Quattro giorni a Napoli con Radio Popolare e ViaggieMiraggi
Giovedì 9 dicembre 2021
La mattinata di oggi è dedicata a una passeggiata guidata nel centro storico, a partire dal Pio Monte della Misericordia, dove si trova una tra le più importanti opere del Caravaggio. Per capire Napoli, la storia del suo popolo, non si può non visitare il Pio Monte della Misericordia, opera pia tuttora attiva con le sue opere di beneficenza, immersa nella zona più popolare dei decumani, quei vicoli catturati proprio nell’enigmatico dipinto del Caravaggio “Le sette opere di misericordia”, che li raffigura con grande realismo in un intreccio di personaggi presi dalla strada. Qui, in poco meno di quattro chilometri, si concentrano duemilacinquecento anni di storia.
La nostra guida sarà Valentina, che avendoci dotati di auricolari inizia a raccontarci storia, storie e curiosità già mentre ci incamminiamo sotto la pioggia, che anche stamattina sembra non voler dare tregua.


Per esempio, forse qualcuno di voi avrà sentito la tipica espressione napoletana “Mannaggia ‘a culonna!”. Difficilmente, però, saprete: 1) di che colonna si parla, e 2) perché è un’espressione spesso usata per imprecare contro il maltempo. Ebbene, la storia è più o meno questa.
Nell’attuale Piazza Ottocalli era collocata da sempre una vecchia colonna di marmo di origini sconosciute, forse di epoca romana. Il popolino era da sempre affezionato a quest’opera sconosciuta tanto da darle, a metà tra il sacro e il profano, il significato di portafortuna. I parroci succedutisi nella vicina chiesa dedicata ai Santi Giovanni e Paolo, forse o senza forse approfittando della credenza, contribuirono non poco a far accrescere nei napoletani la venerazione della colonna, poiché alla stessa si attribuiva un particolare potere, quello di influenzare il tempo a seconda delle esigenze e delle preferenze del popolo. Se i contadini volevano la pioggia per irrigare i loro campi secchi e aridi, il parroco recitava l’orazione alla destra della colonna. Se, invece, stanchi dell’inverno e del maltempo, i popolani volevano finalmente godersi il sole, il parroco recitava l’orazione alla sinistra della colonna.
Questa tradizione andò avanti per parecchi anni, fino a quando l’Arcivescovo Annibale di Capua, nel 1590, preoccupato per le troppe credenze popolari e per l’aspetto troppo profano delle stesse, ordinò con un provvedimento ecclesiastico l’abbattimento della colonna. Questa decisione gettò per alcuni anni nello sconforto il popolo, abituato oramai ad affidarsi alla colonna propiziatoria per ogni evenienza, non solo climatica. Uno sconforto che lo portò a coniare questa particolare espressione. Ogni qual volta, infatti, un determinato evento non andava come si sperava, che fosse il sole, la pioggia o altro, e attribuendo alla mancanza della colonna la cattiva riuscita dell’auspicio, il popolo esclamava: “Mannaggia ‘a culonna!”. Immaginiamo quindi che anche in questo momento, dato che si viene da una quindicina di giorni di tempo inclemente, molti napoletani lo esclameranno o almeno lo mormoreranno tra i denti… e ci uniamo anche noi.
Percorrendo Via dei Tribunali, prima di incrociare via Duomo si arriva in Piazza Riario Sforza, davanti al Pio Monte di Misericordia; la piazza è proprio a lato della cattedrale, e qui si trova anche l’obelisco di San Gennaro.
Valentina ci spiega che Via Duomo era un cardo della città antica, ed è stata ampliata per diventare la via ampia che vediamo oggi solo alla fine dell’Ottocento. Dato che la piazza del Duomo è molto piccola rispetto alla grandezza della chiesa, questo dove ci troviamo era anche lo spazio, più grande, che veniva utilizzato in caso di processioni, come quella di San Gennaro, o manifestazioni pubbliche. Gli obelischi a Napoli si chiamano guglie. Questa di San Gennaro è la più antica, poi c’è quella di Piazza del Gesù che è la guglia dell’Immacolata (dove ieri, per la festa dell’Immacolata, come da tradizione i Vigili del Fuoco sono saliti per mettere una corona), e la terza è quella di San Domenico in Piazza San Domenico Maggiore. Quindi è chiaro che quella di San Domenico fu voluta dai domenicani, quella di Piazza del Gesù dai gesuiti, molto devoti all’Immacolata, e questa è dedicata a San Gennaro come ringraziamento per aver fermato l’eruzione del Vesuvio del 1631 (come ci aveva raccontato ieri Fabrizio alle catacombe). Il 1600 fu un secolo molto sfortunato per Napoli: oltre all’eruzione del 1631 ci fu un’epidemia di peste nel 1656, ed è per questo motivo che i napoletani decisero di dedicare a San Gennaro anche una cappella, per cercare di mettere fine a questo periodo negativo. A differenza dell’eruzione del 79 d.C. (quella di Pompei, per intenderci) che fu esplosiva, quella del 1631 fu effusiva, con la lava che scendeva lungo le pendici del Vesuvio. Si decise quindi di fare una processione portando il busto di San Gennaro, conservato all’interno del Duomo, da Napoli fino alle falde del vulcano. E si dice che quando la processione raggiunse appunto le falde del Vesuvio l’eruzione si fermò. Fu allora che si decise di far erigere l’obelisco a Cosimo Fanzago. La struttura è composta da una sorta di colonna quadrangolare sulla quale sono collocate le grandi volute che terminano in un capitello ionico riccamente decorato. Alla sommità del monumento si innalza la statua in bronzo di San Gennaro, opera di Tommaso Montani; alla base invece la scultura della Sirena Partenope regge uno scudo recante parole di gratitudine della città al santo.

San Gennaro è raffigurato, insieme a Caravaggio, anche su un muro di questa piazza nell’opera di Roxy in the Box, una delle street artist napoletane più talentuose. Il santo ha deposto il pastorale e legge il giornale, nello specifico Il Sole 24 Ore che titola “Fate presto, lavoro per tutti, turismo e cultura” e, in un’altra pagina, “Drink Neapolitan”. Al suo fianco, il Caravaggio con in mano il New York Times e sotto il piede destro un Supersantos, il classico pallone delle partitelle tra ragazzini nelle piazze, come se stessero per mettersi a giocare. A Napoli esistono pochi spazi accessibili a tutti per giocare a pallone e quindi, da sempre, si sfruttano gli spazi pubblici. “Fate presto” ricorda il titolo del Mattino all’indomani del terremoto del 1980, mentre in Irpinia i soccorsi non arrivavano e si scavava con le mani per cercare i sopravvissuti. Il riferimento al lavoro legato a turismo e cultura è un tema molto caro a Roxy in the Box: lei si chiama così per ricordare il periodo in cui ha lavorato in un “box” in un call center. “Vascio Art” si riferisce a una sorta di progetto che Roxy sta portando avanti sui muri della zona, e soprattutto nei pressi dei cosiddetti vasci (bassi) napoletani, dove ha già lasciato il suo segno. Ha disegnato nei Quartieri Spagnoli, accanto alle abitazioni nei bassi, celebrità come Amy Winehouse, Artemisia Gentileschi, Marina Abramovic: murales che sono stati notati anche dal resto del mondo grazie agli eventi di Dolce e Gabbana.

Di fronte a noi, il palazzo del Pio Monte di Misericordia, che è un’istituzione laica fondata da sette nobili napoletani all’inizio del 1600. In questo secolo sfortunatissimo per Napoli non c’era un’assistenza pubblica per malati, poveri, orfani e bisognosi in genere; non c’erano istituti voluti dal vicereame spagnolo che potessero attuare, appunto, le opere di misericordia, e quindi nacque su iniziativa di ricchi privati questo istituto. I nobili iniziarono a raccogliere offerte per la città, da portare all’Ospedale degli Incurabili, un ospedale storico di Napoli, per finanziare la cura dei malati e la sepoltura delle persone che morivano all’interno dell’ospedale. Una volta raccolti abbastanza soldi, si decise di costruire in questa zona una sede del Pio Monte. Già nel 1650, però, fu poi deciso di realizzare un’altra struttura che è quella che vediamo oggi, opera dell’architetto Francesco Antonio Picchiatti. Il Pio Monte è un’istituzione che esiste ancora oggi e ha ancora, come nel 1600, sette “governatori” che appartengono a sette famiglie nobili, che ogni venerdì si riuniscono e decidono le attività da svolgere. Le attività di oggi sono ovviamente diverse da quelle dell’epoca della fondazione e consistono, ad esempio, nel supportare la povertà educativa, finanziare borse di studio e altro, sempre nell’ambito del sociale. Al di sotto del balcone del piano nobile, lungo tutta la larghezza della facciata, è scolpito il motto dell’associazione, tratto da un verso di Isaia: FLUENT AD EUM OMNES GENTES (affluiranno a Lui tutte le genti).

Entrando, ci troviamo nella chiesa, che è inglobata all’interno del palazzo. L’interno vede alle pareti decorazioni sobrie in stucco e marmo bianco e grigio. Le sei cappelle laterali, così come il presbiterio, sono caratterizzate da balaustre che delimitano gli ambienti, da altari e da cornici con fregi marmorei. La cosa più barocca di tutte è il pavimento, in marmi policromi e cotto, con un motivo floreale tipico del barocco napoletano. I dipinti sono quelli che si trovavano nella prima chiesa dell’inizio del 1600. Quando il Picchiatti fece la chiesa nuova vennero spostati qui, tranne la Deposizione di Cristo di Luca Giordano che è posteriore, del 1671. Si pensa che questo dipinto sia stato commissionato a Giordano per sostituire un altro quadro precedente più piccolo dello stesso tema dipinto dal Baglione, un pittore della scuola del Caravaggio.
All’altare maggiore, spicca ovviamente “Le sette opere di Misericordia”, che è una delle tre opere del Caravaggio che si conservano a Napoli, insieme alla Flagellazione, che viene da San Domenico Maggiore ma ora si trova al museo di Capodimonte, e al Martirio di Sant’Orsola, a Palazzo Zevallos, che è molto probabilmente l’ultima opera della vita di Caravaggio. Quest’ultimo quadro, dipinto a Napoli, fu poi portato a Genova perché commissionato da Marcantonio Doria per una figlia che prendendo i voti aveva deciso di chiamarsi Orsola, e tornò a Napoli solo nell’Ottocento quando fu ereditato dal ramo napoletano della famiglia Doria, in seguito all’estinzione del ramo genovese. Solo in quel periodo fu riconosciuto come un’opera effettivamente di Caravaggio e non di un pittore della sua scuola.


Sappiamo che il pittore ebbe una vita estremamente tormentata. A Roma si era macchiato di un omicidio ed era stato condannato alla pena capitale, quindi chiunque sul territorio pontificio sarebbe stato legittimato ad ucciderlo. Perciò lui, aiutato dalla famiglia Colonna, quella dei suoi mecenati, riuscì a scappare da Roma e venne a Napoli alla fine del 1606. Il primo periodo napoletano durò alcuni mesi, dopo di che soggiornò a Malta, accolto dall’Ordine dei Cavalieri di Malta, e in Sicilia. Tornò a Napoli alla fine dell’estate del 1609.
Le sette opere di Misericordia risale al 1606-1607 e quindi al primo periodo napoletano, ed è sicuramente uno dei lavori più importanti del Caravaggio. Le “sette opere di Misericordia corporali” sono condensate in un’unica scena. Sulla parte superiore del dipinto, a supervisionare l’intera scena che si svolge nella parte bassa, vi è la Madonna col Bambino accompagnata da due angeli. Riguardo ai forti contrasti del chiaroscuro, si potrebbe interpretare la luce luminosa come metafora della misericordia che aiuta le persone a cercarla nella propria vita. La misericordia, quando gli venne commissionato il dipinto, era anche qualcosa che Caravaggio cercava per sé, con la condanna che gli pesava sulle spalle; anche se a Napoli era al sicuro, si sentiva comunque braccato. La tela, cardine per la pittura in Italia meridionale e per la pittura italiana in generale, presenta una composizione più drammatica e concitata rispetto alle pitture romane, rinunciando a un fulcro centrale dell’azione. Questo aspetto fu di grande stimolo per la pittura barocca partenopea successiva e il passaggio del Merisi a Napoli, infatti, diede luogo alla nascita di molti esponenti caravaggeschi tra i pittori locali.
Quello che colpisce nel dipinto è proprio la capacità di riassumere tutte le opere di misericordia in una sola scena, anche con riferimenti estremamente colti. Ma anche il realismo, come in tutta l’opera del Caravaggio: sicuramente si fece influenzare dall’ambiente che aveva trovato a Napoli, al punto che davvero la scena sembra presa da un vicolo della Napoli di quell’epoca. Un vicolo buio, come poteva essere qualsiasi vicolo del centro storico nel 1600. La prima persona a sinistra sta bevendo, e rappresenta l’opera di dar da bere agli assetati. In realtà, sta bevendo da una mascella d’asino, che richiama una storia dell’Antico Testamento, quella di Sansone che, dopo aver ucciso con quella mascella i filistei, nel deserto è preso dalla sete e con la stessa mascella beve l’acqua che il Signore ha fatto miracolosamente sgorgare da una roccia. L’opera di “Ospitare i pellegrini” è riassunta da due figure: l’uomo in piedi all’estrema sinistra che indica un punto verso l’esterno, e un altro che per l’attributo della conchiglia sul cappello (segno del pellegrinaggio a Santiago de Compostela) è facilmente identificabile con un pellegrino. “Vestire gli ignudi” appare sulla parte sinistra in una figura di giovane cavaliere (San Martino di Tours) che fa dono del mantello ad un uomo visto di spalle; allo stesso santo è legata la figura dello storpio, che ha una stampella: anche questo episodio è un riferimento all’agiografia di Martino, emblema del “Curare gli infermi”. Quindi anche qui due opere in una sola figura. Sullo sfondo due persone (un diacono che regge la fiaccola e un portatore) stanno portando un corpo, di cui si vedono i piedi. Questo rappresenta “Seppellire i morti”. A destra, la donna che sta allattando un vecchio che si trova in prigione rappresenta “Visitare i carcerati” e “Dar da mangiare agli affamati”, ancora una volta concentrate in un singolo episodio che si rifà al mito della caritas romana: Cimone, condannato a morte per fame in carcere, fu nutrito dal seno della figlia Pero e per questo fece commuovere i magistrati, che lo graziarono e fecero erigere nello stesso luogo un tempio dedicato alla Dea Pietà.
Questa – spiega ancora Valentina – è l’unica opera di Caravaggio dove la fonte di luce è artificiale: la luce viene da sinistra, però sulla destra c’è la fiaccola del diacono. Nella parte alta la Madonna col bambino e gli angeli assistono alla scena, ma è come se gli altri personaggi non ne percepissero la presenza. Questo perché, se il pittore avesse scelto di farli “vedere” dagli altri personaggi avrebbe eliminato il libero arbitrio. Cioè le persone devono vivere applicando i principi cristiani, e in particolare le sette opere di Misericordia, non perché una volontà divina glielo impone attraverso la sua manifestazione, ma di propria volontà. Anche la Madonna col bambino, in realtà, potrebbe essere stata ispirata da una scena napoletana, perché sembra una signora che si affaccia alla finestra. Gli angeli del Caravaggio sono sempre così belli perché rispetto ai puttini “classici” e anche a quelli che fioriranno col barocco nel ‘600 sono sempre angeli piuttosto grandicelli, non bambini molto piccoli ma di 7-8 anni e hanno quindi ali grandi e pesanti. Gli storici dell’arte fanno notare questo particolare, che sono ali come di grandi uccelli perché devono sostenere il peso di bambini più grandi; anche in questo caso, figure meno idealizzate e più realistiche, forse con “modelli” presi proprio dalla strada. Secondo un’interpretazione recente, i due angeli sarebbero la rappresentazione del bene e del male in lotta tra di loro: mentre il male vuole scendere dal cielo e calarsi nella vita delle persone, il bene lo trattiene.

Gli altri quadri rappresentano tutti opere di misericordia, in un dialogo continuo tra questi dipinti e quello principale. Tra questi, “La liberazione di San Pietro” di Battistello Caracciolo è quello che più cerca di avvicinarsi, stilisticamente, al Caravaggio.





Salendo al primo piano si accede agli ambienti storici del complesso, dove trovano alloggio anche le raccolte pittoriche del Pio Monte, considerate tra le più importanti di Napoli. La Quadreria del Pio Monte della Misericordia si compone di 140 tele, sebbene ne siano esposte nelle sale circa 122, che vanno dal Cinquecento all’Ottocento, per lo più frutto di donazioni fatte a beneficio dell’ente, tra cui spicca la cospicua collezione lasciata nel 1782 dal pittore Francesco De Mura, che originariamente contava 180 sue opere. Nelle sale museali del palazzo sono conservati anche paramenti sacri del XVII e XVIII secolo, altri pezzi di arte applicata, alcuni documenti di archivio ed i mobili originali del complesso, tra cui lo storico tavolo a sette lati usato per le riunioni dei governatori, realizzato da anonimi intagliatori del Seicento e che è esposto nella seconda anticamera. L’originale forma rappresenta, con intarsi in madreperla, le Opere di Misericordia del Pio Monte attribuite a ciascun Governatore. Ogni venerdì, come da Statuto del 1603, i Governatori si riunivano, occupando il posto che corrispondeva al proprio incarico. Ogni sei mesi un Governatore assumeva la carica successiva ed un altro terminava il suo periodo di governo; in tal modo le cariche slittavano da uno ‘spicchio’ all’altro, facendo in modo che durante il mandato dei tre anni e sei mesi ogni Governatore si occupasse di tutti i ruoli dell’Istituzione. Si può vedere anche il tavolo, più moderno, dove i Governatori si riuniscono attualmente.




Sono esposte anche varie statue e statuine del presepe, di cui come tutti sanno Napoli vanta una lunghissima tradizione. In epoche più antiche spesso i presepi erano fissi, destinati ad essere esposti tutto l’anno, e quindi non erano lavorati nella parte posteriore non in vista. Anche per i pastori in genere gli artisti scavavano nel legno togliendo la parte centrale, per cercare di ritardarne nel tempo il deterioramento. Ma comunque, proprio perché il legno si deteriora più facilmente, di pastori veramente antichi ne sono rimasti pochi. Col tempo i pastori diventano sempre più piccoli e anche per questo, dato che era difficile realizzare statuette in legno alte 10 cm, nel ‘700 si diffonde l’usanza di fare presepi in terracotta come si vedono ancora oggi a San Gregorio Armeno, dove andremo dopo. In realtà all’interno di ogni statuetta c’è una struttura fatta da un’anima di ferro con della paglia tutt’intorno, che poi viene “vestita” e completata con le braccia, le gambe e la testa in terracotta, che poi viene dipinta. Per pastore non si intende solo quello vero e proprio che pascola le pecore, ma tutti i pezzi del presepe in gergo vengono chiamati “pastori”. Sono opere complesse, in genere lavorate da più artisti. Questa moda viene introdotta soprattutto dai Borbone: le principesse, figlie di Carlo III e Maria Amalia, si divertivano tutto l’anno a cucire vestitini che poi venivano usati per i “pastori”. Rispetto al presepe religioso, in quello laico del ’700 le braccia e le gambe, essendo in filo di ferro, si potevano muovere e quindi i personaggi si potevano mettere di volta in volta in posizioni e pose diverse all’interno della rappresentazione. In questi presepi non c’è solo la Sacra Famiglia, ma ci sono altre scene principali che sono sempre o quasi sempre presenti: l’annuncio dell’angelo ai pastori, il corteo dei Magi, la scena della locanda che ricorda quando Giuseppe e Maria si fermano a chiedere ospitalità e non la trovano; quello che viene rappresentato, in realtà, è una tipica locanda napoletana, con grande attenzione all’oste, a tutti gli altri personaggi e ai cibi. In generale il presepe settecentesco non è un presepe ambientato nel I secolo d.C., ma tutti sono abbigliati come nel 1700, quindi un’altra sua ricchezza è che ci fa vedere degli scampoli di vita quotidiana di quell’epoca.

Al Pio Monte in questo momento si può vedere anche un originale presepe realizzato dall’artista Ulderico Pinfildi, che lo ha chiamato “Il presepe della Misericordia”. L’ispirazione è venuta niente meno che dal Caravaggio, e non poteva essere altrimenti. L’artista ha scelto sette dipinti di Caravaggio e da ognuno di essi ha tratto una figura per comporre l’intera scena presepiale, ambientata proprio davanti al sagrato del Pio Monte della Misericordia: dalla “Madonna dei pellegrini” ha preso Maria e un pellegrino, da “Riposo durante la fuga in Egitto” Giuseppe, da “La Madonna dei palafrenieri” Sant’Anna, da “San Matteo e l’angelo” l’angelo, dal “Fanciullo con canestro di frutta” un ragazzo, dalle “Sette opere di Misericordia” un mendicante e dal “Martirio di San Matteo” la figura autoritratta dello stesso Caravaggio, che osserva la scena.

Usciamo per continuare il nostro percorso e si passa all’arte… contemporanea, con l’unica opera di Banksy presente a Napoli, la Madonna con la pistola. Per evitare che venisse cancellata come è successo ad altri lavori di Banksy, è stata racchiusa in una teca di vetro, peraltro non il modo migliore per preservarla.

A due passi da qui ci sono anche il San Gennaro di Jorit, in via Duomo, e poco lontano il Pino Daniele “santo” di TV-Boy. Anche Jorit, napoletano di madre olandese, ha detto di ispirarsi al Caravaggio e di voler, come lui, “santificare” le persone del popolo: “Il volto di San Gennaro” – ha dichiarato – “è quello di un mio amico, un operaio napoletano”.


La nostra passeggiata continua in San Gregorio Armeno, che – non ve lo sto neanche a dire – è il regno del presepe napoletano e quindi, sempre ma soprattutto in questo periodo, una visita non poteva mancare. Però la pioggia (e come ti sbagli?) ci perseguita ed è aumentata di intensità; oltretutto abbiamo poco tempo, quindi possiamo solo passare buttando l’occhio qua e là e scattando qualche foto. Qualcuno, più tardi, tornerà per fare acquisti…



Anche qui a San Gregorio Armeno, oltre alle statuine del presepe, si vedono cornetti di varie fogge e dimensioni (anche enormi!). Sappiamo tutti che il cornetto è il re degli amuleti napoletani… sì, ma perché? Ce lo ha raccontato poco fa la brava Valentina. Ci sono varie teorie, le principali sono due: la prima è che rappresenti una stilizzazione del dito insanguinato tagliato a San Gennaro al momento della decapitazione (per questo sarebbe rosso); la seconda è quella secondo la quale Zeus, quando nacque, fu salvato togliendolo al padre Crono, al quale era stato detto che il figlio lo avrebbe ucciso, e quindi affidato ad una capra, dalla quale fu allattato. Quando, diventato grande, sconfisse il padre, per ringraziare questa capra trasformò un suo corno nella cornucopia, simbolo di abbondanza. E quindi il cornetto porterebbe fortuna proprio perché richiama la forma della cornucopia.
Nella strada dei presepi c’è anche un altro appuntamento da non perdere ed è quello con Santa Patrizia. Nella chiesa di San Gregorio Armeno (popolarmente conosciuta anche come chiesa di Santa Patrizia) c’è proprio la cappella a lei dedicata, con i suoi resti in un reliquiario in oro e argento.
A Napoli si vive di miracoli: si contano ben 52 santi e compatroni insieme a San Gennaro, che cooperano insieme senza distinzioni per il bene della città. Santa Patrizia non è da meno; è la compatrona di Napoli, il cui culto antico significa prodigio e devozione. Della sua biografia incerta e quasi leggendaria si sa che Patrizia nacque a Costantinopoli nel 664 d.C. ed era discendente di Costantino detto il Grande, colui che proclamò la libertà di culto e la tolleranza del Cristianesimo. A Patrizia, di stirpe nobile, ricca e di rara bellezza, fu imposto con la forza il matrimonio dal suo congiunto Costante II, ma lei sin da piccola espresse voto di verginità, e per mantenere fede al suo giuramento decise di fuggire con la nutrice Aglaia a Roma per ricevere la benedizione del Papa, abbandonando lusso e privilegi e abbracciando una vita sobria e spirituale. Tornata a Costantinopoli dopo la morte del padre, lasciò il palazzo reale e i diritti sulla corona, distribuì la sua parte di eredità ai più bisognosi e decise di partire in pellegrinaggio verso la Terra Santa, per pregare sul Santo Sepolcro in Gerusalemme. Durante il viaggio in mare fu sorpresa da una terribile tempesta, che le fece far naufragio a Napoli sull’isolotto di Megaride. Fu soccorsa da una piccola comunità appartenente al monastero dei frati Basiliani, che le prestarono assistenza dal suo arrivo fino a quando, pochi mesi dopo, a causa di una fulminea malattia, morì a soli 21 anni. La leggenda pone la data della morte di Santa Patrizia il 25 agosto del 685 d.C.; fu santificata nel 1625.
Le fu attribuito un culto molto forte dal popolo napoletano che accolse le sue spoglie, prima nel monastero dei Santi Nicandro e Marciano a Caponapoli, poi dal 1864 qui nella Chiesa di San Gregorio Armeno, custodite dalle Suore Crocifisse Adoratrici dell’Eucaristia, dette «Patriziane». Anche lei, come San Gennaro, compie il miracolo della liquefazione del sangue, ma… udite udite, è ben più generosa e puntuale del più noto compatrono, perché lei lo fa tutti i martedì! E il 25 agosto, giorno del martirio.
Al di là di questo, il complesso di San Gregorio Armeno è interessante anche per altri motivi. Si dice che sorse sulle rovine del tempio di Cerere intorno all’VIII secolo, fondato da monache basiliane fuggite da Costantinopoli per le persecuzioni con le reliquie di San Gregorio. Il monastero fu poi ricostruito tra il 1574 e il 1580 da Giovan Battista Cavagna ed assunse l’aspetto attuale nel 1694 allorché venne ampliato da Francesco Antonio Picchiatti. Niccolò Tagliacozzi Canale, a metà del Settecento, ideò poi la ricca decorazione barocca che riveste l’intera chiesa. Gli affreschi che decorano la chiesa e la cupola sono di Luca Giordano ed aiuti, databili tra il 1671 e il 1684, e raffigurano fatti della vita di San Gregorio Armeno, di San Benedetto, figure di virtù e immagini di sante benedettine.





Proseguendo, si arriva in Piazza San Gaetano, dove, insieme al monumento del santo, si trovano la Basilica di San Paolo Maggiore e il complesso monumentale di San Lorenzo Maggiore. Qui sotto ci sono molte preziose rovine romane e qui, dietro la basilica, c’è il teatro romano. In realtà c’erano due teatri: l’odeion, più piccolo e coperto, che era usato per spettacoli musicali e di prosa, e un teatro più grande scoperto che era usato per le commedie e le tragedie. Quello che è stato individuato è il teatro scoperto; naturalmente tutta la città si è stratificata nel tempo e quindi i palazzi più moderni sono sorti sopra i resti della città antica. Qui vicino si trova anche un basso, di proprietà di una signora, nel quale c’è una botola aprendo la quale si può scendere nel teatro romano. Del teatro piccolo non si sa esattamente dove si trovasse, ma si pensa che potesse essere nel punto dove il decumano superiore fa una curva, che potrebbe essere la cavea dell’odeion. Non sono però mai stati eseguiti degli scavi per provare questa supposizione. Il macellum, invece, non si vede più perché nel V secolo d.C. a causa delle piogge molto intense una frana, scendendo dall’acropoli della città greca, coprì tutta la zona del foro e, invece di scavare, si decise di costruirci direttamente sopra. Fu costruita prima la basilica più piccola dedicata a San Lorenzo e poi gli angioini fecero costruire la basilica più grande, detta di San Lorenzo Maggiore. Anche lì c’è un altro ingresso alla Napoli sotterranea dove, scendendo, è stato trovato un vicoletto dell’antico mercato della città con tutte le botteghe e l’erario dove veniva conservato il tesoro della città. La pavimentazione è originale, del V secolo d.C., ed è quella dove si camminava prima della frana.



Una leggenda legata alla presenza di tutto questo mondo sotterraneo è quella del munaciello. A Napoli, quando qualcosa sparisce inspiegabilmente, si dice “Sarà stato ‘o munaciello”. Ci si riferisce a una specie di spiritello, che può essere dispettoso e ladruncolo, quando fa sparire le cose, o buono se invece lascia piccoli regali. Sembra che la leggenda nasca dalla figura del pozzaro. I cosiddetti pozzari erano una classe di “liberi professionisti” che si occupava della manutenzione dei pozzi e delle cavità idriche e che per questo sapeva ben destreggiarsi tra un cunicolo e l’altro; giravano con un mantello da lavoro che somigliava al saio di un frate ed erano piccoli di statura, per potersi muovere con agilità nei cunicoli. Spesso, per risalire dal sottosuolo, giungevano nelle case del centro storico, dove ne approfittavano per fare uno spuntino, per rubare qualche oggetto di valore e per cercare di conquistare le donne di casa. Le persone, che cominciarono a nascondersi per scoprire l’arcano, vedevano queste figure tozze e dalla fisionomia simile a quella dei frati francescani infiltrarsi nelle loro abitazioni. Per questo cominciarono a chiamarli “munacielli“. A proposito, l’avete visto il munaciello in “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino? Se non l’avete visto vedetevelo! E c’è anche nell’ultima stagione di Gomorra: lì non è proprio quello vero, ma insomma… il munaciello va fortissimo, in questo periodo.
Il nostro percorso dovrebbe proseguire ma, con l’acqua che viene, risulta piuttosto difficile. E allora entriamo nella Chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco, che è proprio qui a due passi, decidiamo di visitarla e di concludere il giro qui. Quando si dice fare di necessità virtù…
Questa chiesa a Napoli è più nota come la chiesa “delle anime pezzentelle” o “de’ ’e cape ’e morte”, ed è molto interessante per capire ancora meglio la storia, ma anche la cultura popolare napoletana. Fu eretta nel ‘600 su commissione di diverse famiglie nobili napoletane e con l’obiettivo di realizzare un luogo di sepoltura per le persone povere della città, senza famiglia e senza casa. Il toponimo “ad Arco” deriva dalla presenza sul decumano maggiore, nel crocevia con via Nilo e via Atri, di un torrione di epoca romana (da alcuni ritenuto altomedievale), la cosiddetta torre d’Arco. La torre dava il nome, in età altomedievale, ad una zona della città presso il decumano maggiore detta regio de arcu cabredato. La chiesa è composta da una chiesa superiore e da una chiesa inferiore. La chiesa superiore venne consacrata nel 1638 ed aperta al culto, mentre quella inferiore fu completata intorno al Settecento per poi essere destinata a sepoltura delle anime pezzentelle. Tale diritto fu riconfermato anche da Isabella Mastrilli (1682-1761) che nel 1742 istituì lo ius sepolturae (diritto di sepoltura) in chiesa. Le chiese furono aperte ai fedeli fino al terremoto del 1980, allorché fu poi compromessa la stabilità della chiesa del piano inferiore e dunque furono chiuse entrambe. Dopo alcuni lavori di restauro, fu riaperta al culto nel 1992.
Nella chiesa superiore, barocca, dietro l’altare settecentesco, vi è la pala d’altare con la Madonna delle Anime Purganti di Massimo Stanzione eseguita nel 1638-1642, di chiaro stampo caravaggesco. Al di sotto di essa la grande scultura del Teschio alato del Lazzari, mentre al di sopra la tela di Sant’Anna che offre la Vergine bambina al Padre Eterno del 1670 di Giacomo Farelli.
L’ipogeo è invece un’area cimiteriale, che è stata creata per rappresentare concretamente il Purgatorio. La cura delle anime del Purgatorio era uno dei punti principali della nuova chiesa controriformata e tutto l’apparato decorativo del complesso venne ideato per ricordare, a passanti e fedeli, che le anime attendevano una preghiera in suffragio per potersi liberare dal fuoco del Purgatorio e ascendere al Paradiso.


C’è un grande contrasto – fa notare Valentina – tra la parte superiore, barocca e molto luminosa, e la parte inferiore, buia e spoglia, destinata a questo culto delle anime del purgatorio che in passato era molto diffuso. Si partiva dal principio che le anime del purgatorio, che non erano all’inferno ma non erano ancora nemmeno in paradiso, avessero bisogno di qualcuno che pregasse per loro. Del purgatorio si comincia a parlare soltanto nel medioevo e, anche in questo caso, è un concetto che nasce e si propaga grazie alla predicazione dei domenicani. Quando c’erano dei periodi di pestilenza, per esempio, o di carestia, c’erano tantissimi morti a cui non veniva data una vera e propria degna sepoltura, ma venivano gettati nelle fosse comuni. Tutti questi resti erano quindi “anonimi” e nessuno poteva pregare per loro, perciò non potevano fare questo passaggio dal purgatorio al paradiso. Nasce allora a Napoli la consuetudine di “adottare” i teschi delle anime pezzentelle. Il teschio veniva messo su un cuscino o su una base e si pregava per la sua anima chiedendo all’anima, in cambio, di intercedere, quando fosse arrivata in paradiso, con Dio per avere una grazia piccola o grande per sé. Quando la grazia veniva concessa, significava che il Signore aveva ascoltato le preghiere della persona che aveva “adottato” quel teschio e quindi anche l’anima pezzentella era finalmente salita in paradiso. A quel punto il teschio veniva messo in una scatoletta chiamata scarabattola. Si instaurava quindi un rapporto particolare tra i vivi e i morti che è tipico della cultura napoletana. Mentre in genere si ha paura dei morti e della morte, qui ai morti si chiedeva (e ancora in parte si chiede) aiuto, anche perché in molte situazioni era difficile ottenerlo dai vivi, in particolare dallo Stato o dai vari governi che si sono succeduti. Era una sorta di scambio e di aiuto reciproco: io scelgo la mia capuzzella (così venivano chiamati popolarmente i teschi) e prego per lei e lei, quando poi sale in paradiso, può esaudire il mio desiderio. Questi desideri erano spesso abbastanza tristi. Questo culto è andato avanti fino a tempi relativamente recenti, anche nel ‘900, almeno fino agli anni ‘60. Quindi, quando in tempo di guerra figli o mariti non tornavano, si chiedeva di avere loro notizie. Il teschio veniva messo nella scarabattola solo dopo aver ricevuto la grazia perché si pensava che l’anima non sarebbe comparsa in sogno se questo fosse stato fatto prima. Le anime comparivano in sogno e, tra le varie cose, gli venivano chiesti i numeri da giocare al lotto, oppure raccontavano la loro storia e da quella storia le persone ricavavano i numeri da giocare.
Forse anche a causa di questi aspetti un po’ troppo popolari e quasi “pagani”, a un certo punto questo culto cominciò a non piacere più alla Chiesa, anche perché una cosa è chiedere grazie a santi e madonne, un’altra è chiederle a delle persone che nella vita potevano essersi comportate anche molto male. Quindi sarà il cardinale Ursi che nel 1970 vieterà definitivamente il culto delle anime pezzentelle.



Foto di gruppo e salutiamo Valentina, che si è dimostrata molto brava, tenendo conto anche del cambiamento di programma “in corsa”.

Un altro dei soggetti che vi capiterà più volte di vedere, se girate per il centro storico di Napoli buttando un po’ l’occhio ai muri, è la sirena ciaciona, che è il marchio di fabbrica di un altro street artist che si fa chiamare Trallallà. È una sirena non sirena, antitesi di perfezione e bellezza ma sempre maliarda e seduttrice dai grandi occhi e capelli neri. Non canta ma ha labbra carnose e socchiuse e seni prorompenti, è così che ammalia questa sirena extra large.
Il messaggio è probabilmente che libertà è uscire dagli stereotipi affermando il sé, che ogni presunto difetto può trasformarsi in un pregio e che è bello soprattutto ciò che piace. E a Trallallà senza dubbio piacciono le donne formose di Napoli, donne abbondanti e solari, icona dei vicoli e di una città eccessiva, avvolgente, straripante e seducente fatta di una bellezza non convenzionale. La sirena ciaciona ha braccia corpulente di infaticabile massaia e un ventre morbido come una danzatrice orientale. Ma sicuramente c’è anche un riferimento colto, quello alla sirena Partenope e quindi ancora una volta al mito fondativo di Napoli.





Ora, con un gruppo un po’ più ristretto, dovremmo andare a mangiare al “Miracolo dei pesci”, a Mergellina. Il posto è raccomandato da Claudio (Agostoni), che ci torna ogni volta che viene a Napoli, e quindi è chiaro che ci fidiamo ciecamente. Il fatto è che non è così semplice, perché rispetto al centro non è proprio a due passi e oggi il traffico sembra praticamente bloccato. Vorremmo prendere un taxi da Piazza Dante, ma nel parcheggio taxi non ce ne sono e nemmeno ne passano. Dopo una lunga attesa finalmente riusciamo a fermarne uno, ma tutti non ci stiamo, ce ne servirebbe anche un altro… almeno un primo gruppetto riesce a partire, ma per noi che siamo rimasti l’attesa di nuovo si prolunga. Giampiero detto Giampi, che è il solo napoletano doc del gruppo (ancorché trapiantato a Milano da molti anni – troppi, dice lui), suggerisce di muoverci a piedi percorrendo via Toledo. Decidiamo di dargli retta ed effettivamente riusciamo finalmente ad intercettare un altro taxi: partiamo anche noi a tutta… si fa per dire, perché il traffico resta intenso. Si vede che anche a Napoli, come a Milano, appena piove un po’ sono problemi, da questo punto di vista. Il nostro tassista, però, si dimostra subito uno di quelli che solo a Napoli si trovano così, e ci intrattiene con la chiacchiera: Giampiero, ora che ha preso in mano la situazione, si è ovviamente seduto davanti e quindi il dialogo è fitto e avviene in napoletano abbastanza stretto, anche se il nostro Giampi si è presentato sostenendo di essere di Bolzano… non è molto credibile però, va detto. La situazione però precipita veramente quando il tassista decide di proporci una sua playlist di musica napoletana, chiaramente cantandoci sopra come nella migliore tradizione. Lui non canta neanche malissimo, non è questo il problema… è che – mi dovete credere, anche perché è una cosa che è difficile da raccontare, se chi legge non l’ha sentita – parliamo probabilmente della peggior compilation di canzoni napoletane che mai sia stata prodotta nella storia della discografia mondiale. Sono tante canzoni una in fila all’altra, mixate insieme: tutti grandi classici, da Maria Marì a Luna Rossa a Maruzzella a ‘O sole mio ma in versione Elvis Presley (It’s now or never – e qui non sto a dirvi che il testo in inglese interpretato dal nostro Taxi driver è totalmente inventato – puro grammelot) con una base orrenda che varia solo leggermente da un pezzo all’altro ma sostanzialmente non c’entra niente con nessuna delle canzoni. Come prova sono in grado di fornirvi solo questo piccolo frammento video (stavo per dire purtroppo, ma in realtà a pensarci è una fortuna per voi):
Le mie orecchie accolgono l’arrivo al ristorante come una liberazione (e preciso che a me PIACE la canzone napoletana: anzi, è proprio questo il punto). Il gruppo è ricomposto, i primi arrivati con Claudio sono all’aperitivo e ora che ci siamo anche noi possiamo passare alle ordinazioni: per me calamarata con vongole e pistacchi. La calamarata è una specie di pasta ad anelli spessi, che per la forma assomigliano appunto ai calamari. Vi garantisco – anche qui mi dovete credere sulla parola – che era davvero speciale.



Il pomeriggio sarebbe libero ma il pranzo, come era piacevolmente inevitabile, si è prolungato e quindi, dopo il caffè, io devo scappare piuttosto in fretta perché alle 17.30 ho prenotato la visita al Cristo Velato nella Cappella Sansevero. Prendo un taxi con due compagni di viaggio diretti anche loro verso il centro e arrivo giusto in tempo per mettermi in fila.
Non starò a raccontarvi nei dettagli la storia di Cappella Sansevero e di Raimondo di Sangro, perché la potete trovare ovunque. In sostanza, era un principe ma anche un inventore, un alchimista, un massone. Fu un mecenate generoso, ma esigentissimo: ogni singola opera, infatti, doveva svolgere una funzione insostituibile nel progetto iconografico complessivo da lui immaginato per questa cappella di cui, a metà del ‘700, decise di fare un maestoso tempio.
Tra i tanti tesori d’arte spicca ovviamente lui, il Cristo Velato. Nelle intenzioni del committente, la statua doveva essere eseguita dallo scultore veneto Antonio Corradini. Tuttavia, Corradini morì nel 1752 e fece in tempo a terminare solo un bozzetto in terracotta del Cristo. Fu così che Raimondo di Sangro incaricò un giovane artista napoletano, Giuseppe Sanmartino, di realizzare “una statua di marmo scolpita a grandezza naturale, rappresentante Nostro Signore Gesù Cristo morto, coperto da un sudario trasparente realizzato dallo stesso blocco della statua”.
Sanmartino era un ragazzo ancora più giovane di Jago, che a lui si è ispirato per realizzare il Figlio Velato che abbiamo visto ieri alla Sanità. Tenne poco conto del precedente bozzetto di Corradini. L’originale messaggio stilistico è nel velo, ma i palpiti e i sentimenti tardo-barocchi di Sanmartino imprimono al sudario un movimento e una significazione molto distanti dai canoni corradiniani. La moderna sensibilità dell’artista scolpisce, scarnifica il corpo senza vita, che le morbide coltri raccolgono misericordiosamente, sul quale i tormentati, convulsi ritmi delle pieghe del velo incidono una sofferenza profonda, quasi che la pietosa copertura rendesse ancor più nude ed esposte le povere membra, ancor più inesorabili e precise le linee del corpo martoriato. La vena gonfia e ancora palpitante sulla fronte, le trafitture dei chiodi sui piedi e sulle mani sottili, il costato scavato e rilassato finalmente nella morte liberatrice sono il segno di una ricerca intensa che non dà spazio a preziosismi o a canoni di scuola, anche quando lo scultore “ricama” minuziosamente i bordi del sudario o si sofferma sugli strumenti della Passione posti ai piedi del Cristo.


Ma almeno altre due statue sono autentici capolavori: la Pudicizia a sinistra dell’altare e il Disinganno a destra.
La Pudicizia è dedicata da Raimondo di Sangro alla memoria della “incomparabile madre”, Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona, morta il 26 dicembre 1710, quando Raimondo non aveva ancora compiuto un anno. La statua fu realizzata nel 1752 da Antonio Corradini, scultore di fama europea già al servizio dell’imperatore Carlo VI a Vienna, chiamato dal principe di Sansevero come co-ideatore ed esecutore del progetto iconografico del suo tempio gentilizio. L’artista, che pure aveva scolpito altre figure velate, raggiunge qui un altissimo grado di perfezione nel modellare il velo posto sul corpo della donna con eleganza e naturalezza. Lo sguardo perso nel tempo, l’albero della vita, la lapide spezzata sono i simboli di un’esistenza troncata troppo presto e palesano il dolore del figlio Raimondo, che volle così tramandare fattezze e virtù della giovane madre. Al tema vita/morte fa esplicito riferimento anche il bassorilievo sul basamento, con l’episodio evangelico del Noli me tangere, in cui Cristo appare alla Maddalena in veste d’ortolano. L’intento di celebrare Cecilia Gaetani non basta a spiegare il significato di questa statua. La donna coperta dal velo è interpretabile come allegoria della Sapienza, e il riferimento alla velata Iside, dea prediletta dalla scienza iniziatica, pare chiarissimo.


Il Disinganno, capolavoro del Queirolo, è dedicato da Raimondo di Sangro al padre Antonio, duca di Torremaggiore. Dopo la prematura morte della moglie, Antonio si diede a un’esistenza avventurosa e disordinata, affidando il figlio alle cure del nonno Paolo. “Asservito – come ricorda la lapide dedicatoria – alle giovanili brame”, il duca viaggiò per tutta Europa, ma in vecchiaia, ormai stanco e pentito degli errori commessi, tornò a Napoli, ove trascorse gli ultimi anni nella quiete della vita sacerdotale. Il gruppo scultoreo descrive un uomo che si libera dal peccato, rappresentato dalla rete nella quale l’artista genovese trasfuse tutta la sua straordinaria abilità. Un genietto alato, che reca in fronte una piccola fiamma, simbolo dell’umano intelletto, aiuta l’uomo a divincolarsi dalle maglie intricate, mentre indica il globo terrestre ai suoi piedi, simbolo delle passioni mondane; al globo è appoggiato un libro aperto, la Bibbia, testo sacro ma anche una delle tre “grandi luci” della Massoneria. Il bassorilievo sul basamento, con l’episodio di Gesù che dona la vista al cieco, accompagna e rafforza il significato dell’allegoria.
Nell’Istoria dello Studio di Napoli (1753-54) Giangiuseppe Origlia definisce a ragione questa statua “l’ultima pruova ardita, a cui può la scultura in marmo azzardarsi”: il riferimento è ovviamente alla virtuosistica esecuzione della rete, che lasciò sgomenti celebri viaggiatori sette-ottocenteschi e continua a stupire i turisti odierni. A tal proposito, si tramanda che – come era già avvenuto al Queirolo anni prima nella realizzazione di un’altra statua – lo scultore dovette personalmente passare a pomice la scultura poiché gli artigiani dell’epoca, specializzati proprio nella fase di finitura, si rifiutarono di toccare la delicatissima rete per paura di vedersela frantumare sotto le mani.
Il monumento ha, non a caso, una simbologia ricca e complessa. Il richiamo al contrasto tra luce e tenebre, evocato dall’allegoria principale nonché dal bassorilievo (con la frase “Qui non vident videant”) e dai passi biblici incisi nel libro aperto, appare un chiaro riferimento alle iniziazioni massoniche, in cui l’iniziando entrava ritualmente bendato per poi aprire gli occhi alla nuova luce della Verità custodita dalla Loggia. Bellissima la dedica composta da Raimondo, in cui la vita del padre viene posta a immortale esempio della “fragilità umana, cui non è concesso avere grandi virtù senza vizi”.

Nella Cavea sotterranea della Cappella Sansevero sono oggi conservate, all’interno di due bacheche, le famose Macchine anatomiche, o Studi anatomici, ossia gli scheletri di un uomo e di una donna in posizione eretta, con il sistema arterovenoso quasi perfettamente integro. Le Macchine furono realizzate dal medico palermitano Giuseppe Salerno, e alcune fonti settecentesche poste di recente in evidenza attestano che la macchina anatomica maschile fu acquistata nel 1756 da Raimondo di Sangro, in seguito a una esibizione pubblica che l’anatomopatologo siciliano tenne a Napoli. Il principe, inoltre, prese Salerno a lavorare per sé, assegnandogli una cospicua pensione annua, e gli commissionò la realizzazione dell’altra macchina anatomica.
Le due Macchine anatomiche sono tra le presenze più enigmatiche del complesso monumentale. Ancora oggi, a oltre duecentocinquanta anni di distanza, si dibatte sui procedimenti e i materiali grazie ai quali si è potuta ottenere una tanto eccezionale conservazione dell’apparato circolatorio. Alimentando la “leggenda nera” di Raimondo di Sangro, la Breve nota (una guida settecentesca) parlava di “iniezione”, ipotizzando che Salerno, sotto la direzione del principe, avesse inoculato nei vasi sanguigni dei due corpi una sostanza che ne avrebbe procurato la “metallizzazione”. Anche Benedetto Croce racconta che secondo la credenza popolare Raimondo di Sangro “fece uccidere due suoi servi, un uomo e una donna, e imbalsamarne stranamente i corpi in modo che mostrassero nel loro interno tutti i visceri, le arterie e le vene”. In realtà, il sistema circolatorio è frutto di una ricostruzione effettuata con diversi materiali, tra cui la cera d’api e alcuni coloranti. Stupisce, ad ogni modo, la riproduzione del sistema arterovenoso fin nei vasi più sottili, che dimostra conoscenze anatomiche incredibilmente avanzate per l’epoca, tanto che un gruppo di ricercatori ha recentemente suggerito l’ipotesi che, ai fini della ricostruzione, siano stati precedentemente effettuati esperimenti iniettivi.

La Cappella Sansevero è a brevissima distanza dall’Università di Napoli, e questo mi permette di non mancare all’altro appuntamento che abbiamo alle 18.30 presso la mensa occupata dell’Università, in via Mezzocannone: quello con la presentazione del libro di Federico Traversa “Su la testa! – I miei anni con Don Andrea Gallo”. È una circostanza fortunata anche quella che il tour di presentazione del libro passasse proprio in questi giorni da Napoli.




L’autore spiega che la recente serie “Sanpa” su San Patrignano gli ha acceso una serie di ricordi, a cominciare dal perché si è trovato ad avvicinarsi così tanto a Don Gallo. Negli anni ’80, Federico (che oggi, tra l’altro, conduce su Radio Popolare “Rock is dead”) era un ragazzo che, come tanti, aveva un fratello più grande tossicodipendente. Sono stati anni pesanti – racconta – anni in cui davvero non si sapeva cosa fare. Non funzionavano le “mazzate”, non funzionava parlargli, chi diceva “Portalo di qua”, chi diceva “Portalo di là”… c’erano le crisi di astinenza, le difficoltà per avere il metadone. Il padre di Federico era capostazione e, praticamente ogni settimana, trovava un ragazzo morto nei bagni e si vergognava di provare sollievo del fatto che non era suo figlio. A Genova, Don Gallo era la risposta a tutto questo. Federico, all’epoca, chiese consiglio a una carissima amica che aveva 15 anni (lui ne aveva 13 all’inizio della storia) che era già passata da quel percorso e le chiese: “Ma cosa ti ha detto Don Gallo per farti smettere?”. Ovviamente, non si smette mai dal giorno alla notte, ma bisogna voler intraprendere un percorso, che può essere tortuoso e può essere fatto anche di passi avanti e passi indietro. Lei rispose “Non è quello che ha detto, è come lo ha detto: sembrava che gli importasse davvero qualcosa.” È da lì che è partito il rapporto di Federico con Don Gallo, quando ha capito che era un uomo a cui veramente importava di suo fratello, che lo poteva salvare e che poteva salvarne tanti altri. Era bello stare vicino a un uomo così, e vicino Federico gli è rimasto per sette anni. Il Gallo, come lo chiamavano i suoi ragazzi, amava definirsi un “prete da marciapiede”: aveva scelto la strada, le prostitute, i senzatetto, i tossicodipendenti e tutte quelle vite costantemente sull’orlo del baratro. Una mano sulla Costituzione, l’altra sul Vangelo. Il libro quindi racconta questo rapporto profondo e speciale, tra le notti passate nel piccolo ufficio della Comunità di San Benedetto al Porto, i tanti pranzi in compagnia, i lunghi viaggi in macchina trascorsi a parlare di tutto, con il microfono sempre acceso e la voglia di capire a fare da bussola.



Claudio, poi, ha raccontato il rapporto tra Don Gallo e Radio Popolare e le varie volte che lui ha provato a intervistarlo. Era impossibile fargli delle domande, perché anche se avevi preparato minuziosamente tutto e avevi preso accordi lui, a metà della prima domanda, aveva già preso in mano il pallino e poi era lui a guidare il gioco, non c’era più modo di portarlo dove volevi, era lui a dire quello che voleva dire. Ha ricordato anche uno spot di Don Gallo per una campagna abbonamenti della radio, totalmente estemporaneo ma così bello ed efficace che ancora adesso ogni tanto viene mandato in onda. Don Gallo era a suo modo anche un grande teologo, ma se gli chiedevi della teologia rispondeva che sulla teologia solo di due cose era certo: che Dio c’è e che è antifascista.
Molto bello e toccante anche l’intervento di Padre Alex Zanotelli che, partendo dalla sua esperienza in Africa e in particolare a Korogocho, la baraccopoli di Nairobi, ci ricorda che non esistiamo solo “noi”, noi che abbiamo la pancia piena, ma c’è una gran parte del mondo che ha problemi diversi e più urgenti dei nostri, che bisogna allargare gli orizzonti, saper cambiare punto di vista per mettersi davvero in contatto con l’altro e provare a fare qualcosa, anche poco.

Qualcosa di molto concreto lo fa anche la cooperativa Lazzarelle, di cui siamo stati ospiti a cena nel loro bistrot in Galleria Principe di Napoli.
È una cooperativa di sole donne nata nel 2010, che produce caffè artigianale, secondo l’antica tradizione napoletana, all’interno del più grande carcere femminile di Pozzuoli. Con loro lavorano le donne detenute che vogliono essere protagoniste attive del loro cambiamento, perché solo il lavoro offre dignità e possibilità di riscatto reale. Il caffè delle Lazzarelle è nato mettendo insieme due soggetti deboli: le donne detenute e i piccoli produttori di caffè del sud del mondo. I grani di caffè arrivano dalla cooperativa Shadilly che promuove progetti di cooperazione con i piccoli produttori. Nella cooperativa si sono avvicendate sino ad oggi 56 donne, ognuna con la propria storia, diversa ed identica alle altre. Molte non avevano mai avuto un regolare contratto di lavoro.
Il caffè è prodotto, in ogni fase del suo procedimento di lavorazione, senza aggiunta di additivi, rispettando i tempi naturali di preparazione. Le confezioni sono realizzate in materiale plastico senza alluminio in modo da poter essere riciclate con la plastica nella raccolta differenziata.
https://caffelazzarelle.jimdofree.com/
Anche oggi giornata intensa… e domani, per concludere il viaggio, ci aspettano i maestri di strada, a San Giovanni a Teduccio.
(TO BE CONTINUED…)