Quattro giorni a Napoli con Radio Popolare e ViaggieMiraggi
Avevo pensato di intitolare questo diario “Le quattro giornate di Napoli”. Poteva avere un senso, in fondo. Ma poi ho lasciato perdere: ho troppo rispetto per la Resistenza, quel rispetto che si deve alle cose sacre (anche se qui parliamo di una religione laica), e quindi mi sembrava blasfemo accostare i nostri quattro giorni a quelli del settembre 1943. È vero che il maltempo ci ha messo a dura prova, con quattro giorni di pioggia quasi continua e anche un po’ di grandine; tra l’altro, noi lo abbiamo dovuto subire per quattro giorni ma a quanto pare a Napoli andava avanti così già da due settimane, una cosa che si fatica a ricordare a memoria d’uomo. Ma comunque è un paragone che proprio non si può fare, dai, non esiste.
E allora ho deciso di ripiegare su “Song ‘e Napule”, puntando sul fatto che i nostri quattro giorni sono iniziati proprio con un tour musicale dedicato alla canzone napoletana, a tante canzoni che poi in fondo non fanno altro che comporre un unico canto che è la voce e l’anima più profonda di questa città. In qualche modo la musica ti accompagna sempre, quando giri per le strade di Napoli. E allora mi è sembrata una buona idea. Lo so, anche questa non è originalissima, è un’assonanza sulla quale hanno giocato già in parecchi, ci hanno fatto anche un film con questo titolo (sono stati i Manetti Bros). Però mi piaceva… e poi non si può essere sempre originali, no?
Questo per spiegare il titolo, ma spieghiamo in due parole anche il viaggio. È presto detto: siamo a Napoli a passare il ponte di Sant’Ambroeus, e già questo per un gruppo molto “milanese” (anche se non mancano presenze da Bergamo, Pavia e Legnano) è piuttosto alternativo. È anche un ponte sui generis, visto che non comprende sabato e domenica. L’organizzazione è quella supercollaudata di Radio Popolare e ViaggieMiraggi, ci guidano Claudio Agostoni e Stefania Persico, il “diretùr” e la voce della radio da Napoli. Nel gruppo ci sono parecchie persone che sono già state mie compagne e compagni di diversi viaggi e serate, quindi è inutile dire che sicuramente ci divertiremo.
Il nostro viaggio partirà dai decumani e dai cardi della città greca, si immergerà nell’anima barocca della città, per poi fare rotta verso la periferia ex industriale. Sarà inevitabilmente anche un viaggio tra gli odori e i sapori, passando per le tracce di street artist napoletani e internazionali le cui opere hanno fatto di Napoli anche una delle capitali europee della street art. Ma si parte proprio dalle geografie della musica napoletana. E allora fine della premessa, cominciamo a raccontare il viaggio.
Martedì 7 dicembre 2021
Napoli ci accoglie in un pomeriggio freddino ma, nonostante le previsioni minaccino già pioggia, per ora il tempo tiene.

Partiti presto in treno da Milano, ci siamo rifocillati con una pizza salsiccia e friarielli per entrare al più presto nel mood e, conosciuta Stefania, siamo pronti per iniziare un tour il cui titolo è tutto un programma: Napoli tour in-canto. A cantare e a incantarci c’è Mariangela, cantante e musicologa, validamente supportata, alla chitarra o al mandolino, da Vincenzo. Sono loro che nel 2016 si sono inventati queste passeggiate a carattere musicale. Mariangela è la presidente dell’associazione, e le passeggiate sono frutto di una sua ricerca storica e musicologica sui luoghi della città e sulle canzoni che a quei luoghi sono legate.

Napoli, del resto, è figlia di una sirena, e quindi il canto è da sempre parte integrante della sua storia. Eh sì, per chi non lo sapesse, secondo la tradizione raccolta nelle Argonautiche orfiche (V secolo d.C.) le tre sirene Partenope, Ligea e Leucosia vengono battute nel canto da Orfeo e per la disperazione si buttano in mare, dove vengono trasformate in scogli. Nelle più note Argonautiche di Apollonio Rodio (III secolo a.C.), la loro morte viene attribuita all’insensibilità di Ulisse alla malia del loro canto. Dovete sapere anche che le sirene del mondo antico non erano quelle che siamo abituati a conoscere: erano per metà donne e per metà uccelli, quindi non avevano una coda di pesce ma zampe e artigli da rapaci. È solo dal medioevo che la loro immagine cambia e diventa quella di oggi. Comunque sia, i loro corpi vengono trasportati dal mare: Ligea finisce a Terina, Leucosia a Posidonia e Partenope alla foce del fiume Sebeto, dove poi i Cumani, con l’espulsione degli oligarchi sotto il tiranno Aristodemo, avrebbero fondato Neapolis. La sirena sarebbe morta nel luogo in cui oggi sorge Castel dell’Ovo.
Noi invece siamo in Piazza Municipio, a due passi dal Maschio Angioino, e Mariangela oggi sarà la nostra sirena Partenope, che ci guiderà col suo canto per le vie della città. Parlare di Napoli – dice lei – e non ascoltare il suo canto sarebbe come scoprirla a metà. Il rapporto con la musica è viscerale; e non dimentichiamo che sia il dialetto che la canzone napoletana sono patrimonio immateriale UNESCO. La canzone è talmente emblematica e connessa alla storia della città che, dal 1200 ai giorni nostri, è un bene che continua ad evolversi e a rinnovarsi. Il tour in-canto è basato su performance site-specific, cioè pensate e realizzate per quello specifico luogo. È diverso ascoltare la musica in un teatro, dove si ha comunque con essa un rapporto elitario (si compra un biglietto a volte salato, e spesso serve un certo livello di cultura per potervi accedere), rispetto a creare l’incanto per strada, rendendo la cultura musicale un bene accessibile a tutti, comprese le persone diversamente abili con le quali Napoli tour in-canto lavora (Mariangela è anche musicoterapista) con dei tour pensati per loro.

Qui, a Piazza Municipio, il tour inizia con una canzone del maestro De Simone, scritta nel ‘76 per Concetta Barra e ispirata a Michelemmà, una canzone pubblicata nel ‘700 da Salvator Rosa ma che risale probabilmente al secolo precedente. Michelemmà forse significa “Michela è mia”, ma non si sa con certezza. Come non si sa se la scarola si riferisca alla verdura, a una ragazza riccia, a un’iscarola e quindi all’isola di Ischia (San Michele è il patrono di Ischia) o a tutte queste cose insieme. Questo di De Simone è un rifacimento in chiave moderna che racconta, in pratica, l’intera storia di Napoli attraverso il linguaggio musicale. Si intitola Nascette mmiezz’o mare e, se la ascoltate bene, racconta davvero tutta la storia della città in poco più di quattro minuti. E allora, quale inizio migliore?
Se non avete capito niente paura: anche per me che sono mezzo terrone (la mia mamma è nata in Campania), non era tutto immediatamente comprensibile (buona parte sì, ma non tutto). Ho trovato, per me e per voi, una “traduzione” completa con tanto di note:
https://www.antiwarsongs.org/canzone.php?lang=it&id=39794
Ecco a voi quindi una città che è una femmena pezzente, senza dote e senza niente, con la bellezza solamente, dove tutti sono passati, che tutti si sono litigati e hanno spolpato, dai normanni agli svevi agli angioini, dai viceré spagnoli ai re borboni, ai Savoia, fino alle camicie nere. Tutti hanno fatto i fatti loro, e la città ora rischia di morire… il finale non è particolarmente ottimistico, ma Napoli è ancora qui e da allora forse è morta e rinata più volte.

Ci trasferiamo in Piazza Plebiscito, dove ancora oggi, dopo alterne vicende, sorge lo storico Caffè Gambrinus. Il Gambrinus è stato fondato nel 1860 e ha raggiunto il suo apice all’inizio del ‘900 con la Belle Epoque. Fu anche un Cafè Chantant, dove all’epoca si svolgevano spettacoli. Era anche fornitore della Casa Reale ma poi, nel 1938, fu chiuso. La motivazione ufficiale era che fosse un ritrovo di antifascisti, ma si disse anche che la moglie del questore, che abitava sopra il caffè, non sopportasse il troppo vociare la sera. Fatto sta che il Gambrinus fu sostituito dal Banco di Napoli fino agli anni ’50, quando fu riaperto dalla stessa famiglia che lo gestisce ancora oggi. Si dice che anche il caffè sospeso, la tipica abitudine napoletana di lasciare un caffè pagato per chi non se lo può permettere, sia nata al Gambrinus.




Sempre al Gambrinus, nel 1892, Gabriele D’Annunzio, l’abruzzese D’Annunzio, fu sfidato dal giornalista del Mattino Ferdinando Russo a scrivere una poesia in napoletano. Si racconta che scrisse su un tovagliolino la poesia intitolata ‘A vucchella (boccuccia, ndr) e vinse così la scommessa. Il testo di ‘A vucchella è un sonetto in versi settenari. Una sua peculiarità sta nell’uso di un termine inventato: appassuliatella. Si tratta di un tipico gioco intellettualistico di D’Annunzio. Infatti, l’aggettivo venne creato per l’occasione e non è stato mai più usato da altri. Il suo significato rimanda alla figura di una piccola rosa leggermente appassita. Il poeta lo riferisce alla bocca della donna che gli ispirò i versi. C’è chi dice che fosse una cameriera del Gambrinus, ma non si sa con certezza… Parecchi anni dopo, nel 1904, D’Annunzio riprese ‘A vucchella e la fece musicare da Paolo Tosti, anch’egli abruzzese e autore di opere liriche.
Tappa successiva è la Galleria Umberto I, dove ci fermiamo davanti al portone del palazzo sotto il quale si trova il Salone Margherita. Il Salone Margherita rappresenta l’apice della Belle Epoque napoletana, il suo luogo simbolo. Era l’epoca, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, in cui erano di moda i cafè chantant: anche il Gambrinus in parte lo è stato, ma il Salone Margherita è il più famoso. Oggi esiste ancora ma… ci si va a ballare il tango.


Nei cafè chantant si tenevano spettacoli che con gli occhi di oggi potremmo forse definire avanspettacolo, ma che in realtà erano di origine colta. È una moda che viene da Parigi e che si diffonde in tutta Italia, ma soprattutto a Napoli. Le protagoniste di questi spettacoli, a Napoli, venivano chiamate sciantose, che deriva chiaramente da chanteuse (cantante al femminile). Il fatto che fossero donne era già una novità, per la canzone napoletana che fino a quel momento era stata interpretata quasi esclusivamente da uomini. E in breve tempo la sciantosa diventa la regina della canzone napoletana. Le interpreti, anche a livello tecnico, erano di tutto rispetto, anche perché inizialmente quelli che portavano in scena erano brani tratti da operette come la Vedova Allegra di Lehar; alcune arie erano tradotte in napoletano, ma restava un genere colto in questa prima fase. Poi, gradualmente, la figura della sciantosa si trasforma. La canzone che Mariangela ha scelto per raccontare questa trasformazione è dell’inizio del ‘900 e si intitola Ninì Tirabusciò. Ninì Tirabusciò era una cantante dell’epoca, realmente esistita, per cui Gambardella scrisse questa canzone che segna in qualche modo il passaggio della sciantosa da cantante lirica a cantante di avanspettacolo, decisamente più “popolare”. Ovviamente, perde di importanza la voce e acquisiscono importanza altre qualità, prima tra tutte quella di sapersi muovere sul palco. È così che nasce la proverbiale “mossa” che di questa nuova estetica è sicuramente l’elemento che è passato di più alla storia. Ninì Tirabusciò è tuttora nota come la donna che ha inventato la mossa, grazie anche al celebre film interpretato da Monica Vitti nel 1970.
Ed ecco che in un attimo, con un semplice boa di piume, Mariangela si “sciantosizza”, come dice lei, ed è pronta a interpretare anche lei la mitica Ninì.
Dalla Galleria Umberto a via Toledo il passo è breve. Ed è davanti a un portone di via Toledo che la nostra sirena Partenope interpreta per noi un pezzo di Renato Carosone tuttora popolarissimo e un po’ più vicino anche ai giorni nostri, anche se si tratta pur sempre di una canzone del 1956: Tu vuo’ fa’ l’americano. Lo spunto è proprio l’inizio del testo, che cita via Toledo come teatro delle gesta del protagonista della canzone, che ovviamente sceglie proprio questa via per mettersi in mostra come un guappo:
Puorte ‘e calzune cu’ ‘nu stemma arreto
‘Na cuppulella cu’ ‘a visiera aizata
Passa scampanianno pe’ Tuledo
Comm’a ‘nu guappo, pe’ te fa’ guarda’
Via Toledo, con gli innumerevoli palazzi monumentali che la cingono, è considerata una delle vie più eleganti di Napoli fin da quando, nel 1536, fu voluta dal viceré Pedro Álvarez de Toledo e realizzata su progetto degli architetti regi Ferdinando Manlio e Giovanni Benincasa. La strada correva lungo la vecchia cinta muraria occidentale di epoca aragonese che per gli ampliamenti difensivi proprio di Don Pedro fu resa obsoleta e quindi eliminata. Nel corso dei secoli la sua fama è stata accresciuta tramite i viaggi del Grand Tour e molte citazioni nelle canzoni napoletane. Effettivamente qui c’era l’imbarazzo della scelta. A me viene in mente, ad esempio, la prima strofa di Reginella (forse la mia canzone napoletana preferita in assoluto insieme a Era de maggio) che fa:
Te si’ fatta ‘na veste scullata,
Nu cappiello cu ‘e nastre e cu ‘e rrose…
Stive ‘mmiezz’ a tre o quattro sciantose,
E parlave francese… è accussì?
Fuje l’autriere ca t’aggio ‘ncuntrata?
Fuje l’autriere, a Tuleto, gnorsì…
Il 15 maggio 1848 la via fu teatro della repressione messa in atto da Ferdinando II contro i liberali napoletani che difendevano la costituzione da poco ottenuta, vi furono innalzate barricate espugnate dai reparti di mercenari svizzeri dell’esercito con numerosi morti e il successivo saccheggio di Palazzo Cirella.
Dal 18 ottobre del 1870 al 1980 la strada si è chiamata Via Roma in onore della neocapitale del Regno d’Italia, ma oggi è giustamente tornata via Toledo e, come è sempre stato dal XVI secolo, rappresenta anche il limite dei quartieri spagnoli, nei quali ci si addentra da via Montecalvario.
A Napoli, quando si parla di “quartieri”, quasi sempre ci si riferisce ai quartieri spagnoli. Inizialmente, la parola quartieri era usata nel suo senso militare: L’area è caratterizzata, dal punto di vista urbanistico, da una struttura reticolare che scende dalle alture dominate da Castel Sant’Elmo, con la tipica vocazione di alloggi destinati ad ospitare le truppe. Sorge nel XVI secolo, anch’essa per volontà dell’allora viceré Pedro de Toledo, proprio al fine di acquartierare le guarnigioni militari spagnole destinate alla repressione di eventuali rivolte della popolazione napoletana, oppure come dimora temporanea per i soldati che passavano da Napoli in direzione di altri luoghi di conflitto, e allo stesso tempo in qualità di edilizia popolare atta a dare alloggio ai numerosi abitanti locali che, in quegli anni, dalle campagne circostanti si erano stabiliti nella capitale del regno.


Fin dalla sua nascita, la zona — anche in ragione di un’elevata densità di popolazione — presentò fenomeni di criminalità, gioco d’azzardo e soprattutto prostituzione, legati in particolar modo all’offerta di “svago” ai soldati ivi acquartierati o di passaggio. Nonostante l’emanazione, da parte di Don Pedro, di alcune apposite leggi atte a debellare il fenomeno, il quartiere rimase — anche in seguito alla perdita della sua funzione originaria — sempre un’area di grandi difficoltà sociali della città.
Nel corso dell’evoluzione antropica dell’area, dal Cinquecento al Settecento, viene progressivamente meno la presenza militare, mentre altissima è la percentuale di immigrati dai centri circostanti, che si inseriscono particolarmente nel settore dei servizi. Massiccia è anche la presenza degli artigiani, soprattutto sarti e calzolai. Fino al XIX secolo, la vicinanza di via Toledo, sede di importanti uffici amministrativi e finanziari (Banco delle Due Sicilie, Borsa, Gran Corte dei Conti) incise significativamente sulla composizione socio-professionale degli abitanti di quest’area, la quale assunse una fisionomia di tipo residenziale, data la presenza di nobili, impiegati, proprietari ed appartenenti al ceto medio. Con l’unità d’Italia, la popolazione si proletarizza in un generale passaggio ad un’economia ai margini della legalità, che in certa misura si prolungherà nel corso del secolo successivo.
È proprio di questo complesso periodo storico della città e della proletarizzazione dei “quartieri” che ci parla la canzone scelta da Mariangela per questa tappa del tour. Si tratta della bellissima Bammenella, scritta da Raffaele Viviani nel 1912. Il periodo del viceregno spagnolo, nei secoli XVI e XVII, è anche il periodo in cui si forma il dialetto napoletano, che ovviamente è molto influenzato dallo spagnolo (basti pensare, per dirne una, all’uso del verbo tenere al posto di avere, che viene di fatto usato solo come ausiliare; ma gli esempi sarebbero innumerevoli). Una parola celebre che risale a quel periodo è gomorra, e di conseguenza camorra. Far gomorra significava, all’epoca, attaccar briga, un comportamento che era molto diffuso tra i militari spagnoli. I quartieri spagnoli sono quindi segnati, fin dall’inizio, da un alto tasso di violenza e da comportamenti di persone che tendono a spadroneggiare. Questa origine ha pesato sulla nomea, spesso peraltro meritata, di zona pericolosa che si è protratta molto a lungo nel tempo e continua in un certo modo anche oggi, sebbene i quartieri siano anche molto cambiati e siano oggi anche una zona turistica. Nel periodo del viceregno nascono anche le villanelle, inizialmente cantate a cappella da tre voci, che influenzeranno la più tarda forma della canzonetta: in entrambi i casi si tratta di generi estremamente popolari. Il Teatro Nuovo, che risale al ‘700 e che fu due volte distrutto da incendi, prima a metà dell’800 e poi di nuovo nel 1934 per essere poi ricostruito soltanto nel 1985, ha visto tra gli altri anche l’esordio di Raffaele Viviani, che fu uomo di teatro ma anche grande cantore del popolo di Napoli e soprattutto dei quartieri spagnoli.
Bammenella (bambinella) è proprio la storia di una donna del popolo, che parla naturalmente in dialetto ma che usa anche termini derivanti da quello che era il gergo dei quartieri all’inizio del ‘900: ad esempio quando nel testo si parla di “ambulanza” ci si riferisce in realtà alla macchina della polizia. Bammenella è la donna di un capo guaglione (forse più giovane di lei) che in realtà è il suo protettore. Lei è di fatto una prostituta, anche se non vuole dirlo apertamente e tende a presentare ogni sua “concessione” a un altro uomo, che sia un brigadiere o un dottore, come un favore fatto al suo uomo sfruttando le sue arti seduttive femminili. Il suo rapporto con il protettore-fidanzato è disperato, quasi tragico, senza vie d’uscita. Lei ne subisce il fascino e il ricatto allo stesso modo, lui la uccide di mazzate tutte le sere, calpestandone la dignità, ma le vuole un bene sfrenato – lei se lo ripete come un mantra per rassicurare se stessa – così non appena lui, il capo guaglione, la bacia carnale, lei dimentica tutto e continua ad aprire il suo cuore di donna all’uomo che la maltratta. È una storia che, purtroppo, è antica ma per certi versi sempre attuale. Così l’ha interpretata (stupendamente, devo dire) la nostra Mariangela, che per entrare nella parte si è messa uno scialletto nero in stile spagnolo e un cappello da capo guaglione:
Per chi volesse la traduzione esatta, eccola qua:
https://www.napoligrafia.it/musica/testi/bammenella.htm
E qui per approfondire c’è un bell’articolo del Mattino, che dice tra l’altro:
In Bammenella la subalternità si trasforma in una scelta, la scelta di un amore malato, marcio, molesto, contorto, che non può sfuggire ai codici di comportamento della malavita locale, nella quale la prostituta Ines è pienamente immersa. Nulla doveva apparire più lontano dai rassicuranti canoni femminili dell’epoca: se altri, come Ferdinando Russo, avevano già tentato di calarsi nel popolo, Viviani, con la sua poetica tragica e realista fino allo sfinimento, fino ai conati di vomito, era già popolo, nella testa, nel cuore, nel corpo. Di quel popolo vive istintivamente rabbie e desideri, odii e miserie, lotte e speranze. Istintivamente: cioè con colpevole innocenza.
Ci addentriamo nei vicoli, per poi fermarci su una scalinata, dove Mariangela ha deciso di ambientare il prossimo pezzo: siamo dalle parti di Vico San Liborio, dove Eduardo De Filippo fece nascere Filumena Marturano. Filumena Marturano, celeberrima, è stata scritta nel 1946 ed è una delle opere più note di Eduardo. È l’unica in cui Eduardo, mescolando come sempre dramma e commedia nel modo che gli è proprio, mette in scena una protagonista donna. La parte fu scritta pensando come interprete alla sorella Titina; la figura di Filumena è una figura complessa, profonda, drammatica sebbene sia a tratti assolutamente comica, come nella scena in cui si finge gravemente malata per farsi sposare dal ricco mecenate Domenico Soriano e dare un padre ai suoi figli, uno solo dei quali è realmente figlio di Soriano. La canzone che Mariangela ha scelto per omaggiare Filumena è Carmela, di Sergio Bruni, anch’essa dedicata a una donna. Ma, come lo stesso poeta Salvatore Palomba, autore del testo, ha raccontato in seguito Carmela non è soltanto una donna, ma rappresenta tutta Napoli. La speranza del poeta non è di raggiungere le braccia dell’amata, ma che la città da lui amata possa rialzarsi, possa vedere la luce dopo il “vico niro” nel quale è sprofondata.
Il fischio che si sente a un certo punto in sottofondo è il richiamo che (lo abbiamo potuto verificare… per esperienza diretta) qui nei vicoli ancora si usa per dire a chi sta aspettando una consegna di calare, dalla finestra o dal balcone, il classico paniere con il quale il pacchetto arriva direttamente al piano: È una forma di “delivery” che precede di molto gli attuali rider e che, evidentemente, tuttora sopravvive.

Per l’ultima tappa si torna in via Toledo per arrivare in Piazza Carità, dove sorge il monumento al carabiniere napoletano Salvo D’Acquisto, insignito di Medaglia d’oro al valor militare per essersi sacrificato il 23 settembre 1943 per salvare un gruppo di civili durante un rastrellamento delle truppe naziste a Polidoro, vicino Roma.

I quartieri spagnoli, fortemente legati alla resistenza e in particolare alle quattro giornate di Napoli, sono punteggiati di targhe dedicate a ragazzi giovanissimi morti durante quei giorni in cui la città si liberò dall’occupazione con un’insurrezione popolare, prima città europea a farlo. La canzone perfetta per ricordare le quattro giornate e gli scugnizzi che, se non avevano il fucile, combattevano lanciando ‘e prete (le pietre) non può che essere Canto allo scugnizzo, di Eugenio Bennato.
E così si chiude degnamente il nostro tour musicale, con un ultimo applauso e un ringraziamento alla nostra bravissima sirena Partenope, che ci ha introdotti come meglio non si poteva a questa città, facendoci subito entrare nel profondo della sua anima. La scelta delle canzoni, nient’affatto scontate, fa capire che dietro c’è un grande lavoro di ricerca musicale, per cui se passate da Napoli non posso che raccomandarvi Mariangela e Vincenzo.
https://www.facebook.com/napolitourincanto


Per la cena, ci spostiamo da Giufà, in via Bellini, a due passi da Piazza Dante, all’estremità nord di via Toledo. Intanto la pioggia inizia a cadere inesorabile.
Giufà è un Tapas ristobar le cui parole d’ordine sono: Contaminazione, integrazione, inclusione; tutto questo in cucina. Perciò non può non piacerci. Si definisce come un’impresa sociale eticamente orientata, che nei suoi processi produttivi impiega solo personale con contratti regolari. Il ciclo di produzione è basato su criteri di sostenibilità, e propone solo prodotti di qualità prevalentemente di filiera corta. La Mission fondamentale, però, è l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate e la diffusione delle culture gastronomiche del mediterraneo come veicolo di integrazione e di crescita sostenibile. Ha diversi progetti di inclusione, per i quali ha tra l’altro ricevuto nel 2017 il premio WELCOME – Working for refugee integration da parte dell’UNHCR.
Per noi stasera hanno preparato: una morbida mousse di mortadella, falafel, hummus, salmone al forno con maionese e wasabi. Tutto sostenibile, etico e anche buono.
https://www.facebook.com/giufa.napoli
L’ultima emozione della giornata è la corsa per prendere l’ultima metropolitana utile per tornare in albergo (c’è da dire che chiude un po’ presto, per noi abituati agli orari della metro milanese, ma restano comunque altri mezzi). Siamo costretti ad ammirare un po’ frettolosamente gli spettacolari interni della stazione di Toledo, progettata dall’architetto catalano Óscar Tusquets, che secondo l’inglese Daily Telegraph e la CNN è la stazione della metropolitana più bella del mondo.
L’interno è caratterizzato da due grandi mosaici di Kentridge realizzati dal mosaicista Costantino Aureliano Buccolieri: il primo è posto nel mezzanino della stazione e raffigura una tipica scena napoletana, piena di persone in movimento, tra cui lo stesso autore e San Gennaro. Nel mezzanino, illuminato anche dalla luce proveniente dai tre lucernari esterni, si può vedere parte delle strutture murarie aragonesi ritrovate durante gli scavi. Scendendo lungo le scale mobili, illuminate dall’interno, si scorge sulla parete frontale il secondo mosaico, raffigurante due persone che si adoperano per portare un carretto carico di simboli della repubblica napoletana del 1799 e un gatto (il cui disegno è tratto da un mosaico pompeiano). La differenza tra i due ambienti si nota proprio scendendo le scale mobili: dopo le prime rampe in cui domina il color ocra del rivestimento di mattonelle (chiaro riferimento al tufo napoletano) si passa infatti nella galleria del mare di Bob Wilson: un ambiente completamente mosaicato a motivi marini, dove sono presenti riferimenti acquatici come le luci che ricordano le onde, e il grande pilastro decorato come un gigantesco zampillo di una fontana.



Dopo di che… possiamo anche andarcene a nanna: stamattina ci siamo alzati tutti presto e domani ci aspetta un’altra intensa giornata napoletana.
(TO BE CONTINUED…)