Prologo
Che cos’è un corrido? Penso che ve lo starete chiedendo, cari lettori. O meglio, di certo alcuni di voi lo sapranno, ma ci saranno altri che se lo staranno chiedendo, e non possiamo lasciare questa domanda senza risposta. Un corrido è un canto popolare, una narrazione in musica tipica della cultura messicana, una ballata, se vogliamo. Un cuento, un racconto che parla in genere della durezza della vita quotidiana dei contadini, di oppressione, di lotta, di sogni, di amori, di vita e di morte. Che narra gesta eroiche di eroi popolari, mirabolanti avventure di peones un po’ santi e un po’ banditi, che sono nati poveri, ignoranti e vestiti di stracci ma che da quella miseria si sono sollevati e hanno fatto la Storia. Gente come Pancho Villa, come Emiliano Zapata. Non a caso questo genere è ancora oggi molto popolare in Messico, ma ha toccato il suo apice ai tempi della rivoluzione messicana. Oggi ci sono i narco-corridos, che cantano le gesta dei boss del narcotraffico. Ma non è questo il genere di corrido che vi vorrei narrare (nel mio piccolo, si intende). Questo è un corrido vecchio stampo, che forse non canta di grandi imprese e di mitiche battaglie, in bilico tra realtà e fantasia, ma che parla di eroi di tutti i giorni, di gente che lavora, che suda, che lotta, che si organizza: per coltivare la terra, per plasmare l’argilla, per tessere, per produrre caffè, miele di mangrovia e marmellata di mango, per salvare le tartarughe marine. Gente che sa dare grandi esempi di solidarietà, accompagnando al parto le donne in difficoltà per gravidanze indesiderate o che hanno subito violenza, dando aiuto e ristoro ai migranti in viaggio verso il sogno americano. E anche gente che quasi venticinque anni fa ha preso le armi per difendere i propri diritti, perché non vedeva altra strada.
Ma non vorrei metterla giù troppo dura, questo in fondo è solo un diario di viaggio. È il diario di un viaggio nel Chiapas, sudest del Messico, tra le comunità indigene che da anni lottano per il riconoscimento dei propri diritti, per la loro terra, per la loro dignità come popoli originari. Nello stato messicano dove dal 1994 batte il cuore della rivoluzione zapatista, che dopo anni di inutili trattative con il governo messicano ha portato alla creazione dal basso di una società alternativa, con amministrazione, educazione e sanità autonome. Cercando di entrare in profondo contatto con queste realtà, conoscendone la storia e le radici attraverso la visita dei siti archeologici ma senza dimenticare di godere delle meraviglie della natura di questo angolo di mondo. E con, per finire, un tuffo breve ma intenso nel Pacifico e un altro nella città-mostro, nella sterminata giungla d’asfalto di Città del Messico. Questo, più o meno, è quello che ci troverete.
Scusate se mi sono dilungato, ma ogni corrido ha bisogno di un prologo, che introduca quello che si va a narrare. Questo era il prologo, e ora possiamo cominciare.
Asì que aquì estoy yo, una mujer indigena. Nadie tendrà por que sentirse agredido, humiliado o rebajado porque yo ocupe hoy esta tribuna y hable.
Quienes no estàn ahora ya saben que se negaron a escuchar lo que una mujer indigena venia a decirles y se negaron a hablar para que yo los escuchara.
Mi nombre es Esther, pero eso no importa ahora. Soy zapatista, pero eso tampoco importa en este momento. Soy indigena y soy mujer, y eso es lo unico que importa ahora.
(E così sono qui io, una donna indigena. Nessuno avrà di che sentirsi aggredito, umiliato o sminuito perché io oggi occupo questa tribuna e parlo.
Quelli che non ci sono ora sanno già che si sono rifiutati di ascoltare quello che una donna indigena veniva a dir loro e si sono rifiutati di parlare perché io li ascoltassi.
Il mio nome è Esther, ma questo non importa ora. Sono zapatista, ma neanche questo importa in questo momento. Sono indigena e sono donna, e questo adesso è l’unica cosa che conta.)
(Comandanta Esther)
Primo giorno: Lunedì 29 ottobre 2018
Il risveglio può essere dolce, a San Cristobal de Las Casas. Può essere dolce se ti svegli e la porta della tua camera si apre su un patio che è un’incredibile esplosione di verde, l’aria è fresca e sei all’inizio di quello che pensi non possa che essere un viaggio meraviglioso. Potrebbe essere ancora più dolce se non ti sentissi ancora addosso il peso di troppe ore di volo, se fossi riuscito a dormire un po’ di più e non avessi ancora un fuso orario da assorbire. Siamo arrivati ieri sera tardi, dopo circa due ore di volo Milano-Madrid, dieci ore di volo intercontinentale Madrid-Città del Messico, un’ora abbondante di volo per arrivare dalla capitale federale a quella del Chiapas, Tuxtla Gutierrez, e poi un’altra ora di pulmino fin qui a San Cristobal, tra le montagne della Sierra Madre. Non siamo lontanissimi dal confine col Guatemala, quel confine che in questi giorni è permeabile, o meglio cede alla pressione delle moltitudini compatte di migranti che lo attraversano quasi di continuo. Ma questa è un’altra storia, avremo modo di parlarne più avanti. Noi non siamo certo insensibili al tema delle migrazioni, ma siamo qui per un altro motivo: scoprire il Chiapas, il suo volto indigeno, la sua natura e la sua dignità fiera e ribelle. Lo faremo, neanche c’è più bisogno di dirlo, con un viaggio che porta il marchio del binomio Radio Popolare – Viaggi e Miraggi. Chi ci accompagna e ci guida in questo mondo così lontano e complesso è Andrea Cegna, che lavora per Radio Onda d’Urto di Brescia ma che collabora frequentemente anche con Radio Popolare, seguendo in particolare tutto quello che si agita nella galassia dei movimenti antagonisti, in Italia e fuori. Il Messico per lui è da anni un posto dove si sente a casa, dal 2003 torna qui in Chiapas almeno una volta l’anno, e conosce bene anche il resto del paese. Da allora segue con attenzione e passione l’evoluzione del movimento zapatista, possiamo dire che ne fa parte, fa parte di quella grande rete internazionale di giornalisti e attivisti che supporta il movimento, lo racconta e lo fa capire a chi vive dall’altra parte del mondo. Ha già scritto un libro su questo argomento, che si intitola 20zln (AgenziaX) e che senz’altro vi consiglio, uscito nel 2014 a vent’anni da quel 1° gennaio 1994 che vide l’EZLN (Ejercito Zapatista de Liberacion Nacional) venire allo scoperto per rivendicare i diritti e difendere la dignità dei popoli indigeni. E un altro libro è in questo momento in gestazione.
Questa è la seconda edizione di questo viaggio. I miei cari amici Giordana e Giuseppe, che l’anno scorso hanno partecipato alla prima, mi hanno fornito recensioni più che entusiastiche del viaggio e di Andrea. Che, se ce ne fosse stato bisogno, mi hanno convinto ancor di più. Ma in realtà avrei voluto farlo anche l’anno scorso, ci ho rinunciato soltanto perché era quasi contemporaneo con quello in Palestina, e purtroppo non potevo farli entrambi. Ma oggi sono qui, e con me altre due amiche che hanno contribuito anche loro a farmi prendere la decisione, Elena e Paola. Il gruppo è di quindici persone in totale: oltre a noi ci sono, in ordine sparso, Alberta e Piercarlo, Cinzia e Benedetto detto Chicco, Silvia e Giovanni, Anna, Lia, Marcella, Giulio e Francesco.
Siamo partiti quasi tutti da Milano, anche se c’è chi arriva dalla zona del lecchese e chi… dall’estero, precisamente dal Canton Ticino. E poi c’è Raffaella che viene da Villafranca, vicino a Verona.
Giulio in realtà è un po’ più di un semplice viaggiatore, lui è di ViaggieMiraggi, ma ci tiene a precisare che è qui in… vacanza. È arrivato prima di noi, e si è già fatto qualche giorno a Città del Messico, così per acclimatarsi.
Francesco è il mio compagno di stanza, ha 24 anni (beato lui) ed è di Molteno, provincia di Lecco. Per nove mesi ha fatto il cameriere a Barcellona, e infatti si è già visto che ha dimestichezza con la lingua spagnola. O meglio, per lui che ha vissuto nella capitale catalana, con il castigliano. Lì, lo sappiamo tutti, non puoi mai azzardarti a dire che parli spagnolo, se ti riferisci alla lingua di Cervantes. Verrai immediatamente corretto: “No tio, tu hablas castellano”. O almeno così succedeva qualche anno fa, quando per la maggior parte i catalani si sentivano comunque parte della Spagna, pur con la loro forte identità, e ci tenevano a sottolineare che il castigliano non è l’unico idioma spagnolo. Ora, in tempi di indipendentismo dominante, forse non è più così, da parecchi anni non metto piede da quelle parti e posso solo immaginarlo. Ma non divaghiamo, dicevo che Francesco parla un buon castigliano e non solo perché ha vissuto a Barcellona, ma anche perché, quando ha deciso di tornare a casa (ora fa l’idraulico con il papà a Molteno), si è portato una fidanzata spagnola. L’ha conosciuta a Barcellona ma lei, Irene, è andalusa, di Cadice. È a lei che ogni tanto manda dei “vocali”. Io cerco di rispettare la sua privacy, ma a volte non posso fare a meno di sentire; e capisco, perché anch’io ho una certa dimestichezza con la lingua. E, forse più di lui, ho anche un po’ di familiarità con certe specificità dello spagnolo che si parla in America Latina, dopo aver viaggiato in Argentina, in Cile e due volte a Cuba. Per questo ho cercato di dargli qualche consiglio per… ambientarsi più in fretta. In realtà ogni paese ha le sue specificità linguistiche, ma ci sono delle caratteristiche comuni come il seseo (che significa che la c e la z in parole come gracias, entonces, azul, cruz ecc. non si pronunciano con la lingua tra i denti ma come una normale s sorda italiana) e l’uso di ustedes (terza persona plurale “formale” che in realtà non lo è) al posto di vosotros (seconda). Ma Francesco è sveglio, se la caverà benissimo da solo. A quanto sembra, tra l’altro, ha già deciso di tornare a Barcellona, e presto, forse già tra qualche mese. Anche riguardo a questo lo capisco, io amo Barcellona e sono convinto che per un ragazzo della sua età e con le sue idee (se è qui con noi qualcosa vorrà dire), nonostante tutti gli attuali casini politici, sia il posto ideale dove vivere.
Un’altra cosa che me lo fa subito apprezzare è che anche lui scrive quello che potrebbe essere un diario di viaggio, l’ho visto appuntarsi delle cose. Dice che lo fa solo per sé, che non è legato al viaggio ma è qualcosa che fa più o meno sempre, e non ha intenzione di condividerlo, ma non si sa mai… ma comunque già che lo faccia, e che lo faccia su un quaderno cartaceo, è una gran cosa. Non è l’unico, tra l’altro; ho già visto che in questo gruppo diverse persone hanno l’abitudine di prendere appunti e tenere un piccolo diario.
Ieri sera abbiamo già conosciuto, anche se per ora solo di sfuggita, Roberto, che insieme a sua moglie Betty e con il contributo fondamentale di Andrea, ci introdurrà nella complessità di questa terra e nella varietà delle sue culture, indigene e non. Lui è di Padova, ma si è stabilito qui ormai da 12 anni. È arrivato nel Chiapas nel 2001 come osservatore per i diritti umani, in una comunità zapatista. In quel periodo stava facendo una tesi di laurea in economia del turismo, con il turismo responsabile come argomento. Quell’esperienza lo ha legato profondamente a questa terra, poi si sa, da cosa nasce cosa… Betty è anche lei veneta, ma curiosamente si sono conosciuti qui. Dal 2006 vivono qui in pianta stabile e hanno messo su Lajkin, un’agenzia che si occupa di turismo responsabile. Hanno due bambini: Diego di 8 anni e Fabio di 3. Da poco hanno anche comprato collettivamente 5 ettari di bosco, dove vorrebbero realizzare un ecovillaggio.
A dare colore al patio dell’hotel Jovel, dove alloggiamo, oltre ai fiori dello splendido giardino, ci sono quelli che adornano l’altarino che è stato allestito per il giorno dei morti. Sappiamo già che il Dia de Muertos, in Messico, è una festa importantissima e molto sentita, forse più dello stesso Natale. In questa occasione, c’è l’usanza di preparare un altare per i propri cari che non ci sono più, a volte con le foto a volte senza. Quello che non può mancare mai sono i fiori, e in particolare si usano i cempasùchil, dei fiori arancioni simili ai garofani, che qui sono i fiori dei morti. Ma ci devono essere anche i cibi e le bevande che piacevano di più al o ai defunti, e quindi è facile vedere frutta, verdura, pane, tortillas, birra, coca cola e chi più ne ha più ne metta. E poi, davanti all’altare, deve esserci un tappeto di aghi di pino, perché gli aghi di pino con il loro profumo devono guidare il cammino verso la purificazione dei vivi e devono indicare la strada alle anime che in questo giorno ritornano sulla terra. Qui, in mezzo agli aghi di pino è stata poi disegnata una croce di cempasùchil.
Questa mattina sarà Betty ad accompagnarci alla scoperta di San Cristobal, ma prima ci vuole una buona colazione. Vorrei seguire l’esempio di Andrea, che da messicano navigato fa colazione con le chilaquiles, che sono delle strisce di tortillas fritte in salsa piccante, verde o rossa, e servite con uova e carne di pollo o tacchino. Però per oggi preferisco partire più piano, con qualcosa di più leggero: cereali, yogurt e dell’ottima frutta (banane, ananas e papaya).
Dobbiamo anche scegliere qualcuno che tenga la contabilità della cassa comune del gruppo, anche se i soldi che abbiamo raccolto li terrà Andrea. Abbiamo cambiato all’aeroporto di Città del Messico un po’ di euro in pesos, almeno per i primi giorni. Attualmente il cambio è intorno ai 22 pesos messicani per un euro. Dato che Francesco già si porta sempre dietro un quadernetto, sembra una scelta sensata affidare il compito a lui: è anche giovane e dotato sicuramente di buona memoria. E così, per acclamazione, viene nominato tesorero. Va da sé che, essendo il più giovane, è anche già diventato la mascotte del gruppo. Cosa che, per altro, lui sembra viversi con serenità.
La visita a San Cristobal, che sarà la nostra base dalla quale partire per esplorare le montagne e gli altipiani del Chiapas, non può che iniziare dallo zocalo. Lo zocalo è la piazza centrale di ogni città messicana, piccola o grande. San Cristobal ha circa 180.000 abitanti, e fu fondata nel 1528. Fu una delle prime città fondate dagli spagnoli in America centrale. Si chiamò prima Villareal, poi Ciudad Real, per poi prendere il nome di San Cristobal, San Cristoforo, il portatore di Cristo; “de Las Casas” fu aggiunto in onore di frate Bartolomé de Las Casas, primo vescovo di Ciudad Real, che si batté per i diritti degli indios. È stata capitale del Chiapas in epoca coloniale, oggi non lo è più, soppiantata da Tuxtla Gutierrez, ma resta la capitale culturale.
Negli ultimi anni è diventata una città molto turistica, ne abbiamo parlato ieri sera con Andrea, che ovviamente la conosce più che bene e ne ha potuto vedere l’evoluzione. Il turismo, come sempre accade, non è privo di conseguenze sul piano sociale. Qui nel Chiapas l’aumento del turismo è stato anche incentivato dal governo messicano in chiave antizapatista, nell’ambito di una strategia finalizzata a dividere le comunità indigene: con il turismo si fanno soldi certamente più facili che facendo i contadini, e questo ovviamente provoca contrasti tra chi guadagna col turismo (e ne vuole sempre di più) e chi resta legato allo stile di vita tradizionale. Chiaramente, il turista non viene se non ha l’impressione di trovarsi in un posto sicuro, e quindi questa strategia prevede un territorio molto meno militarizzato rispetto ad alcuni anni fa. I militari ci sono ancora, ma si vedono meno, le basi sono più nascoste e lontane dalla città, insomma la guerra all’insurrezione indigena zapatista oggi si combatte con altre armi.
Ci troviamo a circa 2200 m, ma la temperatura, che nelle prime ore del mattino è fresca, sta già diventando gradevole. Il sole splende, anche se qua e là si scorgono all’orizzonte nuvoloni neri e minacciosi.
Nello zocalo, davanti al palazzo municipale, Betty ci racconta che qui, come del resto in tutta l’America Latina, la colonizzazione fu molto dura. Non solo gli indigeni vennero sterminati con le armi e dalle malattie portate dagli europei, per le quali non avevano anticorpi, ma in più la sopraffazione e la negazione della loro dignità di esseri umani hanno lasciato conseguenze che si vedono ancora oggi. L’essere considerati animali li ha portati a interiorizzare un senso di inferiorità rispetto all’uomo bianco che ancora oggi si fa sentire e Betty, da antropologa, sa quanto sia difficile da destrutturare. La Chiesa, naturalmente, sostenne questo tipo di trattamento, fino a quando Bartolomé de Las Casas, un domenicano, che all’inizio come tutti i sacerdoti aveva appoggiato questa linea, conoscendo più da vicino la realtà indigena si rese conto dell’ingiustizia e della crudeltà di questo pregiudizio. Ci vollero però 60 anni perché alle popolazioni indigene fosse riconosciuta l’anima. Quello che difficilmente si racconta di Bartolomé de Las Casas, figura certamente illuminata per l’epoca, è che non fu altrettanto illuminato con i neri africani, quando iniziarono ad arrivare i barconi che li portavano in catene come schiavi. Loro, per vedersi riconosciuta l’anima, dovettero aspettare altri due secoli. Qui in questa piazza possiamo vedere la prima chiesa costruita per le popolazioni africane. Simboli del potere spagnolo sono stati la picota (la gogna) e la ghigliottina.
In tempi recenti la chiesa cattolica è stata vicina alle rivendicazioni della popolazione indigena soprattutto con il vescovo Samuel Ruiz, che è stato una figura molto importante anche nella crescita del movimento zapatista. Pur non avendone condiviso la scelta dell’insurrezione armata, lo ha sempre appoggiato. Fu lui a fare da mediatore tra i guerriglieri dell’EZLN e lo Stato nel 1994, quando dopo 12 giorni di guerra iniziarono i colloqui, che portarono poi ad accordi firmati ma mai realmente ratificati.
Il Chiapas è uno stato dove la presenza indigena è molto forte: su 5 milioni di abitanti, un milione sono indigeni. Già nelle strade di San Cristobal, che pure è una città cosmopolita e turistica, questo si vede. E si capisce che anche oggi le loro condizioni di vita non sono sempre facili. Donne indigene vestite in abiti tradizionali, accompagnate da bambini anche molto piccoli, vendono braccialetti o altri piccoli souvenir. Alcuni bambini chiedono l’elemosina. Betty ci spiega che non sono bambini di strada, o almeno non tutti. Bisogna distinguere tra niños en situaciòn de calle, che hanno una casa e una famiglia anche se spesso sono costretti a passare tutta o quasi tutta la giornata in strada, e niños de calle, che si trovano in condizioni reali di abbandono. Questi ultimi esistono, anche se sono una minoranza. Ci sono bambini nati in comunità isolate o comunque in situazioni difficili che non sono registrati all’anagrafe, non hanno documenti e quindi non possono andare a scuola.
I gruppi etnici sono vari (Tzotzil e Tzeltal i principali) ma sono tutti discendenti dei maya.
La premessa che ha fatto subito Betty è che l’idea, sua e di Roberto, è quella di darci gli strumenti per capire la complessità, e credo che sia proprio quello che ci serve.
L’architettura, nella piazza e in tutta San Cristobal, racconta molto anche della storia della città. Il Chiapas, fino a metà dell’ottocento, faceva parte della capitania del Guatemala, non del Messico. E quindi c’è molto barocco, ad immagine e somiglianza dell’antica Città del Guatemala. A metà dell’ottocento, con un referendum, il Chiapas viene annesso al Messico e comincia lo stile neoclassico, che è quello del municipio, oggi diventato un museo.
Qui ogni sera si suona la marimba, uno strumento tradizionale simile allo xilofono.
Al centro della piazza si trova la croce fogliata, che esisteva già nel mondo maya e che rappresenta la ceiba, un albero importantissimo in tutte le culture indigene, come albero sacro che con le sue radici e la sua chioma collega il cielo alla terra e all’oltretomba. Intorno, vediamo dei ragazzi in costume che cercano di raccogliere qualche spicciolo. Uno dei personaggi rappresentati è la Catrina, che nasce da un’opera creata dal grande illustratore messicano Josè Posada intorno al 1910. Si tratta di uno scheletro di donna vestito solo di un cappello in stile inizio XX secolo. Nelle versioni moderne, in realtà, generalmente la Catrina indossa anche un vestito della stessa epoca. Era un ritratto satirico di quei messicani che nell’epoca pre-rivoluzione, secondo Posada, avevano l’aspirazione di adottare tradizioni aristocratiche europee, ma ora è anche forse la più grande icona del Dia de Muertos.
Due fiumi, il Fogotico e l’Amarilllo, attraversano la città. Ma sono ridotti purtroppo a due cloache.
La cattedrale, danneggiata dal violento terremoto di circa un anno fa, non è al momento visitabile. E non sempre lo è anche la chiesa di Santo Domingo, intorno alla quale si sviluppa uno dei vivaci e coloratissimi mercati della città. Nei mercati c’è l’opportunità di vedere ancora meglio gli abiti tradizionali indossati dagli indigeni, in particolare dalle donne. Molte portano gonne di lana grezza, e le bluse dette huipil, che possono essere bianche o colorate, più semplici o riccamente ricamate. I colori e i motivi tradizionali identificano l’appartenenza a un gruppo o a un villaggio, per cui per chi è esperto è possibile capire di dov’è una persona da quello che indossa. La casacca tradizionale di Zinacantan, ad esempio, era una tunica lunga rossa ma poi, negli anni ’60, ha cominciato a svilupparsi un’economia locale basata molto sulla coltivazione di fiori, con serre che spuntavano un po’ ovunque. E da allora prima i fiori, e poi anche gli animali, sono entrati a far parte dei motivi ricamati sugli abiti. Questo ci fa capire come anche le culture indigene si trasformino, nonostante spesso si abbia la convinzione errata che siano immutabili e sempre cristallizzate su un passato glorioso e rimpianto, come se il tempo si fosse fermato secoli fa.
Un altro elemento tradizionale è il mecapal, una fascia di cuoio o di tessuto che si porta sulla fronte e che serve per trasportare di tutto, legando il carico sulla testa con delle corde. Lo usano di solito le donne.
Girando nel mercato abbiamo la possibilità di immergerci un po’ nell’atmosfera, che è già da vigilia della festa, e di far conoscenza con prodotti tradizionali come la noce di macadamia e il chayote, una specie di zucca spinosa che ha un sapore tra la patata e la zucchina. Su tutto però predomina il peperoncino, che qui si chiama chile e che forma, con sale e limone, quella che è, per i messicani, la trinità, proprio perché è qualcosa di sacro: Chile, sal y limon.
Betty, tra le varie cose, ci racconta anche che qui, per le feste, si usa una pignatta a sette punte, sette come i peccati capitali.
Il mercato è pieno di dolciumi di tutti i tipi, tra cui spiccano i teschietti di zucchero fatti per la festa dei morti.
Un altro articolo che va moltissimo, in questa occasione ma probabilmente anche sempre, sono le candele, di varie dimensioni e con varie decorazioni, utilizzate per la venerazione dei santi, il ricordo dei morti e in generale per le veglie di preghiera: si chiamano infatti veladoras.
La bellissima facciata barocca della chiesa di Santo Domingo, adornata con sirene, angioletti indigeni e decorazioni floreali, presenta una finestra corale, dalla quale si diceva messa per gli indigeni, che restavano fuori. Per loro, infatti, era d’abitudine assistere ai riti sacri all’aperto, non era naturale per loro rinchiudersi in una chiesa per pregare. Alcune statue con le teste tagliate sono il ricordo di una rivolta indigena del 1700. Oggi per nostra fortuna la chiesa è visitabile anche all’interno, e ci permette di vedere che qui la devozione verso il Cristo, la madonna e i santi assume forme piuttosto diverse da quelle a cui siamo abituati. Per esempio tutte le statue dei santi sono vestite, e Gesù è sì rappresentato con un crocifisso classico, ma si trova anche un insolito Gesù seduto su una specie di trono, tra lussuosi paramenti e cuscini, nella posizione di colui che tiene il bastone del comando. Questo è il modo in cui tradizionalmente nel mondo indigeno si rappresentano le autorità. Nelle comunità queste autorità sono in carica generalmente per un anno, a rotazione; non prevedono un compenso, perché è sufficiente l’onore di poter servire la comunità. Il passaggio dei poteri avviene con una cerimonia in cui, simbolicamente, si passa il bastone del comando.
Dopo aver girato un po’ per i mercati e dopo uno spuntino a base di frutta, saliamo la scalinata che porta alla Chiesa dedicata alla Virgen de Guadalupe, che anche qui non manca. La Virgen, il cui santuario si trova a Città del Messico, dove nel ‘500 sarebbe apparsa all’indigeno Juan Diego, è oggetto di grande devozione in tutto il paese e anche in altri paesi dell’America Latina. Anche qui si vedono crocifissi che anziché indossare il classico perizoma sono infiocchettati come caramelle in una specie di fascia piena di lustrini o di uno sgargiante azzurro, e intorno al ritratto della Virgen con il suo manto stellato ci sono tre giri di luci al neon con i colori della bandiera messicana: rosso, bianco e verde. Per noi sarebbe l’apoteosi del kitsch e verrebbe forse anche considerato blasfemo, ma qui è la normalità.
Passeggiando verso il posto dove ci aspettano per pranzo, Betty ci racconta qualcosa anche del sistema scolastico messicano. L’obbligo arriva ai 15 anni e ci sono due cicli paragonabili alle nostre primaria (qui però sono 6 anni) e secondaria (3 anni). Dopo di che ci sono 3 anni di preparatoria (la scuola superiore) per potersi iscrivere all’università. Alla scuola primaria pubblica, però, ci possono essere anche 45 bambini per classe, e quindi lei anche se un po’ le dispiace si vede costretta a mandare il suo bambino più grande ad una scuola privata. L’altro, che è ancora piccolo, va a quello che qui si chiama il kinder.
Il pranzo, che è il nostro primo pranzo veramente messicano, si svolge al Tierradentro, un locale che è anche una sorta di centro culturale e che Andrea ha chiaramente definito “un posto di compagni” (anche se ora non è più legato all’organizzazione zapatista). E lo si capisce da diversi striscioni e manifesti che campeggiano insieme agli scheletri appesi per la Festa dei Morti. Alcuni chiedono verità e giustizia per i 43 studenti della Scuola Normale di Ayotzinapa, che quattro anni fa sono stati rapiti e probabilmente uccisi (i corpi non sono mai stati trovati) nello stato del Guerrero. Questo episodio ha sollevato in tutto il paese un’ondata di indignazione, anche e soprattutto per il modo financo maldestro in cui il governo messicano ha cercato di insabbiare tutto incolpando i narcos, per mascherare il coinvolgimento dei militari che fin da subito è sembrato evidente alla maggior parte degli osservatori indipendenti. La protesta di quei ragazzi contro la riforma del sistema educativo dava forse fastidio, ma soprattutto probabilmente il fatto è da inquadrare in una sorta di strategia della tensione messicana, che ha prodotto negli ultimi anni cifre spaventose. Le stime più ottimistiche parlano di 35-40.000 desaparecidos, ma secondo alcune fonti sarebbero addirittura 250.000 negli ultimi 12 anni, caratterizzati dai mandati presidenziali di Calderon e Peña Nieto. Negli ultimi 10 anni sono state rinvenute 3000 fosse comuni: il numero di persone i cui resti si trovano in queste fosse non è stato stimato, si sa solo che sono stati ritrovati 2000 cadaveri interi, non si sa quanti siano quelli fatti a pezzi e sparsi in diverse fosse. Il fatto positivo, nella tragedia di Ayotzinapa, è che si è risvegliata un po’ di attenzione internazionale. Uno dei cartelli recita infatti: “Hanno cercato di farci sparire, ora appariamo in tutto il mondo”…
Ci sono tantissimi piatti messicani che avrei voglia di provare, dopo i classici stuzzichini a base di nachos, salsine varie e guacamole, ma alla fine mi oriento su un pollo en mole chiapaneco con arroz. Il mole è una salsa preparata con vari tipi di peperoncino e con un numero pressoché infinito di altri ingredienti variabili. Quello chiapaneco si caratterizza per la presenza di pomodoro, cipolla, arachidi, uva passa, tortilla fritta, pan dulce fritto, banana fritta e cioccolato in abbondanza. È sicuramente una combinazione di dolce e piccante piuttosto ardita, ma a me piace.
Dopo pranzo il gruppo va a scoprire tutti i segreti dell’ambra in un negozio qui vicino (i gioielli fatti con l’ambra sono molto popolari qui, perché si crede che l’ambra doni protezione a chi la indossa), ma io e Francesco preferiamo fermarci a comprare qualche gadget in un negozietto degli zapatisti. Per la verità, ci attardiamo un po’ perché lui vuole comprarsi degli anfibi e così dobbiamo un po’ correre per non arrivare in ritardo all’appuntamento col resto del gruppo.
È un appuntamento importante, perché è quello con la visita all’Hogar Comunitario Yachil Antzetic, un centro che dal 1997 offre sostegno alle ragazze madri e a tutte le donne in difficoltà per gravidanze indesiderate, che hanno subito violenza, che sono state abbandonate dal compagno o con problemi in famiglia o nella comunità di appartenenza, tutti eventi purtroppo non infrequenti da queste parti.
La Casa Famiglia Yachil Antzetic accoglie e assiste giovani ragazze indigene e non indigene nei loro ultimi tre mesi di gestazione, e fornisce loro consulenza e assistenza prenatale, durante e dopo il parto. Riceve una media di 200 donne all’anno, di cui un centinaio vengono accolte nelle sue strutture nell’ultimo trimestre della gravidanza e fino a un mese dopo il parto. Una cinquantina di loro chiede un sostegno psicologico o legale.
Si tratta di donne per lo più molto giovani, che giungono alla casa famiglia in cerca di una soluzione per una gravidanza indesiderata. Per entrare in casa è necessario essere al settimo mese di gravidanza, vivere una situazione di emarginazione o di abbandono, senza una famiglia o comunque senza le disponibilità economiche per affrontare la gravidanza e il parto.
La maggior parte delle donne ospitate da Yachil Antzetic, che significa “nuove donne” in lingua tzotzil, sono lavoratrici domestiche nella città di San Cristóbal. Altre provengono direttamente dalle loro comunità; tutte hanno una gravidanza indesiderata, alcune sono state violentate dai loro datori di lavoro o dagli stessi familiari.
Quando sono ospiti della casa famiglia vengono supportate da psicologhe e infermiere che le accompagnano nel processo prenatale e si prendono cura della loro salute fisica ed emotiva, soprattutto per quelle che sono passate attraverso la violenza sessuale.
Il progetto crede nel parto “humanizado”, amoroso e accompagnato. Al momento del parto le donne possono scegliere se tenere il bambino o darlo in adozione e per tutto il primo mese continuano ad essere sotto la cura della Comunità. Al secondo mese devono uscire ma Yachil le appoggia nella ricerca di un lavoro e di una casa e possono continuare a utilizzare il supporto psicologico e partecipare a tutti i laboratori di autostima, di produzione e ai momenti di incontro tra donne.
Ci accolgono Sandra, operatrice del centro da 23 anni, e Mari, una donna indigena che dopo essere stata lei stessa ospite è diventata ostetrica e fa anche parte del consiglio direttivo dell’associazione. Quando si presentano, Sandra dice scherzando che Mari è in questo senso la sua jefa, la sua “capa”.

Betty e Sandra

Betty e Mari
Mari, vincendo quel po’ di imbarazzo che ancora prova quando le tocca parlare in pubblico, ci spiega che avendo lei stessa alle spalle una storia simile a quella delle ragazze che accoglie può entrare più velocemente in una profonda empatia con loro, e per loro è lei stessa la prova che “Sì, se puede”, che anche una ragazza indigena in difficoltà può riuscire a portare avanti la gravidanza, a uscire dal circolo di violenza e non solo, può trarre da questa esperienza la forza e l’autostima per trovare la sua strada nella vita.
Dopo aver guardato un breve video sul centro, ci mettiamo in cerchio, facciamo ciascuno di noi una breve presentazione di se stesso e poi Mari ci racconta la sua storia. Di come è entrata in questo luogo nel 2000, di come ora fa il suo lavoro con grande piacere, con tanto amore per questo spazio. Perché a livello personale ed emotivo questo posto ha rappresentato tutto, per lei e per i suoi figli. Ora il suo figlio più grande, quello nato nel 2000, è entrato all’università, e lei lo dice con orgoglio misto a commozione perché si è dovuta separare da lui. Sandra la consola dicendole che lo rivedrà tra poco, che tra un paio di giorni tornerà a casa. È un momento molto toccante, che se volete potete apprezzare vedendo Mari e ascoltando la sua voce:
Mari spiega che per lei e per tutte le sue colleghe il lavoro che fanno con le donne è anche una sorta di alimento quotidiano, da cui prendono forza. Non si tratta solo di fare il lavoro più tecnico, dice lei di “palpare il bebè”, ma è soprattutto un lavoro sull’aspetto interiore. Per questo c’è anche un’area dove le donne imparano a fare piccoli lavori di artigianato, soprattutto tessitura. Perché un punto centrale del progetto è fare in modo che le donne capiscano che se si impegnano e se sono ben guidate possono imparare a fare delle cose, che hanno una dignità e un valore. Questo è di fondamentale importanza per la loro autostima e per il percorso che faranno fuori di qui. Dentro questi piccoli lavori ci sono i loro sforzi, la loro capacità di ottenere un risultato, i loro sentimenti, i loro sogni. Questo rompe un sistema di violenza che dura da generazioni e che mette la donna al di sotto dell’uomo, togliendole dignità.
Ultimamente stanno lavorando anche con coppie; è un lavoro bello e importante, dice Mari, che consiste in laboratori di autocoscienza e conoscenza del proprio corpo, che sono molto utili perché molte ragazze arrivano qui senza sapere nulla, non hanno la minima idea di quello che succederà al loro corpo durante la gravidanza. La sfida è insegnare alle donne a gestire il più possibile in autonomia il processo che le porterà al parto. E’ importante anche il lavoro di prevenzione che fanno all’interno delle comunità.
Le storie di queste ragazze, dopo il parto, proseguono in maniera diversa. C’è chi rimane in città e chi torna nella propria comunità, ma lo fa comunque dopo un percorso di crescita personale che in genere dà gli strumenti per potersi difendere meglio anche in ambiti difficili. C’è anche qualche ragazza che ritorna poco tempo dopo di nuovo incinta, perché è comunque un percorso non facile.
C’è ancora nella società lo stigma che queste donne devono subire per essere rimaste incinte fuori dal matrimonio, ma negli ultimi anni, ci racconta Sandra, da questo punto di vista la situazione è un po’ migliorata. A livello più generale e nazionale, però, molte cose sono peggiorate, per quanto riguarda la violenza sulle donne. In Messico tutto è intimamente legato al problema del narcotraffico; per secoli la violenza sulle donne è stata associata al tema del machismo e all’alcolismo, soprattutto nelle comunità indigene, ma negli ultimi 40-50 anni il problema del narcotraffico si è aggravato. Ora non si può più parlare di cartelli, ma di vere imprese che hanno il controllo del mercato e del territorio, e le donne finiscono prigioniere di questa rete. Può nascere da una cosa semplice come conoscere un ragazzo, non sapendo che cosa fa per vivere, e scoprire poi che ha familiarità con la violenza perché è coinvolto nel narcotraffico. A quel punto, può bastare un comportamento che non piace al ragazzo, o a maggior ragione un tradimento, o la volontà di lasciarlo, e la ragazza paga con la vita. Anche qui si è iniziato da parecchio ormai a parlare di femminicidi, che sono all’ordine del giorno.
Per esemplificare le difficoltà che possono trovare nel lavoro di tutti i giorni, Sandra e Mari ci raccontano la storia di una donna che ha partorito il quarto bambino pochi giorni fa, il 15 ottobre, e che ha problemi di ritardo mentale. La donna ha detto alle operatrici del centro che le hanno rubato il bambino, ma in realtà lo aveva venduto, per non più di 500 pesos. Alla madre la donna aveva detto che il bimbo era morto, quindi lei si è messa a cercarne il cadavere e tutta la famiglia è arrivata al centro a chiedere dove fosse il corpo. Nel frattempo la donna, dopo aver parlato con Mari, si era pentita ed era andata a riprendersi il bambino; quindi mentre le operatrici, che non sapevano niente perché in quel momento Mari non c’era, stavano dicendo alla famiglia che a loro il bambino risultava fosse stato rapito, la donna si è presentata con il bambino in braccio. Per molti anni la vendita di bambini nelle comunità più povere è stato un fatto abbastanza frequente, con cui le operatrici hanno imparato a fare i conti; ci potevano essere molte ragioni, dal rifiuto dell’uomo di assumersi la paternità al rifiuto da parte della famiglia della donna di accettare un bambino nato fuori dal matrimonio. Quando denunciavano il caso alla polizia la lentezza delle indagini, causata dalla burocrazia degli uffici, era proverbiale. In genere però il bambino veniva venduto o ceduto a una coppia sposata all’interno della famiglia. In questo caso invece no, non si sapeva chi lo avesse comprato. Negli ultimi 10 anni succede spesso che in questi traffici siano coinvolti delinquenti, e le operatrici devono stare molto attente.
Ora, purtroppo, il traffico di organi dei bambini e il traffico di bambini da destinare alla prostituzione sono diventati problemi di cui si parla, ma quello di cui si viene a conoscenza è probabilmente solo la punta dell’iceberg. Queste reti sono invisibili; Sandra dice che sarebbe troppo rischioso per loro impicciarsi in affari del genere, quando senza che loro lo sappiano lo stesso vicino di casa della donna potrebbe essere implicato nel traffico. Il lavoro che stanno facendo è quindi sulle donne, perché siano coscienti dei rischi a cui vanno incontro. Nel caso di questa giovane, che ha un ritardo mentale che però la famiglia non accetta e che quindi è sempre stata trattata senza l’attenzione che meriterebbe, quello che è servito è stato il lavoro di Mari. La ragazza ha detto a Mari: “Sei stata l’unica che mi ha parlato in un modo che io posso comprendere”.
In Messico l’aborto è tuttora illegale. Oggi ci sono forme di aborto illegali ma relativamente sicure. Bisogna tener conto che il Chiapas è lo stato del Messico che ha il più elevato tasso di mortalità materna, e quelle contate sono solo le morti avvenute all’interno del sistema della sanità pubblica.
Sandra ricorda Don Samuel Ruiz, che è stato tra i fondatori di questa casa e a cui lei molte volte ha avuto la fortuna di poter parlare nell’intimità di una cucina per chiedergli consiglio. È questo che le manca di più ora che Don Samuel non c’è più, non tanto la mancanza di risorse economiche perché quelle sono scarse ora ma lo erano anche prima.
Finiamo a parlare del futuro del Messico e delle prospettive che si aprono con l’elezione del nuovo presidente Andres Manuel Lopez Obrador, che entrerà in carica il 1° dicembre. È il primo presidente che viene percepito come autenticamente di sinistra dopo molti anni. Il Messico viene da oltre 70 anni di governo di un unico partito, il PRI (Partido Revolucionario Institucional), un nome che è un ossimoro, il partito nato dalla rivoluzione messicana che negli anni è diventato di fatto un partito di centrodestra. È una delle migliori esemplificazioni di quel detto latinoamericano secondo cui “El poder es como el violìn: se toma con la izquierda pero se toca con la derecha” (il potere è come il violino: si prende con la sinistra ma si “suona” con la destra). Il PRI in pratica ha governato sempre, se si esclude l’intervallo 2000-2012 dei due mandati di Vicente Fox e Calderon, del PAN (Partido de Acciòn Nacional). Ora Lopez Obrador detto AMLO, eletto lo scorso 1° luglio, sta generando nuove speranze ma anche molto scetticismo. Sandra dice che ha fiducia in lui come persona, ma dubita che in sei anni di mandato possa fare realmente qualcosa per cambiare un paese con un sistema politico così corrotto, tenendo conto che si troverà di fronte interessi giganteschi e le collusioni con il narcotraffico ormai incancrenite. Ci vorrebbero molti AMLO, dice, e molti anni. Andrea aggiunge che lo Stato, e soprattutto la polizia, più che essere collusi con i narcos sono la stessa cosa. Individualmente nessuno ha la forza per contrapporsi ad un sistema del genere. La speranza viene solo dalla società civile, dai movimenti sociali che possono lavorare sulla coscienza delle persone per fare in modo che tutti insieme si riesca ad uscire da questa logica perversa, togliendo al crimine e alla corruzione l’acqua in cui nuotano. Ma ovviamente è un processo lento e faticoso.
A conclusione dell’incontro, estremamente interessante ed emozionante, lasciamo il nostro piccolo contributo all’attività dell’Hogar. Io, da parte mia, ho anche un contributo… materiale, costituito da vestiti per bambini, matite colorate e giochi che ho raccolto tra amici e colleghi (colleghe, per essere precisi). È bello vedere i sorrisi di Sandra e di Mari quando vedono un orsacchiotto-zaino e una bambola che, dicono, sarà perfetta per le simulazioni che Mari fa per spiegare il parto alle ragazze.
Non può mancare, prima di salutare, una visita del centro con le sue attrezzature, ad esempio la vasca per il parto in acqua, le stanze dove dormono le ragazze, i giochi per i loro bambini; c’è una commovente parete decorata dalle impronte dei piedini dei neonati. E poi qualche acquisto dei lavori di artigianato fatti dalle ragazze.
Un’altra cosa bella è vedere Mari che scherza con Andrea, un uomo straniero che conosce appena, sulla sua pancia, chiedendogli quand’è che LUI partorirà. Una cosa che poche donne indigene si permetterebbero, forse nessuna, e che fa capire davvero quanta consapevolezza e quanta forza in più abbiano dentro le donne che passano per questo percorso virtuoso, soprattutto se poi come Mari ne fanno la propria vita.

Foto di Giovanni Gianfranco Candida
Tornando verso l’albergo, passiamo per l’Hospital de la Mujer, dove uno striscione dei sindacati informa che il personale sta lavorando in una situazione di assemblea permanente per protestare contro la carenza di medicinali, finanziamenti e risorse umane che è diventato un dato cronico. Anche questo fa riflettere sulla situazione di questo paese.
Per cena, anche per alleggerire un po’ dopo un pomeriggio così intenso, Andrea ci porta alla Meson del Taco, dove ci possiamo sbizzarrire nella scelta di ogni genere di ripieno possibile per le nostre tortillas. Il posto è autenticamente popolare, che è sempre una buona cosa. E il rapporto qualità-prezzo è senz’altro buono.
Poi, con un gruppetto di coraggiosi, ci facciamo un mezcal per concludere come si deve la prima vera serata messicana. Ieri sera eravamo troppo cotti per il viaggio. Il mezcal, meno famoso della tequila ma altrettanto simbolico e legato alla tradizione messicana (anzi forse di più, perché mediamente si tratta di un prodotto meno industriale) è un liquore ricavato dall’agave, la cui gradazione si aggira intorno ai 50°. A differenza della tequila, anch’essa derivata dall’agave, si produce solo con la parte centrale della pianta, conosciuta come espadin. Questo cuore, ottenuto tagliando tutte le foglie, viene cotto in forni interrati, triturato e lasciato macerare per 15 o 30 giorni. Dopo la distillazione, il liquore viene invecchiato in botti di legno dai due mesi ai sette anni. Più invecchia, più assume un colore dorato. È famoso anche, forse soprattutto, perché all’interno della bottiglia, per aromatizzare, può essere messo quello che viene chiamato el gusano, il verme, ma in realtà è la larva di un coleottero, un parassita della pianta dell’agave. La tradizione vuole che se ti tocca l’ultimo bicchiere devi ingoiare anche il gusano. Ma noi abbiamo scelto ciascuno un bicchiere di un mezcal diverso, per assaggiarne un po’, e quindi il verme non è toccato a nessuno.
Secondo giorno: martedì 30 ottobre 2018
Facciamo colazione nella cafeteria della cooperativa Maya Vinic, di cui saremo ospiti, presso uno dei cafetales (piantagioni di caffè) associati, anche per il pranzo.
Ad accoglierci c’è Antonio, uno dei soci, che insieme a Roberto ci racconta la storia di questa cooperativa, composta da circa 500 aziende famigliari produttrici di caffè situate in 36 comunità degli altipiani nei comuni di Chenalhó, Pantelhó e Chalchihuitán.
La produzione di caffè non è una novità per gli agricoltori di questa regione. “Reclutati” nelle prime piantagioni agli inizi del 1900 come manodopera mal pagata assunta durante la raccolta, hanno imparato a conoscere la produzione e la trasformazione, e la ricchezza che il caffè aveva fatto per pochi fortunati.
Ispirata dalla tradizione dei suoi antenati Maya Vinic, che significa uomo maya, si organizza ed opera in sintonia con il rispetto per la cultura locale, la lingua, la Madre Terra e le forme tradizionali di auto-governo. Maya Vinic nasce dalla più ampia esperienza sociale della società civile “Las Abejas” (Le Api), una risposta organizzata all’ingiustizia prevalente nelle comunità nella speranza di promuovere un cambiamento positivo e di sviluppo autonomo con mezzi pacifici.
La situazione delle loro comunità è arrivata agli occhi del pubblico all’indomani del terribile massacro di Acteal, dove nel 1997 sono stati uccisi 45 uomini, donne e bambini da parte delle forze paramilitari e in migliaia sono sfollati dalle loro case. Professando la non violenza gandhiana, cosa che li differenziava dagli zapatisti, le persone di Las Abejas non avevano armi, e proprio per questo furono colpiti con ferocia sapendo di andare sul sicuro. Stavano portando avanti tre giorni di preghiera e digiuno come forma di protesta contro la penetrazione di paramilitari nel loro territorio. Nella comunità di Acteal in quel momento si era creato un campo di rifugiati interni, dove le persone si spostavano per fuggire dai contrasti anche violenti che si creavano nelle comunità tra le fazioni più vicine agli zapatisti e quelle che invece appoggiavano i paramilitari. Dopo 2-3 anni di sofferenze legate alle conseguenze del massacro, alla perdita dei raccolti e allo spostamento forzato, le famiglie trovarono la forza di riunirsi e di creare questa cooperativa, che quindi nasce da una storia molto triste ma è anche un grande esempio di resistenza umana. La loro prima esperienza fu con una cooperatrice messicana che, dopo aver comprato tutta la produzione del 1999-2000, scomparve senza pagare un solo peso. L’anno successivo, data questa esperienza negativa forse dovuta anche a qualche ingenuità, i soci scesero da 800 a 400, perché molti si persero d’animo. Questi 400, però, echaron gana, tirarono fuori la voglia di andare avanti e, anche grazie all’appoggio internazionale (osservatori per i diritti umani, giornalisti, collettivi), riuscirono a far vivere e a sviluppare la cooperativa. Cooperative Coffee ha acquistato il primo caffè Maya Vinic da esportare a condizioni di commercio equo e solidale nel 2001.
La struttura organizzativa di Maya Vinic ha un’Assemblea Generale come sua massima autorità. Un’Assemblea dei Delegati della Comunità opera in stretto collegamento con il Consiglio di Amministrazione dei Produttori per svolgere i compiti assegnati per l’Istruzione, l’Assistenza Tecnica, il Marketing, l’Amministrazione e il Comitato locale per l’Arbitrato e la Risoluzione dei Problemi.
Gli agricoltori alla fine sono stati in grado di organizzarsi in cooperative di produttori in cerca di mercati più equi. In linea con questa eredità, Maya Vinic è stata recentemente accettata nel registro di certificazione biologica.
Al fine di poter offrire un caffè costantemente di alta qualità, coltivato con cura e dignità, la Cooperativa offre attività educative e di rafforzamento delle capacità incentrate su tecniche di agricoltura sostenibile e sull’importanza di una forte economia sociale.
Ci assaporiamo una bella colazione lenta, gustando tutti i tipi di caffè possibili: americano, espresso (ebbene sì), macchiato, e il caffè tradizionale, il cafè de olla, preparato per infusione di chicchi macinati grossi in una pentola di terracotta e aromatizzato con la cannella. Andrea ha comprato per noi un po’ di dolci e tamales in abbondanza. I tamales sono dei bocconcini di polenta di mais, che possono contenere anche carne e/o verdure e sono avvolti in una foglia di mais o di banano. Sono diffusi in tutta l’America Centrale, ma la versione chiapaneca prevede un ripieno di fagioli, volendo anche un po’ di carne, e un primo avvolgimento in una foglia di mumo, un’erba aromatica commestibile, prima dell’avvolgimento finale in una foglia di mais. È un cibo così diffuso e popolare che molte donne, soprattutto nei giorni di festa, ne preparano in abbondanza nelle loro case e lo vendono. Per tradizione, le case delle donne che preparano tamales sono segnalate da lanterne rosse, ma in questo caso la Cina non c’entra niente.

Antonio di Maya Vinic
Dopo questa colazione tipica e corroborante, possiamo partire verso la prima tappa della giornata, il villaggio di San Juan Chamula. Daniel, il nostro valente e simpatico autista, è pronto ad accompagnarci nella prima escursione fuori città.
Uscendo dal centro di San Cristobal, abbiamo per la prima volta l’opportunità di vedere i suoi quartieri periferici, che qui come in tutto il Messico si chiamano colonias, mentre barrios sono soltanto i quartieri storici, quelli più antichi e centrali. Spesso le colonias sono costruite su colline, in maniera disordinata e apparentemente senza regole, una situazione comune a tutte le grandi città dell’America Latina. Di alcune si è cercato di ingentilire l’aspetto dipingendo i muri delle case a vivaci colori pastello, ma il risultato è stato raggiunto solo in parte. Sono generalmente quartieri poveri e con un certo livello di degrado; del resto, da queste parti lo stipendio medio si aggira intorno ai 1800 pesos al mese, meno di 90 euro.
Diverse colonie hanno nomi di chiara derivazione religiosa come El Paraiso, El Santuario, El Carmen, Guadalupe, Fatima, Maria Auxiliadora, Monte de los Olivos, Nueva Jerusalem, Nueva Palestina. Spesso i riferimenti alla Bibbia significano che la colonia è cresciuta intorno e insieme a una chiesa evangelica. La diffusione delle chiese evangeliche ha conosciuto una vera esplosione negli ultimi anni in Messico, e soprattutto nel Chiapas. In certe zone la loro penetrazione arriva al 50% della popolazione. Per la maggior parte vengono dagli Stati Uniti, e si finanziano con le offerte dei fedeli. Se preghi (e paghi) avrai la salvezza, questo è il concetto, che a volte riesce a far breccia anche in quartieri popolari dove ci si aspetterebbe che i pochi risparmi delle persone fossero destinati a bisogni più immediati. Ci sono chiari indizi che il fenomeno sia stato cavalcato e addirittura incentivato dal governo messicano, anche in questo caso con l’obiettivo di dividere le comunità (si creano spesso forti contrasti tra i cattolici e gli adepti di queste nuove chiese) e di contrapporsi alla chiesa cattolica chiapaneca, che da Samuel Ruiz in poi è sempre stata non a torto considerata vicina agli zapatisti.
Un effetto di questo tipo si è verificato anche a San Juan Chamula, dove i cattolici, legati al PRI, hanno di fatto espulso molti abitanti convertitisi alle chiese evangeliche, che si sono rifugiati proprio nelle colonie di San Cristobal.
San Juan Chamula, che ha circa 3000 abitanti, è un villaggio con fortissima presenza indigena. Si chiama così perché Chamula è un nome che identifica diverse etnie di origine maya che abitano il Chiapas: Tzotzil, Tzeltal, Mame, Tojolabal, Choles.
In questo municipio di Chamula di cui San Juan è il centro principale gli indigeni sono in netta maggioranza, e sono presenti 12 dei 62 popoli indigeni censiti in tutto il Messico, che hanno ciascuno la sua lingua. A livello nazionale la percentuale di indigeni non supera il 10%. La grande maggioranza della popolazione è costituita da mestizos, meticci, risultanti dall’incontro tra gli indigeni e i bianchi, in tutte le possibili gradazioni. C’è anche una piccola percentuale di neri, eredi degli schiavi africani, e di mulatos. Ma le leve del potere sono ancora saldamente nelle mani dei bianchi, e se uno guarda la televisione messicana può avere l’impressione che il Messico sia un paese di bianchi.
Quando scendiamo dal pullmino il sole splende ma soffia un venticello fresco che ci sferza. Stiamo imparando a convivere con il fatto di trovarci costantemente intorno, o sopra, i 2000 metri di quota.
Abbiamo appuntamento con il giovane Raimundo, che ci farà da guida; ci accoglie sorridente nel suo cappottino di lana grezza nera, che porta con disinvoltura sopra jeans e camicia. Una delle prime raccomandazioni è quella di non fotografare da vicino le persone, che generalmente non lo gradiscono. È ancora diffusa nel mondo indigeno la credenza che la fotografia possa portare via l’anima, ma soprattutto sentirsi come animali allo zoo non piace a nessuno. Anche se l’intenzione è soltanto quella di documentare un viaggio in un luogo per noi insolito e affascinante, bisogna cercare di mantenere equilibrio in queste cose.
Il nostro percorso inizia dal cimitero, e non poteva forse essere altrimenti. Fervono i preparativi per la festa dei morti, che inizia ufficialmente dopodomani. Molti stanno già sistemando e addobbando le tombe. Domani pomeriggio verranno creati gli altari con il cibo tipico, quello che piaceva ai defunti, perché nella credenza locale il 1° novembre arrivano gli spiriti dei morti a condividere il cibo e la festa con le rispettive famiglie. Insieme al cibo ci sarà anche il bere: birra, tequila e tanta coca cola.
Raimundo ci racconta delle radici della religiosità indigena, che affondano nel culto che i maya avevano per le forze naturali come il fuoco, il sole, la luna, il mais e altri frutti della terra.
Il culto dei morti, qui, ha le sue particolarità. Il corpo viene vegliato per due giorni da tutti i membri della famiglia, mentre i vicini e i conoscenti vengono a turno a rendere omaggio al defunto e a visitare la sua famiglia. È una festa in realtà, si fanno grandi mangiate, che richiedono la preparazione di tanto cibo e quindi la collaborazione in cucina di varie famiglie. Il terzo giorno la persona viene portata qui e messa al centro del cimitero, dove rimane a riposare ulteriormente finché non si decide dove scavare la fossa: il posto viene scelto al momento. In passato la sepoltura avveniva senza bara, ora invece con la bara; ai piedi del defunto vengono sepolti i suoi averi.
Sulle tombe si vedono diverse croci: se sono fino a quattro, possono essere quelle che vengono piantate in occasione degli anniversari; se sono di più, significa che nella stessa tomba sono sepolte più persone, come può succedere. Tradizionalmente le croci sono nere per gli adulti e bianche per i bambini fino a 8 anni, ma in tempi recenti si sono iniziate a utilizzare anche croci azzurre e verdi.
Sul lato opposto rispetto al campo principale c’è un campo dedicato agli assassinati, che è ampio, a dimostrazione che l’omicidio soprattutto in passato era un evento piuttosto frequente. Sulle croci appare solo la data di morte.
Nel villaggio, accanto alle case tradizionali, si notano anche alcune vistose villette costruite di recente in stile neoclassico tendente al kitsch. Anche qui c’è qualcuno che ha fatto i soldi, forse in maniera poco chiara, e vuole farlo vedere.
Passando per il mercato, ci spostiamo verso la chiesa di San Juan Bautista, che sorge nel luogo dove c’era una sorgente che nel 1524 è stata chiusa e coperta.
Questo luogo viene chiamato dagli indigeni Chulna, che significa luogo sacro. La struttura è quella di una chiesa, ma il funzionamento è un po’ differente. C’è un sacerdote, che però non è la massima autorità e viene solo una domenica ogni due a celebrare la classica messa cattolica. Ma negli altri giorni, come oggi, si svolgono altri rituali, che hanno carattere decisamente più sincretico e che comunque continuano anche la domenica durante la messa. Il battesimo è l’unico sacramento che si celebra in questa chiesa.
Il sagrato della chiesa, con tutto il cortile all’interno del recinto, è già considerato un luogo sacro, spiega Raimundo, tant’è vero che qui bisogna mantenere un comportamento rispettoso e non ci si può, ad esempio, abbracciare o baciare.
Sulla facciata bianca, che è in stile coloniale, spicca il portale: intorno al portone in legno, tre archi dipinti di diverse tonalità di verde, sui quali sono scolpiti alternativamente fiori a quattro petali, che rappresentano il sole, e a otto petali, che rappresentano la luna. Nel sincretismo in cui si fondono la religione cattolica e le antiche credenze dei maya, Gesù corrisponde al sole, Maria alla luna e San Giovanni Battista alla terra.
Papa Francesco, che ha visitato San Cristobal due anni fa, ha sottolineato il ruolo di questa chiesa nel mantenere le culture ancestrali: forse solo un papa latinoamericano poteva farlo. È la dimostrazione, comunque, che la Chiesa Cattolica non avversa questo tipo di pratiche sincretiche come si potrebbe pensare.
Entriamo all’interno della chiesa, dove ci è stato raccomandato di non fare assolutamente fotografie o video, potremmo passare dei guai abbastanza seri. Il pavimento è coperto da un tappeto di aghi di pino, con pochi passaggi lasciati liberi per spostarsi tra le varie parti della chiesa. Non ci sono sedie o panche, la gente si siede a terra, e così, dopo un primo giro di perlustrazione nel quale tutti cerchiamo di mantenere un comportamento il più rispettoso possibile, facciamo anche noi. Ci sono diversi gruppi di persone, che stanno compiendo ciascuno il proprio rituale.
I riti possono essere per la purificazione, per un ringraziamento o per una richiesta. In funzione di questo, cambia anche il colore delle candele: ad esempio il verde si usa per chiedere salute, il nero per ottenere protezione dal malocchio. Per ringraziare Dio si usano fiori, candele di altri colori e galli o galline bianchi, che vengono sacrificati. La gallina nera, invece, si sacrifica per curare le malattie. Anche il rituale di purificazione ha come fine ultimo quello di distruggere il male dentro la persona, e può essere sia un male fisico che un male di altra natura, sofferenza, dolori di qualunque origine. Per questo si usa in abbondanza un incenso chiamato copal, che bruciando riempie l’aria di un fresco profumo molto intenso. Anche la purificazione prevede l’uso delle galline o delle uova.
In tutti i rituali si usa molto pox (si pronuncia posh, e a volte si trova anche scritto così, la grafia può cambiare). Si tratta di un aguardiente, un distillato di mais, grano e canna da zucchero, usato soprattutto per scopi cerimoniali ma non solo. La parola, in lingua Tzotzil, può significare cura, medicina o liquore di canna.
Il tutto avviene sotto la supervisione di un ilol, che è una guida spirituale o un curandero, un guaritore della medicina indigena. Ma ci sono anche quattro mayordomos, vestiti con paramenti sacri. Potrebbero sembrare sacerdoti, ma in realtà sono autorità scelte all’interno della comunità, che hanno anche un ruolo da amministratori, non soltanto religioso, restano in carica per un anno e sono sicuramente più importanti dei preti.
Lungo le pareti della chiesa sono allineate statue di santi, sia locali che più… conosciuti. Oggi sembra che sia il giorno di San Miguel, San Michele Arcangelo, che è stato tolto dalla teca e messo in adorazione su un tavolo, attorno al quale si accumulano le offerte e l’incenso si sparge a profusione in ampie volute di fumo.
Per farvi capire un po’ meglio cos’è il sincretismo religioso di questa chiesa, vi riporto qui una preghiera Chamula, tratta dal bellissimo saggio “Il labirinto della solitudine” del premio Nobel messicano Octavio Paz:
Santa terra, santo cielo; Dio Signore, Dio Figlio, santa terra, santo cielo, santa gloria, prenditi cura di me, rappresentami; guarda il mio affanno, guarda la mia fatica, guarda la mia sofferenza. Grande uomo, grande signore, grande padre, grande “petome”, grande spirito di donna, aiutami. Nelle tue mani metto il tributo, ecco depongo il suo “chulel” (spirito, anima, ndr). Per il mio incenso, per le mie candele, spirito della luna, vergine madre del cielo, vergine madre della terra, santa Rosa, per il tuo primo figlio, per la tua prima gloria, guarda tuo figlio oppresso nello spirito, nel suo “chulel”.
L’atmosfera è davvero di grande intensità, c’è una sacralità antica e profonda che si respira nell’aria insieme all’incenso, è in grado di sentirla chiunque, perfino un ateo miscredente inveterato come me. Provo rispetto, ma in un certo senso anche invidia, per chi ha una fede profonda come queste persone, in qualunque cosa sia: in un solo Dio, in più dei, nella natura, nella Madre Terra, o in tutte queste cose insieme. Credo che sia una sensazione comune a molti di noi, tant’è che tutti ci soffermiamo più di quanto era previsto, e non è solo la voglia di restare ancora un po’ per vedere cosa succede dopo. Alla fine è Roberto a richiamarci all’ordine, e anche se in ordine sparso ci avviamo verso l’uscita. C’è ancora spazio per un’ultima chiacchierata con Raimundo, per qualche domanda, e poi saliamo sul pullmino in direzione del cafetal.
Per raggiungere Yochib, dove si trova la comunità dei cafetaleros, abbiamo circa un’ora e mezza di strada. Percorriamo chilometri tra uno sguardo al paesaggio, punteggiato di campi di mais e, manco a dirlo, cimiteri addobbati a festa (ci sono croci giganti e addirittura giostre pronte ad accogliere i bambini nei giorni di festa), e i racconti di Roberto. Possiamo approfittarne per fargli qualche domanda, lui non si fa pregare e ci introduce un po’ di più nella realtà del Messico, e del Chiapas in particolare.
Per esempio, nel sistema giudiziario messicano vige la presunzione di colpevolezza, anziché di innocenza. Per questo gli indigeni preferiscono ricorrere alla giustizia comunitaria non ufficiale, anche perché quella ufficiale storicamente non è mai stata dalla loro parte. Come la polizia, un’altra istituzione con un altissimo livello di corruzione endemico della quale hanno imparato a diffidare. Roberto ci racconta un episodio di omicidio avvenuto in un’osteria, per una rissa degenerata e risolta a colpi di machete. La moglie della vittima ha chiesto, come compensazione, che l’assassino si assumesse l’onere di mantenere lei e i suoi figli. L’uomo è stato costretto a farlo ma, già che c’era, ha deciso di sposare la vedova, che ha accettato. La giustizia comunitaria può portare anche a cose di questo tipo, per noi piuttosto difficili da comprendere.
Il mais è tuttora il cibo base, la risorsa primaria da cui dipende la sopravvivenza delle famiglie indigene. Praticamente tutte le famiglie hanno un piccolo campo. Furono i maya a scoprire che il mais poteva essere trattato con calce per prevenire le malattie. Non sapevano il perché, ma avevano capito che si otteneva un effetto disinfettante.
In Messico esisteva il sistema degli ejidos, le terre a proprietà collettiva. Storicamente erano boschi e pascoli, situati fuori dai centri abitati e per questo considerate terre di uso comune, per la piccola agricoltura di sussistenza. Nell’800 le terre si erano concentrate nelle mani di pochi grandi latifondisti, danneggiando gli indigeni che le gestivano collettivamente per “uso y costumbre”, ma con la rivoluzione si ritornò al sistema di usufrutto collettivo, mantenendo il nome storico di ejidos. Fino al 1992 queste terre non si potevano vendere o trasmettere per via ereditaria, ma poi vennero privatizzate dal presidente Carlos Salinas de Gortari, che era arrivato al potere tramite brogli elettorali. Questa fu una delle cause dirette dell’insurrezione zapatista, insieme al trattato NAFTA sul libero commercio (North American Free Trade Agreement), con il quale i contadini messicani piccoli produttori di mais hanno perso qualsiasi possibilità di competere sul mercato nazionale, invaso dal mais transgenico prodotto con le sementi Monsanto. Oggi i contadini indigeni producono in pratica solo per il loro consumo.
Roberto ci racconta anche di come è entrato nel mondo indigeno, quando a 23 anni era arrivato in Messico come operatore umanitario. Si rese conto della sofferenza e della forza di questa gente quando istintivamente si offrì di portare il carico di legna di un’anziana signora indigena, ma dopo pochi passi dovette mollare perché non ce la faceva. Ricorda ancora il suo stupore, e il sorriso della signora che lo consolava dicendo con naturalezza che era normale, che non doveva preoccuparsi. Certe cose si possono fare se si è abituati a lavorare duramente fin da bambini, e lo si fa per tutta una vita.
Ed eccoci finalmente alla comunità dei cafetaleros di Yochib, con un certo ritardo sulla tabella di marcia, come d’abitudine. Ormai abbiamo preso i ritmi di vita messicani, ci stiamo abituando a pranzare tardi e di conseguenza anche a cenare molto tardi.
Prima di pranzo quasi tutti, a turno, dobbiamo approfittare del bagno, che è una latrina in una baracca di assi di legno. Ovviamente non c’è acqua corrente, si fa col secchio. La coda per il bagno è l’occasione per fare un po’ di conoscenza con alcuni dei più giovani della comunità, che sono incuriositi da noi.
Adela, che ha 16 anni, tiene in braccio il fratellino Mateo di un anno, mentre Miguel Angel, 10 anni, facendosi capire in spagnolo un po’ a fatica, ci chiede se abbiamo qualcosa per lui, almeno qualche moneta ma sarebbe meglio un cellulare. Cerco di spiegargli che non possiamo, il telefono ci serve per comunicare con i nostri cari a casa. Daremo un contributo alla comunità, ma naturalmente è meglio non dare soldi ai bambini. Però è bello provare a parlare con loro, anche se qui per la prima volta con la lingua c’è qualche difficoltà. Miguel Angel vorrebbe dirci qualcosa che non capisco, gli chiedo: “Sabes decirlo en español?”. Scuote la testa sconsolato. Sulle cose di base però ci capiamo, anzi faccio anche un po’ da interprete per altre persone del gruppo che non parlano spagnolo.
Qui si produce caffè di altura, spiega Antonio, che era maestro e poi, una volta andato in pensione, ha cominciato a lavorare con la cooperativa e con gruppi di contadini: tra 1300 e 1700 m di quota si ottiene la migliore qualità.
Dalla terrazza dove ci troviamo si gode una magnifica vista a perdita d’occhio sulla selva.
Per noi hanno preparato un pranzo a base di tortillas da riempire di fagioli ed altre verdure. Cibo semplice e sano. Da bere, acqua oppure horchata, che non è orzata ma una bevanda a base di riso, aromatizzata con cannella e/o vaniglia. Le donne indossano vestiti tipici con colorati motivi tradizionali; spiega Roberto che non è per l’occasione, in realtà è il loro normale abbigliamento di tutti i giorni.
Dopo pranzo caffè per tutti, c’è bisogno di dirlo? Chiacchierando in relax con Daniel viene fuori che, oltre che ex militare, è anche ex calciatore, non professionista ma di buon livello, anche se ora lamenta il fatto che dopo aver smesso ha messo su un po’ di pancetta. Io, lui e Francesco progettiamo una partita sulla spiaggia, quando tra qualche giorno saremo al mare. Daniel, a soli 29 anni, ha già quattro figli, di cui uno nato fuori dal matrimonio, e parecchie storie da raccontare. Anche da militare faceva l’autista, ma ne ha viste tante. Dice di aver preso la decisione di lasciare l’esercito per la sua famiglia: era troppo pericoloso, spiega, lo puoi fare finché sei da solo ma se hai una famiglia quella è la cosa più importante. Anche se ora guadagna meno non tornerebbe indietro, dovrebbero offrirgli veramente una cifra spropositata per convincerlo, qualcosa che possa sistemare la sua famiglia anche se lui non ci fosse più.
E viene il momento di un giro di presentazioni. Anche qui ci presentiamo prima noi, dicendo ognuno quello che vuole: età, provenienza, occupazione, cosa ci ha spinto a venire qui. Qualcuno parla in spagnolo, altri in italiano e Roberto traduce. Poi è il turno dei cafetaleros della cooperativa, sono in diversi qui oggi. Ciascuno di loro spiega, in poche parole, come e perché è entrato a far parte della cooperativa. Fondamentalmente tutto nasce dalla necessità di poter vendere il caffè che producono a un prezzo equo, senza essere sfruttati. La cooperativa compra a 43 pesos al kg il caffè organico (biologico), a 40 quello non biologico. Il caffè da esportazione deve essere biologico, per forza di cose. Niente a che vedere con i prezzi normalmente praticati dagli intermediari, che qui significativamente vengono chiamati coyotes. Loro comprano a 25, massimo 30 pesos al kg, il 40% in meno.
Un ettaro richiede 6 persone per la raccolta. Dato che la maggior parte dei campi sono piccoli, uno o due ettari, non di più, è sufficiente la famiglia. A volte, se la famiglia non è abbastanza numerosa, può essere necessario chiamare qualche lavoratore stagionale che dia una mano.
Scopriamo che Roberto parla anche un po’ di tzeltal, che è la lingua di questa comunità. Ci spiega una cosa curiosa e interessante, e cioè che nelle lingue maya non esiste la parola io: c’è solo il noi, il soggetto collettivo. Nessuno concepisce di poter essere felice se tutti gli altri sono tristi, questo dovrebbe essere il senso, forse un po’ idealizzato ma bello, è bello pensare che qualcosa di questo retaggio culturale sia rimasto nelle comunità indigene di oggi, A.D. 2018.
Io non penso di poter imparare una lingua indigena in pochi giorni, mi accontento di cominciare a metabolizzare qualche espressione tipica messicana in spagnolo. Per esempio, ho captato che spesso “Por favor” si abbrevia in “Porfa”, Andrea che è messicano dentro lo fa sistematicamente. E poi si usa molto anche “Compa”, che è ovviamente l’abbreviazione di compañero. Quando ci si accommiata, si usa spesso dire “Que te vaya bien”, o “Que le vaya bien”, o “Que les vaya bien”, a seconda dei casi. Anche qui si mettono diminutivi un po’ ovunque e ci sono quelle meravigliose espressioni tipicamente latinoamericane come “Ahorita” o “Un ratito”, che esprimono un tempo vago e indefinito: può essere adesso, tra un minuto, tra un’ora, un giorno o… una settimana. È un concetto del tempo un po’ diverso dal nostro, ma ovviamente molto dipende anche dal contesto.
Arriva all’orecchio di Roberto e di Andrea, che conoscono bene questa comunità, la voce che ci sarebbe una richiesta da parte della sorella di Miguel Angel. Durante la nostra presentazione ha sentito che ci sono due dottoresse nel gruppo: Paola, che è gastroenterologa e lavora come internista al Pronto Soccorso del Fatebenefratelli di Milano, e Anna, che fa l’anestesista. E allora, timidamente, chiede se possono fare qualcosa per il suo fratellino, che soffre fin da piccolo di epilessia ma recentemente è peggiorato: ora ha crisi più frequenti, anche una volta a settimana. Il problema vero, capiamo, è che da mesi non prende più farmaci, perché qui non arrivano. In questa regione c’è da sempre un gigantesco problema di accesso alla sanità di base, soprattutto per le popolazioni indigene. Ma ora pare si sia aggravato, lo abbiamo visto anche a San Cristobal con la protesta dei medici ospedalieri che lamentavano proprio la scarsità di farmaci. Se non arrivano in città, figuriamoci qui in mezzo alla selva.
Non è possibile, purtroppo, fare molto, ma le nostre due compagne di viaggio si attivano immediatamente e, vestito metaforicamente il camice, entrano in azione. Scusate se ci scherzo un po’ su, so che è una cosa molto seria, ma è anche divertente vedere come si ingegnano per cercare di dare almeno qualche consiglio alla mamma. Mettono Miguel Angel nella posizione in cui presumibilmente si trova quando ha una crisi e spiegano alla mamma cosa fare e cosa non fare quando succede, con l’aiuto di Roberto che traduce. Miguel Angel all’inizio sembra un po’ confuso, forse fatica a capire cosa gli stanno facendo fare ma poi anche lui superato l’imbarazzo si diverte. Il problema grosso resta però quello dei farmaci, si scopre tra l’altro che anche quello che prendeva prima non è certo l’ideale. Dopo aver confabulato un po’, le nostre dottoresse, che sanno bene quale farmaco ci vorrebbe, decidono che in qualche modo glielo faremo avere dall’Italia. Qui procurarselo è molto difficile, se non impossibile. Andrea dà la sua disponibilità per farlo portare da attivisti e volontari che conosce, che vengono qui comunque con una certa frequenza. Si può cercare di mandargli una piccola scorta, è chiaro che poi il problema sarà la continuità, ma in qualche modo si farà.
Non possiamo certo andarcene da qui senza aver fatto un giro nella piantagione, accompagnati da due coltivatori, pronti a soddisfare le nostre curiosità.
Il momento della raccolta arriva quando le bacche diventano rosse. La stagione della raccolta qui va da gennaio a maggio. Provando a metterle in bocca, anche se sono ancora un po’ acerbe, si sente un sapore dolce. C’è una macchina che si chiama despulpadora e che separa la buccia, che viene poi usata per produrre compost. Il chicco viene lasciato in acqua per circa 24 ore per farlo fermentare, poi si mette a seccare per tre o quattro giorni. Altre macchine poi fanno una selezione per peso, per dimensione e per colore, selezionando i chicchi migliori, quelli che vanno per l’esportazione. Vengono tostati e macinati nel paese di destinazione, perché la tostatura è il processo chiave che determina il sapore del caffè. Il tempo di tostatura e la temperatura sono le variabili che influenzano il gusto del prodotto finale, anche se la qualità di caffè ha naturalmente il suo peso.

Foto di gruppo al cafetal

Con Roby nel cafetal
Ripartiamo in direzione di Ocosingo, dove dormiremo questa sera per poi visitare domani il sito archeologico di Toninà.
Il percorso non è breve ed è a dir poco accidentato. C’è una zona de topes, che è una cosa a cui ormai ci stiamo abituando: vuol dire che c’è una serie di dossi artificiali che ti costringono a rallentare. Ma poi la strada diventa anche dissestata e piena di buche, si balla praticamente tutto il tempo, mettendo a dura prova lo stomaco di chi soffre di cinetosi. E purtroppo ce ne sono, nel gruppo.
Arriviamo al villaggio ecoturistico di Kayab, dove ci sistemiamo in spartane cabañas. Io, per questa notte, dormirò da solo, senza Francesco ma con Andrea e Giulio nell’altra camera comunicante.
In attesa della cena, mentre dopo una doccia rigenerante sorseggiamo una birra fresca, Andrea ci racconta delle ultime traversie del municipio di Chamula, dove siamo stati questa mattina. Il sindaco precedente all’attuale è stato ucciso a colpi di pistola da avversari politici, sostenitori del PRI. Ancora oggi, può succedere che le controversie si risolvano in questo modo. Non è tutto: anche l’attuale in realtà è già un ex, pur essendo stato eletto soltanto a luglio. Era di Morena, il partito di AMLO, e si è dimesso perché gli hanno fatto capire che, por uso y costumbre, è bene che ci sia un sindaco del PRI, come c’è sempre stato. E lui, che evidentemente non ha la stoffa del martire, ha pensato bene, vista la sorte del predecessore, di farsi da parte. Così vanno le cose.
La cena inizia con una saporita zuppa, poi per me milanesa de pollo e un assaggio di quesadillas (tortillas fritte ripiene di formaggio fuso). Il tutto innaffiato con birra né chiara né scura, mestiza: mi sembra l’ideale. Non c’è molto da fare qui per passare la serata, ma comunque stiamo bene insieme perché nel gruppo c’è già una buona armonia.
Terzo giorno: mercoledì 31 ottobre 2018
Stamattina ci possiamo alzare un po’ più tardi, perché il sito archeologico è veramente a due passi.
Facciamo colazione con calma e ci avviamo; sulla strada, che si può percorrere a piedi, ci fermiamo ad ascoltare un mariachi vestito da cowboy: eccolo intonare Ojitos negros, con Roberto (fuori campo) agli urletti.
Fatta provvista di acqua (il sole è già alto e picchia), iniziamo il percorso in compagnia di Mex, che è una guida professionale ma è anche un compa: faceva l’insegnante in un caracol, uno dei municipi autonomi zapatisti.
Toninà è un sito maya del periodo classico, che va dal 300 al 900 d.C., periodo in cui si svilupparono molte città piccole e grandi, che avevano tra loro relazioni commerciali. Lo si capisce dagli stili architettonici, che sono molto simili. Quello che succedeva qui in quell’epoca, in piccolo, era simile a quello che succedeva a Roma: ogni città era un piccolo impero, una città-stato. Tra queste città vi erano frequenti guerre per il controllo delle terre fertili, delle materie prime e delle vie commerciali. Ogni città aveva la sua corte. Qui nell’architettura possiamo vedere una modalità di funzionamento socio-politico della città di tipo molto centralizzato e corporativo, che si sostanzia in una sola imponente costruzione con più di 400 metri di base e 75 metri di altezza, la più grande e la più alta di tutto il Mesoamerica. Il nome attuale, Toninà, fu dato solo nel 1700, con l’arrivo dei frati domenicani. Si cominciarono a prelevare pietre per costruire abitazioni, fattorie, le strade di Ocosingo e la chiesa. Toninà, nella lingua Tzeltal che è anche la lingua madre di Mex, significa casa di pietra, dall’unione di ton-pietra e nà-casa.
L’INAH (Instituto Nacional de Antropologia y Historia) prese possesso del sito e iniziò gli scavi nel 1980.
La città ha conosciuto un’occupazione a carattere discontinuo, anche se molto estesa nel tempo, almeno dal I secolo d.C. al secolo XVI; la fine della sua occupazione coincide approssimativamente con l’arrivo degli spagnoli, sebbene la grande decadenza sia stata anteriore, ad opera dei mexicas nel secolo XIV. Il periodo di maggior splendore si produsse verso i secoli dal VII al IX, per quanto ci sia la prova scritta dell’esistenza della città già dalla fine del secolo VI, dal 593 d.C. che corrisponde alla prima iscrizione databile ritrovata.
Dopo la decadenza, la distruzione della città fu inarrestabile: furono decapitate e distrutte le sculture; l’acropoli fu utilizzata come necropoli da nuovi popoli che, nel seppellire i loro morti, saccheggiarono le vecchie tombe, così come i templi e i palazzi. Alla fine, dopo mille anni di esistenza, la terra e la vegetazione coprirono le rovine della città, che solo con dieci anni di scavi archeologici si è riusciti a riportare alla luce. Scavi che peraltro, finora, si sono limitati a una quinta parte dell’area di potenziale interesse.
La città si trova su un rilievo naturale boscoso formato da terreni argillosi a circa 70 m di altezza sulla pianura circostante, sfruttati in parte per costituire una serie di piattaforme elevate stabili, sulle quali si costruirono i templi e i palazzi della città. Così si costituì il nucleo urbano principale, un’acropoli intorno alla quale si andarono a collocare le zone residenziali e agricole.
La struttura della città consiste in un tempio nella parte centrale, che era il controllo dell’accesso alla città, e di fronte ad esso la grande struttura chiamata Gran Piramide, fatta di sette grandi terrazze, con 13 templi nella parte alta. Le costruzioni più importanti si trovano sul lato est, dove vivevano i reali. A ovest ci sono costruzioni più austere, dove vivevano i capi del popolo e i guerrieri più importanti. La popolazione contadina viveva intorno alla città, in piccole capanne.
Le costruzioni si trovano una sopra l’altra. A differenza di quello che succedeva a Roma, dove nessun governante distruggeva quello che avevano costruito i suoi predecessori e la città andava gradualmente ingrandendosi, qui si distruggeva e ricostruiva, seppellendo i resti della vecchia costruzione sotto la nuova. La città ha quindi una struttura a cipolla, con diversi strati sovrapposti. Ci sono quattro grandi tappe: la prima costruzione, del 400 a.C., è in stile olmeco; la seconda, del 500 d.C., è in stile teotihuacano. La terza tappa è il classico maya, mentre la quarta aggiunta è in stile tolteco. Attraverso le varie piattaforme a diverse altezze, si vede la differenza di livello gerarchico e quindi l’organizzazione socio-politica.
La visita inizia dal campo dove si giocava la pelota maya, un gioco che aveva come scopo quello di far passare la palla attraverso un anello messo in verticale. La palla era una pesante palla di caucciù, paragonabile come peso a quella che oggi si chiama palla medica. Proprio perché la palla era così pesante, non si giocava con mani e piedi, perché le dita sarebbero state esposte a forti contusioni e fratture. Si giocava invece colpendo la palla con gomiti, cosce e ginocchia. Il capitano della squadra vincente veniva sacrificato e otteneva così la sua libertà spirituale, sottraendosi alla prigione del corpo. Può sembrare pazzesco e macabro, visto con gli occhi di oggi, ma si giocava per questo premio.
I marcatori centrali del campo sono due prigionieri, il più importante dei quali secondo l’iscrizione era un governante della città di Palenque, di nome Kan Hul.
È stata trovata traccia di epiche sfide tra Toninà e Palenque, l’altra grande città maya del Chiapas che purtroppo non vedremo. Tra le due città, per lungo tempo, ci fu pace e rispetto, ma quando a Palenque morì il re Pacal, un re molto potente che era il padrone di quello che ora è il fiume Usumacinta, il suo figlio maggiore che aveva ereditato il trono non rispettò più il territorio di Toninà. Questo re chiamato Giaguaro-serpente cercava risorse, in particolare schiavi da adibire alle costruzioni; perciò attaccò Toninà e la conquistò. Quando tornò a casa felice per aver raggiunto il suo obiettivo gli artisti registrarono l’evento in un’incisione in cui si vede il re di Palenque con un pennacchio, con diverse placche di giada appese al vestito che facevano rumore quando camminava, con i sandali e con una lancia. Davanti a lui in ginocchio il re di Toninà, a cui sono stati tolti il mantello, che il re di Palenque tiene nella mano sinistra, e il pennacchio. Il re di Toninà era uno sciamano che viveva in un labirinto, di cui ancora si conservano qui i resti.
Quando gli uomini andavano in guerra e i contadini diventavano miliziani, le donne assumevano un ruolo più importante di capi famiglia. Le nonne erano le ostetriche e le grandi conoscitrici delle piante medicinali. Era un popolo che si organizzava totalmente, in questo caso con l’obiettivo di recuperare le terre sottratte da Palenque; siamo intorno al 600 d.C., Toninà riesce a recuperare la sua indipendenza e riparte con un nuovo impulso verso quello che sarà il suo apogeo. È a quel periodo che risale il maggior numero di elementi artistici e architettonici che sono arrivati fino ai nostri giorni. La città con il suo intorno più prossimo aveva allora 10.000 abitanti. Erano 40.000 gli abitanti della valle di Ocosingo.
Durante quel periodo di splendore, i signori maya di Toninà si posero come creatori del terzo sole, dopo il primo sole degli olmechi e il secondo dei teotihuacani. Fu un’incursione dei toltechi, al principio del secolo X, che distrusse il potere di Toninà e diede inizio al quarto sole, precursore del quinto rappresentato dagli aztechi.
C’è stata in quel periodo una grande regina, che aveva molte persone al suo servizio e costruì molte cose a Toninà, tra cui la scalinata con 260 gradini che sale fino alla sommità della Gran Piramide.
In Mesoamerica, a quel tempo, non c’erano carri trainati da cavalli; i maya conoscevano la ruota ma non la usavano per costruire mezzi di trasporto. Il cerchio per loro era la forma del divino, del sole, della luna e dei pianeti. Il traffico urbano era solo pedonale. Per trasportare pietre pesanti usavano rulli di legno, ma servivano diverse persone per spingere queste pietre per chilometri.
Il cacao fu scoperto dai maya: per loro era la forza del fuoco. Roditori e scimmie raccoglievano i frutti di cacao, li aprivano e trovavano i semi immersi in una sostanza fibrosa. Gli animali mangiavano questa sostanza, sputando i semi. I semi venivano poi mangiati dagli uccelli, e dal guano degli uccelli nascevano le piante di cacao. I maya impararono a far fermentare il cacao in acqua, ottenendo una specie di birra, che aveva un effetto eccitante sull’organismo e faceva sentire felici. Allo stesso modo impararono a far fermentare il mais, ottenendo un’altra bevanda simile. Dopo di che cominciarono a tostare le fave di cacao e a macinarle con pietre, ottenendo così un altro sapore. Questo macinato, sciolto in acqua, divenne la bevanda privilegiata della corte maya, perché aveva effetti benefici come disinfettante, antiemorragico e antidolorifico. La usavano in particolare le donne per controllare i dolori delle mestruazioni, della gravidanza e del parto.
Ai nobili, fin da bambini, veniva praticata una deformazione del cranio perché avessero la fronte più alta. Lo si vede da una pietra incisa, dove compare un prigioniero che era probabilmente un nobile di un’altra città. Una donna ha in mano una lama di ossidiana e sta afferrando i capelli dell’uomo per alzargli la testa e tagliargli la giugulare.
Avvicinandoci alla piramide, si può vedere anche una straordinaria liana che viene chiamata liana- serpente, per la sua forma che ricorda appunto quella di un serpente che si avvolge intorno all’albero.
Ci soffermiamo poi davanti alla casa-labirinto dello sciamano, colui che fa tremare gli spiriti. La costruzione ha tre porte. Di queste solo una ha un uso, ma ce ne sono altre due perché una rappresenta il cielo, quella centrale la terra e l’altra l’inframundo, il mondo sotterraneo delle anime. Ci sono anche finestre a forma di croce, che rappresentano la divinità più importante per i maya. I frati francescani spagnoli si stupirono nel vedere che i popoli precolombiani già conoscevano la croce; per i maya la croce era la rappresentazione della dualità, la dualità in particolare tra la vita e la morte. Loro pensavano che la vita ha bisogno della morte, e la morte della vita. Se noi ci siamo, è perché abbiamo ucciso molti alberi, piante e animali che ci hanno dato la vita. La dualità è quella che regge il destino dell’uomo, e di tutto quello che esiste. Per i maya la vita e la morte erano una sola divinità. La croce quindi è l’unione della terra, cioè della vita, rappresentata dal braccio orizzontale della croce, con il cielo sopra di essa e con l’inframondo sotto di essa. Un intendimento certamente diverso da quello cattolico, ma conclusioni in qualche modo simili.
La loro concezione del rapporto tra la vita e la morte spiega anche il significato dei sacrifici umani che praticavano. Scrive Octavio Paz che il sacrificio aveva un duplice obiettivo: da un lato l’uomo accedeva al processo di creazione (pagando agli dei, simultaneamente, il debito contratto dalla specie); dall’altro alimentava la vita cosmica e quella sociale, che si nutriva della prima. Probabilmente il tratto più caratteristico di questa concezione è il significato impersonale del sacrificio. Allo stesso modo in cui la vita non apparteneva loro, così la morte era priva di ogni proposito personale. I morti scomparivano o per tornare al paese indifferenziato delle ombre o per fondersi con l’aria, la terra, il fuoco, la sostanza animatrice dell’universo. Gli indigeni non credevano che la loro morte appartenesse loro, come non pensarono mai che la loro vita fosse “la loro vita” nel senso cristiano del termine.
Per i maya l’osservazione del cielo era una cosa estremamente importante. Del resto, dice sorridendo Mex, non avevano televisione o altri divertimenti: la sera facevano questo, guardavano le stelle. Per questo avevano astronomi così sapienti e precisi. Riuscirono a enumerare molti anni nel futuro, fino al fantomatico 21 dicembre 2012 che doveva segnare la fine del mondo. Conoscevano i pianeti, le eclissi, gli equinozi, i solstizi.
Alcune città, come Teotihuacan, adoravano molto il sole. Ma altre adoravano più la dualità, altre ancora la terra, come Palenque. E c’erano città che adoravano di più la luna, come è il caso di Toninà: nella parte alta della Piramide ci sono quattro templi, che possono essere interpretati come una rappresentazione delle quattro fasi della luna. Ma allo stesso tempo erano i templi delle quattro istituzioni fondamentali per il lavoro del popolo: del tributo, del commercio, dell’agricoltura e della guerra. Questo lo decise la grande regina, che pensò prima di tutto alla difesa della città. Il tempio dei capi militari, quindi, era in una posizione strategica da cui si potevano controllare tutte le strade che entravano in città. C’era poi un tempio che era anche un ufficio amministrativo per i capi del popolo, quindi dei contadini, e c’era un tempio per lo sviluppo della città, quindi per i commercianti. La regina però pensò anche a se stessa e fece costruire un tempio del tributo, dove poteva ricevere costosi regali dai governatori sottomessi a Toninà.
La figura della donna era molto relazionata con l’inframondo, che per i maya non era l’inferno, ma il paradiso, perché sottoterra c’è la fertilità, l’origine della vita. Tutto viene dalla terra, compreso il grano che germinando dà la vita. Altro simbolo chiave era la spirale, ovvero la chiocciola, il caracol: se ne possono vedere due negli scalini della piramide, guardandola da lontano.
Salendo, possiamo vedere un bassorilievo molto ben conservato che rappresenta una partita di pelota e che ci racconta una storia affascinante. Si parte da un regnante, che conquistò molte città ma non riuscì a conquistare Palenque prima di morire. Fu sua moglie, quando prese il suo posto, a conquistare Palenque. Quando il figlio ereditò il potere su Toninà, lo fecero sposare subito perché avesse una discendenza. Nacque subito un bambino, nipote del re, e questo nipote, tra i 13 e i 14 anni, era già diventato a sua volta regnante. Per festeggiare e per rendere omaggio al nonno organizzò un grande spettacolo di pelota e selezionò come giocatori due prigionieri di guerra, che fece vestire uno come suo nonno e uno come se stesso. La storia non ci racconta, purtroppo, come finì la partita.
Continuiamo la salita, con i gradini che diventano sempre più piccoli e ripidi. Se nella parte iniziale la pendenza era di 45°, ora aumenta fino a 70°. È dura, ma ognuno con il suo passo ce la facciamo.
Saliti fino al punto più alto della piramide, Mex cerca di insegnarci come ricavare un suono soffiando tra le mani unite. Pare che fosse così che i maya comunicavano da lontano. Ma ci dice anche, scherzando, di non provare a imitarlo, perché ora che siamo stanchi per aver salito molti gradini non abbiamo abbastanza fiato per soffiare forte, e potremmo sentirci male. In effetti quasi tutti ci proviamo, ma nessuno ci riesce come lui, neanche copiando scrupolosamente la posizione delle dita delle sue mani. Un altro modo per dare l’allarme da qui in caso di pericolo, forse più facile, era con i tamburi.
La discesa può essere anche più dura della salita, soprattutto per chi ha problemi articolari vari, e più rischiosa. Meglio andare con calma, a zig zag, e voltati verso gli scalini. Ognuno ha la sua tecnica, comunque.
Alla spicciolata arriviamo giù, molti con un sospiro di sollievo e comunque soddisfatti per una visita molto ricca e coinvolgente. Ci sediamo all’ombra e ci gustiamo una bibita rinfrescante insieme alla nostra guida, prima di accompagnarlo verso casa, salutarlo e ringraziarlo di cuore.
Proseguiamo poi per intraprendere il viaggio di ritorno verso San Cristobal.
Per il pranzo ci fermiamo a casa di Marcelino, che con la sua famiglia ci ha preparato una comida ricchissima: Tortillas con fagioli, quesadillas, empanadas con guacamole. Tutto buonissimo e tutto in abbondanza. Più ne mangiamo e più ne preparano, cuocendo tortillas a getto continuo su un grande braciere.
Fa sensazione, tra le varie cose, El chile Jalapeño, un peperoncino piccantissimo che Marcelino ci fa provare. Vedendo Daniel che ne trangugia tranquillamente come se fosse acqua fresca, sembra facile, ma se ci provi… bisogna veramente andarci piano, a piccolissimi bocconi, mangiandoci dietro un po’ di tortilla, solo così si può fare. Anche Francesco ne assaggia un po’, e fa delle facce che sono tutto un programma… per lui diventa una sorta di rito iniziatico. Oltre che mascotte del gruppo, è già diventato anche il genero ideale. È già fidanzato, ma poco importa. Soprattutto Cinzia e Benedetto hanno una figlia per cui, pare, sarebbe perfetto, e quindi non perdono occasione per metterlo alla prova. Questa prova, alla fine, è superata. La cosa incredibile è che poi ho scoperto che esiste una specie di indice standard di piccantezza e che il Jalapeño è classificato solo “medio” (!) con un valore che arriva al massimo a 10.000. Pare che il più terribile sia il peperoncino denominato Habanero, che però si coltiva soprattutto nello Yucatan, e che arriva a 577.000!
Per finire, Marcelino ci offre anche il dolce chiamato Pan de muertos, che naturalmente va molto in questi giorni… si potrebbe dire che è la morte sua. Non ha molto a che vedere con il pan dei morti lombardo, ma è buono. È un pane dolce con semi di anice e una spolverata di zucchero, anche se la ricetta può variare a seconda della regione. Può essere fatto a forma di osso, o di teschio.
Nel tardo pomeriggio siamo a San Cristobal, di nuovo all’hotel Jovel. Abbiamo il tempo per una doccia e per un riposino, poi c’è un altro appuntamento piuttosto atteso, sicuramente dagli amanti del cacao e dei suoi derivati.
È quello con Erasto Molina, profondo conoscitore della pianta e di tutte le sue virtù, un cacaologo – mi verrebbe da dire – ma non suona benissimo. Lui è qui proprio per soddisfare tutte le nostre curiosità in merito e per solleticare il nostro palato con sapori insoliti e antichi, che ci riportano alle origini dell’uso alimentare del cacao. Origini che, ne abbiamo avuto la conferma proprio oggi, si devono al popolo maya.
Il buon Erasto effettivamente, in un italiano quasi perfetto che stupisce, la prende un po’ alla lontana e ci parla di una società che oggi quasi non riusciamo a immaginare, una società dove non esisteva la proprietà privata e che si reggeva sull’equilibrio con la natura. Il cacao è senz’altro una delle più preziose risorse della natura che i maya impararono a sfruttare.
Ci invita a scoprire insieme che, se noi confrontiamo il sapore di una fava di cacao, 100% cacao, con quello di una tavoletta di cioccolato fondente al 60%, quest’ultimo è sicuramente più amaro. Perché? Perché non è un prodotto “puro”, come la comunicazione commerciale ci vorrebbe far credere. È un prodotto raffinato.
Sfatiamo un altro luogo comune: quello che dice che il cacao è eccitante, se ne prendi troppo non dormi bene. Erasto assicura che anche se prendessimo 50 tazzine di cacao al giorno come faceva l’imperatore Motecuhzoma (che sarebbe quello noto come Montezuma) potremmo andare a nanna e dormire tranquillamente. Cosa che non puoi certo fare con il caffè: Erasto ci racconta che di ritorno dall’Italia, dove si era comprato non una ma due moka, per un periodo ha abusato di caffè “all’italiana”, prendendone 10 ogni giorno, e dovendo poi ovviamente smettere perché stava rischiando l’esaurimento nervoso. Per non parlare di quello che ti succede se abusi di alcol. Nel caso del cacao, sembra, per avere un effetto negativo dovresti assumerne più di 3 kg in una sola volta, che è umanamente impossibile. La teobromina, contenuta nel cacao, è uno dei pochi alcaloidi che non dà sbalzi di pressione, per questo non è considerata una droga.
Il cacao è un’esperienza che coinvolge tutti e cinque i sensi. Nella sua Scuola del Cacao, Erasto ha sviluppato 17 diverse bibite “funzionali” a base di cacao. E oggi, come minimo, beve da uno a due litri di cacao al giorno, assicura. Fin dai tempi della conquista, il cacao è stato il prodotto agricolo più sfruttato per le sue proprietà. A chi gli chiedeva perché ne bevessero così tanto, gli indigeni rispondevano che rinvigoriva il cuore e purificava il sangue. Se i medici consigliano un bicchiere di vino perché contiene polifenoli che fanno bene alle coronarie, questo vale a maggior ragione per il cacao. Il valore che gli indigeni davano al cacao era altissimo: bastavano 800 fave per comprarsi una barca.
Invece oggi, purtroppo, in Messico si beve molta più coca cola che cacao, incomparabilmente di più. Del resto l’ex presidente messicano Vicente Fox era stato presidente della divisone latinoamericana della Coca Cola Company: dice la leggenda che abbia iniziato come autista dei camion per le consegne.
Passando agli assaggi veri e propri delle fave di cacao, ecco che scopriamo che così, crude, hanno un sapore che alla lunga diventa sgradevole, come quello di un collutorio. Il colore naturale della fava è viola. Le condizioni ideali per la crescita del cacao sono estreme, con temperature medie di 36°C, che vuol dire che le massime arrivano a 48-50°C, e umidità del 90%. Normalmente la pianta impiega 10 anni a diventare produttiva, ma oggi esistono innesti che già a 3 anni danno i primi frutti. Ogni pianta può dare da 5000 a 7000 frutti ogni anno.
Erasto ci insegna anche le tecniche migliori per tostare le fave di cacao, procedimento che richiede una grande attenzione. In tre minuti già si sentono scoppiare come pop corn, a quel punto si devono togliere dalla pentola. Quando sono ancora tiepide si può togliere la buccia e vedere il colore: dalle fave bianche si ricava il burro di cacao, che ha diversi usi cosmetici (ad esempio, mischiato con una spezia chiamata achiote, da cui si ricava un pigmento naturale, può diventare un’ottima crema abbronzante). Le fave nere si possono usare per tutto, dopo averle macinate; quelle viola si usano per le bibite, quelle bianche solo per i cosmetici. È importante che nella lavorazione non venga sostituito il burro di cacao con altri tipi di burro, come a volte succede.
La bibita di cacao “integrale” che ci propone Erasto è molto meno densa di quella a cui siamo abituati, ma c’è un motivo: La cioccolata europea è densa perché si aggiunge fecola di patate.
Segue una cena tutta a base di cacao, dalla zuppa al pollo en mole chiapaneco, che già conosciamo, ovviamente al dolce. Tutti gusti insoliti, ma da provare. E non manca, per finire, un liquore a base di cacao. Intanto Erasto, infaticabile, dispensa ricette e consigli a non finire. Oggi, dopo l’esperienza della scuola di cacao, è coordinatore della sicurezza alimentare per il municipio di San Cristobal. È autore, tra l’altro anche di una guida al Mesoamerica in italiano. Per chi volesse approfondire, ha anche un sito:
Il dopo cena è allietato anche da un bel gruppo di mariachi vestiti di tutto punto (non potevano mancare!). Eccoli in un’applaudita versione, piuttosto originale, di uno dei più grandi classici messicani, forse il classico per eccellenza: Cielito Lindo.
https://www.viaggiemiraggi.org/
https://www.facebook.com/lajkinmessico/
(Continua…)