Sabato 18 settembre 2021

Oggi, dopo una colazione slow food con i prodotti della fattoria dell’ecomuseo di Dignano, la giornata sarà dedicata interamente a Pola. Ma prima, non possiamo non andare a vederla, la fattoria didattica.



Helena ci porta un po’ in giro tra orti e piante aromatiche, tra cui l’assenzio, che è alla base del Pelinkovac, l’amaro croato tuttora molto popolare in tutti i paesi della ex Jugoslavia, di cui è stato uno dei marchi più famosi. Ci sono gli asinelli (l’asino è l’animale simbolo dell’ecomuseo, che Helena porta anche stampato sulla sua maglietta “Istrian de Dignan”), le caprette e un simpatico cagnone. Ma la vera star è Boško, il più anziano esemplare di boškarin attualmente vivente in Istria con i suoi 15 anni.
Il boškarin è una razza bovina autoctona istriana in pericolo di estinzione: attualmente ne sopravvivono circa 2000 esemplari. Storicamente il boškarin è sempre stato un animale da lavoro; le vacche di questa razza facevano poco latte, e quindi l’utilità di questi buoi forti, di stazza imponente, era quella di tirare l’aratro ed essere così di fondamentale importanza nel lavoro dei campi della campagna istriana. Quella dell’Istria interna era una società contadina, dove per secoli il boškarin è stato il fedele compagno di lavoro, quasi uno di famiglia. Molte erano le zone dedicate all’agricoltura con campi dedicati alla produzione di verdure, cereali, vino e naturalmente olio d’oliva.
Prima dell’avvento della meccanizzazione il “trattore” che permetteva di lavorare questa terra dura e ricca di pietre era proprio lui. È stato così importante che per identificarlo non si utilizzava un nome generico, ma un nome proprio. Boškarin era il nome che comunemente veniva dato ai manzi dai contadini assieme a Bakin, Gagliardo e molti altri.
Non solo era parte della famiglia, ma ne contribuiva al vanto in paese ed era un capitale importante. Non mansuetissimo ma straordinario per tirare l’aratro ed il carro, era spesso presente nelle storie di paese, quando si ricordava che con il boškarin che trainava il carro tutta la famiglia andava al mare a fare il bagno nelle calde giornate di agosto. Ma oltre al trasporto il boškarin aiutava la famiglia con il prezioso letame e riscaldando la stalla nelle fredde giornate invernali.
Dopo l’avvento della meccanica in agricoltura è diventato solo un costo. Il suo destino è stato quello di sparire lentamente dalle stalle, lasciando il posto ad animali di dimensioni più contenute, più facilmente gestibili e che magari producevano più latte per fare i formaggi. Negli anni ’90 era arrivato praticamente all’estinzione, arrivando a contare in tutta l’Istria poche decine di capi.
Poi, come è successo per la razza podolica lucana e la chianina toscana, la buona volontà di pochi allevatori, in sinergia con il momento storico propizio alla rivalutazione e valorizzazione delle tradizioni locali, ha cominciato a tutelarne la razza.
Facendo incrociare tra loro i migliori capi rimasti e promuovendo il boškarin non più come animale da lavoro ma come espressione vivente delle tradizioni si è cominciato a recuperare la razza ripopolando le stalle con questo nobile animale. Ma le sole tradizioni non sono bastate e quindi si è anche puntato sulla valorizzazione della carne, promuovendolo anche come prelibatezza gastronomica… può sembrare ironico, ma la sua salvezza oggi passa proprio per la tavola.
Anche il nostro Boško, qui, a parte l’età non proprio da pischello, non gode di ottima salute: soffre purtroppo di un tumore, che però verrà presto operato da un veterinario specializzato. Ci si augura che sia benigno, e si conta di poterlo salvare.
Nonostante questo, oggi è tranquillo e molto docile, pronto a lasciarsi accarezzare e fotografare in varie pose. Sembra anche a suo agio, non deve essere la prima volta che posa per un… servizio fotografico. Il suo premio, poi, è qualche ciuffo di erba fresca che non si fa assolutamente problemi a mangiare anche dalle nostre mani.
Insomma, in pochi minuti è diventato la mascotte del gruppo. Forse un filino ingombrante, come mascotte, ma a noi piace e il suo antico spirito di pacifico e instancabile lavoratore è perfetto per noi. Eh sì, una mascotte così non è da tutti!



Possiamo ripartire verso Pola: il viaggio è breve, soltanto una decina di chilometri.
Pola (Pula in croato), oggi la città più grande dell’Istria con circa 58.000 abitanti, è famosa per le sue vestigia romane. Al tempo della Serenissima rimane un porto secondario, martoriato dalle epidemie (se ne contano ben 41 tra il 1347 e il 1650). Cresce sotto l’Impero austro-ungarico – diventando il porto di riferimento della marina da guerra imperiale – e poi soprattutto durante la Jugoslavia socialista, con la cantieristica navale e l’industria di trasformazione.

La nostra visita, quindi, non può che partire dall’arena, che è il simbolo cittadino e tra gli anfiteatri meglio conservati di tutta l’antica Roma imperiale. Rossana, la nostra guida per la città, ci parla prima di tutto della vita più recente dell’arena, che è legata al festival del cinema di Pola, stabilito nel 1954. Le persone si sedevano sul prato nella parte alta dell’arena e guardavano i film proposti nell’ambito di un evento che visse i suoi anni d’oro negli anni ’60, quando ebbe ospiti come Orson Welles, Gina Lollobrigida, Sofia Loren, Richard Burton, Elizabeth Taylor. Tutti questi personaggi erano prima ospiti di Tito nella sua residenza alle isole Brioni, e poi presenziavano alla prima facendo passerella sul classico tappeto rosso, tra gli applausi del pubblico. All’epoca era il Festival del Cinema Jugoslavo, oggi semplicemente il Festival del Cinema di Pola. Questo ci fa capire che nella Jugoslavia socialista, che in quanto paese “non allineato” non faceva parte del blocco sovietico, la cultura pop era molto più tollerata che negli altri paesi di oltre cortina. Ma di questo parleremo nel pomeriggio in un incontro appositamente organizzato da Eugenio con una giovane storica locale.
Ora invece parliamo della storia antica di questo anfiteatro, che oltre ad essere tra i meglio conservati al mondo è il sesto per grandezza: poteva ospitare 23.000 spettatori in epoca romana, mentre oggi quando è al massimo della capienza consentita (in anni recenti ci sono stati grandi concerti, con artisti come Sting e Pavarotti) le persone sono circa 8.000, 10.000 con i posti in piedi. Risale al I secolo d.C., la sua costruzione fu iniziata sotto Augusto e terminata all’epoca dell’imperatore Domiziano. Ma si dice che già un secolo prima, nel I secolo a.C., su questa collinetta ci fosse un anfiteatro costruito in legno e in pietra. Si tratta quindi di uno dei primi anfiteatri del Mediterraneo. Quando i romani capirono che c’era bisogno di un materiale più duraturo, usarono questa pietra bianca calcarea che è arrivata fino a noi e che proviene da due cave romane che si trovano vicino a Pola, sulla costa occidentale dell’Istria: Vinkuran e Bagnole. La pietra della costa occidentale, più solida e duratura, permette infatti fin da quei tempi la realizzazione di costruzioni imponenti. La pietra che invece viene dalla parte orientale, dalla zona di Arsia e Albona, è più friabile e veniva quindi usata per statue e vasellame, ma non per grandi costruzioni. Il manto esteriore dell’arena è fatto di grandi blocchi di pietra ciascuno dei quali pesa circa due tonnellate. Questi blocchi, estratti dalla cava romana, vennero portati con le navi fino al porto di Pola e trasportati sfruttando la forza umana, quella degli schiavi, e degli animali. Già a quell’epoca, secondo alcuni archeologi, i boškarin antenati del nostro Boško si facevano valere ed erano famosi per la loro forza.
L’arena, in epoca romana, era teatro di combattimenti di gladiatori e caccia ad animali feroci. Era dotata perfino di un velarium, cioè di una copertura mobile in tessuto composta da più teli di lino, utilizzata per garantire agli spettatori un’adeguata protezione in caso di maltempo o nelle giornate di grande caldo. I gladiatori, prima di entrare nell’arena, bevevano mulsum (vino con aggiunta di miele e spezie) e mangiavano garum (salsa di interiora di pesce e pesce salato).



I romani costruirono molte bellissime ville, di cui qualcuna ancora visibile, in particolare una alle isole Brioni, costruita dal proprietario di una fabbrica di anfore. Alcune antiche anfore sono esposte nel museo che si trova nel sotterraneo dell’arena. Fabbricare anfore era un grande “business”, se così si può dire, perché già in epoca romana l’Istria era una rinomata zona di produzione di olio d’oliva. Un’altra fabbrica di anfore, nell’odierna Parenzo, era di proprietà di una donna che si dice sia stata amante di Nerone.

L’Istria è poi collegata, fin dal nome, al mito greco degli argonauti: potrebbe essere stata proprio da queste parti l’ultima tappa della leggendaria spedizione, e se così fosse il nome verrebbe dal Danubio, che i greci chiamavano Istro e che gli argonauti avrebbero risalito per poi passare nella Sava e giungere fin qui. Per saperne di più:
http://arenadipola.com/articoli/13505
L’arena fu poi utilizzata come mercato agricolo quando, tra il XV e il XVI secolo, la Serenissima fece un tentativo di ripopolazione della parte sud dell’Istria, allora spopolata, portando contadini da altre zone controllate dalla Repubblica.
La parte orientale dell’arena è stata ristrutturata negli anni ’30 del XX secolo, quando Pola era sotto il Regno d’Italia, con lo scopo di avviare una stagione operistica e concertistica. Era stato organizzato anche un servizio di trasporto per il collegamento con Trieste, in modo che gli appassionati triestini potessero venire qui la sera a godersi l’opera.
Lasciata l’arena, ci dirigiamo verso il centro di Pola passando per Porta Gemina. Le porte cittadine romane erano dieci. Oggi sono ancora visibili solamente la Porta Gemina e parte delle mura che la collegavano a piazza Giardin. Nel Medioevo la porta fu interrata e fu riportata alla luce solo in tempi moderni. La Dvojna vrata, o Porta Gemina, prende il nome dalle sue due aperture semicircolari che conducevano alla città, costruite probabilmente alla fine del II secolo o all’inizio del III secolo d.C. sui resti di una precedente porta cittadina. Le due aperture sono decorate da tre semicolonne con capitelli compositi. La porta contiene anche una targa incisa con il nome di Lucius Menacius Priscus, consigliere comunale e senatore, che finanziò personalmente la costruzione di una delle reti di approvvigionamento idrico della città. La targa non faceva originariamente parte del monumento; fu però rinvenuta accanto ad esso e collocata lì sul finire del XIX secolo.

La città non si è sviluppata nel periodo veneziano: Al tempo della Serenissima rimane un porto secondario, martoriato dalle epidemie (se ne contano ben 41 tra il 1347 e il 1650). Alla fine di quel periodo arriva a contare solo 300 abitanti. Cresce invece sotto l’Impero austro-ungarico – diventando il porto di riferimento della marina da guerra imperiale – e poi soprattutto durante la Jugoslavia socialista, con la cantieristica navale e l’industria di trasformazione.
Nel periodo asburgico le isole Brioni vennero acquistate da un ricco imprenditore, proprietario di acciaierie, che, entrato in rotta con il consiglio di amministrazione, decise di vendere tutte le sue azioni e con il ricavato comprarsi queste isole, allora paludose e infestate dalla malaria. Le fece bonificare, e fece altrettanto con la zona attorno alla città, che era anch’essa paludosa. Le autorità austriache, poi, buttarono giù le mura e costruirono, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, una parte nuova di città, dove il mercato rappresentava il cuore pulsante. È con questa città nuova e molto più viva, come porto militare ma anche civile, che viene a contatto James Joyce. Joyce arrivò a Pola da Trieste nell’ottobre del 1904 e vi rimase fino al marzo dell’anno seguente. Lavorava come professore d’inglese alla Berlitz school, insegnando prevalentemente agli ufficiali austro-ungarici nella città del cantiere navale e dell’Arsenale. Sul terrazzo del bar “Uliks”, a pochi passi dalla targa commemorativa posta sull’edificio dove Joyce insegnava inglese, oggi sta seduto un Joyce in bronzo. Lo troviamo in attesa di una tazzina di espresso oppure di un bicchiere di teran istriano, cercando refrigerio dopo aver passeggiato per Pola all’inizio di un nuovo secolo.






Questo curioso nome viene dall’unione della sigla KUD, che sta per kulturno-umjetničko društvo (società artistico-culturale), con la parola idioti scritta volutamente in maniera errata. Il suono della band è un classico punk rock di quegli anni, molto godibile. Ecco qua un assaggio per voi:
https://www.youtube.com/watch?v=9LtCZ23xDC0
Ma un altro fatto apprezzabile della band è il suo schieramento politico, apertamente antifascista e di sinistra, cosa che non ha certo reso loro facile la vita nella Croazia degli anni ‘90. Uno degli episodi che li ha resi famosi è quello che li ha visti protagonisti a Reggio Calabria nel 1987, quando i carabinieri interruppero la loro esibizione perché avevano suonato Bandiera Rossa. Non credo esista un video di quella sera, ma comunque questa è la loro versione.
https://www.youtube.com/watch?v=z_tnyEdT5Ns
Quello dei KUD Idijoti non è però l’unico nostro riferimento musicale legato a Pola. C’è anche qualcosa di decisamente più… tranquillo. Sì, perché un altro figlio celebre di Pola è Sergio Endrigo, grande cantautore che immagino tutti conosciate. Per i lettori più giovani (speriamo che ce ne siano), be’… vi toccherà googlare. Nato nel 1933, da ragazzino fu anche lui coinvolto nell’esodo istriano e lasciò la città insieme alla madre nel 1947 (il padre era morto nel 1939). Di questo avrebbe poi parlato nella canzone intitolata proprio 1947, dove a proposito dello sradicamento scrisse tra l’altro “Come vorrei essere un albero che sa dove nasce e dove morirà”.
https://www.youtube.com/watch?v=bhNfG-U17wg
Pola gli ha dedicato un giardino, nelle vicinanze della sua casa natale, dove nel 2008 è stata inaugurata una scultura-gioco ispirata a una delle sue canzoni più famose, l’Arca di Noè. Per chi non la conosce o non se la ricorda…
https://www.youtube.com/watch?v=IW6ZdyXrgaM
A sud del centro storico si può vedere la cappella di Santa Maria Formosa, che è uno dei più importanti monumenti di arte ed architettura bizantina in Istria e in Croazia. La basilica risale al VI secolo, e la fece erigere l’arcivescovo di Ravenna Massiminiano, proveniente dalle vicinanze di Rovigno. Lo stesso arcivescovo ha inoltre fatto costruire San Vitale e Sant’Apollinare in Classe, entrambe a Ravenna. In epoca bizantina Pola faceva parte dell’esarcato di Ravenna ed era una città importante, sede del magister militum.

Il Mosaico della Punizione di Dirce, rinvenuto vicino alla cappella di Santa Maria Formosa, è diviso in 2 parti e raffigura appunto il tema rarissimo della Punizione di Dirce. Dopo la Seconda guerra mondiale, mentre i resti delle rovine venivano rimossi, venne scoperto questo magnifico mosaico, che risale al periodo tra il II e III secolo e che ricopriva il pavimento di una stanza di una casa romana. La parte destra, più piccola, è divisa in esagoni delimitati da trecce bicolore, all’interno delle quali si trovano motivi di flora e fauna. La parte sinistra invece è composta da nove rettangoli irregolari, al centro dei quali si trova il campo più grande con la raffigurazione di due giovani che tengono il toro per le corna e una donna che si trova sotto di loro. Secondo la mitologia Antiope, cugina di Dirce, si innamorò di Zeus, con il quale concepì ed ebbe due gemelli, Amfione e Zeto. Accecata dalla gelosia, Dirce rinchiuse Antiope in una prigione sotterranea e bandì i figli a vagare per il bosco. Zeus per compassione mandò un pastore a vegliare su di loro. Dopo lunghi anni, alla cerimonia di Dionisio la madre e i figli si incontrarono e Dirce, convinta che non avrebbero riconosciuto la madre, ordinò ai due di legarla a un toro. Tramite il pastore, Zeus avvisò i ragazzi che si trattava della loro madre e loro decisero di legare Dirce al posto della donna. Il momento raffigurato nel mosaico di Pola è proprio questo, quando Amfione e Zeto portano il toro davanti a Dirce precedentemente legata. Restaurato e conservato, è stato lasciato nel luogo originale, dove si può vedere ancora oggi.

Il nostro giro della città si conclude davanti al tempio dedicato ad Augusto e alla dea Roma, costruito tra il 2 a.C. e il 14 d.C., con i capitelli in stile corinzio. Fu utilizzato come chiesa in epoca bizantina e più tardi, dall’epoca veneziana fino al XIX secolo, come granaio, fatto che ne ha permesso la conservazione. Nel 1945 venne bombardato dagli Alleati, che volevano distruggere la parte del cantiere navale dove i tedeschi riparavano i sottomarini (Pola fu occupata dai nazisti per 21 mesi tra il 1943 e il 1945), e successivamente ricostruito con il contributo dei migliori artigiani istriani dell’epoca, chiamati dall’allora direttore del museo archeologico. Vicino al tempio di Augusto c’è il palazzo comunale, del XIII secolo, e sulla piazza si affacciano altri bellissimi palazzi dell’epoca veneziana e austroungarica.


La cucina istriana oggi, soprattutto per quanto riguarda le minestre, si basa sull’uso di fagioli e patate, con l’aggiunta di qualche pezzetto di carne, granturco in estate e farro in inverno. E le patate si usano anche per gli gnocchi. Ma non è sempre stato così, ce lo ha raccontato Rossana. L’Istria è storicamente terra contadina, quindi avvezza a un mangiare piuttosto “povero”: si usavano molto ad esempio le lenticchie, e si metteva nella “pignatta” quello che c’era; ma le patate no, perché si credeva che “tuto quel che cresse sotto terra xé vicin all’inferno e no se mette in pignatta”. C’è un momento, però, nella storia, in cui avviene una piccola rivoluzione, e nasce la minestra di fagioli e patate. Succede all’inizio del 1800 quando, dopo diverse eruzioni vulcaniche tra le quali quella del vulcano Tambora nell’attuale Indonesia, la presenza di una grande quantità di ceneri nell’atmosfera causa, secondo gli studiosi, un abbassamento della temperatura in tutto il pianeta, una specie di piccola era glaciale, che porta con sé raccolti distrutti e di conseguenza grandi carestie. I sacerdoti delle chiese, qui come in altre parti d’Europa, si prendono il compito di propagandare l’uso delle patate, fino ad allora demonizzate, e così molte zone si salvano dalla fame.


Nel pomeriggio, il primo appuntamento per noi è presso il centro sociale e culturale “Karlo Rojc”, sorto all’interno della vecchia caserma austro-ungarica. Questo centro sociale ospita ben116 associazioni, su 5 piani, e occupa ciononostante solo una parte della vecchia caserma, che è una struttura enorme e in parte ancora abbandonata. Ad accompagnarci c’è Tihana.









C’è anche il tempo di dare un’occhiata ai tanti murales, uno dei quali rappresenta proprio Tusta, il cantante dei Kud Idijoti scomparso qualche anno fa.
Da qui ci trasferiamo poi alla Casa degli Antifascisti, dove Eugenio ha organizzato per noi un incontro con Anita Buhin, una ricercatrice del “Centre for Cultural and Historical Research of Socialism” dell’Università di Pola, che ci introdurrà alla storia sociale e culturale istriana e di Pola in particolare durante la Jugoslavia socialista.
La Casa degli Antifascisti di Pola si occupa di preservare la memoria delle vittime della lotta antifascista, facendo soprattutto attività pedagogica nelle scuole su tutti i temi collegati alla Seconda guerra mondiale.



Abbiamo parlato, quindi, del miracolo economico, che anche qui si è vissuto nel dopoguerra con la grande industrializzazione e il miglioramento del tenore di vita. La gente poteva permettersi di comprare molte cose per la prima volta, poteva mangiare cibi migliori, poteva andare in vacanza, vestirsi alla moda ecc. ecc.; in fondo era questo il programma del Partito Comunista Jugoslavo, è molto importante ricordarlo. La grande differenza con il blocco sovietico è che qui, almeno negli intenti, il Partito metteva in programma la felicità di ogni individuo. Felicità voleva dire anche poter vivere una vita moderna, urbana e perfino un po’… capitalista. Tutto questo si poteva vedere e ascoltare anche in una canzone: Moja mala devoičica (mia piccola bambina), nota anche come “Tata kupi mi” (Papà comprami), dove la bambina chiede al papà di comprarle di tutto, da una bambola a una macchina.
https://www.youtube.com/watch?v=q5n0hos_f94
Gli anni ‘60 sono anche gli anni del frenetico sviluppo del turismo in Istria, dove si aprono stabilimenti balneari, locali e sale da ballo, con diverse località che fanno a gara per potersi proporre, in piccolo, come una Rimini sull’altra sponda dell’Adriatico.
Anita ci ripropone il gioco delle cover jugoslave di canzoni italiane anni ‘60, e si stupisce di quanto siamo bravi: ci siamo allenati in viaggio sul pullmino, ormai non ce ne sfugge una.
Parlando di canzoni, si torna a parlare anche di Sergio Endrigo, che come abbiamo detto lasciò Pola a 14 anni e non ci è mai più tornato: in Jugoslavia sì, ma a Pola no.
Sergio Endrigo ha cantato l’esodo anche in croato (contrariamente a quanto si tende a pensare, non furono solo italiani a lasciare l’Istria in quegli anni). Ho scovato per voi una sua esibizione al Festival di Spalato del 1970 con la canzone Kud plovi ovaj brod (Dove va la nave), che si riferiva naturalmente alla nave degli esuli.
https://www.youtube.com/watch?v=vTRZt1KYAu4
Non possono mancare i Kud Idijoti: anche Anita ci parla di quanto siano stati importanti e popolari da queste parti, e non solo, tra gli anni ’80 e ’90. Sono stati, tra l’altro, la prima band croata a suonare in Serbia, a Novi Sad, dopo la guerra dell’inizio degli anni ’90.
Si arriva ai giorni nostri e Anita, con la voce rotta dalla commozione, ci parla di un evento recente che ha segnato la storia della città e ha toccato la vita di molte persone: la chiusura del cantiere navale di Pola. Il cantiere – dice Anita – è sopravvissuto all’Impero austro-ungarico, a due guerre mondiali, all’occupazione nazi-fascista ed era diventato un simbolo dell’edificazione della Jugoslavia socialista, ma oggi dopo 150 anni è una storia finita.
Nato nel 1856, il cantiere navale di Pola è chiamato Scoglio Olivi (Uljanik) e prende il nome dall’isolotto nella baia di Pola in cui è ubicato, nel quale crescevano alberi di ulivo. Attualmente un albero di ulivo è stato simbolicamente preservato. L’ulivo sì, il posto di lavoro di 1.118 persone no. Nel 2018, dopo una crisi lunga e dolorosa, il tribunale fallimentare ha dichiarato la chiusura. C’è stato un grande sciopero e il cantiere è rimasto formalmente aperto, ma in forma estremamente ridotta. Ai tempi della Jugoslavia nel cantiere lavoravano seimila persone, oggi meno di cento. Moltissimi lavoratori sono andati a lavorare all’estero, in Germania, Olanda, Italia e altrove, spesso lasciando a casa le loro famiglie ma tanti anche portandole con loro. Proprio in questo momento è in corso un censimento, sarà interessante capire quante persone sono rimaste in Istria con questa nuova crisi non solo economica ma anche politica e culturale. La cantieristica navale era uno degli ultimi avamposti industriali e operai di questo paese. Era un simbolo, ma non solo.
Ora resta l’emigrazione o la resa a questo mondo di pizza e appartamenti in affitto ai turisti. La città prima viveva di due poli: quello militare e quello cantieristico. Dopo la guerra degli anni novanta sono andati via i militari, adesso chiudono i cantieri. E nessuno si ferma a pensare a tutti quelli che vivevano del cantiere e dei militari: i barbieri, le sartorie, le lavanderie, i cinema. Un mondo intero, che ora scompare. L’idea che prevale è quella di speculare sulla marina per il turismo, perché la posizione dei cantieri è invidiabile. Quale turista vuol vedere una gru mentre fa il bagno?
Alcuni operai sostengono che se l’Istria fosse in mano ai nazionalisti il governo si sarebbe comportato in modo differente. Ma qui non hanno voti da perdere, non li vota nessuno, hanno lasciato il malcontento che politicamente non sono loro a pagare. E non muovevano un dito mentre la dirigenza continuava a firmare contratti che non poteva rispettare, incassava gli anticipi, che venivano redistribuiti in forma di bonus ai dirigenti, ma poi il cantiere pagava penali enormi perché non riusciva a consegnare in tempo.
Si calcola che dall’oggi al domani, scomparsa la cantieristica, siano circa 50 milioni di kune (8 kune, al cambio, sono pari a un euro) che sono svaniti. Per ogni operaio di Uljanik che ha perso il lavoro ci sono due o tre persone che hanno perso il posto nell’indotto, per non parlare delle famiglie degli operai.
«Questa è una storia che viene raccontata tutta al maschile, in una società che ha ancora un forte approccio patriarcale», spiega Anita. «Basti pensare a tutta l’iconografia della crisi, che ruotava sempre attorno all’operaio in lacrime, ma che taceva di migliaia di donne, a casa, che ora si trovano ad affrontare il problema del piatto da mettere in tavola. Badando al bilancio familiare, andando a fare le pulizie negli appartamenti dei turisti, oppure tenendo assieme la famiglia, con compagni che torneranno a emigrare. Ed è un doppio silenzio perché quando qui è collassato il settore tessile, che era la versione operaia femminile dei cantieri, non c’è stata la stessa mobilitazione, e soprattutto non c’è neanche la stessa memoria. Il tutto in uno spazio politico dove le realtà sociali, come gli ambientalisti, fanno fatica a condividere le battaglie degli altri, e si resta divisi e deboli».
Si chiude con una nota triste, abbiamo capito dalle lacrime di Anita quanto questa chiusura abbia coinvolto e toccato tutti in città, anche chi apparentemente non ha legami personali con il cantiere; ma l’incontro è stato molto interessante e anche questa commozione finale è il segno che Anita ci ha messo l’anima.

Ad allietare la cena un cantante dal vocione possente che, accompagnandosi con la fisarmonica, sciorina classici istriani, italiani e internazionali. Purtroppo (piccola lacunaT) non conosce Sergio Endrigo, ma sulla cultura popolare è messo abbastanza bene. Ci regala, infatti, anche “La mula de Parenzo”, popolarissima canzone che pur essendo “ambientata” in un borgo istriano è un grande classico anche del Triveneto. Qui potete vederla, però, interpretata dalla cantante istriana Lidija Percan nel 1976.
https://www.youtube.com/watch?v=fazO8GeR_XU
E si chiude così in allegria anche la terza giornata di viaggio. Tutti a nanna, domani si va… in miniera.
(TO BE CONTINUED…)