Quattro giorni a Napoli con Radio Popolare e ViaggieMiraggi
Venerdì 10 dicembre 2021
Oggi è l’ultimo giorno del nostro viaggio a Napoli, e il programma prevede di dedicare la mattinata a un incontro con i Maestri di Strada a San Giovanni a Teduccio, periferia est di Napoli.
Arriviamo in treno alla stazione di San Giovanni-Barra, e tutto, intorno a noi, ci fa capire che il centro è lontano, anche se qui è ancora comune di Napoli. Il paesaggio, fatto sia di immagini che di suoni, racconta la storia di una periferia industriale, o forse post-industriale.
Qui ci accoglie Nicola Laieta, che fa parte del coordinamento dell’associazione dei Maestri di Strada. Ci spiega, prima di tutto, che i Maestri di Strada sono figli del ’68 (anche se lui è decisamente troppo giovane per appartenere a quella generazione di maestri di strada). Partendo da quell’esperienza, a un certo punto hanno pensato che il lavoro per la liberazione di determinate fasce della popolazione dovesse diventare una testimonianza diretta, e quindi hanno continuato il loro lavoro politico con l’insegnamento. Hanno iniziato a lavorare in tante scuole, e alcuni di loro hanno fondato un progetto che hanno chiamato Chance, proprio perché era l’ultima chance per quei ragazzi che a scuola non ci andavano più. Con questo progetto, finanziato dal Ministero della Pubblica Istruzione, per dodici anni hanno lavorato in tre quartieri complessi della città: questo, che si può definire come un unico agglomerato San Giovanni a Teduccio-Barra-Ponticelli, i Quartieri Spagnoli e Soccavo. Quartieri che come al solito sono i più complessi e anche i più giovani, sono il futuro della città: La sesta municipalità è la più giovane della città di Napoli.

I Maestri di Strada lavorano su un concetto preso da un famoso filosofo di quegli anni, Gregory Bateson, che diceva che “La mappa non è il territorio”. Che significa? Che, come diceva Magritte, un quadro non è una pipa, ma questo vale solo per una parte del nostro cervello, quella razionale, che è capace di distinguere un simbolo dalla realtà. Per la parte emotiva, invece, non è detto che un simbolo non sia reale. Nicola racconta un episodio che è accaduto in una classe: c’era una ragazzina che, in primavera, stava dentro al banco con un giubbino con il cappuccio, e la preside di quella scuola la redarguiva dicendo “È primavera, togliti questo giubbino!”. Ma il freddo che provava la ragazza non era un freddo meteorologico, era un freddo interiore. Il lavoro dei Maestri di strada cerca di addentrarsi in quella parte del cervello per cui le cose non sono così chiare e per cui la finzione non è necessariamente una bugia, ma è quell’immaginazione che ci permette di arrivare alla parte più profonda di noi. Quindi, tra mappa e territorio, i Maestri di Strada stanno dalla parte del territorio. Un’altra metafora che usano – continua Nicola – è quella del viandante, cioè una persona che con un bagaglio leggero arriva in un posto, senza una mappa, ma la costruisce con le persone del luogo. Il lavoro che si fa sulle mappe ha un significato: le mappe sono fatte da chi ha potere e sono fatte per un obiettivo, come si fa una mappa dei giacimenti di petrolio o dei bar che fanno le sfogliatelle più buone. Ogni mappa nasconde una visione del mondo, dunque bisogna costruire una mappa non con i nostri occhi ma con gli occhi dei ragazzi, dove le categorie saltano: le cose importanti per noi non sono le cose importanti per i ragazzi. Da questo sforzo educativo è nata l’idea di fare delle passeggiate di quartiere con i ragazzi, anche a seguito del passaggio da Napoli, nel 2018, della Marcia della Pace, che è una marcia mondiale che si prefigge di diffondere i valori del pacifismo. È stato chiesto ai Maestri di Strada di organizzare una mappa di questa marcia, e loro hanno inventato le “Fiere dell’Est” (così le ha chiamate Cesare Moreno, che è il fondatore dei Maestri di Strada), delle passeggiate che servivano ai ragazzi di San Giovanni a Teduccio a raccontare il loro quartiere ai ragazzi di Ponticelli o di Barra, e viceversa. Perché, se sono quartieri così vicini? Si potrebbero conoscere con grande facilità. Ma i ragazzi dei quartieri, quelli che vivono più in strada che a scuola, si identificano con i clan che dominano i quartieri, perché non hanno riferimenti adulti validi, riferimenti di potenzialità, di futuro che possano invogliarli a crescere, e trovano nei clan una “paternità” sbagliata. Senza voler drammatizzare – dice Nicola – queste passeggiate servivano a far conoscere non solo i territori, ma i ragazzi tra di loro, a creare dei ponti, delle alleanze umane, che è quello che i Maestri di Strada cercano di fare ogni volta che entrano in una classe: mettersi in una posizione orizzontale, non sopra i ragazzi, mantenendo una simmetria che è necessaria nel lavoro educativo, per conoscere il territorio attraverso gli occhi dei ragazzi e conoscendo il territorio conoscere loro. “Lavoriamo con dei ragazzi che sono pieni di dolore” – spiega – “e non hanno spazio per far entrare nient’altro, perché è tutto pieno di dolore, che è spesso insicurezza”. I Maestri di Strada hanno pubblicato a questo proposito un libro, che si intitola “Insegnare al Principe di Danimarca”, in cui Carla Melazzini cerca di spiegare che, se ascoltiamo le sorti del Principe Amleto, siamo portati a empatizzare con lui: lui non sa che fare, perché gli è apparso il fantasma del padre e gli ha detto che è stato ucciso dal fratello per portargli via il trono e la moglie, cioè la madre di Amleto. Ve lo immaginate Amleto a scuola? Non riuscirà ad apprendere, e nemmeno a parlare con i suoi compagni. È facile empatizzare con lui, ma molto meno con un ragazzo aggressivo, ribelle o depresso, che non mostra piacere per nulla. Eppure quel ragazzo è un Amleto, soffre ed è preda dell’insicurezza perché non ha riferimenti adulti. Il concetto è, quindi, che bisogna sapere con chi si ha a che fare, conoscere i ragazzi; perciò i corsi di Chance sono diventati dei grandi percorsi autobiografici per i ragazzi, in cui loro si raccontavano e così fornivano ai maestri gli appigli per cominciare a far loro apprendere qualcosa che loro – i ragazzi – potessero ritenere utile per la loro vita.

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Per farci capire ancora meglio il concetto, Nicola ci ha fatto fare un gioco interessante: dovevamo formare una coppia con un’altra persona del gruppo che non conoscevamo o conoscevamo poco, scambiarci in un minuto le informazioni essenziali e poi fare ognuno una breve presentazione mettendosi nei panni dell’altro, imitandone se possibile anche l’atteggiamento e la postura. Dopo di che, per concludere, ci ha chiesto di stabilire nella coppia un suono convenzionale con il quale, dopo esserci dispersi e ad occhi chiusi, ci saremmo dovuti ritrovare.
Fatto anche questo, è iniziata la nostra passeggiata, che ha come prima tappa la ex Cirio, che rappresenta idealmente il passato di San Giovanni a Teduccio. Oggi, dove sorgeva la Cirio si è installata l’Università Federico II di Napoli, che ha realizzato qui un suo importante complesso.



A raccontarci cosa è stata la Cirio c’è Valerio Caruso che, come ricercatore, ha approfondito la storia di questo territorio e il suo legame con la fabbrica. Effettivamente (ed è la prima riflessione che Valerio ci fa fare) si pensa a Napoli come capitale del Sud, come città di mare, come città d’arte, come città portuale, ma mai come città industriale. Eppure a Napoli c’era l’industria. San Giovanni a Teduccio era una città-fabbrica, costruita intorno alla fabbrica. Al suo apice, negli anni ’60, era considerata una sorta di paradiso rispetto alla miseria che c’era intorno.

La Cirio era una grandissima fabbrica agroalimentare, nata nel 1900, che direttamente impegnava fino a 5.000 operai e indirettamente, tra indotto e stagionali soprattutto, arrivava a dare lavoro a 12.000 persone, per lo più donne e anche molti minori. A consentire lo sviluppo di questa fabbrica qui ci sono stati anche fattori locali, oltre alle dinamiche nazionali e internazionali. “Non voglio raccontarvi il mito della fabbrica” – dice Valerio – “per quello c’è quella”. E indica la grande ciminiera, una delle ultime rimaste a testimoniare il passato di questo luogo. “Voglio darvi un quadro più realistico possibile, anche se forse pessimista”. Questo era un posto di straordinaria innovazione tecnologica; non a caso oggi c’è un centro Apple, è in costruzione un polo del CNR, tutto nell’ambito del polo di ingegneria che l’Università ha voluto creare qui a San Giovanni. “Questa è solo una goccia” – precisa Nicola – “del Piano Regolatore che non è mai stato realizzato”. In parte si tratta di una ristrutturazione, in parte gli edifici sono stati completamente ricostruiti.

In realtà, era un paradiso fino a un certo punto. C’era un caporale con un’Apecar che sceglieva gli stagionali che potevano lavorare, il lavoro era incerto e poteva essere anche molto duro: potevi finire al reparto ghiaccio a lavorare per otto ore, fino alle 6 del mattino, spingendo blocchi di ghiaccio da 40 kg su un trasportatore, o a fare altri lavori altrettanto duri, in condizioni altrettanto difficili. Ma poi, da quando la Cirio ha chiuso definitivamente negli anni ’70, qui è rimasto ben poco: un po’ di piccola industria che fa fatica a sopravvivere, ma soprattutto la disoccupazione e un territorio sempre più condizionato dalla presenza dei clan di camorra, soffocante ma purtroppo vista spesso come l’unica prospettiva di riscatto da un presente difficile.

Già, il presente. Qual è oggi il presente di San Giovanni a Teduccio e degli altri quartieri di Napoli Est? Per capirlo, dobbiamo arrivare alla nostra seconda tappa, che è il cosiddetto “Bronx”.
Per arrivarci, passiamo dalla zona delle ville vesuviane: qui come, proseguendo verso il Vesuvio, nella zona di Ercolano, si trovano alcune ville che non erano soltanto magnifiche costruzioni della nobiltà napoletana che veniva qui a passare l’estate, ma erano anche delle aziende agricole. Tutt’attorno c’erano degli orti meravigliosi: non distese di grano, ma prodotti orticoli che venivano rivenduti nel centro di Napoli e producevano una ricchezza immensa. La storia agraria di questi luoghi prima dell’industria è una storia di grande ricchezza, per San Giovanni come per Barra e Ponticelli. Questo è ancora passato ed è in qualche modo l’antefatto dell’era industriale di Napoli Est, che oggi è invece periferia urbana.

Che questa sia una zona con una storia operaia lo si capisce bene anche da alcuni “segni” che marcano il territorio: altrimenti, non sarebbe certo facile trovare una via Sacco e Vanzetti, o l’ingresso di un parchetto con scritte che richiamano una sinistra decisamente d’altri tempi.



Il Bronx è come, in tutta Napoli, è conosciuto questo pezzo di quartiere che ruota intorno ai casermoni di via Taverna del Ferro. Qui, nei primi anni ’90, è nata la prima crew di graffitari che si chiamava KTM (acronimo di Ki Ta Muort) e qui, molti anni dopo, è venuto Jorit, l’ormai notissimo street artist napoletano, a realizzare quelle che forse sono le sue opere che più di altre sono già diventate delle icone. Si tratta di enormi volti, dipinti sempre con delle strisce sulla faccia perché fanno parte di un ciclo che l’artista ha chiamato “Tribù umana”. I murales sono stati realizzati in tempi diversi, a partire dal 2017. Sono ora due coppie, sulle pareti di questi lunghissimi casermoni che delimitano la via: su un lato Che Guevara in due diverse immagini, che probabilmente rappresentano l’uomo e il guerrigliero-mito, e sull’altro lato, fianco a fianco, Maradona e Niccolò, un ragazzo autistico di Napoli.


Maradona, il ragazzo delle periferie che ce l’ha fatta, ha fatto la strada che tutti vorrebbero fare, ha raggiunto il successo, sia pure con tutte le sue contraddizioni. Maradona, a Napoli, è comunque un simbolo che unisce. Nicola ci spiega come lo vedono i suoi ragazzi: è un modello che va oltre le priorità che propone la scuola, che sono priorità imposte da altri. Ci vorrebbe la maturità giusta per capirle, però per arrivarci bisogna partire dai simboli di base e Maradona è questo, un simbolo unificante che vale per tutti. Ma in qualche modo è un simbolo in stile “americano”, quello dell’eroe forte che ci salverà, al quale tutti dovremmo desiderare di assomigliare. Non a caso Jorit ha scritto, sotto la sua immagine, Dios Umano, cioè l’uomo che vuole diventare Dio. E gli uomini che si sentono dei superuomini, se si pensa alla storia, possono fare paura. Per questo all’immagine di Diego si contrappone, forse completandola, quella di Niccolò, il ragazzo autistico che rappresenta un altro modello di aggregazione. Nicola lo definisce più “leopardiano”, ricordando che Leopardi era contrario a un’idea del progresso esasperata, come se l’uomo fosse in una dimensione di progresso continuo e orientato sempre e comunque verso il miglioramento. Leopardi aveva capito che c’era una cosa che gli esseri umani potevano fare, e bene: sostenersi l’un l’altro, come negli ultimi versi de “La ginestra”. Quindi da una parte Dios umano, dall’altra essere umani.
Niccolò rappresenta anche in un certo senso il lavoro dei Maestri di Strada, che per affrontare delle emozioni così complesse devono lavorare insieme sulla fragilità delle persone e creare comunità proprio attorno a queste fragilità. E, occupandosi di persone fragili, capiscono che non devono nascondere le proprie fragilità. Questo – racconta Nicola – è uno degli aspetti che più lo ha affascinato quando ha conosciuto i Maestri di Strada. Per la prima volta ha visto degli adulti che avevano la sincerità di non nascondere che le emozioni che provavano l’uno nei confronti dell’altro influenzavano il loro lavoro: le antipatie, le invidie, le gelosie, questi sentimenti primitivi che quando cresciamo fingiamo di dominare perfettamente (e non è così) vengono invece accolti e trasformati in strumenti che permettono di trovare delle alleanze. Bisogna avere un luogo dove parlare dei propri difetti, dei propri fallimenti; una scuola è sempre il luogo dove il professore dice: “Perché il ragazzo con te non studia? Con me è bravissimo”. C’è sempre la volontà di far credere (e forse di credere) di essere un insegnante straordinario. Invece è dai propri fallimenti che si deve partire per costruire un gruppo, perché quello che uno non sa fare da solo può farlo insieme a un altro.
Che altro c’è dietro queste immagini, senza dubbio bellissime, e che hanno fatto sicuramente bene al quartiere, producendo anche un certo “turismo”? Più di dieci anni fa all’interno di questo agglomerato di abitazioni vennero approvati dei lavori, manutenzione speciale. Le testimonianze di chi quei lavori dopo tanto tempo li svolse sono di “una situazione ai limiti della sostenibilità”. Impianti elettrici non a norma e pericolosi in posti dove vivono decine e decine di persone e di bambini, tubazioni fatiscenti, pareti sottili al punto che ogni inquilino sente chiaramente ciò che si dice nelle case confinanti. Per non parlare poi dello spaccio e della criminalità diffusa, cosa impossibile da non trovare in situazioni di questa gravità.
Oggi la situazione è probabilmente peggiorata. In queste case esistono situazioni critiche (per non voler essere troppo estremi), e troppo spesso una povertà dilagante. Tra le decine di negozi sfitti in fila in questo buio corridoio lungo duecento metri, le uniche due attività commerciali aperte rendono l’idea della desolazione e dello stato di abbandono nel quale versa il posto. Per di più, notizie anche recenti dicono che le assegnazioni delle case contano relativamente; chi comanda realmente, chi decide chi resta e chi se ne deve andare sono i clan, nello specifico il clan Silenzio, che stabilisce anche a chi devono essere assegnati i lavori in appalto. È apprezzabile il tentativo di riqualificazione territoriale messo in atto dalla VI Municipalità di Napoli, ma ci vorrebbe sicuramente di più.
In un posto così è normale avere a che fare con ragazzi che non solo spesso non hanno modelli adulti validi, ma vivono anche una vita che appare senza prospettive, senza una possibilità concreta di uscire da quella realtà in cui sono nati e cresciuti; una situazione che li porta a trascinarsi in giornate tutte uguali, senza apparentemente interessarsi a nulla, e senza neanche avere la voglia di cercare qualcosa d’altro. È una forma di noia che può diventare molto pesante, con la quale i Maestri di Strada sono abituati a confrontarsi, che in napoletano si chiama sfastedio. La frase che a volte si sente – racconta Nicola – è “Me sfastedio ‘e me sfastedià”, cioè mi annoio di annoiarmi, che è proprio sintomatica di una situazione di questo tipo.
Esistono, però, dei ragazzi che grazie anche al fondamentale lavoro dei Maestri di Strada riescono a uscire da questa situazione. Un esempio è Elisabetta (per gli amici Elisa), che abbiamo conosciuto proprio qui nel Bronx.
Elisa ha 21 anni, e ha conosciuto i Maestri di strada quando ne aveva 16; studia lettere all’università e sta scrivendo una tesi sulle baby gang della camorra di Ponticelli, che è il suo quartiere. Ci ha raccontato che il suo interesse per i suoi coetanei che prendevano strade diverse dalla sua è nato nel 2016, quando un ragazzo del Bronx è stato ucciso dai figli di un boss e il suo cadavere è stato seppellito in un terreno attiguo alla scuola che lei frequentava. Il ritrovamento avvenne mentre i ragazzi erano a scuola, e la scuola rimase chiusa per una settimana per consentire le indagini. Il clima era pesante, ma la cosa assurda era che nessuno ne parlava. Successivamente, la verità venne fuori perché fu proprio il boss a spingere i figli a confessare. Lui stesso non voleva che i suoi figli, di 17 e 18 anni, seguissero la sua strada. L’episodio colpì profondamente Elisa, proprio perché erano coinvolti dei suoi coetanei. Lì le è nata la curiosità di capire cosa spinge un ragazzo a fare una cosa del genere. Quell’anno conobbe Nicola attraverso un progetto che lui stava portando avanti nella sua scuola, gli parlò della sua passione per la scrittura e lui la portò al centro Asterix, dove iniziò a fare teatro. E così scoprì che a due passi da dove era successo quell’episodio per lei incredibile c’era un mondo fantastico, dove ha conosciuto quelli che tuttora sono i suoi migliori amici.

Le ricerche che ora sta facendo per la sua tesi portano, purtroppo, a scoperte poco piacevoli: nel suo quartiere vive un ragazzo di 23 anni, soprannominato il Gabibbo, che è in carcere per spaccio, rapina e associazione a delinquere; Elisa lo conosceva perché era il garzone della salumeria sotto casa. Scoprire che quel ragazzo simpatico, dalla battuta pronta, dopo il lavoro aveva un’altra vita, probabilmente perché non era soddisfatto della propria di tutti i giorni, è stato qualcosa di veramente tosto. Ma lei ora si augura di poter contribuire, sia pure nel suo piccolo, a un miglioramento della vita del quartiere. Lei un futuro lo vede, e lo vede diverso anche grazie ai Maestri di Strada. Diverso e migliore per lei e per i ragazzi ancora più piccoli di lei, come la sua sorellina di 10 anni.

Claudio Agostoni ha intervistato lei e Nicola per una puntata di Onde Road che è già andata in onda su Radio Popolare, ma se l’avete persa non posso che raccomandarvi di ascoltare il podcast.
https://www.radiopopolare.it/podcast/onde-road-di-dom-19-12-21/
Le ha chiesto, tra l’altro, se si è già fatta un’idea di qual è la molla che spinge i ragazzi sulla strada della criminalità. Il motivo non è uno, sono molteplici: dove vive il ragazzo, il suo status sociale ed economico… il primo motivo è sempre il denaro, visto come un elemento di potere; la scarpa da 300 euro il ragazzino magari non la vuole davvero, ma sa che quella scarpa lo fa apparire potente, perché è qualcosa che non tutti possono permettersi. Poi c’è l’insoddisfazione personale, c’è il vivere in una famiglia che spesso è già coinvolta nella criminalità. A volte il ragazzino non vuole, però è costretto a seguire l’esempio del padre perché la società in cui vive glielo impone.
Le ragazzine si lamentano del fatto che il maschio ha il campetto dove giocare: può essere brutto e disastrato, ma è comunque il suo spazio nel mondo. Le ragazze invece non hanno un punto di riferimento, e questa insoddisfazione le può portare a voler aderire alle baby gang per affermare comunque la propria identità e dimostrare di poter fare quello che fanno i maschi. Oppure restano prigioniere del cliché che le vuole già madri a 17 anni e già rassegnate a un ruolo da casalinga. C’è, almeno tra le ragazzine che frequentano l’associazione dei Maestri di Strada, la voglia di fare di più, di continuare gli studi, di uscire da una visione “all’antica” del ruolo della donna. In questo caso i punti di riferimento possono essere le professoresse, o anche soltanto una ragazza che studia, che ama leggere e dipingere… una come Elisa, insomma. E c’è una figura di riferimento come può essere Maradona per un maschietto? A questa domanda lei ha risposto “Per me la Montessori”, e questo già dà l’idea di che tipo è.
L’ultima domanda è sulla musica: la musica è molto importante per i ragazzi – dice Elisa. Adesso i generi che vanno, già da un po’ in realtà, sono il rap e la trap. Anche lei li ascolta, e ha notato che negli ultimi tempi si sono “incattiviti”. La ragione, secondo lei, è che ci sono sempre più ragazzini che anche nella musica vedono una valvola di sfogo, un modo per crescere e per farsi conoscere. E quindi nella musica che fanno o che ascoltano affiora il disagio. È importante che ci sia qualcuno ad affiancare i ragazzini più piccoli nell’approcciarsi a questi testi, qualcuno che glieli spieghi e cerchi di fare in modo che prendano solo la parte migliore, come fa lei con la sua sorellina più piccola. Enzo Dong è uno di questi artisti che, in maniera molto diretta, raccontano quello che hanno vissuto da ragazzini. Provate a cercarlo su Spotify.

Il nostro percorso prosegue con uno sguardo al futuro: noi speriamo che ragazze come Elisa possano essere il futuro di questo e di altri quartieri, ma un futuro che è già concreto è quello di Art33. Art33 è un hub culturale, il primo in Campania, nato per sostenere l’arte e la cultura nelle sue diverse espressioni; prende forma dalla rigenerazione e riqualificazione di alcuni spazi di un ex edificio scolastico, abbandonato da molti anni. Partendo da un forte legame con la dimensione locale, il centro attiva processi di inclusione sociale, rigenerazione urbana e innovazione culturale, per dar vita ad un nuovo modello di sviluppo territoriale delle periferie creando connessioni e contaminazioni tra tradizione e innovazione.
Art33 si articola in diversi spazi dislocati su due piani, concepiti per essere strettamente connessi tra loro: al piano terra vi è la sala teatrale/cinema/concerti, mentre al primo piano si trovano lo spazio coworking, la sala prove musicale, la sala polivalente (atelier, spazio prove, formazione, spazio espositivo), lo spazio ristoro e relax.
L’edificio è del Comune, ma sono stati i ragazzi dell’associazione Gioco Immagine e Parole a trasformarlo e a farne quello che si vede oggi. In realtà la storia dell’associazione è più lunga di quella di questo spazio, che è l’esito di vent’anni di attività sul territorio, soprattutto con i ragazzi delle scuole. L’attività centrale è il teatro, la recitazione come mezzo e strumento di recupero, riqualificazione, inclusione. Da questa attività è nato anche Art33, che ha poi dato vita a un’altra associazione che ha preso in qualche modo l’eredità di Gioco Immagine e Parole e porta avanti questo spazio. “Questo è anzitutto un luogo di accoglienza” – ci racconta Roberto Todisco – “non è uno spazio nostro per farci le nostre attività ma vogliamo che sia una casa per le realtà e le associazioni del territorio.” Per esempio, in cantiere c’è un progetto di web-radio; c’è già una sala musicale, dove è in allestimento un piccolo studio per fare questa radio che dia voce alle voci del territorio. Nel progetto, quindi, saranno coinvolte anche altre associazioni. Poi ci sarà un cineforum, insieme alle attività teatrali e di coworking che già ci sono. È un bel risultato, non c’è dubbio, soprattutto se si guarda quello che c’è intorno. Adesso è una specie di oasi, ma l’auspicio è che come un’oasi possa poi far germogliare intorno altre realtà.


Ora sono tre anni che questo spazio è stato aperto, e la risposta del quartiere c’è. Ad esempio con le attività musicali: qui è stato ospitato un gruppo di musicisti del quartiere che non aveva un posto dove suonare. Qui hanno potuto provare e la scorsa estate, fra una zona rossa e l’altra, c’è stata quella finestra che ha permesso di organizzare un concerto nella piazzetta tra questo edificio e un altro edificio scolastico che è ancora in funzione. Sono stati realizzati anche una serie di murales che si vedono all’ingresso, che anche visivamente rappresentano un’altra testimonianza di un impegno.



Abbiamo assistito poi a una breve ma intensa performance teatrale interpretata da alcuni giovani attori, dove insieme a testi scritti da loro, che parlano dell’ansia, del vuoto e di altri temi che per forza di cose fanno parte del loro vissuto, c’era anche uno scampolo di Raffaele Viviani (quello di Bammenella, ve lo ricordate? Se no… potete sempre andare a rivedere il primo capitolo di questo diario). In una celebre scena del “Circo Equestre Sgueglia” due personaggi, Barrella e Samuele, si contendono un piatto di polpette: “Facciamo – propone Barrella che si crede furbo – come se ci trovassimo nel giorno del giudizio e queste polpette fossero delle anime vaganti da doversi giudicare. La vostra bocca è il paradiso, la mia è l’inferno. Pescate un’anima”. Le due polpette pescate da Samuele sono, a giudizio insindacabile di Barrella, quelle di un usuraio e di un brigante: e quindi vanno all’inferno, e cioè nella bocca di Barrella. Il quale vorrebbe continuare, ma Samuele gli strappa dalle mani la forchetta e mangia con avida prepotenza le altre polpette che sono nel piatto. “Eh, che fai?” – protesta Barrella, e Samuele ribatte: “Sono tutte anime da giudicare. Le mando in purgatorio”.
L’arte e soprattutto il teatro sono al centro del lavoro con i ragazzi, sia quello dei Maestri di Strada che quello che fanno gli attori-educatori di Art33. Si meritano tutti i nostri applausi.
Prima di salutarci e di farci gli auguri, per noi c’è un’ultima dolce sorpresa, che viene dalle donne del quartiere che hanno deciso di lavorare nel progetto Chance come madri sociali, cioè le persone che si occupavano di far fare colazione ai ragazzi, di gestire i conflitti, di “raffreddare” i ragazzi, di farli giocare. Quando è nata la “Fiera dell’Est”, che è questo progetto di passeggiate di scoperta e relazione col territorio, a cui oggi anche noi stiamo partecipando, i Maestri di Strada hanno pensato che potevano diventare anche le loro cuoche, anche perché alcune di loro stanno sviluppando una cooperativa di cuoche che si chiama Cucinapoli. Una di loro, che ha anche un pezzo di terra, coltiva la zucca e quindi ci ha portato delle marmellatine di zucca, insieme a un assaggio di due tipici dolci natalizi napoletani: gli struffoli e i rococò.
Dal progetto “Fiera dell’Est” è nata anche l’idea di far fare ad alcuni ragazzi un corso di formazione per guide del territorio, in modo che possano essere loro a fare da guide in questi tour alla scoperta delle bellezze nascoste dei quartieri. È una bellissima opportunità non solo di maggior coinvolgimento, ma anche di lavoro.
Insomma, alla fine di questo percorso abbiamo veramente visto il futuro di questo territorio, e abbiamo capito qual è il fondamentale lavoro dei Maestri di Strada: è far capire ai ragazzi che c’è un altro modo di diventare grandi, oltre lo “sfastedio” e il disagio di una vita che sembra senza uno scopo: leggere, comprendere la realtà che ti sta intorno, tirare fuori quello che hai dentro, trovare una forma di espressione, scrivere, fare teatro. Così si toglie manovalanza alla criminalità organizzata e si costruisce davvero un futuro migliore.
È con questo messaggio di speranza che salutiamo Napoli, una città unica al mondo di cui si può sempre scoprire un lato nuovo e diverso, soprattutto se si viaggia con Radiopopolare e Viaggiemiraggi.




Grazie infinite a Stefania, a Claudio, al magnifico duo di Napoli Tour in-canto (Mariangela e Vincenzo), a Fabrizio e con lui a tutta la cooperativa La Paranza che ha fatto della Sanità il nostro nuovo posto del cuore, a Valentina che ci ha fatto apprezzare i tesori artistici di Napoli (e purtroppo solo una piccola parte: dovremo tornare per vedere tutti gli altri!), e naturalmente a Nicola, a tutti i Maestri di Strada e ai ragazzi di Art33.
E grazie anche a tutte le compagne e a tutti i compagni di viaggio: come sempre è stato un piacere inestimabile viaggiare con voi.