Dalle montagne “maledette” del Kelmend alle Bocche di Cattaro con Confluenze a sudest-Viaggi e Miraggi
4: Le Bocche di Cattaro
Martedì 30 agosto 2022
Ci svegliamo tra le montagne ancora cariche di umidità, ed è già l’ora di ripartire verso Cetinje, l’antica capitale del Montenegro. Dobbiamo prima passare dall’officina meccanica per cambiare il tappo del radiatore, e poi si va.


Cetinje (in italiano Cettigne), che oggi ha circa 15.000 abitanti, fu fondata nel 1482, quale ultima roccaforte del re dello stato medievale del Principato di Zeta, Ivan Crnojevic. Nella ritirata di fronte agli invasori ottomani, il sovrano montenegrino simbolo della resistenza si fermò in una piccola piana in mezzo al paesaggio carsico dell’altopiano del Lovćen, vi costruì il palazzo reale e, dopo due anni, anche il monastero dove s’insediò l’arcivescovo di Zeta. Così questo piccolo e insignificante paesino divenne un fulcro nella storia del Montenegro.
La nascita della nuova Cetinje segna anche la fine dello stato medievale di Zeta e l’inizio della nuova storia montenegrina. Nel 1692 il pascià di Scutari, in un’incursione devastatrice, rase al suolo la città e il suo monastero. Ma in vent’anni la città venne di nuovo ricostruita, per poi essere subito distrutta una seconda volta dal visir turco della Bosnia. Nel 1838 venne costruito il palazzo di Bilijarda, nuova sede reale. Nel periodo di regno del principe Nicola (a partire dal 1860), la città conobbe un periodo di rapida crescita urbana e demografica.
Al Congresso di Berlino, nel 1878, il Montenegro ottenne il riconoscimento anche formale della sua sovranità e questo creò un periodo di pace e di sviluppo di Cetinje. Essendo una capitale, vi furono costruite diverse sedi diplomatiche, come quelle di Austria-Ungheria, Regno Unito, Italia, Russia e Francia, ancora esistenti e considerate tra i più begli edifici della città. Vi fu un grande sviluppo edilizio pubblico, fortemente voluto dal principe Nicola. Con la proclamazione del regno del Montenegro, nel 1910, Cetinje con i suoi 5895 abitanti divenne la più piccola capitale del mondo. Nel 1916 fu occupata dalle truppe austroungariche. Nel 1918, dopo l’unione del Montenegro al neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, la cittadina divenne capoluogo di una delle province di quella che sarebbe poi diventata la Jugoslavia.
La nostra guida a Cetinje sarà Aleksandra detta Saška, che dopo un primo caffè insieme per conoscerci ci porta a visitare il museo dedicato a Re Nicola, che si trova in quello che fu il nuovo palazzo reale, costruito nel 1863. All’interno del museo sono custodite alcune collezioni di armi da fuoco, gioielli, bandiere di guerra, francobolli e medaglie legate alla casata dei Petrović-Njegoš e alla storia del Montenegro. Un’altra sezione del palazzo è invece occupata dagli appartamenti reali arredati e ammobiliati con cimeli.

Re Nicola I (1841-1921) è ricordato per essere stato il primo re e fondatore del Regno (prima il Montenegro era un principato), ma anche perché cinque delle sue figlie sposarono principi o sovrani europei; ciò gli valse l’appellativo di “suocero d’Europa”. Una di loro, la principessa Elena (1873-1952), divenne regina d’Italia sposando Vittorio Emanuele III.
Lei era alta (un fatto di famiglia, oltre che di popolo), e perciò sovrastava il povero “sciaboletta”, che superava a stento il metro e mezzo. Infatti, se ci si fa caso, in quasi tutte le foto di famiglia lei è seduta e lui dietro in piedi…



Saška ci racconta che qui si trova, tra l’altro, la più grande collezione al mondo di bandiere nemiche conquistate in battaglia. Ed ecco subito una conferma della fama dei montenegrini come indomito popolo guerriero, capace di difendere il suo piccolo paese con un orgoglio e un coraggio tali da mettere paura perfino al grande Impero ottomano. Ma non solo, pare che siano anche il popolo più alto in Europa. Petar II Petrović-Njegoš, il personaggio forse più importante dell’intera storia montenegrina, che fu principe, vescovo e poeta, era alto 2,10 m. Oggi saliremo sul monte Lovćen per visitare il suo mausoleo.
Ma c’è anche la gusla, il più tipico strumento della musica popolare montenegrina: è uno strumento monocorde, con la cassa ricoperta di pelle e l’unica corda fatta di trenta crini di cavallo, che si suona con un archetto fatto anch’esso di crine di cavallo. E c’è il primo libro stampato in cirillico, un’ulteriore testimonianza dell’importanza di questo piccolo paese nella cultura degli slavi del sud. A proposito di cirillico, però, c’è da dire che oggi qui è molto meno diffuso di quanto ci si potrebbe aspettare, o almeno di quanto mi aspettavo io. È veramente raro, soprattutto nelle zone centrali, sia qui a Cetinje che a Podgorica, vedere un’insegna o un cartello stradale in cirillico. Mi aspettavo di trovare segnalazioni bialfabetiche, invece quasi ovunque predomina l’alfabeto latino. Forse è un altro segno della volontà del paese di entrare in Europa (pur essendo l’adesione all’UE ancora una prospettiva lontana, il Montenegro ha già adottato l’euro), oltre che della sua antica vocazione turistica.

Usciti dal museo, c’è tempo per un giro del centro città e per conoscere un po’ meglio Saška. Chiacchierando si va sul discorso del luogo comune che, nei Balcani occidentali, appiccica ai montenegrini l’etichetta di popolo pigro e indolente. Mi torna in mente un episodio del viaggio sul Danubio serbo di sei anni fa: A Belgrado, una sera, al bar del centro sociale Grad era nata una discussione tra me e Milan, un giovane artista serbo che aveva le barche come suo soggetto preferito, e quindi era perfetto per una navigazione sul Danubio. Tutto era partito dal fatto che quella sera io indossavo la maglia della Stella Rossa di Belgrado, e avevo spiegato a Milan che me l’ero comprata a Belgrado qualche anno prima perché ero un vecchio ammiratore della Stella Rossa dei primi anni ’90 e soprattutto del montenegrino Dejan Savičević, che poi venne a giocare nel Milan e diventò quello che forse è a tutt’oggi il mio più grande idolo calcistico. Lui, pur dichiarandosi tifoso della Stella Rossa, non era affatto d’accordo: per lui Savičević, proprio perché montenegrino, era “a lazy bastard” (il dialogo, non conoscendo io che poche parole di serbo, avveniva in inglese) e lo era anche in campo. Ma non solo, aveva anche l’altro grave torto di essersi sempre definito montenegrino e non serbo, mentre a detta di Milan i montenegrini sono serbi anche se non lo sanno, in realtà non esiste un popolo montenegrino. Questo mi sembrò abbastanza curioso, avendo lui appena finito di dire che i montenegrini sono pigri. Ma tant’è… in contrapposizione, mi citò invece Siniša Mihajlović come esempio di un vero campione che era affidabile in campo e fuori, un vero patriota serbo. Ora, è anche vero che quella sera entrambi avevamo bevuto un po’ (lui di più), e ho saputo poi che a lui l’alcol fa spesso questo effetto, tira fuori il nazionalista che è in lui. Ma il fatto è che credo che non siano pochi i serbi che la pensano così, perciò… chiedo scusa per essermi perso un attimo in un aneddoto personale, ma mi sembrava interessante per spiegare lo strano rapporto di amore-odio che c’è tra montenegrini e serbi, due popoli che sono stati sempre fratelli, uniti anche dalla confessione religiosa ortodossa, ma allo stesso tempo rivali, con i serbi accusati dai montenegrini (come storicamente da altri popoli ex jugoslavi) di volerli egemonizzare. Oggi in Montenegro i serbi sono circa il 30%, quindi ancora una comunità molto forte; teniamo conto che i montenegrini “doc” sono “solo” il 45%, essendo presenti anche bosniaci e albanesi, altre due minoranze che hanno anch’esse un certo peso.
Ci sediamo a mangiare un panino, ovviamente con prosciutto crudo affumicato e formaggio di capra (la classica combo montenegrina), e poi si riparte su un’altra strada tutta curve che si inerpica sul monte Lovćen fino al mausoleo dell’eroe nazionale montenegrino a cui dobbiamo rendere omaggio (anche se ho già detto che per me il vero eroe montenegrino è un altro…). Si dice che sia proprio questo monte, con le sue foreste, quello che dà il nome al paese. Sarebbero stati gli ottomani a chiamarlo in turco Karadağ (monte nero), che poi sarebbe passato ad indicare tutto il paese e sarebbe diventato Crna Gora.
Anche oggi purtroppo le nuvole si stanno addensando e infatti, proprio mentre arriviamo al mausoleo, si mette a piovere, ma per fortuna è una pioggia leggera.



Petar II Petrović Njegoš (1813 – 1851) è una figura complessa: fu Vladika, cioè vescovo e sovrano del Montenegro, ma anche poeta, e un grande poeta, uno dei protagonisti della letteratura slavo-meridionale.
Il suo capolavoro, Il serto della montagna, è un lungo poema che esprime il dramma di un piccolo popolo che, stretto tra le grandi potenze – in primis l’Impero Ottomano, per il quale quella piccola isola di terra libera rappresentava un disturbo continuo, poi l’Austria e la Russia – e i problemi tribali interni, lottava per la propria sopravvivenza. Il Montenegro, guidato dai sovrani della stirpe dei Petrović, faticosamente ma con incredibile tenacia militare e saggezza politica riuscì a navigare libero nelle acque dominate dalle grandi potenze di allora.
Ci sono dei montenegrini che conoscono a memoria questo poema, tanto glorificato da parte serba e montenegrina (spesso al di fuori di ogni realistica considerazione sulla storia e la letteratura), quanto negato e accusato dai musulmani bosniaci in quanto fonte del nazionalismo panserbo e invito alla pulizia etnica e al genocidio degli anni novanta.
Rade Tomov, nipote di Petar I Petrović, aveva solo diciassette anni compiuti quando, nel 1830, dovette prendere il trono del sovrano e la tonaca di vescovo. Era colto, con una grande conoscenza della filosofia greca. Su di lui si sono tramandati vari episodi tra storia e leggenda: si dice che vendette a Trieste la medaglia con cui era stato decorato dal principe austriaco Metternich per comprare del grano per il popolo affamato, e che a Roma, nella chiesa di San Pietro in Vincoli che custodisce le catene di San Pietro, a proposito dell’usanza di baciarle disse: ‘I montenegrini non baciano catene’.
La vetta del monte, a 1660 m, è dominata dal mausoleo. Per arrivarci bisogna fare 461 scalini, ma in premio c’è un punto panoramico da cui si può godere la vista sul mare Adriatico e su molte vette montenegrine.
Il mausoleo è stato costruito nel 1974, in epoca socialista. La statua è opera del grande scultore croato Ivan Meštrović. Prima qui si trovava una piccola cappella disegnata dallo stesso Njegoš, che aveva scelto personalmente il luogo della propria sepoltura. Quando gli chiesero perché avesse scelto proprio questa cima, che non è la più alta, pare che disse “Perché sono sicuro che un giorno nascerà un montenegrino più grande di me”. Lui era grande anche di statura, essendo alto 2,10 m. Ma il suo fisico venne minato dalla tubercolosi contratta in giovane età. Viaggiò molto anche in Italia: Venezia, Roma e Napoli, dove andò proprio per curare la sua malattia. Ma all’epoca non esistevano cure efficaci, e così morì a soli 38 anni. Era nato nel villaggio di Njeguši, luogo di origine di tutti i sovrani montenegrini, in una modesta casa di due piani: il piano terra faceva da stalla e in una stanza si produceva il formaggio, mentre al primo piano viveva la famiglia.



Dal mausoleo si scende verso Cattaro per un’altra strada bellissima ma che mette a dura prova chi soffre la macchina con i suoi 25 tornanti: non per niente è chiamata la serpentina, fu costruita ai tempi dell’impero asburgico. Da alcuni punti panoramici si gode una vista sulle Bocche di Cattaro davvero stupenda.


Arriviamo nel pomeriggio, in tempo per un bel giro della città accompagnati da Saška.
Cattaro (Kotor) è un gioiello che pare scolpito nella pietra ai piedi della montagna e in cui è facile perdersi tra stradine, piazzette e corti rinascimentali. La città si specchia nelle sue Bocche, un’articolata serie di profondi bacini perfettamente riparati dal mare aperto, che costituiscono il più grande porto naturale del mare Adriatico e che ricordano vagamente, per il loro profilo frastagliato, i fiordi norvegesi. Vengono spesso definite i fiordi del Mediterraneo.


Cattaro venne fondata durante il periodo romano, quando era conosciuta come Acruvium. Faceva parte della provincia romana della Dalmatia, venendo menzionata per la prima volta nel 168 a.C. come Ascrivium o Ascruvium. Fu poi dotata di fortificazioni fin dal 535, quando l’imperatore romano Giustiniano fece costruire una fortezza sulla collina sovrastante la città in seguito all’espulsione dalla zona dei Goti.
Nel 1002 la città fu gravemente danneggiata durante l’occupazione dei Bulgari e l’anno seguente fu ceduta alla Serbia dallo zar bulgaro Samuele, ma i cittadini insorsero spalleggiati da Ragusa (Dubrovnik). Cattaro si sottomise solamente nel 1184 al protettorato serbo, preservando intatte le sue istituzioni repubblicane ed il suo diritto di concludere trattati e dichiarare guerra.
Poco prima della caduta della Serbia Cattaro, temendo di essere annessa all’Impero ottomano, si rese indipendente decidendo di chiedere protezione ad una potenza vicina; perciò domandò ripetutamente alla Repubblica di Venezia, a partire dal 1396, di entrare nei suoi domini, ma quest’ultima per ben sette volte declinò l’invito, in considerazione dei gravosi oneri che avrebbe comportato l’annessione. All’ottava richiesta, dopo aver ponderato a lungo l’impegno, nel 1420 il Senato veneziano accolse Cattaro tra i suoi domini investendo un patrimonio ingente nella costruzione della poderosa fortificazione, ancora perfettamente conservata; ancora oggi, a Venezia, si usa dire di un’amante troppo pretenziosa “Ti me costi come i muri de Cattaro“.
La Repubblica di Venezia confermò gli antichi privilegi della città e ne fece la sede di un Rettore e di un Provveditore, incaricato dell’amministrazione della giustizia civile e criminale, nonché di un Camarlengo, cui era affidata la riscossione delle entrate e la gestione delle finanze pubbliche. Dopo la caduta di Scutari, conquistata dall’Impero ottomano, Cattaro divenne il capoluogo della cosiddetta Albania Veneta. Il governo della città, che era di tipo aristocratico, si ispirava al modello veneziano, con un Maggior consiglio composto di soli nobili, un Minor e segreto consiglio di sei membri e un Senato (o Consiglio dei Pregati) di quindici. Il territorio del comune di Cattaro confinava con l’Impero ottomano e con il Montenegro comprendendo le terre di Perasto, Dobrota e Perzagno, ognuna delle quali aveva un proprio consiglio che eleggeva le varie autorità locali.
In epoca veneziana su Cattaro si abbatterono numerose disgrazie: la città venne assediata dall’Impero ottomano nel 1538 e 1657, flagellata dalla peste nel 1572 e semidistrutta dal terremoto del 1563 e soprattutto da quello devastante del 1667, nel corso del quale crollarono la facciata della cattedrale di San Trifone con il campanile e il palazzo del Rettore.
Il dominio veneto lasciò comunque una profonda impronta nella struttura urbana di Cattaro e nei suoi costumi. L’italiano fu la lingua usata in tutti gli atti pubblici e nell’insegnamento, soprattutto per la spinta del ceto nobiliare e della potente classe dei mercanti e capitani marittimi.
Col trattato di Campoformio del 1797 la città passò all’Arciducato d’Austria, ma nel 1805, con la pace di Presburgo, fu assegnata al Regno d’Italia napoleonico, ed infine annessa nel 1810 alle Province illiriche dell’Impero francese, dove divenne capoluogo di un dipartimento. Dopo il suo assedio nell’ottobre 1813 – gennaio 1814, la città fu restituita all’Impero austriaco in seguito al Congresso di Vienna (1815) e rimase austriaca fino alla Prima guerra mondiale, per poi passare alla nascente Jugoslavia.
È chiaro, quindi, che questo pezzo di costa montenegrina ha avuto una storia profondamente diversa da quella dell’entroterra montuoso, che nello stesso periodo è stato prima ottomano e poi un principato indipendente. A tutt’oggi si può dire che, dal punto di vista culturale, siano due mondi abbastanza diversi che convivono nello stesso piccolo paese.

Cattaro possiede un centro storico di epoca medievale che è tra i meglio conservati della costa adriatica, tant’è vero che è inserito nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’UNESCO. Tra le architetture più importanti ci sono la cattedrale di San Trifone (consacrata nel 1166) e le fortificazioni, che come detto risalgono all’epoca della Repubblica di Venezia e che hanno una lunghezza di circa 4,5 km.
Noi partiamo dalla piazzetta dove si trovano la chiesa ortodossa di San Nicola e quella di San Luca. I palazzi che si affacciano sulla piazza appartenevano un tempo alle famiglie nobili della città, tra cui ve ne erano di molto importanti e influenti. Il marmo dei palazzi – ci racconta Saška – veniva dall’isola di Korćula, ed era più pregiato del marmo locale. Ogni piazza porta il nome dell’attività che vi si svolgeva: c’è la piazza dei casari, quella dei verdurai, quella della cattedrale, della chiesa ortodossa, e la piazza d’Armi.
La chiesetta di San Luca con la sua storia testimonia la serena convivenza della popolazione cattolica con quella ortodossa. È una costruzione romanica, dalle dimensioni modeste e armoniose. Fu costruita durante il regno di Stefano Nemanja nell’anno 1195. Ha delle caratteristiche sia dell’architettura romanica che di quella bizantina. L’interno è a navata unica, suddivisa in tre arcate e con una bassa cupola poggiante su una base quadrata, secondo una tipologia caratteristica dell’architettura serba dell’epoca. L’iconostasi è opera di Dascalo Dimitrije, capo della scuola di pittura Rafalović del XVII secolo, originaria delle Bocche di Cattaro.
Questa chiesa era inizialmente di culto cattolico fino al XVII secolo, quando a causa delle continue guerre e per il grande afflusso di popolazioni dall’interno verso Cattaro essa fu data in uso anche ai fedeli ortodossi. Dall’anno 1657 al 1812 fu caratterizzata dalla presenza di due altari, uno cattolico e uno ortodosso, posti fianco a fianco, con le due comunità che si alternavano nelle funzioni. In seguito l’edificio fu donato alla chiesa ortodossa.



Molto importante, nella tradizione ortodossa degli slavi del sud, quindi in Serbia e anche in Montenegro, è il culto dei santi. Ogni famiglia, tradizionalmente, ha un suo santo patrono che si tramanda di padre in figlio, seguendo una linea maschile. E ogni anno si celebra la slava, che consiste in un rito durante il quale si rende omaggio al santo patrono della propria famiglia nel giorno in cui ne ricorre la festa. Durante la celebrazione si preparano piatti tipici della tradizione serba da condividere con familiari e amici, tra cui il kolač (una forma di pane rituale) e il koljivo (un piatto a base di grano bollito). Entrambi i piatti vengono benedetti da un sacerdote che visita la casa della famiglia che festeggia il proprio patrono.
Mentre prendiamo un caffè, Saška ci racconta la leggenda delle tre sorelle. Il Palazzo costruito nel quindicesimo secolo oggi chiamato «Tre sorelle» apparteneva alla famiglia Buća, di nobili origini, ed è legato alla leggenda di tre sorelle innamorate dello stesso capitano che aspettano tutta la vita il suo ritorno perché scelga una di loro da prendere in sposa. La leggenda racconta che le sorelle erano molto note per la loro bellezza, onestà e rettitudine. Il capitano, non potendo decidere a quale delle tre regalare il suo amore, se ne partì per una lunga navigazione con l’intenzione di prendere una decisione al suo ritorno. Le tre sorelle aspettavano giorno e notte il suo ritorno, ognuna affacciata ad una delle tre finestre del palazzo. Ad ogni nave che avvistavano in lontananza, speravano che fosse il loro amato. Si erano promesse che, se una di loro fosse morta, le altre avrebbero cementato la sua finestra affinché il capitano potesse vedere quale delle tre non era più in vita. Le prime due finestre ad essere cementate furono quelle di Graziana e Filomena. Quella di Rina invece, ultima a morire, è tuttora aperta, come se stesse ancora aspettando il ritorno del capitano Jerko… essendo i nomi delle tre sorelle italiani, si suppone che l’origine della leggenda sia da attribuire al periodo della dominazione veneziana.
Un’altra storia a metà tra verità e leggenda popolare è quella della carampana di Cattaro. L’etimologia della parola carampana è dibattuta, non ne esiste una certa. Si sa che è veneziana, una delle ipotesi più plausibili è che derivi da Ca’ Rampani, un palazzo nobiliare veneziano che divenne a un certo punto il centro di un rione frequentato da prostitute, alcune delle quali non più giovanissime. Qui a Cattaro esiste un’altra versione che ruota intorno a una fontana chiamata appunto carampana, presso la quale si riunivano e spettegolavano le serve mandate a prendere l’acqua da portare nelle case dei nobili. Secondo la leggenda, questa fonte era diventata l’unico luogo della città dove prendere acqua dolce dopo che la fata della montagna, indispettita con gli abitanti, aveva reso salate tutte le sorgenti. Nel centro storico le case sono molto ravvicinate e le strade strette, anche per questo era abbastanza difficile mantenere a lungo un segreto. Una di queste stradine, larga un metro o poco più, è chiamata “Lasciami passare”, proprio perché è talmente stretta che bisogna passare uno alla volta.


La piazza più grande è la Piazza d’Armi, che ospita la Torre dell’Orologio, il Palazzo Ducale, l’edificio dell’arsenale e il teatro. In epoca veneziana era il luogo adibito al deposito e alla riparazione delle armi, da cui naturalmente il nome.


La cattedrale cattolica è dedicata a San Trifone ed è stata costruita tra il 1124 e il 1166, quando la chiesa, in stile romanico con elementi di architettura bizantina, è stata solennemente consacrata. La chiesa è stata gravemente danneggiata e ricostruita dopo il terremoto del 1667, nel quale sono andati perduti la facciata ed i campanili originali. Un altro forte terremoto nell’aprile 1979 ha notevolmente danneggiato l’edificio, successivamente sottoposto a restauro.

Oggi Cattaro ha soltanto 1000 abitanti circa che ci vivono tutto l’anno, anche perché la gentrificazione legata allo sfruttamento turistico anche qui è stata tale che in centro le case arrivano a costare 5000 euro al metro quadro. L’80% della popolazione maschile lavora nella navigazione, che insieme al turismo è l’attività fondamentale da queste parti.
Concludiamo il giro con Saška uscendo dalla città vecchia dalla porta principale, che guarda il mare. Sulla porta è scolpita la data di liberazione della città dai nazisti (21/11/1944), sormontata da una stella, e una storica frase di Tito: Ciò che non è nostro non lo vogliamo, ciò che è nostro non lo diamo.



Andiamo poi a sistemarci nelle nostre stanze all’hotel Marija, che si trova in pieno centro e che sarà la nostra casa per due notti. A seguire una bella cena a base di pesce in un ristorante nella zona del porto e una birra in un bar della città vecchia, con in sottofondo diverse musiche di diversi generi, provenienti da vari angoli, che rimbalzando sui muri di pietra creano il sound della notte di Kotor. Il centro storico è sicuramente diventato troppo turistico e ha perso di autenticità, ma se si riesce a isolarsi per un attimo e ad abbassare il volume di tutto il resto mantiene il suo fascino.
Mercoledì 31 agosto 2022
Oggi è “il giorno” delle Bocche di Cattaro: cercheremo di immergerci nella loro storia e di apprezzarne fino in fondo la bellezza, con una navigazione che ci porterà alle celebri isole e ci darà la possibilità, finalmente, anche di un bel bagno, perché no?
Per iniziare ci spostiamo in pullmino a Dobrota, dove ci sediamo a prendere un caffè con Aleksandra, architetto e attivista locale della ONG Expeditio, che si occupa di valorizzazione e salvaguardia dei paesaggi culturali e naturalistici delle Bocche.
Lei, con due colleghe, ha fondato questa ONG 25 anni fa, quando erano tutte e tre studentesse di architettura a Belgrado. Lei poi è tornata qui e le sue colleghe belgradesi hanno deciso di trasferirsi per iniziare questa attività. Il primo progetto ha preso forma a Perasto nel 1997; da studentesse, si erano accorte che nella facoltà di architettura mancava un po’ di lavoro di ricerca sul campo e, con un gruppo di 16 studenti, hanno portato avanti una ricerca da cui è nato un libro intitolato “Perasto – Trecento anni di solitudine”. Allora questa zona non era così turistica come oggi ed era meglio conservata. Con questa ricerca, loro hanno individuato un periodo che rappresenta l’apogeo della città che coincide all’incirca con il periodo veneziano (1420-1797), in cui Perasto aveva un importante ruolo sia strategico-militare che commerciale, seguito però da quasi 300 anni di decadimento e sostanziale abbandono. Già nel ‘700 infatti, quando la Repubblica di Venezia volge al declino, inizia anche la decadenza della città, solo in parte compensata da un forte sviluppo della cantieristica navale, in particolare per quanto riguarda i velieri. Con l’arrivo degli austroungarici inizia un nuovo periodo a livello politico, ma i fasti dell’epoca della Serenissima non torneranno più e anzi la città attraverserà il ‘900 dovendo fronteggiare due guerre mondiali e poi il periodo di isolamento della Serbia, e con essa del Montenegro, a partire dai conflitti degli anni ’90; all’epoca del progetto si era nel pieno di questo periodo, contemporaneamente chiudeva la fabbrica che era stata aperta subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale e che aveva dato lavoro a moltissime persone, e non c’era praticamente turismo. Un’altra Perasto rispetto a quella di oggi, fin troppo sfruttata sotto l’aspetto turistico.
Quel libro è stato il punto di partenza di una serie di progetti, sempre concentrati sull’area delle Bocche, compresi i villaggi dell’interno, con l’obiettivo di valorizzarne l’eredità storico-culturale e il patrimonio naturalistico. La qualifica di Patrimonio UNESCO era arrivata per le Bocche già nel 1979, prima area dei Balcani ad ottenere questo riconoscimento. Fu subito considerato un patrimonio a rischio, perché usciva da un violentissimo terremoto che si era verificato nello stesso anno. Successivamente, nel 2003, l’area fu tolta dalla lista dei patrimoni a rischio perché nel frattempo la ricostruzione era stata terminata. Ma nello stesso tempo la commissione dell’UNESCO, già allora, metteva in guardia sui rischi che uno sviluppo intensivo e poco o per nulla controllato del turismo, con contorno di urbanizzazione selvaggia, poteva comportare per un territorio con queste caratteristiche. Sebbene l’UNESCO abbia provato in questi anni a monitorare lo sviluppo e a dare direttive in questo senso – dice Aleksandra – deve essere lo Stato a svolgere il ruolo decisivo, e qui purtroppo è stato fatto poco. Ancora non si riesce a cogliere l’eccezionale valore di questo territorio, senza contare che l’urbanizzazione, se dovesse comportare un ulteriore detrimento del patrimonio forestale, potrebbe anche porre problemi sul piano del rischio idrogeologico. Se non altro, almeno dopo il 1979 tutte le nuove costruzioni sono state realizzate secondo criteri antisismici.


La costa montenegrina, in anni recenti e in particolare dopo la nuova indipendenza del 2006, ha sofferto di una cementificazione selvaggia, in buona parte a causa dell’arrivo di investitori russi interessati a creare grandi resort, villaggi turistici e hotel di lusso a due passi dal mare. Budva, che noi per scelta non vedremo se non di passaggio, è l’esempio più clamoroso di questa deriva.
https://www.expeditio.org/index.php?lang=en
Dopo questa introduzione, Aleksandra ci porta a vedere alcuni dei palazzi storici che non mancano sul lungomare di Dobrota. In passato ogni casa, qui, aveva un accesso al mare e dietro terrazzamenti coltivati verso la montagna.
Il palazzo della famiglia Ivanović, costruito nella seconda metà del XVIII secolo, è uno dei più notevoli edifici della costa. La famiglia Ivanović, una delle più ricche di Dobrota, all’inizio del XIX secolo, possedeva 11 case e 28 navi che viaggiavano per commercio verso i porti italiani e albanesi (all’epoca l’Albania era parte dell’Impero ottomano). I più famosi membri della famiglia ricevettero l’Ordine dei Cavalieri di San Marco per aver sconfitto i turchi nella battaglia del Pireo del 1756.

Palazzo Tripković, costruito alla fine del XVIII secolo, è un’altra dimora nobiliare di una importante famiglia locale. I Tripković possedevano 18 navi e avevano un ruolo essenziale nella vita di Cattaro nel commercio, nella navigazione, nella cantieristica navale e nella cultura, tant’è vero che 63 membri della famiglia furono capitani di una nave. Il palazzo ha il suo molo davanti ed è costruito in pietra di Korćula. Ha tre piani e un belvedere con un frontone barocco coronato da una piccola torretta. Sull’arco del portale del muro di cinta è scolpito lo stemma familiare.

Anche palazzo Dabinović ha vissuto certamente giorni gloriosi e si intuisce, ma oggi è purtroppo in rovina.


Ci spostiamo poi da Dobrota a Perasto, l’altra cittadina di chiara impronta veneziana che è un vero gioiello della costa montenegrina. Inizialmente – ci spiega Aleksandra – non tutta la baia era veneziana, ma solo Cattaro, Perasto e altre piccole città. Il resto rimase sotto i turchi fino al 1686, dopo di che Venezia arrivò anche lì.
Davanti a noi vediamo le isole di San Giorgio e della Madonna dello Scalpello. L’isola di San Giorgio, detta anche l’Isola dei morti, ospita dal XII secolo un monastero benedettino e il cimitero riservato alla nobiltà di Perasto. Quella della Madonna dello Scalpello è invece un’isola artificiale, fondata secondo la leggenda locale nel 1452, quando due fratelli di Perasto scoprirono un’icona della madonna su uno scoglio e decisero di costruire una piccola cappella. L’isola, nel tempo, fu poi ingrandita continuando a gettare pietre e usando anche relitti di vecchie navi riempiti di pietre. Ancora oggi ogni 22 luglio c’è la tradizionale fascinada, che prevede che gli abitanti carichino pietre sulle barche e vadano a gettarle simbolicamente intorno all’isola, cantando canzoni tradizionali. Le isole quindi sono fortemente collegate con Perasto sul piano culturale e simbolico. La posizione di Perasto era strategica, ma la pietra calcarea delle montagne dietro la città non lasciava spazio all’agricoltura, quindi i suoi abitanti cercavano terra coltivabile a Kostanijca, sulla sponda opposta del fiordo, dove in passato ci sono stati anche vigneti, o anche nelle isole. Guardando le isole da qui, e confrontando la vista di oggi con una foto di prima del 2006, risulta evidente come la speculazione edilizia abbia colpito anche qui, in un’area che dovrebbe essere protetta, e abbia rovinato un paesaggio davvero unico.
Cattaro e Perasto sono due città che acquisirono importanza solo nel medioevo, mentre la città più antica della baia è Risan, che si trova solo a un paio di km da qui, dove ci sono resti romani e illirici. Risan fu la città della regina illirica Teuta, che si spostò qui da Scutari nel III secolo a.C. sotto la spinta dei romani.

Noi ci facciamo un bel giro a Perasto, partendo dal lungomare per poi spingerci un po’ verso l’interno. Sul lungomare si può vedere anche la vecchia casa della famiglia di Rosa che, dopo essere stata nella Jugoslavia di Tito una fabbrica di tute per gli operai, poi chiusa negli anni ’90, negli ultimi anni è stata ristrutturata e ingrandita per trasformarla in un hotel di lusso.






Vicino c’è la chiesa di San Nicola, l’incompiuta chiesa parrocchiale iniziata nel 1740 su progetto dell’architetto veneziano Giuseppe Beati. Furono costruiti solo il campanile alto 55 metri e l’abside accanto alla precedente vecchia chiesa di San Nicola. La costruzione della nuova chiesa avrebbe dovuto celebrare la conquista veneziana di Herceg Novi, strappata ai turchi. La chiesa possiede una ricca collezione di oggetti sacri e dipinti dell’epoca barocca.



Tra i tanti palazzi barocchi di Perasto spicca palazzo Zmajević, che era il palazzo vescovile.
Una visita a Perasto non può essere completa senza vedere il museo cittadino. Attraverso gli oggetti della collezione navale che sono esposti al piano terra del Museo – modelli di nave, dispositivi di navigazione, cartografia e una parte delle armi dalla collezione etnografica, il visitatore scopre i fatti più importanti legati allo stile marittimo e alla vita della città nei secoli passati. Nel salone al primo piano del museo si possono conoscere i più importanti abitanti di Perasto attraverso ritratti, stemmi, bandiere, rappresentazioni delle loro navi in mare e in battaglia. Tra gli altri ritratti, Eugenio fa notare a chi come me è stato con lui a Sulina, sul delta del Danubio, quello di Viekoslav Visković, membro di una delle più importanti famiglie perastine, che come diplomatico fu mandato, nel periodo austroungarico della città, a Salonicco e proprio a Sulina, all’epoca della Commissione Europea del Danubio.




Sotto la Serenissima la piccola Perasto (allora aveva 2000 abitanti, oggi solo 400) diventò un centro mercantile e di riparazione di barche (con quattro cantieri navali) e si sviluppò sia dal punto di vista economico che artistico. Ricevette il titolo di fedelissima gonfaloniera e il privilegio di conservare in tempo di pace il vessillo da guerra della Repubblica, quello che durante gli scontri veniva issato sull’albero maestro della nave ammiraglia.
La fedeltà fu tale che Perasto fu l’ultima cittadina ad ammainare la bandiera di San Marco. Siamo nell’agosto 1797, tre mesi dopo l’annuncio dell’abdicazione del Maggior Consiglio. La flotta austriaca entra nelle Bocche di Cattaro per prendere possesso degli ormai ex territori della Repubblica e solo alla vista di quelle navi Perasto si convince a dare l’addio a Venezia. Il suo capitano tiene allora un discorso celebre ancora oggi ricordando i 377 anni di unità e fedeltà, fino a concludere con il citatissimo motto “Ti con nu, nu con ti” (Tu con noi, noi con te). Secondo la tradizione poi gli abitanti di Perasto, con le lacrime agli occhi, nascondono la bandiera in uno scrigno d’argento posto sotto l’altare, nell’attesa della rinascita della Serenissima. Durante l’occupazione fascista quello scrigno fu cercato dappertutto, ma mai trovato.
Noi, dopo tanta storia e cultura, abbiamo bisogno anche di un po’ di cultura… del cibo e quindi andiamo all’appuntamento con Luka, che ci ospita nel suo piccolo allevamento biologico di ostriche e cozze per un lauto pranzo, ovviamente a base di frutti di mare. C’è tempo per un velocissimo bagnetto, per chi ne ha voglia, e poi ci buttiamo avidamente sui molluschi. Non senza una spiegazione da parte di Luka, che ci aiuta a comprenderne meglio la vita, prima di addentarli. Ad esempio, lo sapevate che le cozze femmine sono di color arancio, mentre i maschi sono bianchi?





Nelle Bocche ci sono 21 allevamenti, di cozze, ostriche e anche di pesce (orate, branzini e spigole). Sono tutti piccoli, a gestione familiare, tranne due che sono un po’ più grandi e organizzati. È interessante anche il nome del paese di Stoliv, che si può tradurre come cento ulivi, e deriva da un’antica tradizione secondo cui ogni uomo del paese, per la sicurezza della propria famiglia, doveva piantare cento ulivi. Oggi lì si trova uno degli allevamenti più grandi. Il sistema tradizionale di allevamento prevede l’uso di due grandi cime sulle quali le cozze si attaccano.
Comunque siano state allevate, vi devo dire che sono tra le più saporite che abbia mai mangiato.
Satolli e soddisfatti, ripartiamo per la navigazione. Il nostro capitano, subito soprannominato Capitan Findus per via della lunga barba bianca – ma decisamente più aitante e piacione del vecchietto della pubblicità della nostra infanzia –, ci porterà un po’ a zonzo per le Bocche, per permetterci di guardare dal mare le cittadine, con i loro palazzi e i loro campanili, e le spettacolari sponde di questi fiordi del Mediterraneo. Ci offre un bicchierino di rakija (non poteva mancare) e si parte.






Facciamo tappa all’isola della Madonna dello Scalpello, per visitare il santuario. La prima chiesa conosciuta fu costruita sull’isolotto nel 1452. Nel 1632 fu edificata l’odierna chiesa della Madonna dello Scalpello, ampliata nel 1722 con la costruzione della grande cupola. La chiesa, restaurata dopo il terremoto del 15 aprile 1979, contiene 68 dipinti del pittore veneziano Tripo Cocoglia (Tripo Kokolja), famoso artista barocco del XVII secolo originario di Perasto. Ci sono anche dipinti di altri artisti veneziani e un’icona (circa del 1452) della Nostra Signora delle Rocce. La chiesa ospita anche una ricca collezione di 2.500 ex voto d’argento e un famoso arazzo votivo ricamato da Jacinta Kunić-Mijović di Perasto, che lo realizzò nei 25 anni di attesa del proprio amato di ritorno da un lungo viaggio, fino a quando diventò cieca; per il ricamo utilizzò fibre di argento e oro, ma anche i propri capelli.





Dopo di che, è davvero il momento di cercare un punto tranquillo per buttarci in acqua e concederci un bel bagno ristoratore.
Concluso il giro, salutiamo capitan Findus (che in realtà si chiama Ivan) e risaliamo sul pullmino per tornare a Cattaro.





Ci aspetta una cena da una signora “bene” di Kotor, che è in realtà un piano B che Eugenio è riuscito all’ultimo minuto ad attuare per rimediare ad un altro piccolo inconveniente che ha fatto saltare quella che doveva essere una serata musicale. In effetti la signora suona anche il piano, canta bene, è gentile ed elegante nella sua bella casa (ci ha tenuto a farci sapere di essere rotariana), parla un ottimo italiano ma, almeno per me, non è esattamente il mio genere. Detto questo, però, va anche detto che è una grande cuoca! E questo sicuramente compensa tutto il resto.
Un’altra birretta in un locale della città vecchia conclude la nostra seconda (e ultima) serata nelle Bocche: domani ripartiremo per Virpazar e sarà già (purtroppo) l’ultimo giorno pieno di viaggio.
(TO BE CONTINUED…)