Dalle montagne “maledette” del Kelmend alle Bocche di Cattaro con Confluenze a sudest-Viaggi e Miraggi

2: The Land of the Living Past

Sabato 27 agosto 2022

Colazione presto e si parte verso le montagne del nord, un mondo tutto sommato vicino ma altro, forse uno dei pochissimi veri “altrove” rimasti in Europa, dove la vita è ancora profondamente legata alla terra, alla natura e nello specifico alla montagna. Un’area dove secoli di isolamento hanno mantenuto viva una cultura con forti elementi identitari, e che proprio per questo da molto tempo incuriosisce e attira viaggiatori in cerca di qualcosa di totalmente fuori dall’ordinario. Inutile dire che incuriosisce anche noi, anche se oggi (per fortuna) le strade per arrivarci non sono così disagevoli come in passato e le cose sono molto cambiate. È un cambiamento recente però, in buona parte ancora in corso; le tracce del passato restano ed è bene che sia così: noi incontreremo proprio una ONG che si occupa di creare percorsi di sviluppo che siano sostenibili e che mantengano intatto il patrimonio naturale e culturale dell’area pur consentendole di aprirsi all’esterno, anche al turismo, sempre in forma sostenibile.

Meno male che le strade ora ci sono e sono percorribili, anche se sempre tortuose, sia perché questa volta il nostro Eugenio, per questioni di budget, non sarà solo insostituibile guida e “mediatore culturale” ma anche driver, sia perché molti di noi, a quanto pare, soffrono le strade un po’… avventurose. Il nostro pullmino Mercedes è da 9 posti, proprio su misura per noi. Dato che pare che solo Rosa, Carlo ed io siamo abbastanza tranquilli di non avere problemi di stomaco neanche in montagna, noi tre ci accomodiamo in ultima fila e questa resterà la “formazione” per tutto il viaggio.
Ma tutto il primo pezzo di strada, quello che ci porta fino a Scutari, non presenta in realtà problemi di sorta. Siamo ancora in pianura, la strada è dritta, il traffico sostenuto ma senza grossi impedimenti. Quello che non possiamo fare a meno di notare è che la strada è punteggiata di ville e hotel che sono veramente l’apoteosi del kitsch, con stili che variano dal neoclassico al neobarocco e che sono sicuramente singolari in mezzo a un paesaggio che è fatto anche di molti edifici non finiti, con il piano terra fatto e le armature del secondo, ancora da costruire, a vista.
Scutari, in albanese Shkodra, ha circa 135.000 abitanti. Da sempre considerata la capitale della cultura albanese e un tempo capitale dell’Illiria, fu conquistata dai romani nel 168 a.C., poi passò nelle mani degli slavi, dei veneziani e degli ottomani. Dopo essere stata attaccata dai montenegrini, conquistata dagli austriaci e occupata dai fascisti italiani, negli anni ’90 fu una delle prime città a ribellarsi contro il regime comunista.
Tutto questo è inciso nelle pietre della sua fortezza, dalla quale si domina una vallata dove confluiscono i fiumi Drin, Buna e Kir, nelle vicinanze delle Alpi dinariche. Si dice che questo è il posto dove si “baciano” tre fiumi.
Il colle dove sorge la fortezza risulta abitato fin dall’Età del Bronzo. Divenuto fulcro dell’insediamento di Scodra, nel II secolo a.C. era abitato dalla tribù illirica degli Ardiei. Le prime mura, delle quali rimane pochissimo, erano state innalzate direttamente sulla roccia calcarea del colle.

Lo splendore del castello è da far risalire al medioevo, quando tutte le principali città d’Albania avevano una famiglia nobile a dominarle. Anche qui il castello venne rinnovato e ulteriormente fortificato.
Nel XV secolo la fortezza subì importanti lavori di restauro e ingrandimento da parte degli architetti veneziani Andrea Venier, Francesco Venier e Melchiorre da Imola. Il 15 luglio 1474 il castello di Rozafa venne assediato dai Turchi che tuttavia, a causa dell’accanita resistenza della guarnigione veneziana comandata da Antonio Loredan, furono costretti alla ritirata. Quattro anni più tardi, caduta la roccaforte albanese di Croia (Kruja), gli Ottomani cinsero nuovamente d’assedio Scutari. Nonostante la resistenza dei veneziani, il 25 gennaio 1479 le truppe della Serenissima furono costrette ad abbandonare la fortezza e a consegnare Scutari ai Turchi.
Il castello di Rozafa ha una pianta ellittica ed è formato da tre cinte di mura differenti. All’interno del complesso della fortezza sono presenti i resti della chiesa di Santo Stefano. Dopo l’occupazione ottomana di Scutari il castello venne trasformato in una base militare e la chiesa venne convertita in una moschea, la Moschea di Sultan Fatih (Mehmet II), in memoria del Sultano che occupò Scutari. Venne perciò distrutta parte del campanile, che divenne un minareto, e l’abside fu trasformata in un mihràb.

Anche la fortezza di Rozafa, luogo simbolo e identitario, ha il suo mito. La leggenda, riportata anche da Ivo Andrić ne Il ponte sulla Drina, narra di tre fratelli costruttori a cui era stato ordinato di innalzare la fortezza. Ma una maledizione faceva sì che, come la tela di Penelope, tutto ciò che costruivano durante il giorno venisse distrutto la notte. Andarono a chiedere consiglio al più anziano del villaggio, il quale disse che era la natura che chiedeva un sacrificio, e la vittima sacrificale doveva essere una delle donne della famiglia. I tre fratelli, capito che non c’era via di scampo, decisero di non dire niente alle proprie mogli e fare in modo che la scelta fosse dettata dal caso, ovvero dal volere divino: la prima delle tre che fosse venuta a portare il pranzo sarebbe stata la prescelta. La moglie del più giovane, Rosa, aveva un bambino piccolo. E il più giovane fu l’unico a rispettare il patto, tradito dagli altri fratelli, che invece avevano avvertito le loro mogli. Rosa, con dignità e coraggio, accettò di essere sacrificata ma pose le sue condizioni: potevano murarla viva, come aveva detto il vecchio, ma dovevano lasciarle fuori l’occhio destro, per vedere suo figlio crescere, il braccio destro per accarezzarlo, il seno destro per allattarlo e il piede destro per muovere la culla. Così fecero, e l’acqua che sgorga ancora oggi da un muro del castello si crede sia la rappresentazione di quel latte sacrificale.
Secondo la leggenda, dunque, Rozafa prenderebbe il nome da Rosa. Ma Helidon, la nostra guida qui a Scutari, ci spiega che questa non solo è ovviamente una leggenda, ma non ha alcun fondamento: è molto probabile, invece, che il nome della fortezza derivi dall’antica città di Rusafa, nell’odierna Siria. Helidon è un archeologo “nato”, nel senso che il suo destino stava forse già nel nome, che è quello di una tribù illirica.
Da quassù, comunque, non solo si vedono i tre fiumi ma si vede anche la Moschea di Piombo, costruita nel 1773 dal pasha Mehmed Bushati e chiamata così per il piombo che originariamente, e fino all’inizio del ‘900, ne ricopriva le cupole. Nel 1916, durante la Grande Guerra, gli austriaci si presero il piombo che era rimasto, ma molto era stato già danneggiato o trafugato prima.

La moschea di piombo

Scesi poi in città, la nostra breve visita a Scutari comincia con la visita al museo Marubi, un archivio fotografico dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco che raccoglie scatti di più di un secolo di storia cittadina.
Tutto inizia nel 1856. Pietro Marrubi, un garibaldino di Piacenza che a causa della sua attività politica è costretto a lasciare l’Italia e prendere la strada dell’esilio, termina il suo lungo peregrinare a Scutari dove cambia il proprio nome in Pjetër Marubi e dopo un paio d’anni apre il primo atelier fotografico cittadino che nel corso dei decenni affianca ai servizi privati (ritratti di persone o famiglie) veri e propri reportage commissionati da riviste italiane o albanesi. Lo studio raggiunge il suo apice negli anni venti del ‘900, quando il nipote Gegë Marubi, fresco di diploma conseguito a Parigi presso lo studio dei fratelli Lumiere, applica le tecniche più moderne dell’epoca utilizzando raggi infrarossi, solarizzazione e foto in rilievo.
Le foto in mostra rappresentano una testimonianza unica della società albanese dalla fine dell’Ottocento lungo tutto il ventesimo secolo, non solo gli strati benestanti e cittadini ma anche le comunità di pastori delle zone remote di montagna, i loro usi, costumi e riti. L’archivio ha anche “fermato” i passaggi della storia di questa regione. In una foto si vede un uomo issare la bandiera albanese in cima alla fortezza di Rozafa: siamo nel 1914, anno dell’indipendenza di questa parte dell’Albania.

La chiesa francescana di Scutari

Scutari potrebbe meritare anche una visita più lunga, ma a me va bene così: l’ho già vista tre anni fa durante il mio primo tour albanese. Ci concediamo una pausa pranzo, ma poi bisogna ripartire verso le montagne del nord.
Queste montagne, come già detto, hanno affascinato in passato tanti viaggiatori europei, e ancora oggi attirano chi vuole, senza andare lontano, fare qualcosa che assomiglia a un viaggio nel tempo.
Quella che forse più di tutti ha raccontato all’Europa queste montagne, e che le ha esplorate a fondo in un’epoca in cui erano ancora davvero un mondo inaccessibile e spesso ostile, è stata Edith Durham, una viaggiatrice inglese dei primi del ‘900 diventata antropologa quasi per caso.
Edith Durham era un’artista: pittrice e illustratrice, figlia di uno stimato medico londinese, era arrivata nei Balcani spinta dal suo medico, che le aveva consigliato un viaggio di almeno due mesi “in un posto completamente nuovo” per curare un principio di esaurimento nervoso che le derivava dal peso dell’assistenza alla madre malata. E lei aveva scelto i Balcani.
Bisogna considerare che, nei primi anni del Novecento, l’Adriatico orientale era un “altrove” ideale per i viaggiatori di tutta Europa, e questo grazie alla fama raggiunta dal piccolo principato del Montenegro.
Il giovane Stato governato dal principe Nicola, le cui figlie avevano sposato nobili e teste coronate di mezza Europa, era infatti una delle mete preferite di quello che allora cominciava a essere il turismo organizzato. L’ingresso nelle cronache mondane internazionali era stato sancito ufficialmente nel 1896, quando, in seguito al suo matrimonio con Vittorio Emanuele III, la principessa Elena era diventata regina d’Italia.
Bisogna dire che il Montenegro si giovava moltissimo dell’abile campagna d’immagine promossa dal principe Nicola: basti pensare che, in quegli anni, anche i camerieri negli alberghi indossavano il costume tradizionale, attirando folle di turisti che, Baedeker alla mano, non vedevano l’ora di respirare quello che nelle loro aspettative era il folklore delle atmosfere balcaniche.
Da parte loro, gli scrittori europei erano affascinati all’idea di avere alle porte di casa un Oriente che, come dice Durham, cominciava “somewhere on the farther side of the Adriatic”. È con queste parole che si apre Through the Lands of the Serb, forse il più bello fra i libri di Edith Durham, in cui ci racconta gli inizi del viaggio che, attraverso il Montenegro, l’avrebbe portata alla scoperta dell’Albania: “Io non so dove comincia esattamente l’Oriente – e non che questo conti molto – ma è da qualche parte sulla sponda più lontana dell’Adriatico, la costa punteggiata di isole che un tempo era dominio veneziano.”
Nel suo saggio sul “groviglio balcanico” pubblicato vent’anni dopo, Durham ripercorre le tappe del suo avvicinamento all’Albania: “Da Cettigne andammo a Podgorica, dove per la prima volta vidi degli albanesi. A Podgorica ce n’erano tanti, e tutti indossavano il costume nazionale, perché a quel tempo il Montenegro non aveva ancora fatto molto per reprimerne l’uso. In quella prima visita, non mi addentrai oltre”.
In realtà, quella volta l’Albania l’aveva già intravista, in una specie di incontro a distanza che, alla luce dell’importanza che il Paese delle Aquile avrebbe assunto nella sua vita, suona quasi come una premonizione:
“Lasciando Cettigne attraverso la sua unica strada d’accesso, ben presto raggiungiamo la sommità del passo, e una svolta improvvisa ci rivela le terre in lontananza. Abbiamo attraversato l’Europa fino ai confini della cristianità, e ora siamo sulla fortezza di roccia, col nemico in vista. La strada bianca serpeggia lungo il fianco della montagna, e molto più in basso si stende la verde vallata e il suo minuscolo villaggio, Dobrsko Selo; da tutti i lati sorgono balze selvatiche e maestose; laggiù in lontananza splende il magnifico lago d’argento di Scutari. Al di là di esso, le montagne turchine dell’Albania, dai picchi scintillanti di neve perfino a giugno, diventano sempre più evanescenti, e la terra del mistero e degli abominevoli turchi svanisce nel cielo. Una scena talmente maestosa e impressionante da valere l’intero viaggio dall’Inghilterra soltanto per vederla.”
Ormai aveva visto abbastanza per desiderare di andarci di persona, cosa che fece l’anno dopo. Fu un colpo di fulmine. “Nel 1901 visitai il Montenegro e discesi al lago, arrivando fino a Scutari. Questa città mi conquistò fin dal primo momento: aveva colore, vita, arte. I suoi abitanti erano amichevoli e laboriosi, e non passavano tutto il tempo a bere raki e fare gli sbruffoni per strada come a Cettigne. C’era qualcosa di molto umano in loro, e più di ogni altra cosa io volevo andare nelle montagne albanesi. Ma il nostro console si era appena insediato: si sentì col suo collega austriaco, e dal momento che in quegli anni l’Austria teneva quelle montagne come suo territorio personale, rispose categoricamente che il viaggio era impossibile per me.”
Ma con un carattere come il suo, nessun rifiuto sarebbe stato sufficiente a ostacolare quello che ormai era un progetto preciso. Lei voleva visitare l’Alta Albania: quando si rese conto che le sue ripetute richieste di permessi ufficiali ricevevano risposta negativa, smise semplicemente di chiederli.


Dopo anni di viaggi, nel 1909 pubblicò High Albania, che nella traduzione italiana è diventato “Nella terra del passato vivente” perché la stessa Durham definì queste montagne “The Land of the Living Past”.
Detto tutto questo, è più che appropriato che noi si legga qualche passo di questo libro nella lunga marcia di avvicinamento alle montagne stesse. Oggi la strada per arrivarci non è più così disagevole com’era a quei tempi, ma sono lavori molto recenti; fino a poco tempo fa spingersi fin quassù era un viaggio ancora abbastanza avventuroso, o poteva facilmente diventarlo. Adesso la strada è ancora lunga e tortuosa, ma le condizioni dell’asfalto sono ottime. Certo, per chi soffre la macchina è il momento di far ricorso a tutti i possibili rimedi.
Ecco alcune delle cose che Edith Durham, con il suo approccio etnografico, scrisse della gente dell’Alta Albania in quel periodo:

Per tutte le loro abitudini, leggi e costumi le persone, in genere, non hanno che una spiegazione: “E’ nel Canone di Lek”, la legge che si dice sia stata creata dal capoclan Lek Dukagijn. Si favoleggia che Lek abbia legiferato minuziosamente su tutte le materie. […] Di Lek si sa poco. La sua fama tra i clan che ancora portano il suo nome supera di molto quella di Skanderbeg, e intorno a lui la nebbia della mitologia è spessa. Non ha lasciato segni nella storia europea – è una celebrità puramente locale – ma deve aver avuto una personalità prominente per aver così influenzato la gente che “Lek ha detto così” ottiene molta più obbedienza dei Dieci Comandamenti. I precetti dell’Islam e della cristianità, la Sharia e la legge della Chiesa, tutto deve cedere il passo al Canone di Lek.

[…]

La fratellanza giurata è un costume antico e ampiamente diffuso. Ma dato che gli albanesi del nord quasi sempre chiamano un fratello giurato probo o probotin, una ovvia corruzione del serbo probratim (brat = fratello), è possibile anche che abbiano mutuato l’usanza dai serbi. C’è anche però una parola albanese, vlam. In Montenegro l’usanza è quasi morta, mentre in Albania è fiorente. La procedura, quindi, mi è stata riferita da un albanese cattolico: “Ho viaggiato in una zona pericolosa con un giovane musulmano. Siamo diventati grandi amici. Mi ha chiesto di diventare suo fratello. Ho chiesto il permesso a mio padre, il capo della casa. Mi ha detto che era un’ottima famiglia con cui allearsi. Abbiamo aspettato un po’ di tempo. Poi, dal momento che entrambi ancora lo volevamo, ci siamo incontrati, e ciascuno ha legato un laccio stretto intorno al suo mignolo finché non si è gonfiato, ha punto il dito e ha fatto gocciolare il sangue su una zolletta di zucchero. Io ho mangiato la sua zolletta, lui ha mangiato la mia. Abbiamo giurato fratellanza. Eravamo dello stesso sangue. […] Lui è morto adesso, ma i suoi fratelli sono miei fratelli, e i nostri figli sono cugini. Naturalmente non si possono sposare, perché sono dello stesso sangue. Non si potranno sposare per più di cent’anni.”
Nel caso di due cristiani, è abituale versare tre gocce di sangue in un bicchiere di raki o di vino. La Chiesa, ovviamente, non prende nota di queste relazioni, ma mi dicono che persone legate in questo modo non si sposano mai finché la fratellanza non è divenuta remota.

[…]

Il fatto più importante nel nord dell’Albania è la vendetta di sangue, che è poi la vecchissima idea della purificazione attraverso il sangue. È diffusa dappertutto. Tutto il resto è subordinato ad essa.
[…]
Il sangue può essere lavato solo col sangue. Anche essere colpiti richiede sangue, così come le parole offensive. Uno dei peggiori insulti è il matrimonio di una ragazza promessa a un uomo con un altro. Nient’altro che il sangue può cancellarlo.
Il rapimento di una ragazza richiede sangue, come naturalmente l’adulterio. Questo non sembra sia comune. Si porta dietro così tanto sangue che “il gioco non vale la candela”. Il sangue preso non deve essere per forza quello di chi ha offeso. Deve essere sangue di un maschio della sua casa o del suo clan.
Un uomo risponde anche per il suo ospite, e deve vendicare uno sconosciuto che abbia passato anche una sola notte sotto il suo tetto, se questo il giorno dopo fosse attaccato sul suo cammino. La sacralità dell’ospite è enorme. Un uomo che mi ha portato dell’acqua dalla sua casa perché io avessi da bere durante il cammino ha detto che io ora ero da considerare sua ospite, e che sarebbe stato portato dal suo onore a vendicarmi se mi fosse successo qualcosa prima che io potessi ricevere ospitalità da un altro.
La vendetta di sangue, uccidere un uomo in accordo alle leggi dell’onore, non deve essere confusa con l’omicidio. L’omicidio fa partire una faida di sangue. Nella vendetta di sangue le regole del gioco sono strettamente osservate. Non si può sparare a un uomo per vendetta quando è con una donna o con un bambino, o quando è in compagnia di altri, o quando un besa (patto di pace) è stato concesso. Le due parti possono suggellare un patto di questo tipo per qualche settimana per questioni di affari. Ci sono uomini che, per sfuggire a una vendetta di sangue, non sono usciti di casa da soli per anni.

Foto da “High Albania” di Edith Durham, 1909

Disegno di Edith Durham da “High Albania”, 1909
Il nostro pullmino

La valle dove andremo noi è quella del Kelmend, che raggruppa otto villaggi incastonati tra le alpi dinariche. Prima di intraprendere l’ultimo tratto di salita abbiamo appuntamento con Anna, della ONG VIS (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo). Anna è veneta, di Portogruaro, ma vive qui da quasi dieci anni ormai, e qui, lavorando per il VIS, ha conosciuto il collega albanese che poi è diventato suo marito.
Il VIS, presente nel territorio dal 2009 con progetti di sviluppo rurale finanziati dalla Cooperazione Italiana e dall’Unione Europea, ha aiutato le comunità a valorizzare quello che avevano di più prezioso: una natura incantevole che vive in armonia con una cultura secolare e affascinante. La distanza da Scutari (il centro urbano più vicino) ha rallentato lo sviluppo economico dell’area, ma al tempo stesso ha permesso di preservare un equilibrio tra uomo e natura unico e raro nelle terre dell’Europa contemporanea.
Il VIS, tenendo presente i desideri delle famiglie, ha aiutato a migliorare l’offerta turistica spaziando in tutti quei servizi che fanno del soggiorno in Kelmend una vacanza indimenticabile ed un’esperienza umanamente intensa. Le case tradizionali sono state ristrutturate mantenendo lo stile tipico della zona alpina ma garantendo uno standard di accoglienza internazionale. L’organizzazione dell’accoglienza è quella dell’albergo diffuso: per garantire i numeri di posti letto e i servizi necessari si è messo in rete ciò che già esisteva e l’accoglienza viene garantita dalle famiglie e gestita secondo il calore tipico degli abitanti del luogo. Anna ci ha raccontato che è stato difficile, da queste parti, far passare il concetto dell’accoglienza a pagamento. Nella cultura locale l’ospite è sacro ed è disonorevole chiedergli di pagare; non solo: le famiglie, per abitudine e cultura, tendevano a pensare che quando arriva un ospite straniero non si possono offrire le proprie povere cose, bisogna andare a comprare qualcosa di speciale. Ad esempio, si facevano decine di chilometri per andare al supermercato a comprare formaggio francese e whisky, perché credevano che fosse quello che il turista voleva, invece di dargli il loro formaggio e il loro raki fatto in casa. Ora, dopo anni di lavoro, la mentalità è cambiata ma c’è ancora tanto da fare, da questo punto di vista.
Dal 2011, il sostegno del VIS si è realizzato anche coinvolgendo il territorio in attività legate a Slow Food, sia nel sostegno ai piccoli produttori che nella valorizzazione di prodotti biologici locali a km 0 e legati strettamente all’affascinante storia del territorio. Ciò ha portato alla creazione del Convivium Slow Food Sofra e Kelmendit (uno dei sette convivia d’Albania) e del Presidio Slow Food del Mishavin. Il Mishavin è un formaggio d’alpeggio che si può trovare solo in Kelmend, nei villaggi di Lëpushë e Vermosh. Negli anni aveva visto una visibile diminuzione nella produzione, ma ultimamente, grazie al lavoro di formazione insieme ai suoi 12 produttori, ha vissuto una nuova rinascita, tanto da farlo divenire uno dei fiori all’occhiello della tradizione locale e uno dei prodotti più ricercati da cuochi e visitatori. Vi è poi una conoscenza secolare legata alle proprietà delle erbe medicinali, con cui si preparano le tipiche tisane di montagna.
Sempre con il sostegno del progetto di sviluppo rurale attuato dal VIS, l’area ha beneficiato della riscoperta dei sentieri di montagna tradizionali che collegano i villaggi a valle con le aree degli alpeggi e con le vette delle Alpi Dinariche. Ci sono 330 km di tracciati montani di diversi livelli, dalla passeggiata per la famiglia con bambini alla scalata dell’alpinista esperto. A ciò si aggiunge la possibilità di visitare l’intera area in mountain bike, grazie a 12 itinerari tracciati che collegano il Kelmend anche con le suggestive valli vicine: Shkrel con il canyon del torrente secco ed il bosco secolare delle castagne, Kastrat e il fascino del lago, dove pescatori esperti possono far scoprire rive nascoste e la carpa locale.
Anche noi siamo stati accolti da Anna nell’info point di Tamarë, dove ci ha offerto un bicchiere di liquore al mirtillo e/o raki di corniolo e ci ha introdotto ai vari progetti e attività del VIS.

Da qui, ci mancano ancora parecchi chilometri di curve per raggiungere Lëpushë, dove per due notti saremo ospiti di Dodë e della sua famiglia, nel loro B&B a gestione familiare.
Della famiglia di Dodë fa parte anche un simpatico cagnolino, che dopo che Giorgia l’ha apostrofato alla siciliana “canuzzo” è diventato canuzzo per tutti.

Qui, davanti a una tazza di tè, Anna ci racconta un po’ meglio le attività del VIS e quello che in questi anni ha imparato sulla vita della gente del Kelmend.
Lëpushë è un villaggio recente, perché prima era l’alpeggio di Selcë, un altro villaggio che si trova più in basso. Qui siamo a circa 1300 m di quota. Da Selcë si veniva qui con gli animali d’estate, finché all’inizio del ‘900 alcune persone hanno iniziato a stabilirsi qui ed è diventato un villaggio. Eugenio ci fa notare che infatti non è citato nel libro di Edith Durham, perché ai suoi tempi come villaggio non esisteva ancora. Prende il nome da una pianta che cresce tra aprile e maggio e fa un fiore giallo. Il nome ha un suono slavo, e del resto da qui il confine col Montenegro è veramente a due passi. Anche Vermosh, che è il villaggio più vicino, è nato così: era l’alpeggio di Vukël. Lëpushë e Vermosh sono i soli due villaggi dove si produce il mishavin, il formaggio tipico locale per cui grazie all’impegno del VIS Albania è stato creato un presidio Slow Food. Prima dell’avvento dei freezer, erano i soli posti dove quel tipo di formaggio, per come viene fatto, poteva durare.
Storicamente, da queste parti c’è un senso del tempo circolare: la giornata si ripete con il suo ciclo sempre uguale; il pastore esce, porta il gregge al pascolo, torna. La famiglia è un nucleo forte, molto unito ma abbastanza chiuso al mondo esterno. Le occasioni di incontro sociale erano pochissime, ora forse un po’ di più ma ancora creare un vero senso di comunità è difficoltoso. È rimasta un’eredità per la quale collaborare, fare rete è molto difficile. Questo è vero in Albania in generale, anche come portato storico di 45 anni di regime comunista, che genera paura di tutto ciò che è comunitario. Il comunismo albanese è stato talmente claustrofobico che ha creato diffidenza anche all’interno di una stessa tribù e addirittura di una stessa famiglia. Poteva succedere che marito e moglie non si dicessero delle cose o per diffidenza reciproca o per non mettersi in pericolo l’un l’altro. C’è, per esempio, la storia di una donna che è stata battezzata sia dal padre che dalla madre, l’uno all’insaputa dell’altro: il padre la battezzò ortodossa, la madre cattolica. Se lo sono detti che la figlia aveva già più di trent’anni e il regime era caduto da dieci.
Le ragazze si sposano ancora presto. Il matrimonio è ancora spesso combinato dalle famiglie, generalmente dai padri come vuole l’antica tradizione, ma non è più una situazione generalizzata come in passato. E, a differenza del passato, almeno i futuri sposi si possono “frequentare” prima on line…
Il problema più grosso resta lo spopolamento, che continua anche ora che c’è qualche prospettiva in più, anche grazie ai progetti di turismo sostenibile. È tuttora difficile convincere i giovani a restare, ed è ancora grande la percentuale di quelli che emigrano, soprattutto verso Germania e USA.
Qui la cooperazione italiana si è fidata di una proposta che all’epoca era piuttosto innovativa, anche se ora è una modalità che stanno usando in tanti. Agli operatori locali del VIS venne affidato un fondo per più di un milione di euro, da gestire in autonomia con il giusto manuale delle procedure e con un comitato comunitario su cui il VIS comunque è garante per la trasparenza di gestione. Questo per poter decidere con la comunità come spenderli, su delle componenti preindicate. Queste componenti si sono evolute nel tempo: quelle del primissimo progetto erano il microcredito e i progetti comunitari come per esempio, in questa zona, quello di portare i tubi dell’acquedotto dalla chiesa alla scuola. La comunità metteva la forza lavoro, i materiali venivano comprati con i fondi del progetto. Così sono stati realizzati altri progetti come infrastrutture, trasporto scolastico, promozione turistica. Le prime mappe turistiche sono state fatte con un progetto comunitario richiesto (su stimolazione del VIS, inizialmente) dalle stesse guesthouse che non avevano materiale da distribuire ai turisti. Ora viene tutto più automatico, ma qualche anno fa serviva uno stimolo esterno. Sono stati costruiti dei ponti, impianti di riscaldamento per le guesthouse e sono nate anche piccole iniziative dedicate alle donne, alla formazione: corsi di cucina, per parrucchiera, per estetista, e da lì la possibilità per una donna di fare business, che da queste parti era davvero qualcosa di fuori dall’ordinario.
Nel secondo progetto si sono aggiunti dei finanziamenti a dono per piccoli business o startup, con priorità alle richieste di donne e giovani. Lo staff, a parte Altin, il marito di Anna, che è logista e il ragazzo del servizio civile, è composto tutto di donne locali, di questa regione che si chiama Malësi e Madhe. E sono spesso donne a gestire le attività: c’è ad esempio una produttrice di succo di melograno; è un’attività familiare, ma tutto quello che riguarda le bottiglie, le etichette e la partecipazione al Salone del Gusto è gestito direttamente da lei, non dal marito. Alle prime attività di promozione del mishavin volevano venire solo gli uomini, in qualità di capifamiglia. Ma siccome sono le donne che producono, gli operatori del VIS hanno imposto a tutti di venire in coppia: Se veniva solo l’uomo non lo lasciavano entrare. C’è ancora del lavoro da fare, ma la strada è quella giusta.
A volte, però, i fondi europei vengono usati male: è esemplare il caso di una richiesta presentata a Tamarë per una fabbrica di succhi fatti con prodotti locali; una volta ottenuto il finanziamento, i soldi sono stati usati per produrre invece la bibita energetica B52, una sorta di Red Bull albanese che è quanto di più chimico si possa pensare.
C’è ancora del lavoro da fare sul modo di ragionare delle persone anche riguardo al come fare turismo in questo territorio. Molti hanno ancora un mito che viene dal passato ma che è duro da sradicare: quello della megapista da sci che dovrebbe portare il turismo invernale. Faticano a capire che invece un intervento di quel tipo sarebbe probabilmente inutile (non mi immagino frotte di sciatori pronti a venire sulle Alpi albanesi) e sicuramente dannoso, perché avrebbe un impatto devastante su quella che è la vera ricchezza del territorio, cioè una natura ancora predominante e poco “contaminata”, data la scarsa antropizzazione. È questo che cerca un viaggiatore consapevole e al passo con i tempi.
Si va a cena: per noi hanno preparato zuppa di fagioli, grigliata di maiale e kaçamak (si tratta di un piatto della cucina tradizionale non solo in Albania ma in tutti i Balcani: è una polenta di mais che si può mangiare con burro o formaggio). Poi gliko e, naturalmente, un bicchierino di raki. Il gliko è una composta di frutta intera che non è proprio di queste parti: è più tipica dell’Albania del sud, in particolare della zona di Përmet; ma è comunque una bontà.

Dopo cena Dodë, il padrone di casa, ci intrattiene piacevolmente raccontandoci del passato e del presente di questa terra. Eugenio lo sollecita soprattutto sul tema dei miti e delle leggende legate a queste montagne, alla loro asprezza e alla loro sacralità. Per secoli sono state ritenute montagne inviolabili, ostili a qualunque forestiero cercasse di avventurarvisi. E spesso si è associata la durezza delle montagne alla durezza delle genti che le abitavano. Edith Durham, più di un secolo fa, ha potuto sicuramente vederle ancora molto chiuse nel loro isolamento e ammantate in quell’aura mitologica. Vengono tuttora chiamate Prokletije (cioè maledette) in serbo, o Bjeshkët e Namuna (“creste maledette”) in albanese ghego (il ghego è la lingua albanese del nord, che secondo molti studiosi è di derivazione illirica). Il nome si deve sicuramente, almeno in parte, alla loro selvaggia inaccessibilità, ma Dodë sostiene che vi sia anche una precisa motivazione storica: sarebbero i popoli slavi ad averle per primi chiamate così, perché da qui non sono mai riusciti a passare, a entrare nella terra degli albanesi. Effettivamente ha senso: questa è sempre stata un’area di confine tra il mondo slavo, a nord, e l’Albania a sud. I turchi riuscirono ad assoggettare sia gli slavi (serbi e montenegrini) che gli albanesi, e quindi nel periodo ottomano i due versanti delle montagne erano uniti, ma i due popoli sono rimasti fieramente rivali fino al giorno d’oggi; dalla seconda metà dell’Ottocento in poi il confine è stato tra Montenegro e Impero ottomano (così era ai tempi di Edith Durham), poi dal 1914 tra Montenegro e Albania, poi tra Jugoslavia e Albania e ora di nuovo tra Montenegro e Albania. Se fosse così, sarebbero montagne maledette per gli slavi (dal loro punto di vista, cioè) e benedette per gli albanesi.
Edith Durham, però, ci dà una versione un po’ diversa. Leggete quello che scrive di questa valle:

Penso che non ci sia nessun posto dove vivono esseri umani che mi ha dato una tale impressione di maestoso isolamento dal mondo. È un luogo dove i secoli si avvizziscono; il fiume potrebbe essere la sorgente del mondo, le sue rive la casa perfetta di passioni e istinti elementari che sono rossi e rapidi.
Una grande rupe con la cima piatta, sulla sinistra, era coperta di tronchi d’abete spezzati, portati giù da una grossa valanga in inverno. Scoloriti e bianchi nel sole, giacevano sparpagliati come le ossa dei morti. Altri restavano in piedi dritti e scarni. “È l’altare di Dio, con le candele sopra!” gridò uno degli uomini che erano con me.
Proprio alla fine della valle si innalza la catena montuosa delle Prokletija (le montagne maledette), chiamate così, mi hanno detto a Shala e a Pulati, perché è stato scavalcando quelle montagne che i turchi sono entrati nell’Alta Albania. Sembra più possibile che siano arrivati per altre strade, ma per parte mia io credo nelle tradizioni locali. E l’amara verità rimane che su tutta questa terra grava ancora la maledizione dell’influenza turca.

Disegno di Edith Durham da “High Albania”, 1909

Eugenio e Dodë

Andiamo a dormire, dopo qualche altro giro di raki, con questa idea delle montagne maledette che ci frulla in testa. Domani, salendo all’alpeggio, ci arrampicheremo su queste montagne e ci avvicineremo ancora di più al confine.

Domenica 28 agosto 2022

Per molti di noi è stata la prima notte con una temperatura accettabile dopo mesi, quindi già questo è un bel modo di iniziare la giornata.
Oggi è il giorno della salita all’alpeggio. La sto mettendo giù un po’ dura, in realtà: il programma definisce quella che faremo una “leggera” camminata, che non dovrebbe durare più di un’oretta. Ma comunque, nel dubbio, è meglio fare una robusta colazione e Dodë ci offre tutto quello che serve. C’è del dolce e del salato, spicca soprattutto la grande varietà di confetture: fichi, kiwi, anguria, albicocca, pesca, due tipi di prugne… c’è davvero di che sbizzarrirsi.
Oggi, come ieri ci aveva anticipato Anna, ad accompagnarci sarà Drita, la sua collega locale. Drita è nata a Tamarë, poco più giù di qui, ma ora vive vicino a Scutari con suo marito e le sue due bambine di 4 e 2 anni. Da ragazzina saliva ogni giorno su questa montagna in cerca di erbe aromatiche da raccogliere. Faceva due “turni”, uno la mattina molto presto e l’altro nel pomeriggio, d’estate sotto il sole cocente. Era una vita piuttosto dura, ma poi è arrivato il VIS e per lei è stata la svolta: ora si occupa di turismo, collaborando a portare avanti i progetti di cui ieri ci ha parlato Anna. Ma le erbe le conosce sempre: ci raccomanda una tisana di origano rosso, che sembra abbia grandi proprietà benefiche. Parla un ottimo italiano, che dice di aver imparato dai colleghi del VIS.
La salita è effettivamente fattibile, anche se inizia con uno strappo che come pendenza non è niente male. Fatto quello, però, ci si può rilassare, fare un selfie di gruppo e arrivare serenamente al pianoro dove si trova l’alpeggio.

La famiglia che ci accoglie, da trent’anni, passa tre mesi l’anno quassù con i suoi animali: una sola vacca, una decina di pecore, altrettante capre, qualche gallina. Producono latte, soprattutto, e un po’ di carne di capretto. Le comodità non sono certamente molte: non è uno di quegli alpeggi “costruiti”, con baite e strutture permanenti, che siamo abituati a vedere da noi. Qui tutto è precario, sono sistemazioni di fortuna fatte di tronchi e baracche di lamiera. Lo stile di vita è a dir poco spartano, ma qui sappiamo che la gente di montagna è abituata a una dura vita di sacrifici. Sono solo una quindicina le famiglie del Kelmend che ancora salgono in alpeggio ogni estate, portando avanti una antichissima tradizione.

Moglie e marito hanno una sessantina d’anni, anche se i loro volti segnati ne “dimostrano” parecchi di più. C’è un figlio giovane, e un’altra figlia più grande, già sposata, che oggi per l’occasione è venuta qui ad aiutare i genitori, e si è portata dietro le sue tre bambine. È venuta dal Montenegro, perché è lì che si è trasferita: il marito è montenegrino. Perciò lei parla serbo-montenegrino, ed è quindi facile per Eugenio, che vive a Belgrado da anni, fare un po’ di conversazione con lei, quando non è impegnata nella preparazione dei piatti. Abbiamo scoperto così che per lei il matrimonio è stata una sorta di via di fuga da una situazione familiare difficile: per questo ha accettato di sposare un montenegrino molto più anziano di lei e di spostarsi oltre confine. Qui, peraltro, il confine è davvero vicinissimo, talmente vicino che i cellulari di alcuni di noi, compreso il mio, si sono attaccati alla rete montenegrina. Da queste parti ancora oggi per le ragazze la vita non è particolarmente facile, ce lo aveva già detto Anna ieri. Qui storicamente, per dirne una, si è sempre usato, quando un uomo aveva una figlia, augurargli che il prossimo figlio fosse un maschio perché quella era una vera fortuna per la famiglia. In più, scopriamo che succede con una certa frequenza che uomini montenegrini sposino ragazze albanesi di queste montagne. Può sembrare strano, perché i due popoli sicuramente non si amano, ma questi uomini lo fanno perché ritengono che le ragazze cresciute in una cultura ancora chiusa e fortemente patriarcale siano più “semplici”, ma forse dovremmo dire – per dirla esplicitamente – che siano più portate culturalmente a sottomettersi all’uomo. Lei, tutto sommato, sembra comunque viversela con una certa serenità: ha raccontato a Eugenio che suo marito, che evidentemente è serbo o filoserbo, ogni tanto indossa una maglietta con scritto “Il Kosovo è Serbia” e questo la fa abbastanza ridere, perché è curioso che un tipo così si sia preso una moglie albanese… ma tutto questo, in fondo, fa parte della complessità del mondo balcanico.
Ci offrono un caffè turco di benvenuto, nell’attesa che il pranzo sia pronto. Si capisce che, nonostante la precarietà della sistemazione, fanno di tutto per offrirci il meglio che hanno, nella migliore tradizione dell’ospitalità locale.

Canuzzo d’alpeggio

Foglie di lepushë

C’è tempo per una breve passeggiatina e per guardare ancora più da vicino le montagne che ci circondano, che fanno da confine non solo tra Albania e Montenegro ma anche tra Albania e Kosovo. Il capofamiglia, che anche lui conosce qualche parola di serbo, spiega a Eugenio che ha realizzato lui stesso il sistema di canalizzazione che fa arrivare l’acqua all’alpeggio. Dopo di che… il pranzo è pronto.
Abbiamo byrek (che sarebbe poi burek scritto all’albanese), formaggio (anche bollito), kajmak (formaggio fresco cremoso leggermente acido – anche questo si trova in tutti i Balcani), pomodori, succo di mirtillo e raki. Tutto a km zero e tutto in abbondanza. Non possiamo che far onore alla tavola, non vogliamo certo offendere la famiglia che ci ospita…

Drita ci racconta un’altra versione ancora, questa più romantica e fiabesca, della leggenda delle montagne maledette: due fratelli salirono un giorno in montagna per andare a caccia. Incontrarono una donna bellissima e incantatrice che era in realtà la fata della montagna, e che promise a entrambi di sposarli. I due litigarono furiosamente per chi dovesse sposarla e uno uccise l’altro. Al che lei rivelò al fratello superstite di non essere una vera donna, ma la fata protettrice della montagna, e che perciò non avrebbe potuto sposarlo. Lui, per il rimorso, si uccise e fu la madre dei due fratelli morti, disperata, a maledire le montagne.
Mentre mangiamo passano un paio di gruppi di turisti (forse tedeschi) impegnati in un percorso di trekking sicuramente più lungo del nostro che si fermano un attimo per un saluto e, vedendo tutto il bendidio che abbiamo davanti, lanciano sguardi invidiosi… poi, rassegnati, ripartono.
Anche noi, dopo il giusto relax postprandiale, dobbiamo ripartire, anche perché il cielo si è rannuvolato e minaccia pioggia; vogliamo tornare giù prima che cominci.

Si chiacchiera ancora un po’ con Drita, riflettendo sul fatto che lei, per il tipo di percorso che ha fatto, può essere un esempio per le ragazze di qui, che le aiuti a capire che il loro destino non è necessariamente segnato. I matrimoni precoci oggi – ci racconta – sfociano spesso in molti divorzi e molte ragazze, poi, scelgono di andare via. Un altro problema sentito è quello degli incendi dolosi, che qui come in molte aree interne del mediterraneo sono frequenti, per le ragioni che ben conosciamo.
Ritorniamo al B&B per una doccia veloce e un breve riposo, perché poi avremmo un appuntamento con il mishavin, il più importante tesoro gastronomico di questa valle. Purtroppo, a causa di un lutto in famiglia, il produttore che avremmo dovuto incontrare secondo programma non potrà essere con noi, ma speriamo di poter parlare del mishavin e di poterlo gustare con Gjyustina, che è un’altra produttrice locale. Lei ci potrà spiegare anche gli usi e i benefici di alcune erbe e frutti spontanei, trasformati in çaj (tisane), sciroppi o marmellate, o aggiunti in infuso nei raki distillati in casa a partire da prugne coltivate o anche semi-selvatiche, che nei boschi qui intorno non mancano.
La storia di Gjyustina è interessante anche per un altro motivo: lei è una delle ultime burnesh, le “maschie”, le vergini giurate. Le burnesh sono quelle ragazze che, fino a una trentina d’anni fa, sceglievano di “diventare” uomo senza fare nessuna operazione o terapia ormonale e, di solito, per poter essere capofamiglia; succedeva infatti quando in una casa rimanevano solo donne. Era una scelta solo in parte, in realtà. Nella società tradizionale delle montagne albanesi, una casa senza un uomo era una casa senza una guida, senza un punto di riferimento: una famiglia allo sbando. La ragazza allora, dopo aver giurato solennemente di restare vergine per tutta la vita, indossava abiti maschili, si tagliava i capelli e si comportava come gli uomini del villaggio: andava con loro in moschea o in chiesa, beveva raki e fumava in loro compagnia incrociando le gambe sui tappeti dei salotti nei pomeriggi d’inverno. In casa queste donne erano rispettate come capifamiglia, e fuori lo erano allo stesso modo. Infatti a volte, anche se più raramente, era effettivamente una scelta per avere più libertà, che comportava i privilegi di cui un uomo poteva godere (ma anche i doveri che spettavano alla figura maschile). La convenzione prevedeva che anche gli altri abitanti del villaggio dimenticassero la loro natura femminile, la cancellassero dalla loro mente, che non facessero alcun cenno al loro sesso, neppure nella maniera più velata. Erano maschi per la madre, per le sorelle, per tutti. Non dovevano neanche fare il militare, perché i comunisti tolleravano questo residuo del passato medievale quasi con disprezzo: non chiedevano o imponevano nulla, semplicemente ignoravano queste persone abbandonandole al loro destino di una vita di umile lavoro e di privazioni. A queste storie è ispirato il romanzo “Vergine giurata” (2007) di Elvira Dones, da cui è stato tratto l’omonimo film (2015) di Laura Bispuri con Alba Rohrwacher.

Foto da “High Albania” di Edith Durham, 1909


Gjyustina, insieme ad altre due vergini giurate, è stata anche protagonista qualche anno fa di un servizio de “Le Iene”, dove però si tendeva a sottolineare l’aspetto sessuale della scelta ignorando completamente quello sociale: non ve lo consiglio. Noi, comunque, preferiamo non parlare con lei della sua vita personale; vorremmo invece concentrarci sul mishavin: peccato che lei, scopriamo, non lo produce più… e quindi pare che non riusciremo ad assaggiarlo.
Ad ogni modo, si tratta di un formaggio che appartiene alla grande famiglia dei formaggi nel sacco, ancora oggi diffusi tra la penisola balcanica e l’Anatolia. Si produce esclusivamente nei mesi estivi, quando le greggi pascolano libere alle pendici del monte Trojane, per poi essere consumato nella lunga stagione invernale.
Una volta ottenuta la cagliata, con percentuali variabili di latte vaccino e ovino, si taglia a strisce spesse, si racchiude in un panno e si sottopone a una leggera pressione per facilitarne lo spurgo. Il formaggio così ottenuto prima si taglia in pezzi grossolani, e poi si lascia asciugare all’aperto, al riparo dal sole, per un periodo compreso fra i 7 e i 10 giorni. Successivamente, si sbriciola finemente a mano, si aggiunge il sale e si lascia maturare in un contenitore di legno bucato sul fondo, da cui fuoriesce l’eventuale siero in eccesso. Dopo circa due mesi il mishavin è pronto. Di colore bianco tendente al paglierino, ha struttura granulosa che si compatta con la stagionatura, e consistenza burrosa in bocca, con sentori di bosco e fieno, per terminare via via più piccante con il passare del tempo. Sembra che il vero segreto stia nel sale: se il tempo è stato umido, si mette più sale; se invece è stato secco e il formaggio ha avuto modo di seccarsi per bene, se ne mette meno. Un casaro esperto è in grado di capire quanto sale ci vuole al primo assaggio.
Terminata la spiegazione (purtroppo senza assaggio), ci fermiamo a cena da Gjyustina che ci offre, come piatto forte, un delizioso agnello cucinato in forno a legna, con patate.
Le chiacchiere del dopocena vertono soprattutto sul futuro del presidio Slow Food e degli altri progetti di sviluppo messi in piedi dal VIS qui nel Kelmend. Abbiamo saputo che purtroppo è recentemente scomparso a 71 anni, quando si preparava a godersi la pensione, Pier Paolo Ambrosi, un operatore che stando a quello che ci raccontano tutti qui è stato veramente una figura di straordinaria importanza nel pensare e realizzare questi progetti. Ce ne parlano come di una persona con grande visione e grande capacità di coinvolgere le persone, con profonda conoscenza della storia albanese e disponibilità ad aiutare chiunque cercasse supporto. Gjyustina sembra rimpiangerlo al punto da ritenerlo praticamente insostituibile, anche se esprime stima per Anna e per gli altri giovani operatori. Noi ci auguriamo che il suo pessimismo sia ingiustificato, perché anche se in soli due giorni abbiamo avuto un’idea dell’importanza del lavoro che il VIS ha svolto qui, e Anna ci è sembrata molto decisa a portarlo avanti, anche per la gratitudine che lei stessa sente nei confronti di Pier Paolo.

https://www.volint.it/vis-nel-mondo/albania

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https://www.fondazioneslowfood.com/it/presidi-slow-food/mishavin/

Per noi, comunque, domani mattina verrà il momento di partire e di scavalcare anche noi le montagne maledette per continuare la nostra avventura in Montenegro.

(TO BE CONTINUED…)