Domenica 19 settembre 2021
Oggi saluteremo Dignano e il suo ecomuseo, ma prima di salutarla c’è un’ultima cosa che dobbiamo fare qui: abbiamo appuntamento con Eric, un giovane e brillante ricercatore che per il progetto della sua tesi di dottorato ha deciso di mappare i graffiti politici di matrice comunista che sopravvivono in Istria dalla fine della Seconda guerra mondiale. La cosa stupefacente non è solo che abbia scelto un tema così originale, ma anche che ne ha trovati a centinaia! E questo nonostante il tempo passato e l’orientamento marcatamente di destra dei governi che la Croazia ha avuto dall’indipendenza ad oggi.
È lo stesso Eric a spiegarci il senso del suo progetto. Molti dei graffiti che ha scovato risalgono alla guerra partigiana o comunque fanno riferimento ai motti e agli eroi della resistenza istriana e jugoslava; ma tantissimi, sicuramente la maggior parte, sono il frutto di un momento storico ben preciso. Dopo la fine della guerra, nel marzo 1946, l’Istria viene visitata da una Commissione interalleata avente lo scopo di delimitare i confini tra l’Italia e la Jugoslavia. Ne fanno parte delegati inglesi, americani, francesi e russi. Al termine della visita, ogni delegazione farà una proposta rispondente alla volontà del proprio governo. In quel periodo le componenti pro-jugoslave della società istriana iniziano una campagna propagandistica filo-jugoslava e, nell’ambito di quella campagna, si decide di tappezzare il più possibile i muri di scritte che facciano pensare alla Commissione che la volontà della popolazione ha già preso una direzione precisa. Questa attività è così intensa che, secondo quello che Eric è riuscito a ricostruire, in quel momento vengono fatte un numero di scritte che potrebbe arrivare, secondo le stime più “alte”, a circa 800.000: è un numero enorme ma Eric dice che non è da scartare come un’esagerazione inverosimile se si pensa che, 75 anni dopo, lui ne ha trovate più di mille.
Le scritte sono state fatte ovunque, perché nessuno sapeva dove esattamente i membri della la Commissione sarebbero andati. Eric ha trovato nell’archivio statale di Pisino un documento della componente italiana del Partito Comunista della Regione Giulia (che era un partito durato un anno e mezzo-due) dove esplicitamente si dice che bisogna iniziare a scrivere sui muri in modo che ovunque si getti uno sguardo si veda una scritta. Queste scritte si vanno ad aggiungere a quelle già fatte durante la guerra dal movimento popolare di liberazione: Eric ci racconta che ha intervistato una signora che ricorda di aver fatto diverse scritte tra il 1943 e il 1944, e che le dava un gran gusto farle, ovviamente di notte per non essere scoperta, anche se sapeva di rischiare grosso. Era come una sorta di dispetto ai fascisti.
Nell’immediato dopoguerra, invece, era diverso scrivere sui muri in zona A (quella sotto amministrazione militare angloamericana, che sarebbe poi stata assegnata quasi integralmente all’Italia) o in zona B (quella sotto amministrazione militare jugoslava). Gli alleati avevano emanato dei decreti che proibivano di scrivere sui muri, ma le componenti filo-jugoslave lo facevano ugualmente. Soprattutto a Pola e a Trieste (che erano entrambe in zona A – Pola era una sorta di enclave di zona A nella zona B) questo scatenò diversi conflitti, in molti casi vere e proprie risse di strada.

Effettivamente, anche se molte scritte sono ovviamente sbiadite dal tempo e a volte c’è bisogno dell’aiuto di Eric, che le ha già studiate, per interpretarle, è incredibile vedere, passeggiando per Dignano, quante ne siano rimaste anche solo qui. Si può vedere un po’ di tutto: “W il Partito Comunista”, “W il potere popolare”, elogi di martiri ed eroi della resistenza, “Trieste libera”, “W Tito” e “W Stalin”. In quel momento Tito e Stalin erano ancora sullo stesso fronte comunista, antifascista e anche già contrapposto agli Alleati nei prodromi di quella che sarebbe poi stata la guerra fredda. Ma non dimentichiamo che, solo due anni dopo, con lo strappo di Tito da Mosca, i comunisti jugoslavi furono obbligati a scegliere e a scegliere Tito, perché chi sceglieva Stalin finiva dritto nel campo di concentramento di Goli Otok.









Ma non mancano scritte ancora più esplicite come “Vogliamo vivere nella Repubblica Jugoslava” e “Non vogliamo il tradimento di Rapallo”, che si riferisce all’accordo di Rapallo del 1920 con il quale i delegati dell’allora Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, cioè la futura Jugoslavia, accettarono l’assegnazione dell’Istria all’Italia.

Insomma, un pezzo di storia scritta sui muri; un altro giro decisamente interessante e insolito che solo viaggiando col nostro Eugenio avremmo potuto fare (scrivendo questo spero di essermi guadagnato uno sconto sul prossimo viaggio)… senza contare che Eric è simpaticissimo.
Salutata davvero Dignano, ci dirigiamo verso la prima tappa di quello che sarà un mini-tour minerario. Sì, perché come se non bastasse tutto il resto l’Istria ha anche una storia mineraria.
Questa prima tappa è Arsia, una città mineraria destinata a ospitare le famiglie di operai, impiegati e dirigenti dell’Arsa Società Anonima Carbonifera. Eretta alla fine degli anni trenta su progetto del visionario architetto triestino Gustavo Pulitzer Finali (che ha progettato nello stesso periodo anche Carbonia), è giunta immutata sino ai nostri giorni sia nell’impianto che nell’edilizia:
Arsia, l’insediamento industriale modello, prodotto dalla frangia più avanzata della cultura architettonica triestina nel 1935-1937. La forma dell’insediamento a lungo e stretto cuneo è obbligata dall’orografia della vallata del torrente Carpano, al suo alveo regolato e adattato il tracciato delle vie della città, sita a valle di pochi e vecchi edifici della miniera. La sua architettura denota il consueto equilibrio tra il futuribile e il recupero della tradizione.
Marco Pozzetto
A parlarci di Arsia c’è Tullio Vorano, già direttore del Museo Popolare di Albona (Narodni Muzej Labin) in cui si conserva un copioso fascicolo che riguarda la più grande tragedia mineraria avvenuta in territorio italiano. È stato lui, nel 2007, a risvegliare la memoria di Arsia mineraria (attiva fino all’anno 1966) e dei suoi martiri del lavoro, portando alla luce la verità e coinvolgendo amici e studiosi da Trieste e dal Friuli Venezia Giulia.
I lavori di costruzione di Arsia iniziarono nel marzo 1936 e già un anno dopo la maggior parte di Arsia era in piedi. Era stata costruita la parte bassa, e il centro urbano con la piazza, la chiesa e tutto il resto. Successivamente, nel 1938-39, fu costruita la scuola e l’ultima costruzione fu quella della struttura nota qui come “i bagni”, che ospitava effettivamente i bagni ma anche una parte della direzione della miniera; subito dietro si trova l’ingresso alla miniera di Carlotta.


Il carbone locale, come potere calorifico, era abbastanza buono, ma aveva un contenuto di zolfo piuttosto elevato, dall’8 al 12%, e quindi, utilizzato naturalmente anche nelle caldaie della miniera, produceva un inquinamento notevole. Si era però in tempo di autarchia, quindi bisognava utilizzare al massimo tutte le riserve nazionali dell’Italia fascista. All’inizio degli anni ’30 la produzione arrivava a stento a 300.000 tonnellate/anno, ma nel ’40 si era già passati a 1.000.000 di tonnellate/anno, quindi con una enorme crescita che comportò anche un’espansione dell’abitato. In quel momento la miniera impegnava 10.000 operai. In seguito, fu costruito il pozzo cosiddetto Littorio d’Arsia, nella parte bassa di Albona, dove c’erano da 3.000 a 4.000 abitanti.
C’era anche una piscina, oggi abbandonata, mentre il campo da calcio è ancora utilizzato dalla squadra locale.

Nella piazza centrale c’è una sorta di arco di trionfo stilizzato in modo tale da ricordare la galleria di una miniera e c’è la casa del fascio, ma Pulitzer Finali pensò di alzare il livello della chiesa rispetto a quello della casa del fascio: il messaggio sottinteso era che l’autorità più importante che vegliava sulle vite delle persone della miniera era quella divina e non quella umana. C’era un monumento dedicato al minatore, opera di Marcello Mascherini, che dopo la Seconda guerra mondiale è stato distrutto perché ritenuto fascista, ma – dice Vorano – si sarebbero potuti eliminare solo i simboli fascisti, che effettivamente c’erano, e lasciare il monumento come tale.



La grande tragedia di Arsia avvenne il 28 febbraio del 1940. L’alba di quel fatidico giorno fu squarciata da un lugubre e prolungato suono della sirena che investì, con il suo ululato, ogni via e penetrò tutte le case. Alla profondità di 280 metri nella miniera di Carlotta era successo qualcosa di terribile, uno scoppio che si lasciò dietro 185 morti, 200 feriti, 93 vedove e 242 orfani.
L’esplosione fu dovuta a un errore nel brillamento delle mine, anche se all’epoca si tentò di incolpare sabotatori esterni. Una grande parte, però, la ebbe un potenziamento eccessivo e mal controllato della capacità estrattiva. La documentazione ufficiale, reperita presso l’Archivio del Servizio Geologico – Direzione Centrale ed Energia della Regione Autonoma FVG, redatta dai Carabinieri, dal Prefetto e dai vari organi statali che visitarono allora la Miniera Carlotta, non si accorda con le analisi della Direzione e dei suoi esperti; i periti tecnici hanno accertato che si potenziò esageratamente il lavoro di estrazione e di conseguenza aumentò la formazione di polverino di carbone che quel giorno esplose, probabilmente a causa della presenza del grisou. La responsabilità, quindi, ricadeva sulla Direzione della Miniera e sui suoi diretti collaboratori, poco attenti alla voce e alle esigenze della miniera.
Il racconto della disgrazia, espresso in forma cauta ma in realtà offensiva nei confronti dei minatori, ridimensionava addirittura il numero complessivo dei morti; era avvolto tutto in una fosca nube, creata a dovere da mediatori piuttosto che responsabili, per volere della Direzione della Miniera, che aveva trascurato le più elementari norme di sicurezza pur di aumentare la produzione e soddisfare le richieste dell’industria bellica e dei vari ingegneri e tecnici del Corpo Reale delle Miniere, spesso latitanti. L’intento era quello di attribuire la colpa della sciagura all’incuria dei minatori, a quei corpi bruciati senza voce, e di scoraggiare l’opinione pubblica a criticare chi di dovere. Tra le notizie false sull’accaduto il quotidiano “Il Corriere Istriano” non aveva dimenticato però di evidenziare con orgoglio “la presenza dei gerarchi e l’efficienza dei soccorsi organizzati.”
Il rancore accumulato fu tale che poi, nel 1943, quando la caduta del governo fascista diede la stura alle prime vendette, alcuni dirigenti della miniera vennero infoibati a Vines, alle porte di Albona.
Nel 1948 un’altra grossa esplosione fece 82 morti tra cui diversi prigionieri tedeschi, che in quel periodo venivano impiegati in miniera.

Il comune di Arsia sta cercando di inserire nei suoi piani di sviluppo l’eredità della miniera. Infatti è recente la notizia che, oltre a rendere accessibile un percorso nel pozzo di Carlotta, si restaurerà la ciminiera dell’ex centrale termica, oggi in un pietoso stato di degrado.
Sempre accompagnati da Tullio Vorano lasciamo Arsia per passare alla seconda tappa, Albona, che è a pochi chilometri di distanza e che è anch’essa un importantissimo pezzo di storia mineraria istriana: Il 4 marzo del 1921, cento anni fa, i minatori di ogni nazionalità, in Istria, occupano le miniere per autogestirle. Ovunque viene issata la bandiera rossa. Durerà poco, fino all’8 aprile.
Nella zona di Labin/Albona le miniere di carbon fossile sono state famose nei secoli; sfruttate forse già dalla Serenissima, sono diventate italiane dopo la lunga appartenenza austriaca. Gli operai del grande bacino minerario del torrente Arsia non sono nuovi alle lotte; arrivano ogni giorno a migliaia da tutta l’Istria.
La Prima guerra mondiale è una sorta di incubo: il regime in miniera si fa durissimo, le punizioni «esemplari», la riottosità antimilitarista viene castigata con invii mirati sul fronte rumeno. Ma con l’arrivo dell’Italia le condizioni non migliorano: l’Italia ha bisogno di carbone e i turni diventano di undici ore, il salario da fame, il ritmo di estrazione frenetico, le misure di sicurezza inesistenti. Le idee della rivoluzione bolscevica, intanto, hanno ormai raggiunto tutte le latitudini, e la spinta del biennio rosso italiano si ripercuote con forza nelle zone slave occupate.
Nel marzo del 1921 lo sciopero è compatto, deciso: alle condizioni già dure di lavoro si sommano le angherie contro gli slavi in nome della «necessaria» italianizzazione e i fascisti scorrazzano indisturbati al seguito dei carabinieri. Il 4 marzo 1921 i minatori dell’Arsia occupano le miniere. Verso le ore 8 del mattino del 7 marzo pattuglie di guardie rosse ispezionano il territorio del bacino
minerario, invitando gli abitanti dei villaggi e le autorità scolastiche ad esporre sugli edifici le bandiere rosse. Nel giro di poche ore le bandiere spuntano su tutte le case, i ragazzi le issano perfino sui rami degli alberi; una grande bandiera con la falce e il martello viene portata a Vines e piantata all’ingresso principale della miniera. Da quel giorno si comincia a parlare della «Repubblica di
Albona».
L’occupazione delle miniere e l’instaurazione della gestione diretta da parte dei lavoratori ha il carattere di una Comune proletaria, si passa presto all’autogestione amministrativa: il bacino minerario dell’Arsia con i suoi villaggi e i piccoli paesi è un territorio governato dalla collettività. È l’unico caso di una Comune operaia consistente territorialmente che si costituisce ed opera in quella
che era l’Italia del 1921. Le bandiere rosse sventolano ovunque fino all’8 aprile, poi sono strappate via con la forza delle armi.
Oggi, a ricordare tutto ciò, c’è un monumento, inaugurato proprio quest’anno lì dove tutto iniziò, nella cosiddetta Piazza Rossa (Krvova Placa in dialetto croato čakavo) dove coperto da un vetro è ancora visibile anche l’ingresso del vecchio pozzo. Qui sei minatori si radunarono in segno di protesta contro i fascisti che a Pisino avevano aggredito il loro leader sindacale Giovanni Pippan. E qui Vorano ci racconta l’antefatto: il 2 febbraio c’era stato un primo sciopero a seguito del quale la direzione della miniera aveva minacciato di togliere ai minatori il premio di produzione per tutto il mese, come aveva facoltà di fare anche per un solo giorno di assenza senza preavviso, dichiarandosi tuttavia disposta a “dimenticare” se ogni minatore avesse riempito il suo vagoncino con almeno 730 kg di carbone (la produzione normale di una giornata di lavoro era al massimo di 650 kg). È in corso quindi una trattativa tra la direzione e il sindacato, cioè la Federazione dei minatori fondata nel 1904, capeggiata all’epoca proprio dal 36enne triestino Giovanni Pippan, membro anche del Partito Socialista. Pippan si reca per questo a Trieste, dove però il 28 febbraio i fascisti incendiano la Camera del Lavoro. Pippan ritorna quindi a casa da Trieste, ma a Pisino scende dal treno per prendere una carrozza per raggiungere Albona e viene malmenato dai fascisti. Il 2 marzo, i minatori si radunano e inizia lo sciopero che porterà alla Comune di Albona.



L’economia della zona, persa la miniera nel 1966, si era riconvertita e si reggeva su altre realtà industriali: c’era una fabbrica di imbarcazioni in vetroresina, una di giocattoli, una di tubi, una di piastrelle. Queste però sopravvivevano grazie al mercato jugoslavo, quindi dopo la dissoluzione dello stato unitario sono andate rapidamente in rovina. Ora qualcosa di industriale è rimasto, ma è poca cosa. Quasi tutto si basa sul turismo. Nel 1960 la miniera aveva aperto il primo albergo a Rabac (Porto Albona) per gli operai, che però in realtà non vi entrarono mai. Furono subito i turisti a utilizzarlo, e con il turismo Rabac si è affermato come centro balneare. La gente trova quindi occupazione nel turismo o in qualche piccola industria. A due passi da qui c’era la Benetton, ma ora ha chiuso e si è spostata in Serbia (sempre in cerca, ovviamente, di manodopera a basso costo che qui non era più sufficientemente tale). Ma altre aziende italiane hanno aperto negli ultimi anni, già in periodo “croato”.
Pausa pranzo e poi si riparte per visitare la città di Albona.
Il borgo, arroccato lassù sulla collina con le sue mura medievali e la Torre Rotonda, è un intrico di viuzze, con la piazza, la chiesa trecentesca, la loggia del ‘600: da lassù si vede il mare e le isole di fronte, intorno l’Istria interna verde di querce e di castagni, e poi gli orti e le vigne e gli oliveti a perdita d’occhio.
Nella facciata del duomo, eretto nel 1336 sulle rovine di una cappella dell’XI secolo, da notare il bel rosone, i due piccoli campanili a vela, il leone marciano e un’antica porta gotica che ricorda la chiesa originaria più antica.




Il personaggio storico forse più importante di Albona è Giuseppina Martinuzzi (1844 – 1925), insegnante, pedagogista e giornalista.
Il suo percorso politico iniziò con l’adesione al movimento democratico e radicale, profondamente influenzato dalle aspirazioni irredentiste. Nel 1888, fondò e diresse Pro-patria, rivista letteraria degli italiani d’Austria, dove le idee irredentiste erano espresse tramite un patriottismo culturale che non sfuggì, dopo breve tempo, alla repressione austriaca. Oltre all’attività giornalistica l’ideale nazionale si espresse con la partecipazione molto attiva della Martinuzzi nella SOT (Società Operaia Triestina). Dagli anni novanta dell’800 aderì progressivamente agli ideali socialisti. Nel solco dell’internazionalismo, la sua aspirazione era il superamento delle divisioni nazionali tra italiani, slavi e tedeschi. Il suo crescente impegno fu poi rivolto all’emancipazione femminile. A tal fine partecipò,nel 1908, a Roma, al primo Congresso nazionale delle donne italiane. Nel 1921, infine, aderì al neonato Partito Comunista d’Italia divenendo segretaria del gruppo femminile di Trieste.
Giuseppina Martinuzzi dedicò molte delle sue energie per la diffusione dell’educazione popolare, partecipando a conferenze di natura divulgativa e pedagogica. Pubblicò manuali di lettura per le scuole elementari. S’impegnò per una riforma pedagogica che contemplasse la diffusione della cultura anche tra le fasce del proletariato operaio e contadino, quest’ultimo rappresentato maggioritariamente da persone di etnia slovena e croata.
Lasciata Albona, ci dirigiamo verso Pisino (Pazin in croato): nel comune di Pisino, ma fuori città, ci fermeremo a dormire per le prossime due notti, divisi tra un agriturismo e una moderna villa con piscina. Nel territorio di Pisino, in località Vermo, si trova anche la chiesa di Santa Maria alle Lastre, che è una piccola chiesetta ma con un interno ricco di preziosi affreschi. Per poterla visitare bisogna farsela aprire dalla signora Sonja, che è la depositaria delle chiavi. Davanti a questa chiesetta immersa nel verde tra fitti alberi di tiglio e pino nero ci aspetta Barbara, che ci ha già fatto da guida a Dignano e che ci accompagnerà anche qui.


Ci spiega che vedremo una chiesetta gotica, della seconda metà del ‘400, ma che il portico davanti ad essa è stato costruito più tardi, nel XVIII secolo, periodo del barocco. Anche l’altare, in marmo, non è del periodo tardogotico, e così il soffitto a cassettoni che è stato anch’esso aggiunto più tardi, ai primi del 1700. In quel periodo era stato intonacato tutto, coprendo gli affreschi che così si sono conservati e sono arrivati fino a noi. La riscoperta degli affreschi e il loro restauro sono datati 1913. L’affresco più importante e famoso è la danza macabra, ma tutte le pareti sono affrescate. Sulla parete sud è rappresentata la vita di Maria, a cui la chiesa è dedicata. Sulla parete ovest abbiamo la vita di Gesù e alcuni episodi di vite di santi ai quali gli abitanti di Vermo erano particolarmente devoti.
All’interno della chiesa la luce è fioca ma, con un po’ di sforzo, si possono ammirare tutte queste storie dipinte. Nella danza macabra si può vedere uno scheletro che suona una tromba o un corno e fa ballare tutta una serie di persone accompagnate da scheletri: ciascuno col suo scheletro vediamo il papa, il cardinale, il vescovo, il re e la regina. Ma anche l’oste, con la sua botte, un bambino, un mendicante, un soldato con l’armatura, un commerciante che non riesce a corrompere la morte neppure offrendole dei ducati d’oro. Il significato è chiaro: davanti alla morte siamo tutti uguali e impotenti. Per capire ancora meglio il contesto, bisogna pensare che la scena fu dipinta in seguito alla diffusione di un’epidemia di peste bubbonica. Il simbolismo è completato dall’immagine di Gesù che compare nella nicchia della porta dalla quale si esce: contro la morte siamo impotenti ma la via di uscita, la salvezza eterna, è in lui.
Gli affreschi sono stati terminati nel 1474 dalla bottega del maestro Vincenzo da Castua, come testimonia la scritta in latino sulla parete meridionale. Anche se Vincenzo ha dato il contributo maggiore, alla realizzazione hanno contribuito diversi autori.






La cena, per tutti, è all’agriturismo gestito dalla signora Davorka, che pur essendo croata parla un perfetto istroveneto; è divertente ascoltarla anche perché è simpatica e comunicativa: l’italiano lo mastica poco, quindi alterna il croato (tradotto da Eugenio) a questa lingua che è imparentata molto da vicino col dialetto veneto. Questa sera ci propone fuži (si tratta di un tipo di pasta locale simile alle trofie) con sugo di… boškerin. Eh sì, proprio lui: sapevamo che per salvare questa razza bovina a rischio di estinzione in Istria si è cominciato a mangiarla, proponendola come un piatto prelibato, ma ora tocca anche a noi. Fa un po’ impressione saperlo, perché sembra quasi di mangiare il nostro Boško, l’ingombrante ma paciosa mascotte a cui ci siamo già affezionati, ma è davvero buono.

(TO BE CONTINUED…)
L’ha ripubblicato su Il mio viaggio.
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