Quattro giorni a Napoli con Radio Popolare e ViaggieMiraggi

Mercoledì 8 dicembre 2021
Oggi è il giorno della Sanità. La Sanità è più di un rione, è una città nella città di 35.000 abitanti, che ha dato i natali a Totò e a tanti altri personaggi che hanno fatto la storia di Napoli e che ne rappresenta nel modo più autentico l’anima popolare. Quindi per noi è una tappa irrinunciabile.
Il rione Sanità oggi è di fatto centro storico, ma in passato era considerato “fuori le mura”. Per arrivarci, dal nostro albergo nei pressi della Stazione Centrale, prendiamo la metro dalla vicina stazione Garibaldi. È l’occasione per scoprire che, se Toledo è la più bella, anche questa stazione della metro di Napoli ospita opere d’arte, niente meno che di Michelangelo Pistoletto. Le due installazioni dal titolo “Stazione”, collocate appena prima delle ultime rampe di scale verso i treni, sono costituite da pannelli in acciaio specchiante sui quali sono serigrafate, a grandezza naturale, fotografie di passeggeri in attesa o in cammino. Le immagini statiche dell’arte e le mutevoli immagini riflesse dalla realtà si mescolano incessantemente nell’opera, che diventa così, come ha spiegato l’autore, “una porta che mette in comunicazione arte e vita”.

In poche fermate siamo a Piazza Municipio, e da qui prendiamo l’autobus per raggiungere la Sanità. Il nostro percorso parte, dopo un caffè e un’occhiata veloce alla Basilica dell’Incoronata Madre del Buon Consiglio, dalle catacombe di San Gennaro.

Basilica dell’Incoronata Madre del Buon Consiglio

Napoli è uno degli esempi più lampanti di città in cui la storia può essere ripercorsa attraverso i suoi “strati”. Tra la Neapolis greca e la città di oggi non ci sono millenni, ma metri di sottosuolo. Il passato non è messo in una teca o dimenticato, ma fa capolino in alcuni punti della città del presente. Questo è proprio uno di quei punti: le catacombe, che risalgono al II secolo d.C., dopo secoli di abbandono e decadenza, tornarono nel XVIII secolo a suscitare l’interesse degli studiosi e divennero una tappa obbligata dei visitatori del Grand Tour. Nel 1969 il cardinale arcivescovo di Napoli Corrado Ursi, dopo averle fatte risistemare, inaugurava il nuovo accesso (quello attuale), ed avviava una nuova campagna di scavi. Nel 2010 è stato inaugurato il nuovo impianto elettrico e di illuminazione e oggi, se le catacombe sono tornate ad essere un bene fruibile da tutti, il merito è prima di tutto dei ragazzi della cooperativa La Paranza, che con la loro visione e il loro lavoro hanno reso possibile tutto ciò. Fabrizio, che ci accompagnerà nel nostro cammino sia qui che in tutto il rione, è proprio uno di loro.

Le catacombe, giuridicamente, sono suolo vaticano, dal momento che il Concordato stabilisce che sia la Santa Sede ad occuparsi della gestione di tutte le catacombe presenti sul territorio nazionale, circa 120 (di cui una ventina aperte al pubblico) compresa quella di Napoli. Alla Commissione di Archeologia Sacra della Santa Sede spetta il 50% degli introiti provenienti da ciascuna catacomba come contributo necessario per la tutela, la conservazione, il restauro e gli interventi urgenti di recupero. Su questo, qualche anno fa, è nato un contenzioso con il Vaticano che lamentava che La Paranza gestisse il sito in totale autonomia, emettendo biglietti in proprio, non corrispondendo il contributo e non fornendo bilanci. È importante dire, però, che quando la cooperativa ha preso in gestione il sito le catacombe venivano da 40 anni di sostanziale abbandono.
Sul piano storico, la prima cosa da dire sulle catacombe è che va smentita una storica “fake news” o leggenda, se preferite: i cristiani non si nascondevano qui per pregare, semplicemente seppellivano qui i loro morti. Quello che si vede, infatti, scendendo nel sottosuolo è una necropoli: Tombe a fossa, dove i defunti venivano sepolti uno sopra l’altro, loculi e un terzo tipo di tomba chiamato arcosolium. Tipico delle catacombe romane, l’arcosolium era costituito da un sarcofago o da una tomba chiusa da lastre di marmo o in muratura ed inserita in una nicchia sormontata da un arco a tutto sesto, in genere scavata nel tufo della parete. La sepoltura occupava interamente la parte inferiore della nicchia, e lo spazio che si veniva a creare sotto l’arco, la lunetta, veniva spesso decorato con pitture. Ne possiamo vedere qui molti esempi, alcuni davvero ben conservati.
Il nucleo originario delle catacombe si andò sviluppando attorno alla tomba di una ricca famiglia romana datata al II-III secolo. A partire da questa donazione, fu successivamente creato il vestibolo del piano inferiore, che alla fine del III secolo accolse i resti mortali di sant’Agrippino, sesto vescovo di Napoli, divenendo luogo di venerazione di quello che è considerato il primo patrono della città.
Dopo la costruzione, sulla tomba di Agrippino, di una basilica cimiteriale, il vescovo Giovanni I (413-431) fece traslare in un cubicolo della catacomba inferiore le spoglie di san Gennaro (che dopo il suo martirio nell’anno 305 erano state sepolte nell’Agro Marciano). Da quel momento la catacomba divenne centro di culto del martire che tanta importanza avrà nella storia della città, e con il tempo le catacombe ne assunsero il nome, divenendo così le Catacombe di San Gennaro. Questa grande devozione portò ad uno sviluppo straordinario delle catacombe: le tombe si moltiplicarono, gli ambulacri furono prolungati, nuovi cubicoli furono aperti e decorati, e quando le pareti degli ambulacri non bastarono più, le tombe furono scavate persino nel suolo.
Nell’831 il principe longobardo Sicone I, assediando la città di Napoli, ne approfittò per impossessarsi dei resti mortali di san Gennaro e li portò nella sua città, Benevento, sede episcopale. E da lì, in pratica, si perse il culto, che riprenderà solo con gli aragonesi nel 1497.
Le catacombe hanno probabilmente un’influenza anche sul toponimo del rione, che si chiama Sanità perché all’epoca della sua edificazione, nel XVI secolo, alla zona veniva attribuita una salubritas sia naturale che sovrannaturale, dal momento che essendo fuori le mura era ancora “incontaminata” e che era sede delle catacombe, dove secondo la credenza popolare si verificavano miracolose guarigioni.

Affresco nelle catacombe di San Gennaro: la piccola Nonnosa (al centro) tra la madre Ilaritas (a sinistra) ed il padre Theotecnus (a destra).

In alcuni affreschi si nota il simbolo dato dalla combinazione delle lettere greche chi e ro, cioè le prime due lettere del nome greco di Cristo. I santi presenti sono diversi: spiccano Pietro e Paolo, San Lorenzo e ovviamente San Gennaro.
San Lorenzo, secondo la tradizione, fu arso vivo sulla graticola ed è per questo che è associato al fenomeno delle stelle cadenti, considerate evocative dei carboni ardenti su cui fu martirizzato.
Di San Gennaro tutti sanno che il suo sangue, raccolto in un’ampolla, si scioglie (per chi ci crede) due volte l’anno, ma sulla sua vita sono parecchi gli aspetti dubbi: era scuro di pelle, forse in realtà si chiamava Procolo e divenne Gennaro solo dopo il martirio, forse avvenuto a gennaio (martire ianuarii); non si sa dove sia nato esattamente, si ritiene che sia nato a Benevento perché fu vescovo di quella città ma potrebbe essere anche nato a Napoli.
Il martirio avvenne per decapitazione: allora si usava eseguire le decapitazioni ai Campi Flegrei, perché il fatto che dalla terra uscisse del fumo faceva pensare che lì sotto ci fosse l’Ade, l’inferno dei romani. Ma si racconta che, prima di essere decapitato, tentarono di ucciderlo prima gettandolo in una fornace, da cui sarebbe uscito illeso, e poi facendolo sbranare dai leoni, che però si sarebbero inginocchiati davanti a lui.
Si dice anche che abbia fermato il Vesuvio quando, nel 1631, un’eruzione si arrestò dopo che le sue reliquie furono portate in processione ed esposte di fronte al vulcano attivo. Questa è una delle principali tradizioni che storicamente hanno rafforzato la devozione dei napoletani al loro santo, insieme a quella secondo cui avrebbe messo fine alla terribile pestilenza che imperversò a Napoli fra il 1526 ed il 1529.
Da un’omelia dell’VIII sec. e da un passo del Chronicon dei vescovi di Napoli risulta che la tomba era in un cubiculum, identificato in quello al di sotto della basilica dei vescovi.

L’antica tomba di San Gennaro

Le Catacombe di San Gennaro sono disposte su due livelli non sovrapposti, entrambi caratterizzati da spazi estremamente ampi, a differenza delle più famose catacombe romane. Questo grazie alla lavorabilità e alla solidità del tufo. Scendendo al livello inferiore, dove la catacomba si è sviluppata attorno alla Basilica di Sant’Agrippino, si trova una struttura a reticolato. L’ampiezza degli spazi e la regolarità delle forme ci accolgono silenziosamente in un luogo senza tempo.
L’imponente vestibolo inferiore, con soffitti alti fino a 6 metri, ospita una grande vasca battesimale voluta dal vescovo Paolo II, che nell’VIII secolo si rifugiò nelle Catacombe di San Gennaro a causa delle lotte iconoclaste. Sul bordo della vasca ora si trova una croce fatta con pezzi di legno provenienti dalle barche dei migranti arrivati a Lampedusa.

Questa è la parte più antica delle catacombe, e se si guardano gli affreschi si possono vedere simboli anche pagani come il melograno, che è simbolo di resurrezione, come anche la mandorla: per questo il torrone è fatto con le mandorle. Il torrone è anch’esso un simbolo e rappresenta un omaggio ai defunti, un modo di “allietare” il viaggio verso l’aldilà. Non era difficile, nei secoli scorsi, trovare delle pietanze sulle tombe o sui loculi. L’omaggio era offerto in virtù del fatto che l’anima del caro estinto, in occasione della festa dei morti, potesse tornare per qualche ora a far visita ai parenti ancora in vita. Un altro noto simbolo di resurrezione e vita eterna è il pavone, che ogni anno rinnova le sue penne; anche qui si può vedere un affresco che rappresenta un pavone.

Uscendo per così dire “a riveder le stelle”, anche se è mattina e si vede soltanto un cielo grigio, ci incamminiamo, scendendo dalla collina di Capodimonte, verso il cuore del rione Sanità. Si passa dall’Ospedale di San Gennaro dei Poveri, ricavato nel ‘400 da un antico monastero e destinato a lazzaretto per gli appestati.

Passiamo poi sotto il ponte che fu costruito all’inizio dell’Ottocento per creare un collegamento tra Capodimonte e la città sovrastando il rione Sanità: i nobili, con le loro carrozze, passavano su questo ponte e guardavano dall’alto la vita del popolo che brulicava una ventina di metri sotto, senza doversi mescolare con quella vita. È un simbolo fortissimo di quella che è stata la storia di questo pezzo di città. È il primo ponte – dice Fabrizio – che non unisce ma divide la città. Per mezzo di questo ponte è avvenuta la ghettizzazione di un luogo, di cui poi per tantissimo tempo la camorra ha fatto una sua roccaforte. La presenza del ponte rende anche il rione facilmente controllabile dall’alto.

Entriamo nella Basilica di Santa Maria alla Sanità (conosciuta anche come chiesa di San Vincenzo alla Sanità), dove è in corso la messa per la festa dell’Immacolata tra canti ad altissimo volume, ma Fabrizio imperterrito prova a farsi sentire e a spiegare la storia di questa chiesa.

Santa Maria alla Sanità

Il complesso religioso di Santa Maria della Sanità fu fondato già a partire dal 1577, in quanto poco tempo prima, nell’area delle catacombe di San Gaudioso, sopra le quali la chiesa sorge, fu ritrovata una tavola con l’immagine di Maria databile al V-VI secolo, ora in chiesa. Il ritrovamento spinse i fedeli, che cominciavano ad affluire numerosi, prima a costruire intorno ad essa una piccola cappella con un lastricato di marmo e poi a chiedere all’allora vescovo di Napoli di edificare in quella zona una chiesa da dedicare al culto proprio della Madonna. Cosa succede a quel punto? Che i domenicani cominciano a sentire l’odore dei soldi e prima si stanziano con un monastero, poi chiedono la concessione per costruire una grandissima insula monastica che comprendeva, oltre al monastero, due chiostri, il giardino dei semplici (che era la zona del monastero destinata alla coltivazione delle piante medicinali), lo speziario, la farmacia e questa grande chiesa, che è stata progettata da un frate domenicano, Fra’ Nuvolo. Questo frate, che era passato da falegname ad architetto, fa un progetto grandioso che prevede un altare rialzato. I domenicani sanno che lì sotto c’è questa antica immagine della Madonna e intorno a quella costruiscono una sorta di “campagna di marketing” ante litteram. Sì, perché quella Madonna sanava con i miracoli, e questa potrebbe essere un’altra spiegazione del toponimo del rione. Si chiamerà Santa Maria ante saecula, la Madonna prima dei secoli, e da lì si inizierà a costruire, sopra le catacombe, questa chiesa che misura 78 metri per 77 ed è una croce greca quasi perfetta. La chiesa viene costruita tra il 1602 ed il 1610 e dedicata a San Vincenzo ‘O Munacone (il monacone). San Vincenzo Ferrer era un santo spagnolo, di cui si può vedere in chiesa una pregevole statua lignea. Si dice che quella statua, portata in processione, nel 1836 salvò la città da un’epidemia di colera.

San Vincenzo Ferrer, frate domenicano spagnolo, nel dipinto di Luca Giordano mentre predica alla folla.

Ci sono cinque navate, come nelle chiese più maestose di Roma, e dodici cupole, oltre a quella centrale che è la tredicesima. Dodici, nella cabala cristiana, corrisponde a molte cose, dai dodici apostoli alle dodici tribù di Israele alle dodici stelle della Madonna. I domenicani sono un ordine di predicatori e di sommi teologi. A Napoli, oltre alla chiesa di San Domenico Maggiore che è una delle più importanti del centro storico, c’è stata la scuola di filosofia e teologia dove hanno studiato San Tommaso d’Aquino, Giordano Bruno, Tommaso Campanella. Oltre a essere predicatori, sono anche inquisitori; i domenicani che vengono qui sono i domenicani controriformati. San Carlo Borromeo cercava di cambiare la chiesa anche nella sua struttura: prima le chiese avevano l’iconostasi che copriva l’altare e lo separava dai fedeli, mentre nelle chiese della controriforma l’altare si deve vedere e il popolo deve essere partecipe. Non solo: nelle chiese della controriforma San Carlo Borromeo fa mettere i santi, e qui i domenicani fanno il loro “marketing” sugli altari laterali, dove ci sono solo santi domenicani. Nel centro storico di Napoli ci sono l’obelisco di San Domenico e l’obelisco del Gesù: anche lì si faceva a gara a chi ce l’ha più lungo – scherza Fabrizio – perché sono simboli di potere. A questa chiesa lavoreranno i più grandi artisti del ‘600: Pacecco De Rosa, Luca Giordano che si trova in tutte le chiese di Napoli, ma soprattutto è stata trovata una commessa di centocinquanta ducati a un certo Michelangelo Merisi, altrimenti detto il Caravaggio. I domenicani avevano già voluto il loro Caravaggio a San Domenico Maggiore (ora si trova a Capodimonte) con la Flagellazione di Cristo; qui i domenicani volevano una pala del nome di Gesù, perché con la controriforma si comincia a parlare di devozione al nome di Gesù e al nome di Maria. Questa commessa non sarà mai realizzata, probabilmente a causa della morte del Caravaggio nel 1610. I domenicani erano un’industria, avevano biblioteche e farmacie, perché dovevano mantenere la chiesa, il monastero e tutto quello che c’era intorno. E, se ci si fa caso, i colori della chiesa sono il bianco e il grigio, gli stessi del saio dei domenicani, perché loro fanno teologia con le immagini. Non sono come i benedettini e i certosini che hanno come motto “ora et labora”, loro sono soprattutto predicatori.
Al di sotto del presbiterio si sviluppa la cripta, già antica basilica paleocristiana, il cui ingresso si trova prima delle rampe a tenaglia che portano al presbiterio sopraelevato e dalla quale si accede poi alle catacombe di San Gaudioso. Anche questa zona è piena di simboli, dal giglio simbolo di purezza e nobiltà alla palma che simboleggia il martirio e il trionfo sulla morte, e ancora una volta il melograno. Sul pavimento marmoreo c’è una croce che rappresenta la forma della chiesa, con gli stemmi nobiliari delle famiglie che “ci hanno messo i soldi”, tra cui i San Severino di Bisignano.

Il chiostro, a pianta ellittica, risale agli ultimi anni del Cinquecento e fu costruito assieme alla parte monastica del complesso. Nell’Ottocento la sua architettura si è gravemente deturpata a causa di un pilone del costruendo ponte della Sanità che cade in mezzo allo spazio, interrompendo in questo modo le arcate del chiostro. I francesi che in quel momento dominavano Napoli (si era nel cosiddetto decennio francese, in epoca napoleonica; governava Gioacchino Murat) non se ne fregano di niente – dice Fabrizio – e quanto più possono danneggiare la chiesa lo fanno. Nonostante i danni, la struttura ovale conferitagli dall’architetto Fra’ Giuseppe Nuvolo lo rende tra i più singolari chiostri di Napoli.

Qui – racconta ancora Fabrizio – è cominciata in qualche modo anche la storia della Paranza, quando per far venire persone a visitare la chiesa facevano pasta e patate in sagrestia, la sera. Questa chiesa, per la sua grandezza e per la presenza di opere d’arte, se si trovasse da un’altra parte sarebbe quasi una cattedrale. Nelle case dei domenicani, nel 2007, hanno aperto un B&B. E allora a Napoli venivano pochissimi turisti, la città era conosciuta più per i suoi problemi (in quel periodo in particolare i rifiuti) che per le sue bellezze. Alla Sanità, poi, non veniva proprio nessuno. Venne in visita privata il Presidente della Repubblica, Paolo Mieli ci fece una puntata de “Il giorno e la storia” e tutti cominciarono a capire il valore di questa chiesa. C’è voluto tanto lavoro per far capire alle persone che qui non c’era il rischio di finire in mezzo a una sparatoria e non era una zona di “indios” (dice proprio così, Fabrizio). Riassumiamo cos’è la Paranza:
La Cooperativa Sociale La Paranza è stata fondata nel 2006, e nel 2009 ha ricevuto la gestione del sito archeologico delle Catacombe di San Gennaro e San Gaudioso, che è stato il punto di partenza di un più ampio progetto di riqualificazione del Rione.
Il grande progetto dei giovani del Rione è partito da e va in direzione di:

Evoluzione e sviluppo del capitale sociale della comunità, attraverso la riappropriazione del proprio patrimonio culturale.

Sviluppo economico, poiché l’aumento di visitatori va a vantaggio delle attività produttive del quartiere.

Occupazione, grazie alle possibilità lavorative generate dalle attività legate ai siti delle Catacombe e delle associazioni legate alla Fondazione di Comunità San Gennaro. Grazie alle attività legate alle cooperative del Rione, sono stati creati circa 50 posti di lavoro tra guide turistiche, insegnanti di danza e teatro, tecnici, addetti alla manutenzione.

In dieci anni di impegno nel Rione, sono nati servizi sociali e ricreativi come una casa di accoglienza e un centro doposcuola, un laboratorio teatrale e un’orchestra, un laboratorio artigianale e uno studio di registrazione, un Bed&Breakfast. Tutti servizi gestiti da giovani del Rione Sanità, che hanno voluto mettere le loro competenze e la loro volontà al servizio del quartiere in cui sono nati.

https://www.catacombedinapoli.it/it/about

Qui vicino c’è anche il Collegio dei Cinesi, con l’annessa chiesa della Sacra Famiglia dei Cinesi, dove si può vedere una madonna con gli occhi a mandorla. Perché? L’artefice di tutto fu Matteo Ripa, fondatore del Collegio da cui poi è nata l’Università Orientale di Napoli. Matteo Ripa era un sacerdote missionario, che dal 1711 al 1723 aveva lavorato, in qualità di pittore ed incisore su rame, alla corte dell’imperatore Kangxi. Egli condusse con sé, al suo ritorno a Napoli avvenuto nel novembre 1724, quattro giovani cinesi insieme ad un loro connazionale, maestro di lingua e scrittura mandarinica, primo nucleo della futura istituzione. Sarà Clemente XII, nel 1732, ad offrire un riconoscimento ufficiale al Collegio dei Cinesi, che aveva come scopo la formazione religiosa e l’ordinazione sacerdotale di giovani cinesi destinati a propagare il cattolicesimo nel loro paese.
In questa zona sono stati girati anche molti film, ad esempio Ieri, oggi e domani di Vittorio De Sica, con Sofia Loren e Marcello Mastroianni; qui è stata girata la parte dei “bassi”.
Continuando a passeggiare per il rione, si possono vedere molti suoi simboli rappresentati anche in forma di murales: “Luce”, dello street artist spagnolo Tono Cruz, con la sua forma tonda come quella di un fascio di luce, rappresenta il volto sorridente e pieno di speranza dei bambini della Sanità. La facciata laterale della Basilica della Sanità, invece, fa da sfondo a “RESIS-TI-AMO” dell’argentino Francisco Bosoletti, lo stesso artista che ha realizzato “Partenope” nel quartiere Materdei. L’opera è ispirata a una storia vera: due ragazzi napoletani che hanno superato una terribile malattia con le cure e l’amore. I due innamorati sono il simbolo della resistenza alla violenza, alle malattie e alle offese. Poi ci sono Totò e Peppino, l’immancabile Maradona… accanto a Diego c’è una foto di Genny Cesarano, vittima innocente di camorra, ucciso per errore a 17 anni durante una “stesa” qui alla Sanità nel 2015. A Genny è dedicata anche una scultura, nel punto esatto della piazza in cui venne colpito.

Noi abbiamo appuntamento con un’altra scultura fortemente simbolica: il Figlio velato. Il Figlio velato si trova nella chiesa di San Severo fuori le mura, una delle sette chiese del rione, che attualmente è utilizzata anche per le prove dell’orchestra Sanitansamble, l’orchestra dei giovani della Sanità. Fu qui che, secondo la tradizione, nella seconda metà del IV secolo una prima chiesetta fu fondata da Severo, vescovo di Napoli tra il 363 ed il 409. Piccola curiosità: San Severo fu amico di Sant’Ambrogio che conobbe durante il Concilio plenario campano del 392 a Capua e quindi – dice Fabrizio – rappresenta un po’ un collegamento tra Napoli e Milano. Nel 1573 l’arcivescovo napoletano Mario Carafa fece ricostruire la chiesa a spese del popolo, affidandola alla cura dei Conventuali di San Lorenzo Maggiore. La chiesa che vediamo oggi è il risultato di una ristrutturazione a opera dell’architetto Dioniso Lazzari avviata nel 1680 e terminata circa dieci anni più tardi. Qui, nel XVIII secolo, il grande musicista Domenico Cimarosa ricevette i primi insegnamenti musicali. Annessa alla chiesa è presente la Cappella di Sant’Antonio da Padova, del 1621, decorata con preziosi stucchi e tele seicentesche. Un piccolo scrigno che custodisce opere di Giordano, Fracanzano, Vaccaro mentre lungo le pareti laterali ben 12 tele raccontano storie di Sant’Antonio. La volta è impreziosita da quattro grandi tele: L’Eterno Padre, La Vergine col Bambino e Santi, L’Immacolata e San Francesco. Oggi, assieme al convento e alle catacombe ch’essa custodisce al di sotto del pavimento dell’unica navata, la chiesa è parte integrante del comparto urbano di San Severo extra moenia al Rione Sanità. Ma soprattutto, per quello che riguarda noi, nella Cappella di Sant’Antonio da Padova è arrivato il Figlio Velato, opera del giovane scultore ciociaro Jago. La ricerca artistica di Jago affonda le sue radici nelle tecniche ereditate dai maestri del Rinascimento. In antitesi con l’idea romantica dell’artista morto di fame, è determinato a restituire alla categoria un’immagine imprenditoriale, mantenendo sempre un rapporto vivo e diretto con il pubblico mediante l’utilizzo dei social network.
Quello che ha fatto qui è praticamente una sfida al Cristo Velato, la celebre scultura di Giuseppe Sanmartino che si trova nella Cappella Sansevero, quella in centro però (ne parleremo nella prossima puntata). Una sfida che ha preso vita nell’estate del 2017, con la collaborazione del documentarista napoletano Luca Iavarone che ha seguito il suo lavoro e si è anche occupato di trovare una collocazione all’opera. Collocazione che, grazie al parroco della Sanità Don Antonio Loffredo, è stata trovata proprio qui. Don Antonio è un parroco militante, grande sostenitore della Paranza, uno che in sagrestia aveva allestito una palestra di boxe pur di togliere i ragazzi difficili dalla strada. L’idea del Figlio lo ha fatto letteralmente impazzire: quel bimbo morto è diventato nella sua mente il simbolo dell’infanzia negata, e di tante vittime innocenti di camorra in un quartiere in piena faida. E poi la collocazione c’era già e sembrava uno scherzo del destino: bastava riaprire la cappella barocca della chiesa di San Severo, chiusa da tempo immemorabile e quasi dimenticata pur essendo piena di tesori artistici. L’occasione era perfetta.
Un’occasione anche di rinascita del quartiere. La Sanità è tuttora una zona problematica, inutile negarlo. La camorra c’è, e fa sentire la sua presenza. Anche quando si vedono ragazzi in motorino senza casco, è facile mettere etichette ma bisogna anche capire le ragioni, la situazione di un territorio. In certi quartieri è meglio girare senza casco, perché è sempre meglio farsi riconoscere. Del resto, a volte si comporta così perfino la polizia: esiste una squadra speciale chiamata “I falchi” che si muove nei quartieri più ad alta densità criminale delle città del Sud, e anche loro spesso girano senza casco (soprattutto senza casco integrale), altrimenti potrebbero essere scambiati per sicari.

La chiesa di San Severo fuori le mura

La cappella è stata riaperta nel 2019 e il Figlio velato – dice Fabrizio – è stato in qualche modo la scusa per riaprirla: una scusa di diverse tonnellate di marmo. Anche questa è un’operazione di marketing un po’ nello stile dei domenicani – scherza – che gioca anche sul nome San Severo. Si sta ancora aspettando di riuscire a fare altri lavori di restauro, perché tutto questo è sì frutto dei biglietti venduti, ma ci sono anche privati che fanno cospicue donazioni, e tutto viene reinvestito. La cupola stava cadendo ed è stata salvata.
La cappella era di proprietà di un’arciconfraternita privata, ma da anni era chiusa e in stato di abbandono. Ora un pezzo di storia e di cultura è stato recuperato, ma ci sono ancora tante chiese chiuse che meriterebbero una visita, su cui si potrebbe impostare un lavoro, portando anche nuova occupazione, di cui c’è sempre molto bisogno. Un grande lavoro è stato fatto anche per i più giovani con l’orchestra Sanitansamble, seguendo un metodo venezuelano (il metodo Abreu) che prevede di affidare ad ogni bambino o ragazzo uno strumento musicale. Ora ci sono tre orchestre che hanno suonato per il Presidente della Repubblica e per il Papa. Si è fatto capire al bambino che in un’orchestra c’è il direttore ma tutti gli altri sono allo stesso livello e tutti sono importanti. Anche Fabrizio si occupa di didattica, avendo rapporti con le scuole in visita alle catacombe, e sa quanto questo sia fondamentale in una realtà dove molti ragazzi hanno il papà “al castello” (cioè in carcere) o hanno una mamma costretta a prostituirsi.
La Sanità è questo, ma è anche un quartiere che non potrà mai essere gentrificato, è il luogo che forse più di ogni altro rappresenta la napoletanità vera, nuda e cruda.
Vedendo la statua si resta davvero a bocca aperta e si può dire che sicuramente anche la sfida di Jago è stata vinta.


Jago racconta il Figlio velato anche in questo servizio di fanpage.it

https://www.youtube.com/watch?v=mJrSugmyM9I

La Sanità sarà presto protagonista anche di un film che Mario Martone ha appena terminato di girare, tratto dal romanzo “Nostalgia” di Ermanno Rea.
Usciamo mentre sta passando un colorato corteo di babbi natale ed elfi musicisti; mentre loro suonano Jingle bells e Last Christmas, ci avviamo verso l’ultimo tratto del nostro percorso nel rione Sanità, quello tra le sue architetture monumentali.

C’è ad esempio Palazzo Sanfelice, edificato tra il 1724 e il 1726 dall’architetto Ferdinando Sanfelice, che lo progettò quale propria residenza privata. Con le sue scale ad ali di falco, ha fatto da scenografia a molti film: Il primo cortile con la famosa scala aperta fu utilizzato per l’ambientazione del film Questi fantasmi, versione cinematografica del 1967 della commedia di Eduardo De Filippo. È stato inoltre teatro di altri film come Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy, Gegè Bellavita di Pasquale Festa Campanile e, nel settembre 2011, sono state effettuate qui alcune riprese della miniserie Pupetta – Il coraggio e la passione con Manuela Arcuri. Inoltre vi sono state girate alcune scene della terza serie di Gomorra e alcune scene del film 5 è il numero perfetto. Nel 2019 vi sono state girate le scene finali de Il sindaco del rione Sanità, film di Mario Martone ispirato all’omonima commedia di Eduardo De Filippo.

Palazzo Sanfelice

Un altro bellissimo palazzo barocco è il palazzo dello Spagnolo (o Spagnuolo), che ha in comune con palazzo Sanfelice sia l’architetto (lo stesso Ferdinando Sanfelice) che le scale ad ali di falco. Fu eretto nel 1738 su commissione del marchese di Poppano Nicola Moscati, e la monumentale scala a doppia rampa fu pensata come una sorta di luogo di incontro, in cui avveniva una vera e propria vita sociale. Frequenti erano le visite di Carlo III di Borbone, che nel palazzo cambiava i cavalli per prendere dei buoi, unici animali capaci di portarlo fino a Capodimonte lungo la ripida via Vergini. Sul finire del secolo venne acquistato da un nobile di Spagna, Tommaso Atienza, il cui soprannome lo Spagnolo è il motivo per cui il palazzo si chiama oggi in questo modo. Il nuovo proprietario realizzò delle opere di espansione del palazzo facendo costruire un ulteriore piano (l’ultimo) e facendo realizzare gli affreschi al piano nobile (andati poi perduti a causa dei cattivi restauri avvenuti nel corso degli anni) e al secondo piano.
Successivamente, il palazzo (come molti edifici di Napoli) vide la proprietà frammentata in più parti costituendo oggi diverse proprietà private. Solo due appartamenti all’ultimo piano, in fase di restauro, sono stati acquistati dalla Regione Campania. Il palazzo ha ospitato, in passato, l’istituto delle Guarattelle (museo dei burattini locali e internazionali); attualmente, il secondo e terzo piano sono sede di un istituendo museo dedicato a Totò, la cui apertura al pubblico viene di anno in anno posticipata.

Palazzo dello Spagnolo

C’è poi la chiesa della Missione ai Vergini, uno dei capolavori di Luigi Vanvitelli, tanto che dopo la sua costruzione divenne un vero e proprio modello di riferimento per l’architettura religiosa della città. La facciata è stretta fra due palazzi abitativi ed è in un sobrio stile barocco.

La chiesa della Missione ai Vergini

Dato che siamo in clima prenatalizio, è d’uopo ricordare che da queste parti è nato anche Sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696 – 1787), vescovo e compositore, fondatore della Congregazione del Santissimo Redentore, autore di opere letterarie, teologiche e di celebri melodie tra qui quella di Quanno nascette ninno, da cui deriva Tu scendi dalle stelle.
Il nostro percorso finisce davanti a Porta San Gennaro (e quale posto migliore?). È la più antica porta della città di Napoli, menzionata già in documenti risalenti all’anno 928, quando era dilagata la paura dei Saraceni che avevano già distrutto la città di Taranto. Era l’unico punto di accesso per chi proveniva dalla parte settentrionale della città. Il nome di Porta San Gennaro deriva dal fatto che di qui partiva anche l’unica strada che portava alle catacombe del santo.

Porta San Gennaro

In età ducale la porta fu ricostruita poco lontano dal luogo originale, nei pressi del Monastero di Santa Maria del Gesù delle Monache. Già dal X secolo si hanno testimonianze che la porta veniva denominata di San Gennaro. La porta veniva detta anche del tufo perché da essa entravano i grandi blocchi di tufo delle cave del vallone della Sanità. Nel 1537 fu ancora spostata per volere di Don Pedro di Toledo, occupando la collocazione che ancora oggi conserva su via Foria, di fronte a piazza Cavour, inglobata nel complesso edilizio che è stato costruito intorno. Dopo l’epidemia di peste del 1656, come ex voto, vi fu aggiunta un’edicola affrescata da Mattia Preti, con motivi sacri (i Santi che implorano la fine della peste), oggi ancora in buono stato di conservazione dopo il recente restauro. L’affresco raffigura San Gennaro, Santa Rosalia e San Francesco Saverio. Nell’antico vallone della Sanità (posto al di fuori della cinta muraria della città) vi era, tra l’altro, un cimitero per le vittime delle numerose epidemie che colpivano il napoletano. Sulla porta che faceva da confine con questi lazzaretti venne apposta allora la figura di San Gennaro, protettore dei deboli, che guardava nella direzione di coloro che erano stati sfortunati nella vita terrena ma che sarebbero stati accolti nel regno dei cieli.

Foto di gruppo a Porta San Gennaro

Ed è qui che salutiamo Fabrizio, che ci raccomanda di portarci nel cuore tutto quello che abbiamo visto (e apprezzato anche grazie a lui, che è molto preparato e che il cuore ce lo mette e si vede, aggiungo io). Lo faremo.

Prima di pranzo, c’è giusto il tempo di buttare un occhio al murale dell’Angelo realizzato dallo street artist francese Zilda a Vico San Giovanni in Porta. Il contrasto tra l’immagine e quello che c’è attorno, che è probabilmente il senso principale di quest’opera, è reso anche più forte dalla macchina parcheggiata che – dice chi conosce la zona – vi si trova regolarmente davanti.

Per pranzo ci facciamo una pizza (io un’ottima Margherita con bocconcini di bufala) da Capasso, una delle più storiche pizzerie della Sanità.
Poi ci aspettano ai Magazzini Fotografici per vedere la mostra che narra la singolare storia di Diego Armando Maradona attraverso gli emblematici e metaforici scatti di Sergio Siano, giovane fotoreporter a bordo campo per il Mattino negli anni d’oro della carriera del Pibe. 134 fotografie, molte delle quali inedite, che raccontano Diego nell’intimità dei suoi allenamenti, ma anche alle prese con le sue azioni più eroiche, nelle sue partite più importanti, celebrato da tifosi in visibilio, in rappresentanza di un popolo perennemente in festa, in perpetua celebrazione delle sue gesta. Una narrazione di quello che è stato l’iconico Maradona per i suoi tifosi, che lo hanno sposato e glorificato come simbolo di vittoria e riscatto. Le foto ci consegnano una narrazione quasi filmica del calcio negli anni di Maradona. Il fuoriclasse argentino appare in queste immagini per quello che è stato: un grande atleta, un riferimento per i compagni di squadra, ma anche un simpatico giullare sull’erba del Centro Paradiso di Soccavo.
In occasione della mostra è stato realizzato un libro d’autore che è una raccolta di immagini che celebrano Diego attraverso un ricco corpus di fotografie dell’archivio Sergio Siano. I proventi del libro saranno devoluti in beneficenza.

http://www.magazzinifotografici.it/maradona-di-sergio-siano/

C’è tempo ancora per passeggiare nel rione (o provarci, vista la pioggia battente) e respirarne l’atmosfera, tra una tipografia con macchine d’altri tempi, presepi, edicole sacre e murales… ma, soprattutto quando si fa una cert’ora, il modo migliore per “assaporare” fino in fondo l’esperienza ci sembra fare un salto da Poppella, che tra Via Arena della Sanità e Via Sanità si sdoppia e propone due tappe davvero irrinunciabili. La prima è la pasticceria Poppella, dove da qualche anno furoreggia l’ultimo nato tra i dolci napoletani: il fiocco di neve. Si tratta di una pallina di pasta brioche con una spolverata di zucchero a velo, non troppo grande, che si potrebbe quasi mangiare in un boccone, ma è molto meglio assaporare lentamente il piacere perché il ripieno è qualcosa che ti fa perdere la testa… e in effetti ci dicono che le file qui sono sempre lunghissime. La ricetta in teoria è supersegreta, però qualcosa si riesce a sapere… di sicuro c’è panna, crema di latte e ricotta, probabilmente di pecora, con qualcosa che dà sapore di vaniglia e di agrumi. Esiste anche una versione al cioccolato.

Ma Poppella è anche un antico tarallificio, gestito dalla stessa famiglia (la prima panetteria Poppella ha aperto qui un secolo fa, nel 1920), dove si possono trovare taralli di tutti i tipi e per tutti i gusti, appena sfornati. Inutile dire che anche qui non ci siamo tirati indietro…

In via Arena della Sanità c’è ancora anche un’installazione luminosa, ideata dal direttore artistico Tiziano Corbelli e realizzata dall’artigiano Antonio Spiezia, con le parole di Napule è, di Pino Daniele. Doveva durare solo sei mesi, ma il successo è stato tale che è qui da due anni ormai ed è già diventata parte del paesaggio, oltre a dare l’opportunità per una foto molto instagrammabile. La mia è venuta così così ma facciamo finta che è una sfocatura voluta, ok?

Poi doccia veloce, breve riposino e per cena siamo da Mimì alla Ferrovia. Io ho deciso per baccalà alla puttanesca e poi, per chiudere… ‘nu babà. Mi sembrava la degna chiusura anche di un’altra giornata bellissima (nonostante il meteo).

(TO BE CONTINUED…)