito con grandi blocchi squadrati.
Per la struttura sono state ipotizzate tre fasi di vita. Nella prima, di età arcaica, l’area sacra doveva comprendere un roccione di forma irregolare, con numerosi fori, interpretati in relazione ad offerte votive e rituali. Nella seconda fase, datata invece tra il IV e il III sec. a.C., il roccione originario sarebbe stato regolarizzato in forma di parallelepipedo con la parte più alta decorata su tre lati da semicolonne doriche e lesene (semipilastri) a rilievo. Le semicolonne e le lesene dovevano essere sormontate in origine rispettivamente da semicapitelli dorici ed eolico-ciprioti, scolpiti su blocchi di arenaria poggiati sul basamento, tutti trovati fuori posto. Al di sopra della struttura è stata ipotizzata la presenza di una cappella ospitante il simulacro divino, oppure di un semplice altare.
In una terza fase, infine, il tempio punico venne obliterato con un vespaio in calce e pietrisco su cui si impostò il pavimento di un nuovo santuario romano con un tempietto poggiante sul basamento quadrato costituito da blocchi prelevati dal tempio precedente, ancor oggi visibile a est del basamento punico. A questa fase viene riferita la costruzione di una grande cisterna posta lungo il lato meridionale del monumento punico.
La struttura del Tempio tetrastilo (con 4 colonne), messa in luce da G. Pesce negli anni Cinquanta, venne impiantata probabilmente nel I sec. a.C. su una potente colmata che sigillò strutture preesistenti. Del tempio si conserva parte del basamento rettangolare in blocchi squadrati di arenaria su cui si sviluppava il resto dell’edificio. Subito dopo lo scavo, per fini puramente turistici, vennero ricostruite due delle colonne del pronao e su una di queste venne collocato un capitello di ordine corinzio-italico appartenente al tempio.
Le terme, in alcune parti assai mal conservate, comprendevano uno spogliatoio (apodyterium), tre vani riscaldati (due calidaria e un tepidarium), due praefurnia (fornaci per il riscaldamento dei vani) e vari ambienti di servizio.
C’è anche l’anfiteatro dove domani sera si terrà il concerto, molto atteso, dell’artista maliana Fatoumata Diawara.
Terminata la visita a Tharros, torniamo verso Cabras per concederci una doccia e/o un riposino pre-cena. Oggi abbiamo saltato la siesta pomeridiana, quindi una pausa è d’obbligo. Dopo di che, potremmo andare alla fiera del calamaro fritto, che c’è questa sera in Piazza Stagno, nel pieno centro di Cabras, e che propone anche musica popolare sarda. La maggioranza di noi preferisce però una bella cena tranquilla, gambe sotto il tavolo come si dice, e con un menù più vario, quindi optiamo per il ristorante Leopardi. È l’occasione anche per conoscere Roberta, la cugina di Silvia, che da questa sera sarà con noi per questi giorni tra Cabras e il Sinis. Lei vive a Firenze, ma almeno per metà le sue origini sono in Marmilla, nel paese di Silvia, che è Simala, vicino a Mogoro.
Il menù proposto è indubbiamente allettante, e il cibo tutto di qualità: si parte con un bel giro di antipasti di pesce (suggerito proprio da Roberta), che comprende tra l’altro bottarga, muggine, anguille e burrida (esistono diverse varianti di burrida in Sardegna, ma la nostra è quella tipica di Cabras, a base di ali di razza, passata di pomodoro, limone, prezzemolo, aglio e basilico). Poi sui primi ci dividiamo: io mi oriento sulla fregola con i frutti di mare. E per finire, come dolce, un’altra tipica delizia sarda: la seada, che è un “raviolone” di pasta sfoglia di semola, ripiena di pecorino, fritta e guarnita con zucchero o (come nel nostro caso) miele.
Anche stasera la chiacchiera è piacevole, il cibo pure, e così tiriamo tardi e non c’è più tempo di fare un salto alla fiera del calamaro fritto. Anche perché a mangiare non ce la faremmo più, e la musica è decisamente cambiata: dalla musica tradizionale sarda siamo passati ad un dj set a base di techno e house… meglio andare a dormire, o provarci almeno, visto che il nostro B&B dà proprio su Piazza Stagno.
Lunedì 6 agosto 2018: Quarto giorno – L’isola di Malu Entu e l’energia di Fatou
Prima colazione da Giorgia: non possiamo pretendere che sia come quelle di Michele, ma tutto sommato non ci possiamo lamentare neanche qui. Se non altro abbiamo frutta fresca in abbondanza, che è già un buon inizio. Per di più siamo su una bella terrazza con vista mare, e abbiamo a farci compagnia le due gatte di Giorgia, mamma gatta e la sua cucciolina, che sono entrambe ghiotte di yogurt e quindi si piazzano con aria supplichevole nei pressi dei nostri tavoli nella speranza che, prima o poi, qualcosa arrivi. Ogni tanto si distraggono giocando tra loro, ma per lo più sono lì in vigile attesa. Ovviamente hanno cibo in abbondanza, ma è la gola che le spinge… e noi non possiamo non farci intenerire, per cui a turno allunghiamo all’una o all’altra il vasetto vuoto, che loro ripuliscono leccandolo con grande impegno e dedizione.
Oggi è il giorno dell’isola di Mal di Ventre, per cui c’è nel gruppo una certa attesa. Ci vengono a prendere Silvia e Lalli, carichiamo gli ombrelloni sul pullmino e partiamo per la spiaggia di Mari Ermi, da cui prenderemo la barca per l’isola. Abbiamo appuntamento anche con Claudio e Rossana, che oggi saranno con noi per tutto il giorno.
L’isola (che fa parte dell’Area Marina protetta Penisola del Sinis – Isola di Mal di Ventre) è un affioramento lungo 2 km su un mare di smeraldo, fatto di graniti paleozoici coronati da lentisco e altre essenze mediterranee, regno di conigli, tartarughe e rettili.
Saliamo sulla barca e, dopo esserci assicurati che anche chi non sa nuotare sia in totale sicurezza con il suo bravo giubbotto salvagente dotato di fischietto, partiamo a tutta verso l’isola. Il nostro timoniere ci racconta che il curioso nome dell’isola viene dalla deformazione linguistica di malu ‘entu (cattivo vento). Sì, perché l’isola si trova fuori dal golfo di Oristano, in mare aperto (o mare vivo), e quindi quando soffia il vento dominante di maestrale qui il mare può essere molto mosso. Ancora più specificamente, se uscendo dal golfo si fa rotta verso l’isola la bussola segna nordovest, quindi esattamente contro il vento di maestrale. Per questo l’isola si chiama così, malu ‘entu. Ma oggi la giornata è stupenda, il mare è una tavola e di vento praticamente non ce n’è. Dice Silvia che così noi milanesi non ci sentiamo stontonare, che vuol dire traballare, barcollare. Abbiamo già due potenziali parole sarde del giorno, ma direi che la scelta non può che cadere su malu ‘entu.
L’isola è interessata, come area protetta, da tre diversi livelli di protezione.
La zona C, che riguarda il lato est, è l’area più vasta e quella con il minore livello di protezione. Qui c’è divieto di pesca subacquea, e gli altri tipi di pesca devono comunque essere autorizzati.
La zona B ha un grado di tutela generale. In questa zona tutte le attività devono essere improntate a criteri di uso compatibile della risorsa, con il controllo del numero degli utilizzatori e dei suoi metodi di utilizzo. Sono consentite le attività secondo le modalità stabilite dall’Ente Gestore, alcune delle quali previa autorizzazione.
La zona A è quella più piccola e prevede un grado di tutela integrale. Comprende la parte settentrionale dell’Isola di Mal di Ventre e lo scoglio del Catalano. La Zona A ha un elevato livello di protezione degli habitat e delle specie. In essa è consentito l’accesso ai soli mezzi autorizzati e al personale autorizzato per la ricerca e la sorveglianza.
Sull’isola ci sono anche i resti di un nuraghe e di una villa romana, e c’è un’altra curiosità: anni fa un indipendentista sardo aveva fondato la sua repubblica autonoma qui su quest’isola, prima di essere arrestato.

Lalli

Magali in posa da diva
Sbarchiamo sull’isola ed è un vero paradiso terrestre: sabbia bianca finissima, mare di mille colori dal blu intenso al turchese al verde smeraldo, fino a diventare chiaro e trasparente in prossimità della riva. E un’infinità di piccole calette tra cui scegliere, dove passare una giornata di puro relax. Volendo ci si può anche avventurare all’interno della macchia che si trova al centro dell’isola, ma ci hanno sconsigliato di… darci alla macchia, appunto, perché pare che succeda spesso che qualcuno, allontanandosi troppo dalla spiaggia, si perda e non riesca più a trovare una via d’uscita: è meglio camminare sulla battigia, tanto l’isola non è molto grande e ci si può spostare anche così.
Noi per la verità, inizialmente, trovato un buon posto per piantare gli ombrelloni, preferiamo farci subito un bel bagno e poi goderci il sole (io sempre con una certa moderazione). La spiaggia è praticamente tutta per noi, o quasi. La gente che arriva qui è poca, anche per questioni legate all’accesso in un’area protetta, e le calette sono tante, quindi ci si distribuisce facilmente.
Dopo il bagno c’è il tempo per una passeggiata: con Silvia, Claudio e Laura, dopo aver percorso un bel tratto di spiaggia, ci addentriamo un pochino nella macchia, sia pure con prudenza. E siamo in mezzo al lentisco quando viene l’ora del collegamento con la radio, con Elena Mordiglia che in questo periodo conduce su RP la trasmissione Bam Bam Bam. Claudio e Silvia raccontano dove siamo, cosa stiamo facendo e qual è a grandi linee il programma per questa sera (l’attesissimo concerto di Fatoumata Diawara) e per i prossimi giorni.
Durante questa passeggiata scopriamo anche il sogno proibito di Laura: Rodrigo, il pilota più figo. Be’, io l’ho sintetizzata così, ma la storia è che lei durante un volo con Easyjet, credo per Catania, si è innamorata della voce del comandante, che aveva questo accento spagnolo… pare che lei al solo sentire l’accento spagnolo vada in brodo di giuggiole… anzi, visto che siamo in Sardegna, in fregola! Si tratta, in questo caso, di un altro tipo di fregola, ma passatemi la battuta. E insomma, da allora ogni volta che può prende un volo Easyjet nella speranza di incontrarlo di nuovo. L’ha fatto anche per venire qui in Sardegna, ma almeno per ora niente. Può ancora sperare nel ritorno… io da parte mia posso raccontare di un altro innamoramento collettivo di un pilota da parte delle donne del gruppo. È successo in Iran, dopo un volo interno Teheran-Shiraz che ha avuto non pochi problemi. Lì forse era, come dire, un po’ più giustificato: si riteneva che ci avesse salvato facendo atterrare un aereo che aveva problemi, poi è stato anche gentile nel venire da noi a spiegare cos’era successo, per di più era belloccio… il punto in comune è che anche lui, pur essendo iraniano, parlava spagnolo! Dato che eravamo italiani e che aveva forse percepito che non tutti avevano capito cos’aveva detto in inglese, l’ha ripetuto in spagnolo nella speranza che così capissimo tutti meglio, in quanto latini. Insomma, il messaggio è che se sei un pilota e parli spagnolo il successo con le donne è assicurato. Io con lo spagnolo me la cavo abbastanza bene, ma temo che per prendere il brevetto sarebbe un po’ un casino… vabbe’, non divaghiamo troppo.
Pranzo in spiaggia a base di panini e frutta a volontà, e il resto del tempo passa tra un bagno in un mare da sogno e una passeggiatina. Alle quattro, purtroppo, ce ne dobbiamo andare perché la barca torna a prenderci. Silvia ironizza sull’eccessiva puntualità di noi milanesi, che alle quattro meno dieci siamo già (quasi) tutti pronti, vestiti, zaino in spalla e ombrellone in mano, e forse ha ragione lei.
Comunque sia, c’è tempo solo per un paio di foto di gruppo con il mare sullo sfondo e poi si va.
Questa sera, dato che non vogliamo rischiare di perdere neanche un minuto del concerto, che tra l’altro si terrà nello scenario a dir poco suggestivo dell’anfiteatro di Tharros, abbiamo deciso di mangiare presto, alle 19.30, in una pizzeria che si trova proprio sotto… casa nostra. La scelta del posto, purtroppo, non si rivela felicissima, sia per chi ha preso la pizza sia per chi è andato sull’antipasto di mare… meglio sorvolare.
È invece davvero indimenticabile il concerto. Fatoumata Diawara è indubbiamente una delle figure più carismatiche della scena attuale della musica africana e una delle voci più intense nel panorama internazionale della world music. È cantante, autrice, chitarrista e attrice (ha recitato ad esempio nel film Timbuktu del regista mauritano Abderrahmane Sissako, che nel 2014 ha vinto diversi premi ed è stato candidato all’Oscar). Nei suoi concerti riesce a far emergere il coraggio di una guerriera, in una grande avventura musicale tra Costa d’Avorio e Mali, con un linguaggio universale ma consapevole delle proprie radici.
E anche stasera è proprio così: sale sul palco inguainata in un vestito rosso da regina, con un turbante nero che però a un certo punto si toglie per sciogliere le lunghe treccine rasta, che diventano anche quelle parte dello spettacolo mentre le agita a ritmo forsennato accompagnando i riff di chitarra. Ha anche alcuni oggetti che sicuramente fanno parte di riti tribali ancestrali africani, e che simboleggiano appunto le sue radici.

Foto di Christian Sebis

Foto di Christian Sebis

Foto di Christian Sebis

Foto di Christian Sebis
Ma la musica alterna tanta Africa con momenti di puro rock. Il momento forse più intenso arriva quando, in sequenza, c’è una dedica Afrobeat a Fela Kuti e poi Four Women di Nina Simone, stravolta in una bellissima ballata funk-soul.
Noi, che alla fine siamo arrivati comunque quando l’anfiteatro era già quasi tutto pieno, resistiamo ben poco a stare seduti sui gradini nelle ultime file. Ben presto ci lanciamo giù, davanti al palco. All’inizio stiamo seduti per terra davanti alla prima fila, ma dopo un po’ tutta l’area sotto il palco viene “invasa” da gente che balla. Ci alziamo anche noi e ci diamo dentro, come sempre. Silvia, che è vicino a me, è particolarmente presa e scatenata: ho scoperto in quest’occasione che fischia più forte di un pastore sardo, soprattutto l’ha scoperto il mio timpano sinistro che ancora ne risente. Ma ne è valsa la pena, vi assicuro.
Tra un pezzo e l’altro Fatou, come viene chiamata, lancia anche dei messaggi contro il razzismo più che mai necessari, purtroppo, di questi tempi, con frasi come “We can’t all be White on this planet”, “We all have red blood” e “Open the doors, they are human beings!”.
Alla fine è un delirio pressoché totale: parecchia gente sale sul palco prendendo possesso anche del microfono, mentre lei scende giù e si offre all’abbraccio del pubblico.
Anche qui, è ben difficile raccontare un concerto del genere. Posso solo suggerirvi di guardare questo video, che è una piccola sintesi:
Fatou a Tharros – Dromos Festival
Dopo il concerto, mentre la gente sciama e noi torniamo verso il pullmino, che abbiamo dovuto parcheggiare lontano, con Claudio commentiamo non solo sull’intensità del concerto, ma anche sull’affluenza di pubblico: 1200 persone. Claudio ricorda che in un recente concerto che Fatoumata ha fatto a Milano gli spettatori erano molti meno, forse la metà, e che la sua manager, che poi è la stessa di Bombino e che curiosamente si chiama Magali, gli ha detto che era stato un concerto moscio. Certo, è ovvio che a Milano l’offerta di concerti non è paragonabile a quella che c’è qui, qui un concerto così è l’evento dell’estate, che vuol dire l’evento dell’anno. Ma comunque è una cosa che fa pensare. Forse con tanta offerta diventa tutto “ordinario” e si perde la capacità di apprezzare quello che davvero vale. In ogni caso, per fortuna stasera eravamo qui ed è stata una serata stupenda.
Martedì 7 agosto 2018: Quinto giorno – Spaghetti Western e saggezza popolare
Oggi il programma prevede di spendere la mattina in una visita guidata del borgo di San Salvatore, antico villaggio di pescatori ormai quasi completamente abbandonato, nella cui omonima chiesetta è visibile un antico santuario ipogeo pagano, incentrato sul culto delle acque. Il borgo, che si trova a circa 8 km da Cabras, è celebre anche per essere stato location di numerosi film del genere Spaghetti Western negli anni ’60 e ’70, grazie alla somiglianza a paesaggi americani di frontiera. Saranno con noi Silvia e Lalli, e anche Claudio e Rossana.
Prima di iniziare la visita, facciamo una breve sosta per un caffè in un fantastico baretto dove sono esposte foto del Che, di Gramsci, di Berlinguer e di Gigi Riva, in un accostamento di icone che già ci fa capire dove ci troviamo. Qui ci raggiunge Maurizio, della Cooperativa Alea di Cabras, che si occupa di sostenibilità ambientale e di tutela e valorizzazione dei beni naturalistici e culturali della Penisola del Sinis. Sarà lui a farci da guida.
Ci troviamo in una piazza che già lascia immaginare perché il borgo sia stato scelto come set per Spaghetti Western, all’ombra di un grande albero. Maurizio ci spiega innanzitutto che in Sardegna esistono diversi villaggi “temporanei” come questo, ma l’importanza di San Salvatore è data dal fatto che è il più grande esistente nell’isola, con più di 130 casette chiamate in sardo cumbessias o muristenes. La loro forma tradizionale è quella di un unico ambiente lungo con una porta d’ingresso e un’altra porta sul cortile, per garantire la circolazione dell’aria. Gli ambienti, tradizionalmente, non erano neanche separati con tramezzi proprio per garantire una migliore circolazione d’aria. Sono abitazioni temporanee nel senso che si animano solo nel periodo immediatamente vicino alla festa del patrono, in questo caso la festa di San Salvatore. Per questo vengono chiamati anche novenari. Nascono tutti a coronamento di chiesette campestri, come quella di San Salvatore che abbiamo qui. La chiesa attualmente visibile è del XVI secolo. Questo, a differenza di altri novenari, è stato storicamente caratterizzato anche da un’attività di tipo agricolo, cioè era abitato dai contadini del Sinis anche nei periodi della semina e della raccolta del grano. Pare che questa zona fosse a vocazione cerealicola fin dall’epoca punica. La Sardegna era uno dei granai non solo di Roma, ma anche dei cartaginesi, come testimonia il ritrovamento di monete decorate con delle spighe. Il clou dell’animazione arriva in vista della prima domenica di settembre, quando si svolge la festa, con la corsa degli scalzi. La corsa degli scalzi, importantissima per i cabraresi, rievoca un’antica vicenda dei primi del 1500, quando le donne, per sottrarre il simulacro del San Salvatore ai pirati barbareschi, lo portarono di corsa verso il paese. Lo portarono le donne, ma la corsa rievocativa l’hanno sempre fatta gli uomini. Il sabato mattina presto partono da Cabras, portano di corsa il simulacro qui alla chiesa, e poi la domenica sera lo riportano sempre di corsa in paese. Alla corsa partecipano ultimamente anche più di 800 persone, tutte abbigliate con un saio bianco e ovviamente scalze. Percorrono un tratto su strada bianca per uscire dal borgo e poi un tratto su asfalto. Si fermano a tappe determinate, anche per darsi il cambio nel portare il simulacro, che si trova su una portantina. Uno porta la bandiera e durante la corsa pregano, con grida dedicate al santo.
Per quanto riguarda la vita più “profana” e moderna del borgo, dobbiamo andare alla seconda metà degli anni ’60, quando con il boom del genere Spaghetti Western iniziò ad essere scelto come location per diversi film che possono essere considerati di serie B o C ma hanno comunque vissuto recentemente un’epoca di revival. Non dimentichiamo che un regista come Quentin Tarantino, oltre a dichiararsene apertamente maniaco, li ha ripetutamente citati. E infatti proprio lui ha omaggiato una delle pellicole sicuramente dal titolo più divertente ed evocativo di un cinema che non c’è più: Giarrettiera Colt. Lo ha fatto citando questo film come una delle fonti di ispirazione del mitico Kill Bill, con la sposa vendicativa interpretata da Uma Thurman, e dando a una delle sue eroine il nome della bella Nicoletta Machiavelli, la supersexy attrice protagonista di Giarrettiera Colt.
A pochi metri da qui era stata appositamente costruita una posada, che poi è stata demolita. Ma se ce la immaginiamo ora, se la visualizziamo, non è difficile vederne uscire un giovane Clint Eastwood, o più propriamente Tomas Milian, come giustamente fa notare Claudio.
Noi ci siamo ripromessi di organizzare (chissà, forse in radio, Claudio sembrava possibilista) una serata cineforum con proiezione di Giarrettiera Colt. E magari dibattito…
Ma non è tutto, perché San Salvatore ha fatto da sfondo anche ad un video dei Placebo, per il pezzo Jesus’ Son del 2016:
Ci spostiamo verso la chiesa per la parte più… seria della nostra visita. Maurizio ci spiega che la cosa più interessante è senz’altro quello che c’è sotto, cioè questo tempio ipogeico la cui esistenza è da ricondurre alla presenza di una vena d’acqua sotterranea, che ha permesso lo svilupparsi del culto delle acque, presente in diverse zone della Sardegna. Probabilmente è nato come pozzo sacro e poi nel corso dei secoli è stato riutilizzato dalle varie popolazioni che hanno abitato questo territorio. È stato frequentato a più riprese, e lo si vede dai graffiti murali che sono presenti sulle pareti delle varie stanze. Ce ne sono veramente moltissimi, che testimoniano un utilizzo che può essere datato fino al 1000, poi più nulla fino al XVI-XVII secolo, e poi ci sono i graffiti “moderni”, risalenti al ‘900. In passato si riteneva che quest’acqua avesse proprietà medicamentose, quindi si accedeva al santuario per questo o soltanto per curiosità. È presente una pietra lavorata di epoca nuragica, che permette di determinare il periodo del primo utilizzo della sorgente. L’attuale conformazione è datata alla tarda epoca imperiale, quindi 200-300 d.C.
L’interpretazione, storicamente, è stata varia. Per molti secoli si è ritenuto che fossero catacombe, ma non è possibile perché non ci sono tracce di sepolture, poi si pensò che fossero delle celle, il che giustificherebbe la presenza dei graffiti, ma anche questa ipotesi è stata poi esclusa. Per quanto se ne sa ora, si tratta solo di un luogo di culto.
L’ipogeo è costituito da un complesso di ambienti scavati nella roccia. Alla struttura si accede da una scalinata, aperta nel pavimento della chiesa, che immette in un corridoio su cui si affacciano due vani rettangolari affrontati coperti a volta; al termine del corridoio si trova un piccolo ambiente circolare cupolato con pozzo a ghiera quadrata su cui si aprono due vani laterali con volta, con lato di fondo absidato, e uno semicircolare coperto a volta.
Sulle pareti intonacate dell’ipogeo si conservano numerose pitture tracciate con il carbone e il colore raffiguranti divinità ed eroi della tradizione classica (tra cui Venere, Marte, Pegaso, Proserpina, Ninfe, Ercole in lotta con il leone), altre figure (personaggio maschile circondato da leoni, auriga vittorioso), simboli cristiani (pavone, pesce) e numerose imbarcazioni, in un caso un veliero del XVI-XVII secolo. Tali raffigurazioni vengono collegate ad un culto salutifero connesso con quello delle acque di cui il sacello fu sede; si contano inoltre numerose iscrizioni latine, un alfabeto greco e un’iscrizione araba (secc. XVI-XVII).
Maurizio sa tutto di San Salvatore, al punto che si comincia a chiedergli di tutto. Risulta impreparato solo su un albero, ma è talmente scrupoloso che se lo segna. Il giorno dopo ci farà sapere che trattavasi di Robinia.
Girando per le stradine, ci imbattiamo in una casa aperta, da cui spunta un signore che vende souvenir realizzati con i giunchi dello stagno di Cabras. I più belli rappresentano i fassonis, le barche da pesca tradizionali dei pescatori di Cabras. È Francesco, 82 anni portati con fierezza, che su quelle barche ci ha passato un bel pezzo di vita.
I fassonis sono imbarcazioni costruite con materiali raccolti sul posto: tolti gli scalmi e i sostegni di questi il resto, persino il banco di voga e il fermo per i piedi, è di fieno palustre. Negli stagni e nelle peschiere di Cabras si usavano anche barche più moderne, ma il fassoni serviva bene a rappresentare la condizione di sfruttamento dei pescatori perché era utilizzato dai più miseri, quelli che stavano al gradino più basso di una sorta di piramide feudale: a loro era consentito di utilizzare soltanto il palamìte, un insieme di cordicelle con ai capi tanti ami; anche la barca di erbe palustri era un’imposizione, perché così non era possibile caricarvi altro che quel semplice attrezzo e qualche chilo di pesce; d’altra parte in passato era proibito ai lavoratori degli stagni utilizzare qualsiasi mezzo di trasporto, per non portare via altro prodotto oltre quello che poteva stare in una bisaccia. Oggi quelle norme sono tramontate, ma i pescatori degli stagni non hanno dimenticato l’arte di costruire i fassoni: una volta tagliato il fieno palustre, lo stringono in fasci che poi legano, facendo in modo che la parte più sottile sia sul davanti; rialzano la punta e i bordi, inseriscono gli scalmi e pochi altri elementi e l’imbarcazione, che risulterà lunga quattro metri e larga poco meno di uno, è pronta a prendere il largo. È ancora possibile, come accadeva un tempo, vederne degli esemplari messi ad asciugare dopo l’uso, sui bordi dello stagno, sorretti dai due remi.
Francesco ha smesso da un po’, perché la salute non lo sorreggeva più. Ora è qui, a cercare di arrotondare la pensione con questi lavoretti, mentre la moglie in cucina sta cuocendo l’anguilla.
Il personaggio è troppo ghiotto per lasciarselo sfuggire, e infatti Claudio ha già in mano il suo mini-registratore e gli sta già chiedendo un’intervista, che lui accetta di buon grado, mentre le ragazze ridono e gli dicono in sardo che finirà alla radio, a Milano.
Gli piace raccontare storie, si vede. All’inizio un po’ si schermisce: “Ma cosa posso avere da dire, io, alla radio? Un vecchio come me…”, ma basta qualche domanda ben fatta per farlo sciogliere.
È stato in mare fino a 65 anni. “Ma come si fa a stare in equilibrio su quella barca?” – chiede Claudio. Lui risponde che si lavorava in piedi, con la fiocina. Si stava sempre in bilico, ma la barca non si capovolgeva mai, né tanto meno affondava. Si pescavano soprattutto anguille e muggine. Prima di ferragosto si andava a tagliare delle erbe palustri, che erano già mature, per poi farle essiccare. Così diventavano, detto in sardo, fenu, fieno palustre. Sarà la parola, che in effetti potrebbe sembrare portoghese, sarà la pronuncia di Francesco, ma Claudio sottolinea divertito che il sardo di qui sembra brasiliano, ed effettivamente può sembrare così, difficile dargli torto. Quel fieno palustre veniva usato poi per costruire i fassonis: ogni due mesi se ne faceva uno nuovo.
L’intervista continua, Francesco si racconta, anche se in pochi minuti, e si diverte sempre di più. Tanto che, per salutarci, vuole raccontare una storia a metà tra realtà e leggenda popolare: il protagonista di questa storia vorrebbe andare alla festa, ma anno dopo anno c’è sempre qualcosa che glielo impedisce, finché, quella volta che finalmente potrebbe andarci, lo arrestano. Perchè? Non si sa. In fondo è un po’ questo il succo della storia, che nella cultura popolare di queste parti se sei sardo può sempre succedere che ti arrestino, anche senza motivo, solo perché sei sardo e magari povero, un pastore o un pescatore, non servono altre motivazioni. E infatti la morale della favola è proprio questa: qui, per qualsiasi cosa, che sia andare alla festa o qualunque altro progetto della vita, si dice “Deu bollada, e is carabineris”. Si pronuncia “deu vòllara” e significa “Lo voglia Dio”, è una sorta di inshallah sardo; ma si aggiunge “is carabineris”, i carabinieri. Perché appunto, non basta che lo voglia Dio, devono volerlo anche i carabinieri, che non ci si devono mettere di mezzo.
È un’espressione bellissima, secondo me, che contiene un pezzo di storia. È da quando la Sardegna è passata sotto i Savoia, all’inizio del ‘700, che i “piemontesi” storicamente sono stati vissuti come un dominio opprimente e vessatorio, lontanissimo dalla storia e dalla sensibilità del popolo sardo. Un corpo estraneo che è entrato nel tessuto sociale senza rispetto e senza comprendere quelle che erano le specificità della cultura e delle tradizioni secolari locali. E dal 1814, quindi prima ancora dello Stato unitario, il carabiniere è stato il volto e il simbolo di questo Stato lontano, oppressivo e nemico.
Tant’è vero che esistono altre versioni, sempre in sardo, di questo motto, come “Si deus cheret e sos carabineris lu permittin”, usato in Barbagia, una zona ancora più “calda” da questo punto di vista, dove si dice che viga ancora il famoso “codice barbaricino”.
Lì la giustizia ufficiale è stata spesso tenuta alla larga, e i loro rappresentanti, in particolare i carabinieri, spesso sbeffeggiati e derisi. Su di loro sono fiorite una infinità di storielle e di battute, spesso taglienti, ed il riferimento ironico ai carabinieri condisce costantemente il linguaggio della vita quotidiana. La particolare concezione della giustizia e del ruolo prevaricante delle forze dell’ordine, quasi sempre rappresentate da uomini forestieri, “istranzos”, non appartenenti quindi alla Comunità, ha fatto sì che essi venissero visti come corpi estranei, persone che disturbavano la quiete comunitaria. In Barbagia, ancora oggi, può capitarti di sentire espressioni come: “No b’at presse, no nos sun currende sos carabineris in fatu” (non c’è fretta, non abbiamo i carabinieri appresso), altra espressione ricorrente per significare che i carabinieri causano interruzione al ritmo lento e pacifico, senza angosce, del vivere quotidiano.
La scarsa considerazione nei confronti degli uomini dell’Arma era cosa così diffusa che non era rara la feroce battuta, ancorché scherzosa, che li definiva stupidi: “Ses tontu che sa merd’e sos carabineris” (Sei tonto come la cacca dei carabinieri). Battute di questo tipo, ad onor del vero, circolano in tutta Italia.
D’altro canto, però, ai carabinieri era riconosciuta “forza di legge”, tant’è che per sancire un’unione o un patto si diceva: “Né Deus né sos carabineris”, cioè né Dio né le forze dell’ordine potranno mai sciogliere questo nostro contratto verbale.
Ecco la parola sarda di oggi: “Carabineris”. Mi sembra perfetta.
Salutiamo Francesco, Maurizio e San Salvatore per dedicarci a un po’ di mare, che dovrebbe riempire il resto della giornata. La prima tappa è la spiaggia di Is Arutas, caratterizzata da un lungo arenile con un fondo di brillante quarzo bianco, con tratti di sabbia ocra molto fine. Qui c’è tempo per un primo bagnetto prima di pranzo, dopo di che ci facciamo una mangiata di pesce e frutti di mare al “chiosco” della spiaggia.
Nel pomeriggio ci trasferiamo alla spiaggia di Maimoni, che dovrebbe essere meno affollata di Is Arutas ed effettivamente lo è. Nel frattempo però il tempo è peggiorato, e il sole è sparito dietro le nuvole. Da un certo punto di vista non è male, fa meno caldo e ci si può comunque godere un ultimo bagno e un paio d’ore di relax.
A un certo punto però le nuvole si addensano e diventano nuvoloni neri e minacciosi, che incombendo sopra alcune case rosse di legno vicine alla spiaggia creano un curioso effetto che ricorda paesaggi scandinavi. Decidiamo di andarcene prima che arrivi un acquazzone e torniamo a Cabras.
Il temuto acquazzone in effetti arriva, ma con un certo ritardo, quando siamo già nei nostri B&B e ci stiamo preparando per la serata.
Questa sera il Dromos Festival si sposta a Oristano, e noi con lui. Partiamo mentre il sole si immerge nello stagno di Cabras colorandolo di varie sfumature di rosso: un tramonto da favola.
Mangiamo a Oristano da Librid, un posto carino che unisce libreria e ristorante, con un bel giardino, per poi spostarci all’Hospitalis Sancti Antoni, che è un edificio del XIV secolo, un tempo ospedale e lebbrosario, ora sede della biblioteca e della pinacoteca comunale. Anche qui c’è un suggestivo cortile, dove si tiene il concerto del Mal Bigatto Trio.
Questo progetto musicale nasce nel 2014 dall’unione di tre jazzisti sardi: Antonio Farris (contrabbasso ed elettronica), Giuseppe Joe Murgia (sassofono) e Alessandro Garau (batteria). Sono bravi ma, onestamente, non è esattamente il mio genere. Mettiamola così: dopo il concerto di Fatou Diawara di ieri sera era difficile andare in crescendo…
Mercoledì 8 agosto 2018: Sesto giorno – La poetessa delle perdularie, i due Nino e… i saluti finali
Oggi la nostra giornata si andrà a dipanare nella regione storica del Guilcer. Ad accompagnarci Gegia e Silvia.
La prima tappa è a Ghilarza, piccolo paese ai piedi della catena del Marghine, nel cuore del Guilcer, che tra l’Ottocento e i primi del Novecento fu un importante centro culturale grazie, anche, alla fondazione del Circolo di Lettura e del primo Circolo Femminile. Sulla via principale di Ghilarza, Antonio Gramsci visse gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. Ma noi torneremo solo nel pomeriggio a visitare la sua casa-museo, per adesso abbiamo invece appuntamento con Lidia Murgia, eclettica artista nata a Bolotana in provincia di Nuoro, pittrice, poetessa e creatrice delle “Perdularie”, delle bambole molto particolari.
Lidia ci accoglie nella sua antica casa, dove quasi tutto quello che vediamo è fatto da lei. Precisa subito che non vuole che siano pubblicate né foto sue, né foto dei suoi lavori, perdularie comprese. Perciò, per rispetto dell’impegno preso con lei, qui di seguito troverete solo parole. Che però, vedrete, sono comunque parole che hanno un peso e un significato, parole che vale la pena di leggere.
Lei scrive poesie “in limba”, in lingua sarda. tutte le sue poesie non solo sono scritte, ma sono soprattutto pensate in limba, e quindi, dice lei, la traduzione è poca cosa, non può rendere davvero l’idea. Vero, però io, tranquilli, per voi che non potete capire qualche traduzione la riporterò.
Negli ultimi anni si è dedicata prevalentemente alle perdularie, ci dice, perché è stata male e non aveva energie per dedicarsi all’arte più “importante”. Lei, più che bambole, le definisce delle piccole sculture: la struttura di base è una struttura rigida, che non permette nessun tipo di movimento, quindi quello che conta è soprattutto l’abito. La struttura interna è costituita da una canna spezzata in quattro, la testa è bianca, senza volto e quindi, appunto, senza espressione, che può essere data solo dall’abito. Sono tutti abiti tradizionali, realizzati naturalmente anch’essi da Lidia. Grazie a questi abiti le perdularie, da oggetto stereotipato e anonimo, diventano varie e preziose, acquistano carattere e personalità. Ognuna è diversa e contemporaneamente uguale alle altre, e alla loro creatrice.
“Le perdularie sono me” – dice Lidia – “Sono nuragiche cosmiche”. Lei crede che i nuraghi siano, in realtà, delle porte cosmiche verso altri mondi. E quindi forse per capire chi sono le perdularie è necessario capire prima chi è lei. A noi lo ha spiegato attraverso una poesia, che si intitola Cando so’ naschida (quando sono nata) e di cui vi riporto la traduzione.
Quando sono nata, dove e che cosa ho fatto da allora, ve lo posso dire, ma voi ci crederete? Ad ogni modo questo è il racconto: le donne insieme ai bambini, ordivano in una radura, con un filo di lana che altre avevano filato e tinto con lo zafferano. Mia madre sedeva di fronte al sole, vestita come una regina, davanti alla porta del nuraghe. Impersonava la luna piena! E infatti era piena di una creatura di un mese soltanto. Non c’erano vecchi come ora, perché non era necessario. Gli anziani, infatti, si distinguevano dagli altri per la bellezza e per la luce che emanavano. Quelli che c’erano in quel posto, il giorno, stavano seduti intorno al nuraghe grande: che era tutto dipinto sull’intonaco di cera d’api. Sembravano stelle vicino a mia madre quei vecchi! Loro mostravano il cammino a tutti quelli che nascevano sulla terra e che vi sarebbero dovuti tornare quando la gente avesse a dimenticare che la vita non è dolore, ma amore; per ricordarlo a tutti. Mio padre stava dentro il nuraghe, seduto alle spalle di mia madre, e intorno a lui giovani e giovinette di ogni colore e forma, seduti sulla pietra, che correva come una panca ai piedi del nuraghe intonacato, anche all’interno, di cera d’api. Le donne che ordivano, indossavano abiti di lino naturale che facevano fresco solo a guardarli. Il colore dello zafferano suscitava gioia. Le risa dei bambini sembravano melodie venute dal cielo. Vi ho mostrato il luogo, mentre il tempo era quello in cui ciò che accadeva era un rituale fatto col cuore di chi sta pregando. Dopo, tutto quello che c’era: il luogo, mia madre, il nuraghe, babbo, le persone ridiventavano energia e come la luce, accompagnata dal suono, ancora stanno viaggiando nell’universo e aspettano noi per essere più luce. Quello che ho fatto da allora è stato di cercare i fratelli che sono nati in quel luogo perché mi aiutino a ricordare da dove sono venuta, per quale ragione e dove dovrò andare.
La parola perdularia è, naturalmente, una parola sarda, derivata direttamente dallo spagnolo. Significa vagabonda, ma anche trasandata, trascurata, con un senso dispregiativo che, ovviamente, per Lidia non c’è. Per lei la perdularia è una vagabonda che cerca e che canta la bellezza, un piccolo oggetto d’arte alla portata di tutti con cui lei contribuisce all’idea che sostiene che la bellezza guarisce il mondo.
Anche per capire chi è veramente la perdularia, non possiamo che leggere la poesia che parla di lei. Stavolta ve la riporto in sardo e in italiano, così la apprezzate meglio.
ISCHIDADINDE PERDULARIA SVEGLIATI VAGABONDA
A tie, chi sese… e no’ ses fizza A te che sei… e non sei figlia
e sese sorre intr’e su coro e sei sorella dentro al cuore
deppo narrer carchi cosa devo dire qualcosa
chi m’an’ nadu che mi hanno detto
pro ti narrere per dirtela
a s’iscusia. sottovoce.
S’anima tua ticchirriada… L’anima tua grida…
disisperada disperata
perdularia in sas carrelas de sa vida. vagabonda per le strade della vita.
Ischidadinde! Svegliati!
Ischidadinde, est’unu sonniu Svegliati, è un sogno
su chi ses faghinde. quello che stai facendo.
Ischidadinde! Svegliati!
Ischidadinde e bae cantande Svegliati e vai cantando
de s’amore sa bellesa. dell’amore la bellezza.
Chi vuole poi se la può portare a casa una perdularia, io preferisco portare a casa il libro delle poesie di Lidia, che si intitola “Deo tue e Deus” (Io, te e Dio).
Ora Lidia sta riprendendo a dipingere, c’è in preparazione un nuovo progetto. Ci offre dei dolcetti, un bicchiere di vino, e ci fa vedere la casa. Parlare con lei penso ci abbia arricchito tutti. E penso che tutti abbiate capito qual è la parola sarda del giorno: non può che essere “Perdularia”.
Salutata Lidia, ci trasferiamo a Norbello da Nino, l’apicultore nomade: La sua azienda LIUNE Apicoltura Nomade ha le sue sedi a Norbello e Ghilarza, antichi borghi situati al centro della Sardegna. L’altopiano basaltico dove sorgono i due paesi offre panorami spettacolari e territori incontaminati nei quali le api vivono per buona parte dell’anno.
A cavallo tra Barbagia e Campidano, la naturale posizione geografica del Guilcer ha fatto incontrare le popolazioni locali con Fenici, Punici, Romani, Bizantini. Liune pratica da anni la transumanza degli alveari, producendo mieli di qualità, ricavandone abbamele (prodotto della cultura rurale sarda a base di favo di miele, polline e scorza di agrumi), idromele, polline e creme biologiche.
Nino e Michela, la sua compagna, ci parlano appunto della produzione di mieli di eccellenza attraverso l’arte del nomadismo, cioè la transumanza, lo spostamento degli alveari sul territorio per seguire il ciclo delle fioriture pregiate ed ottenere mieli monofloreali di altissima qualità.
L’idromele, che è una bevanda alcolica prodotta dalla fermentazione del miele, è forse il fermentato più antico del mondo, più ancora della birra, e nell’antichità era noto come la bevanda degli dei. È ottimo anche come aperitivo, e infatti Nino ce lo offre subito insieme a una ricca scelta di stuzzichini.
Nino ci parla, tra le altre cose, del progetto Bee life, una campagna di sensibilizzazione e di raccolta fondi contro i pesticidi e in favore delle api e della biodiversità, organizzata dall’associazione Bee Generation.
E c’è spazio per tante curiosità sui tantissimi tipi di miele biologico prodotti da Nino: Scopriamo ad esempio che il miele di corbezzolo è l’unico miele amaro.
Per saperne di più sull’attività e i prodotti di Liune, potete farvi un giro sul suo sito www.liune.it.
L’aperitivo diventa un ricco pranzetto con tanti tipi di formaggi, ognuno con il miele giusto a cui accoppiarlo, altri piattini sfiziosi, frutta a volontà e due tipi diversi di dolci.
Per il caffè ci spostiamo al bar della vicina struttura che ospita richiedenti asilo, dove Nino è di casa e dove anche noi ci sentiamo subito a nostro agio. Scopriamo che a Norbello dopodomani è in programma una sfida calcistica Africa-Sardegna, della quale purtroppo non abbiamo più saputo l’esito, ma è già bello che ci sia, di questi tempi.
Dopo di che, siamo pronti ad una passeggiata per andare a vedere le arnie, sfidando il sole cocente. Qui Nino ci spiega che l’alveare è un super organismo, dove le api sono in realtà un tutt’uno: ognuna ha il suo compito e tutto è perfettamente organizzato per produrre miele e per mantenere in vita questo organismo, sano e produttivo. Forse è vero che le api sono più evolute di noi… Anche questa è un’immagine che ci resterà, che rappresenta bene questo territorio.
Salutati Nino e Michela, torniamo a Ghilarza per la visita al museo dedicato ad Antonio Gramsci.
Gli ambienti familiari della sua infanzia e giovinezza vengono oggi rievocati in una preziosissima casa-museo, già nel 1965 acquistata e trasformata dal Partito Comunista Italiano in centro di documentazione e ricerca sull’opera gramsciana e sul movimento operaio. Oggi la casa è gestita dalla neonata “Fondazione Antonio Gramsci”, che ci ha messo a disposizione una guida, una ragazza preparatissima e che fa il suo compito oltre che con impegno anche con passione, che non guasta mai.
Ci racconta prima di tutto, per sommi capi, la difficile e tormentata vita di Gramsci. Antonio ha dovuto fare i conti fin da piccolissimo con una malattia invalidante, il morbo di Pott, con un padre in carcere, una famiglia numerosa e condizioni di vita non certo facili. Conseguita la licenza elementare, con il massimo dei voti in tutte le materie, per le difficili condizioni economiche della famiglia, dovette interrompere gli studi e lavorò per due anni presso l’Agenzia delle Imposte dirette e del Catasto di Ghilarza, dove, a dodici anni e con una malattia che ne aveva fortemente minato la crescita, spostava tutto il giorno pesantissimi faldoni.
Io mi auguro che non ci sia nessuno tra voi che non sa chi era Antonio Gramsci, ma se ci fosse può fare un ripasso qui.
Il percorso espositivo e l’allestimento museale di questa casa sono stati progettati a metà degli anni Settanta e sono opera di due donne particolarmente autorevoli nei rispettivi ambiti scientifici e professionali: Elsa Fubini e Cini Boeri, madre tra l’altro di Stefano e Tito Boeri.
Il percorso è organizzato al primo piano della Casa Museo in tre stanze, una volta camere da letto della famiglia Gramsci.
I documenti e gli oggetti sono distribuiti secondo un criterio tematico o storico in 9 teche:
1. Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare (questo era il proponimento del regime fascista al momento della condanna di Gramsci, ndr)
2. Dalla cella di Turi di Bari (qui ci sono le foto di famiglia che Antonio aveva con sé in carcere e altri oggetti, tra cui una trottola in legno incisa da lui in carcere per i bambini)
3. La lingua sarda
4. Ghilarza, il territorio e i problemi di emancipazione della società sarda
5. Torino, l’università, la classe operaia
6. Da L’Ordine nuovo a L’Unità
7. La dittatura e l’arresto
8. La morte
9. Dopo Gramsci.
In una delle sale – allo scopo di restituire al visitatore il senso della vita domestica e degli autentici affetti famigliari – è allestita una camera da letto con alcuni mobili provenienti dalla famiglia.
Integrano ed arricchiscono il percorso le immagini e i suoni dell’Archivio multimediale della Casa Museo e, in particolare, le testimonianze di oltre quaranta contemporanei di Gramsci, personaggi noti e meno noti, personalità differenti che tratteggiano, ciascuna a modo proprio, la sua umanità.
Anche la nostra guida ci mette del suo raccontandoci qualche curiosità. Ad esempio i Quaderni dal carcere, l’opera più nota di Gramsci, usciti in edizione critica solo negli anni ‘70, vinsero il premio Strega di quell’anno, per la prima volta nella storia assegnato ad un autore non vivente.
Possiamo poi vedere, nel giardino, una pianta che il giovane Antonio curava amorevolmente e che ancora sopravvive. Quest’anno ha subito le conseguenze delle pazzie del clima e quindi le foglie stanno spuntando dal basso, non sul ramo “storico”, che prima ha sempre avuto una bella chioma.
Noi purtroppo non abbiamo tantissimo tempo, e l’impostazione di questo museo è chiaramente più centrata sulla vita di Gramsci che sul suo pensiero politico. Anche se, volendo, si potrebbero passare ore a sfogliare le sue opere utilizzando i supporti multimediali. Ma era comunque importante e doveroso passare di qui. Vorrei concludere questa parte con una citazione, che ci è stata giustamente ricordata da Stefania e che rappresenta, sia pure in poche righe, una buona sintesi del pensiero gramsciano.
Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire partecipare. Chi vive veramente non può non essere cittadino partecipe. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Io partecipo, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, partecipo. Perciò odio chi non partecipa, odio gli indifferenti. — Antonio Gramsci
Conosciuto più da vicino anche il secondo Nino di oggi, forse anche il più importante (sono certo che non me ne vorrà l’amico apicultore), è il momento di tornare a Cabras e riposarci un po’ in vista dell’ultima serata. Sì, perché finora abbiamo cercato di non pensarci ma purtroppo è così: domani si parte. Silvia ci accompagnerà a Cagliari, dove ad ore diverse e con voli diversi tutti ritorneremo a casa.
Perciò ci saluteremo stasera, con l’ultimo concerto, quello di Dee Dee Bridgewater, e con le quattro Mariposas finalmente riunite, di nuovo tutte insieme. Ci saranno anche Claudio e Rossana.
Anche questo concerto si tiene a Oristano, ma questa volta nella bella piazza della Cattedrale. Il pubblico, ovviamente, sarà molto più numeroso di ieri sera.
Noi, prima del concerto, ci facciamo un aperitivo con qualche sfiziosità. Tra l’altro, si tratta di un’iniziativa di solidarietà organizzata da un’associazione locale, quindi meglio ancora. Le Mariposas ci raggiungeranno solo più tardi, al concerto. E quindi è l’occasione anche per mettere a punto gli ultimi dettagli di una piccola sorpresa che abbiamo pensato per loro. Era doveroso ringraziarle per tutta la bellezza che ci hanno comunicato in questi giorni. È un piccolo regalino, una cremina presa da Nino, ma è il pensiero che conta. Da parte mia, ho pensato di aggiungere una piccola dedica in rima: sono quatto righe stupidelle, che non ho il coraggio di chiamare versi, ma voglio sottoporle prima al gruppo per avere l’approvazione di tutti e far firmare il foglietto, precisando che chi vuole, ovviamente, può anche dissociarsi e non firmare, ma nessuno sembra intenzionato a farlo. Anzi, sembra che l’idea piaccia, e incredibilmente anche la dedica. C’è anche un’altra dedica che aveva preparato Laura, forse con la collaborazione di qualche altra ragazza del gruppo, quindi decidiamo che le leggeremo tutte e due.
Il concerto è anche questa volta emozionante: Dee Dee sembra in grande forma, la voce è quella di sempre ma quest’anno propone il suo ultimo lavoro “Memphis… Yes, I’m Ready”, un appassionante viaggio fra i classici della black music, un sentito omaggio a una delle città che fu culla della lotta per i diritti civili dei neri e, insieme, un tributo alle tante star e alla tanta musica che Memphis ha prodotto.
Ma Dee Dee, che non avevo mai visto dal vivo, è anche coinvolgente, dialoga con il pubblico, compresa una bambina bionda che avrà non più di sei anni che va da sola fin sotto il palco per vederla da vicino e riprenderla col telefonino.
A proposito di Memphis c’è, ad esempio, un omaggio a Elvis con la rivisitazione di “Don’t be Cruel”. Ma io preferisco farvi sentire, e vedere, un omaggio a Prince che Dee Dee ha fatto durante i bis con questa sua intensa versione di Purple Rain.
Un altro momento importante arriva quando Dee Dee, con Why (am I treated so bad), rende omaggio ai nove di Little Rock, Arkansas, i primi studenti neri che nel 1957 rifiutarono la discriminazione razziale e vinsero la loro battaglia per essere ammessi alla locale High School.
Finito il concerto, ce ne andiamo a berci l’ultima birra insieme in una birreria di Oristano, e qui arriva davvero il momento dei saluti. Prima dell’ultimo brindisi c’è la consegna del regalino, e ovviamente mi tocca il compito di leggere la “poesiola”. La cosa mi emoziona non poco e, una volta conclusa la lettura, per stemperare mi esce la battuta “Be’, ragazze, se vi piace l’ho scritta io, se fa cagare l’abbiamo scritta tutti insieme…”. In realtà non faccio neanche in tempo a finire la frase che mi stanno già sommergendo di baci, per cui deduco che forse è piaciuta… e ci sono baci e abbracci per tutti. Scusate il momento che potrebbe sembrare inutilmente autocelebrativo, e forse lo è, ma visto che è piaciuta a loro la ripropongo anche qui:
Quattro farfalle di Sardegna
Quattro splendidi fiori
Ci hanno acceso come legna
Ci hanno preso i cuori
Per nuraghi, boschi e calette
volando ci han portato
Fregola e porceddu, vernaccia e birrette
con loro abbiamo assaggiato
Con Dee Dee e Fatoumata
con Pedrito e con Bombino
insieme ce la siam spassata
e abbiam fatto casino
Grazie a loro quest’isola non potremo scordare
E anche quando saremo lontano
a Palermo, a Perugia o a Milano
pensare a loro ci farà volare
Ma non voglio concludere così, voglio concludere con una vera poesia. E quindi chiedo aiuto a Lidia Murgia. Tra le sue poesie ho scelto questa, che credo ben si adatti alla bisogna:
JANA MANNA MAMA MIA JANA GRANDE MADRE MIA
Tu andas pro’ torrare, Tu vai per tornare,
ma no b’es custu intr’ ‘e su coro tou. ma non c’è questo dentro il tuo cuore.
Como b’es solu su trummentu. Adesso c’è soltanto il tormento.
Iscurta custa oghe fizzu! Ascolta questa voce figlio!
A tie mancari t’ada a parrere Forse ti sembrerà
su fruschiu de su ‘entu, il fischio del vento,
ma es’ sa mia ‘oghe. ma è la mia voce.
Boghe de mama de onzi mama La voce della Grande Madre
chi ti nara’: “Bae ma posca torra; che ti dice: “Vai, ma dopo ritorna;
no morzas atterue! non morire altrove!
Torra, ca inoghe addurada su coro tou. Torna, perché qui rimane il tuo cuore.
Ti lu custoo deo, Lo custodisco io,
parisi cun cussu de s’amada. insieme al cuore della tua amata.
No andese gai tristu Non andare così triste
deo so terra e pedra Perché io sono terra e pietra
e lagrimas no’ zutto. e non ho lacrime.
Ti aso e ti beneigo”. Ti bacio e ti benedico”.
Ecco, io in questo momento mi sento un po’ così: vorrei tornare ma non posso, e mi sembra di sentire perfino “su fruschiu de su ‘entu” (che a Milano, figurati…). Vorrei tornare perché lì ho lasciato un pezzetto di cuore. Ma spero di farlo presto, e che fino ad allora il mio pezzetto di cuore lo custodiscano loro, le Mariposas. Che per me sono le vere Janas, farfalle ma anche un po’ fate, che con i loro incantesimi ci hanno fatto scoprire tanta bellezza. E spero che per allora avranno anche un pullmino nuovo, tutto per loro e tutto decorato a Mariposas. Ovviamente deu bollada… e is carabineris!
Si ringrazia:
Il Dromos Festival, Christian Sebis per le foto del concerto di Fatoumata Diawara, l’agriturismo Fattorie Cuscusa, la Cooperativa Su Trobasciu, il Comune di Mogoro, Paolo Pinna, Roberto Scema, il Museo Giovanni Marongiu di Cabras, la Cooperativa Alea di Cabras, Lidia Murgia, Liune Apicoltura Nomade, la Casa-Museo Antonio Gramsci di Ghilarza.
Grazie a Radio Popolare, nella persona di Claudio Agostoni, il mitico direttore dei programmi e… dei viaggi.
Grazie a ViaggieMiraggi.
Grazie a Lauretta, che con la sua cronaca in tempo reale via whatsapp mi ha permesso di ricostruire anche momenti e nomi che non ricordavo. Ma grazie a tutto il gruppo, siete stati dei grandi compagni/e di viaggio (grazie anche per tutte le foto che ho rubacchiato qua e là).
E soprattutto grazie a loro, le dolci farfalline-fatine: Gegia, Lalli, Silviz e Viola.