Un viaggio con Radio Popolare ripercorrendo i luoghi pasoliniani della capitale a cento (e uno) anni dalla nascita del poeta: Monteverde, Testaccio, Ostiense, Pigneto, fino all’idroscalo di Ostia, luogo in cui Pasolini incontrò la morte… esplorando i luoghi amati e vissuti da lui e quelli percorsi dai personaggi dei suoi film e delle sue opere letterarie
2 – Le Ceneri di Gramsci
Già si accendono i lumi, costellando
Via Zabaglia, Via Franklin, l’intero
Testaccio, disadorno tra il suo grande
lurido monte, i lungoteveri, il nero
fondale, oltre il fiume, che Monteverde
ammassa o sfuma invisibile sul cielo.
Diademi di lumi che si perdono,
smaglianti, e freddi di tristezza
quasi marina… Manca poco alla cena;
brillano i rari autobus del quartiere,
con grappoli d’operai agli sportelli,
e gruppi di militari vanno, senza fretta,
verso il monte che cela in mezzo a sterri
fradici e mucchi secchi d’immondizia
nell’ombra, rintanate zoccolette
che aspettano irose sopra la sporcizia
afrodisiaca: e, non lontano, tra casette
abusive ai margini del monte, o in mezzo
a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi
leggeri come stracci giocano alla brezza
non più fredda, primaverile; ardenti
di sventatezza giovanile la romanesca
loro sera di maggio scuri adolescenti
fischiano pei marciapiedi, nella festa
vespertina; e scrosciano le
saracinesche
dei garages di schianto, gioiosamente,
se il buio ha resa serena la sera,
e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio
il vento che cade in tremiti di bufera,
è ben dolce, benché radendo i capellacci
e i tufi del Macello, vi si imbeva
di sangue marcio, e per ogni dove
agiti rifiuti e odore di miseria.
Da Pier Paolo Pasolini, ‘Le ceneri di Gramsci’, 1954
Venerdì 5 maggio 2023
Il programma di oggi prevede, per la mattinata, una sorta di pellegrinaggio laico sul luogo della morte di Pier Paolo Pasolini, quell’idroscalo di Ostia che è stato purtroppo reso famoso da quell’omicidio e che molti ancora oggi, a Roma e fuori, associano immediatamente, e quasi soltanto, a quella tragica notte.
L’idroscalo di Ostia non è Ostia, non è la Ostia delle spiagge e del porto turistico, a cui è vicino e allo stesso tempo lontano. Eppure è Roma, fa parte del X Municipio di Roma, anche se molti romani non ci hanno mai messo piede. Nemmeno il nostro autista di oggi ci è mai stato, eppure è romanissimo. Abbiamo un autista perché venire qui dal centro di Roma con i mezzi pubblici è praticamente impossibile, ci avremmo messo troppo tempo e non saremmo potuti comunque arrivare facilmente a quell’estrema propaggine di Ostia che sta proprio alla foce del Tevere. Abbiamo preferito quindi noleggiare un minivan con conducente, e anche una macchina perché sul minivan non c’era posto per tutti. Siamo passati davanti al Colosseo per poi imboccare la via Ostiense e percorrere questa trentina abbondante di chilometri nei tempi concessi dal traffico romano.
E ora eccoci qua, nel luogo esatto dove tutto è successo, che abbiamo visto in tante foto e filmati in bianco e nero. È difficile riconoscerlo, avendo in mente quelle immagini. Oggi qui c’è un’oasi della Lipu, e una specie di piccolo percorso della memoria che porta al monumento a Pasolini: Tante pietre con targhe che portano incise nel marmo le parole del poeta. Un parco letterario piccolo ma ben tenuto, che marca un contrasto stridente con il posto squallido e degradato del 1975.





Avremmo dovuto incontrare anche Franca Vannini, che qui ci vive, qui su quello che – sono parole sue – è l’ultimo confine che Roma dimentica da sempre di avere sul mare. Franca oggi è un riferimento per la sua comunità di circa 500 famiglie, di cui è portavoce e che considera tuttora dimenticata dalle istituzioni e dalla politica romana, e per tutti quelli che vengono qui per ricordare Pasolini. Lei di Pasolini ne parla quasi come di un santo laico, che amava l’idroscalo e che ne era riamato. Non vuole assolutamente che si dica che era venuto qui soltanto per consumare del sesso a pagamento con un ragazzo rimorchiato quella sera, che come noi sappiamo bene è una versione dei fatti molto lontana dalla verità. E del resto, Pasolini ha scritto:
Ravenna
Ostia, o Bombay – è uguale –
con Dei che si scrostano, problemi vecchi
– quale la lotta di classe –
che si dissolvono…
Purtroppo Franca oggi non può uscire, un’ultima coda del Covid-19 la costringe in casa, e quindi noi non possiamo fare altro che riascoltare una parte dell’intervista che Claudio le aveva fatto per Le geografie di Pasolini, il podcast con cui Radio Popolare ha celebrato i cent’anni dalla nascita di Pier Paolo.
La riascoltiamo citare Pasolini quando, nell’ultima intervista rilasciata il giorno prima della morte, diceva “Siamo tutti in pericolo”. Se penso a quello che continua a succedere oggi, nell’omologazione e nell’indifferenza generale, dice Franca, mi vengono i brividi. Siamo ancora e più che mai in pericolo se gli intellettuali continueranno a essere strumento del potere, e non a raccontare gli ultimi, come faceva Pasolini. Pasolini ha pagato con il fango e con la morte la sua non omologazione, e il suo sapere oltre le ideologie. L’Idroscalo paga da sempre il suo stesso scotto.





L’idroscalo è un’area che dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale era rimasta deserta e dimenticata. Con il boom economico degli anni ’60 e la nascita delle ferie di massa, alcune decine di famiglie romane vi avevano costruito delle seconde case. Con l’aumento dei prezzi del mercato immobiliare, a questi abitanti stagionali se ne aggiunsero altri più stanziali, che andarono a costituire un vero e proprio villaggio, dove Franca abita ancora con la sua famiglia. Qui oggi ci sono molti stranieri: albanesi, rumeni, egiziani, e molti rom, perché l’idroscalo non fa differenze di alcun tipo. Tutti si aiutano, si fanno delle raccolte di viveri e giocattoli con cui chi può dà qualcosa a chi ha più bisogno. Durante il periodo di chiusura delle scuole per la pandemia, alcune ragazze e ragazzi si sono dati da fare per aiutare i più piccoli che non sempre potevano seguire le lezioni a distanza, per mancanza di attrezzature idonee.
Quando era sindaco, Alemanno cercò di scacciare i residenti di quest’area. Vennero sgomberate 35 famiglie che ancora oggi vivono in un residence, nonostante la promessa di allora di riportarli qui nel X Municipio nel giro di un mese.
Ci sono alcuni progetti speculativi sull’area, tra cui quello del parco fluviale. “Le paperette” – dice Franca – “possono sguazzare, ma le mie nipoti no, non possono giocare dove sono nate”. Il parco dovrebbe portare con sé alberghi e cemento, contro i quali la comunità “Foce del Tevere” si batte, per timore di altri sgomberi forzati; è stata proprio una delle ragioni della sua nascita, e finora effettivamente è tutto fermo. Fanno anche feste e attività per i più piccoli, anche perché qui non c’è davvero niente. Anche per comprare qualsiasi cosa bisogna andare a Ostia Lido, che non è vicinissima; soprattutto se ci devi andare in autobus, perché qui di autobus ne passano molto pochi. Queste “casette” dell’idroscalo vengono ancora considerate abusive, anche se questo è senza dubbio un abusivismo di necessità. Qui i condoni non sono mai arrivati.
E infatti, basta spostarsi di poche centinaia di metri verso la foce del Tevere per vedere ancora qualcosa che somiglia molto a uno slum. Certo, le case sono in muratura, non sono baracche di lamiera, ma il degrado è visibile ovunque. È un posto che fa impressione, si fa davvero fatica a pensare che sia la capitale d’Italia nel 2023. Arriviamo alla foce vera e propria, dove arrampicandosi un po’ si può vedere il punto esatto dove il Tevere si butta nel mare. Appoggiata agli scogli una sedia abbandonata, o forse lasciata lì proprio per chi vuole godersi la brezza marina. L’odore del mare è davvero forte, e a me tornano in mente i primi versi di A Pa’, la canzone che tanti anni fa Francesco De Gregori scrisse per Pasolini: “Non mi ricordo se c’era la luna / e né che occhi aveva il ragazzo / ma mi ricordo quel sapore in gola / e l’odore del mare, come uno schiaffo.”








Essere qui emotivamente è davvero un po’ uno schiaffo, per riprenderci dal quale andiamo a fare una passeggiata all’acquedotto Claudio, dove Pasolini nel 1965 girò alcune scene di Uccellacci e Uccellini. Qui Totò e Ninetto Davoli camminavano, accompagnati dal corvo che rappresentava l’intellettuale marxista, nel film che è una grande allegoria sulla fine delle ideologie (lo sottolineo ancora, girato nel 1965, non so se ho reso l’idea…).
L’acquedotto Claudio fu iniziato da Caligola nel 38 d.C. e terminato appunto da Claudio nel 52. Era un’opera imponente, che si estendeva per 68 km dalle sorgenti nella valle dell’Aniene. Dopo un primo tratto interrato, continuava su arcate di tufo. Da Capannelle, dove ci troviamo, le arcate proseguivano per circa 8 km fino a Porta Maggiore.


Qui nel Parco degli Acquedotti, tra un tennis club e un campo da golf, è ancora possibile ammirarne un bel tratto, che dalla campagna romana va verso il centro di Roma a perdita d’occhio. E non lontano da qui, oltre il Quadraro, a Porta Furba dalla Via Tuscolana si diparte Via del Mandrione, una strada molto lunga e anch’essa carica di ricordi pasoliniani. Non perché Pasolini ci abbia girato qualcosa, ma perché era una zona che frequentava e da cui prendeva ispirazione, dove entrava in contatto con quell’umanità dimenticata che voleva raccontare. È infatti una delle varie zone di Roma citate in Ragazzi di vita.


In questa parte non se ne vedono molte tracce, ma lungo il Mandrione c’erano molti insediamenti dei cosiddetti baraccati, che fin dai tempi di Roma capitale avevano sfruttato le arcate dell’acquedotto per costruire alloggi di fortuna, di solito baracche di lamiera. Loro che spesso avevano costruito le case di Roma capitale una casa non ce l’avevano ed erano costretti a vivere così. Ci abitavano prostitute, magnaccia e comunità di rom e sinti provenienti dall’Abruzzo, dalla Sicilia o da altre regioni del Sud, ma anche impiegati comunali e operai edili. Era un microcosmo variegato dove si poteva trovare un po’ di tutto. Lo vedremo meglio domani, partendo dal Pigneto dove fu girato Accattone. Ma intanto ci ascoltiamo Cristo al Mandrione, una canzone di cui Pier Paolo Pasolini scrisse il testo, con musica di Piero Piccioni. È il lamento di una prostituta che vive tra “quattro muri zozzi, un tavolo, un bidè” e tra le lacrime chiede disperatamente a Gesù Cristo di avere pietà di lei, lei che non è niente mentre lui è il “Re dei re”. Eccola nell’interpretazione di Laura Betti, per cui Pasolini la scrisse.
Cristo al Mandrione – Laura Betti
Torniamo poi verso Termini per prenderci una piccola pausa prima del pomeriggio, che da programma ci porterà a visitare Testaccio e Ostiense. Dato che la cena di ieri sera è stata impegnativa, decidiamo di farci un’insalata in un bar vicino all’albergo per stare un po’ leggeri in vista di un’altra cena che si annuncia… importante, quella di questa sera al Biondo Tevere.
Poi c’è solo il tempo per un po’ di relax e alle 16 abbiamo appuntamento a Piramide con la nostra guida, che ci porterà alla scoperta di due quartieri lontani dalle rotte turistiche più battute: Testaccio e Ostiense. Gabriella Massa, di Roma Slow Tour, di origine napoletana (anzi caprese) ma trapiantata a Roma da più di vent’anni, si presenta con una vivace giacca azzurra (che dice di aver indossato in onore dello scudetto del Napoli) e un sorriso che ci conquista subito.
Piramide, per i romani, è la piramide Cestia, che prende il nome da Caio Cestio che la fece costruire come suo sepolcro tra il 18 e il 12 a.C., in un momento in cui a Roma l’omaggio alla cultura egizia era molto presente. È stata completamente restaurata nel 2015 grazie a un mecenate giapponese, e infatti vederla ora così bianca fa un po’ impressione. Io non tornavo a Roma da una decina d’anni e me la ricordavo coperta da duemila anni di sporcizia. Dalla prima metà dell’Ottocento è inglobata nelle mura del cimitero acattolico di Roma, che sarà la prima tappa del nostro tour pomeridiano. Questo cimitero nacque in realtà già ai primi del Settecento, molti anni prima di essere “istituzionalizzato”, come “cimitero degli inglesi”, anche se non erano solo inglesi ad esservi sepolti. Dal momento che le norme della Chiesa cattolica vietavano di seppellire in terra consacrata i non cattolici – tra cui i protestanti, gli ebrei e gli ortodossi – nonché i suicidi e gli attori, queste persone, dopo morte, erano “espulse” dalla comunità cristiana cittadina e inumate fuori dalle mura o al margine estremo delle stesse. E qui all’epoca eravamo proprio ai margini di Roma. Appena dentro le mura, ma di fatto in aperta campagna.

Oggi il cimitero, con le sue 4000 tombe, è ancora attivo e ancora, come dal principio, destinato agli stranieri non cattolici. Gli italiani non sono ammessi, se non coniugi o figli di stranieri. I primi ad essere seppelliti qui furono i rampolli dell’aristocrazia europea, soprattutto inglesi, che fin dalla fine del ‘600 cominciarono a intraprendere il Grand Tour in Italia per approfondire le loro conoscenze dell’antichità classica e fare… esperienze di vita.
Noi siamo qui più che altro per omaggiare Antonio Gramsci, che fu sepolto prima al Verano e poi trasferito qui, nella tomba di famiglia della moglie russa, nel secondo dopoguerra. Seguiremo anche qui le orme di Pier Paolo Pasolini, che dalla sua visita a questo cimitero ricavò una delle sue poesie più memorabili: Le ceneri di Gramsci. Ci sono anche altri italiani, però, che hanno fatto richiesta direttamente o indirettamente di essere sepolti qui e sono stati accettati: Andrea Camilleri, Carlo Emilio Gadda, Amelia Rosselli, Dario Bellezza. Il cimitero è privato e gestito da una fondazione che riunisce 14 stati. Qui ci sono Keats e Shelley, ed è un cimitero “letterario” per eccellenza perché ci sono più di cento tra romanzi, racconti e poesie che lo hanno come sfondo: ne hanno parlato per esempio Oscar Wilde, D’Annunzio e lo stesso Shelley che dedicò una poesia a Keats.
Noi siamo arrivati con qualche minuto di ritardo sull’ultimo ingresso che sarebbe alle 16.30, prima della chiusura alle 17, ma insistendo un po’ riusciamo a ottenere il permesso di fare solo un passaggio velocissimo sulla tomba di Gramsci, e così facciamo.


Dopo di che si va a Testaccio, che in realtà comincia proprio qui, dalle mura aureliane che lambiscono la piramide Cestia. Il rione (la parola rione deriva dalla contrazione di regione) Testaccio – spiega Gabriella – inizia a essere costruito intorno al 1880. La via Marmorata, una strada importante dal punto di vista commerciale, collegava la porta Ostiense (detta anche Porta San Paolo) e quindi la via Ostiense, che portava al porto marittimo, con l’antico porto fluviale che si trovava proprio qui a Testaccio, in corrispondenza del ponte Sublicio. Testaccio è stato il primo rione operaio di Roma. Qui si è svolta anche la battaglia di Porta San Paolo del settembre 1943, quando l’esercito tedesco e i partigiani italiani si scontrarono mentre i nazisti stavano occupando Roma. C’erano i soldati italiani che, senza ordini nel momento di totale disorientamento seguito all’armistizio, avevano deciso di non buttare la divisa e tornarsene a casa ma di combattere, ai quali si affiancarono cittadini romani e le formazioni partigiane che stavano nascendo. Duri combattimenti interessarono il piazzale della porta, la caserma dei Vigili del Fuoco, il cimitero e tutta la zona circostante.



Arriviamo a Piazza Testaccio, con la fontana che porta scolpite le anfore simbolo del quartiere e del suo monte. Nel 1928 lo scultore Pietro Lombardi realizzò una serie di fontane con i simboli dei rioni romani; per Testaccio non poteva che scegliere le anfore. Il nome Testaccio, infatti, deriva dal latino testae, che significa cocci. Il monte Testaccio, chiamato anche l’ottavo colle, si chiamava mons Testaceum perché è fatto proprio con cocci di anfore.


Durante l’Impero Romano, Roma riceveva un numero infinito di anfore poiché costituivano la base del trasporto di vino, aceto, olio d’oliva, cereali, olive, lupini, uva secca, pesce, salsa di pesce, garum e quant’altro.
Il Monte Testaccio raggiunge un’altezza di 35 metri di altitudine e sono 35 metri totalmente artificiali, creati durante i secoli dal I al III d.C. ammucchiando un agglomerato stimato di circa 26 milioni di anfore. Gli scavi, che hanno interessato solo la sommità del colle, perciò gli strati più recenti, hanno restituito frammenti di anfore per la maggior parte provenienti dalla Betica e dall’Africa, con corpo sferico e marchio di fabbrica su una delle anse o manici.
La maggior parte delle anfore accumulate si rompevano probabilmente tra carico e scarico, perché erano pesanti e fragili, o addirittura nei viaggi. Il porto fluviale (Emporium) era il collettore delle navi romane colme di beni di importazione ed esportazione, e vicino c’erano i magazzini in cui venivano stipati e poi comodamente ridistribuiti. Secondo alcuni autori le innumerevoli anfore, non essendo smaltate al loro interno, non potevano essere riutilizzate come contenitori per altri carichi, potendo quindi essere usate una sola volta; sarebbero state quindi sistematicamente rotte e accumulate fino a formare un vero e proprio monte: un colle artificiale che è quindi un’immensa discarica di cocci.
Molte anfore in realtà venivano riciclate come materiale da costruzione, e che ogni anfora venisse distrutta dopo il viaggio è improbabile. Spesso le anfore venivano spalmate all’interno di pece vegetale che impediva la trasudazione, il che significa che venivano riutilizzate parecchie volte. Pensare che venissero distrutte ogni volta, col traffico enorme che c’era a Roma che contava da un milione a un milione e mezzo di abitanti, vorrebbe dire che tutta l’urbe sarebbe stata tappezzata di cocci. Quello che è certo è che le anfore sono milioni e che i frammenti non sono stati scaricati senza criterio, ma impilati con cura in modo da ridurre al massimo il pericolo di frane. Sulla parte superiore delle anfore veniva sparsa della calce per prevenire il cattivo odore dell’olio rancido.
Quest’area, dove venne costruito il quartiere in occasione di Roma capitale, è una piana che anticamente era interessata appunto dalle strutture commerciali del porto fluviale e quindi non era abitata, anche perché l’Aventino la divide da quella che era Roma antica. Era stata scelta per il nuovo porto nel II secolo a.C. (Roma aveva già un porto più antico, risalente all’epoca dei re, a valle dell’isola Tiberina) proprio perché totalmente pianeggiante.
Il rione venne costruito come primo rione operaio; il primo piano regolatore, nel 1873, individua quest’area che allora era piena di vigneti e di prati dove si pascolavano le pecore (erano chiamati i prati del popolo romano) come primo nucleo della Roma industriale, qualcosa di ben diverso da ciò che vediamo oggi. Ma Roma ha un problema – dice sorridendo Gabriella – e cioè che tutti i suoi piani regolatori sono stati sempre travisati: si è sempre costruito fuori o contro il piano regolatore. Le prime industrie sarebbero poi state costruite alcuni anni più tardi non qui, ma al quartiere Ostiense. L’unico impianto industriale dell’epoca che venne realmente costruito qui è il mattatoio. Anche i palazzinari, uno dei grandi problemi della Roma contemporanea, non sono in realtà un problema recente ma nascono all’epoca di Roma capitale. C’è una grande abbondanza di terreni fuori da quella che è (all’epoca) una città di 200.000 abitanti che va grosso modo da Piazza del Popolo a Piazza Venezia, latifondi che sono in mano alla nobiltà papalina, che fiuta l’affare. Roma deve prepararsi ad accogliere i grandi ministeri, le grandi infrastrutture della nuova capitale, e deve costruire le case per il nuovo ceto impiegatizio. C’è una corsa alla lottizzazione e purtroppo questa corsa travolge la città: c’è una vera e propria bolla immobiliare, e lo scandalo della Banca Romana nel 1887 travolge addirittura il governo Giolitti. Questo spiega lo sviluppo della città a macchia d’olio, che è visibile ancora oggi guardando una mappa di Roma.
La prima Roma che scopre Pasolini non è quella delle borgate, che scoprirà solo dopo, ma questa Roma popolare nel cuore della città, la Roma di Testaccio e del Ghetto, che è qui a due passi. Gliela fanno conoscere le lunghe passeggiate sui lungoteveri in compagnia di Sandro Penna. Lo provano lavori in prosa come “Gas” (1950) e “Studi sulla vita di Testaccio” (1951), contenuti nella raccolta “Alì dagli occhi azzurri”. La poesia che dà il titolo alla raccolta ma il cui titolo vero è Profezia, letta oggi, sembra davvero tra le sue più profetiche, se pensiamo alle migrazioni, e ai morti in mare, di oggi.
Alì dagli Occhi Azzurri
uno dei tanti figli di figli,
scenderà da Algeri, su navi
a vela e a remi. Saranno
con lui migliaia di uomini
coi corpicini e gli occhi
di poveri cani dei padri
sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sé i bambini,
e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua.
Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali.
Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,
a milioni, vestiti di stracci
asiatici, e di camicie americane.
Subito i Calabresi diranno,
come da malandrini a malandrini:
«Ecco i vecchi fratelli,
coi figli e il pane e formaggio!»
Da Crotone o Palmi saliranno
a Napoli, e da lì a Barcellona,
a Salonicco e a Marsiglia,
nelle Città della Malavita.
Anime e angeli, topi e pidocchi,
col germe della Storia Antica
voleranno davanti alle willaye.
(Da “Profezia”, 1964)
Ci sono poi i soggetti di film come Accattone, Mamma Roma e La ricotta, e vari racconti che mostrano la sua sperimentazione, il suo modo di conoscere la città. Ecco un brano dedicato proprio a Piazza Testaccio, che dipinge un quadro del rione e di chi lo abitava.
Sullo sfondo di Piazza Testaccio, coi giardinetti dalle aiuole tetramente rasate e i pisciatoi disinfettati e fetidi, sparsi qua e là a indurire l’aria povera e provinciale, si dispongono nei vuoti dell’anonimo più fitto e normale le famiglie dei ragazzi. Il padre di Sergio è disoccupato (alto, disossato anche moralmente – abbiezione «naturale» – occhi lucidi come quelli del figlio, non più però come quelli di un animale, di un uccello, ma piuttosto da ubriaco, un poco come lacrimosi, che ridono sempre con viltà agli altri). Il padre di Nando lavora ai Mercati Generali; il padre di Renato è un salernitano che fa il brigadiere; il padre di Carlino è disoccupato – di nascosto dalla famiglia va alla carità per bere – è gonfio, per qualche malattia ghiandolare, o mal di cuore – l’enfiagione del viso rossiccio – pelle lucida, da infezione, da foruncolo, con rada barba bianca e sporca – berretta…
Ma a presentarsi con più disprezzo e violenza saranno le figure dei fratelli maggiori: il fratello di Carlino – di cui si sa tra i ragazzini che è ben noto nei cinema e nei lungoteveri dei peccatori notturni, per le dimensioni del segreto affidato ai suoi minacciosi calzoni di ladro – compare nei vanti di Carlino, che ha una particolare affezione per lui. Benché sprezzantemente lontani, veduti di scorcio, i fratelli grandi, verranno a restare incisi con brutalità. Modelli assoluti di vita del Testaccio, dai Mercati Generali alla stazione di Ostia, dalle officine del lungotevere verso Porta Portese al cinema del rione.
Da ‘Testaccio. Note per un racconto’ di Pier Paolo Pasolini (1951)
Oggi anche Testaccio risente un po’ di un processo di gentrificazione, ma non ancora avanzato come in altri quartieri romani (ad esempio il Pigneto, dove andremo domani), e mantiene ancora in gran parte la sua identità di quartiere popolare.



A Testaccio c’è anche la casa dove visse da giovane Elsa Morante, un’altra grande scrittrice romana, moglie di Moravia e per lungo tempo amica di Pasolini. Elsa fece un’apparizione, un breve cameo nel ruolo di una detenuta, nel film Accattone del 1961; inoltre, fu quasi sempre accanto a Pasolini durante la lavorazione dei suoi film degli anni Sessanta. La rottura tra i due si consumò solo nel 1974 con la recensione negativa che Pasolini fece del romanzo La storia, ambientato a Roma durante la Seconda guerra mondiale.
Elsa Morante nasce a Roma nel 1912 da Irma Poggibonsi, maestra elementare ebrea, e Francesco Lo Monaco. Cresce tuttavia in casa del padre anagrafico Augusto Morante, istitutore in un riformatorio per minorenni. A 12 anni la madre, bruscamente, le rivelerà l’identità del suo vero padre.
Nel cortile, sulla parete della Casa dei Bambini, che era una sorta di asilo condominiale, una targa riporta una frase della scrittrice: «Solo chi ama conosce».



Ci spostiamo nell’altra piazza di Testaccio, quella che oggi è Piazza di Santa Maria Liberatrice ma era originariamente Piazza dell’Industria, a sottolineare quel ruolo che avrebbe dovuto avere il rione e che mai assunse. La parrocchia venne aperta qui tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, in un momento in cui prima Leone XIII e poi Pio X capiscono che la Chiesa ha di fronte una nuova sfida: la conquista delle periferie urbane, che si stanno allontanando dalla fede per abbracciare la fede rossa. Quartieri come Testaccio, San Lorenzo o il Pigneto vengono considerati come terre di missione, e si cerca di “rievangelizzarli” attraverso congregazioni che portano assistenza. Parliamo di quartieri non solo poveri, ma che all’epoca spesso non avevano scuole, ambulatori medici e altri servizi anche di prima necessità. Tra le nuove parrocchie aperte da Pio X c’è questa di Santa Maria Liberatrice, che prende il nome da una chiesa che si trovava all’interno del Foro. Il mosaico in facciata, infatti, richiama un mosaico absidale della chiesa paleocristiana del Foro.



Dopo la guerra Elsa Morante prese casa proprio su questa piazza. Nella scuola che si trova dietro la chiesa, e che è tuttora attiva, insegnava Ida, la protagonista de La storia. La Morante scelse di pubblicare questo suo romanzo solo in edizione economica, al prezzo di duemila lire, perché voleva che fosse destinato al popolo: “all’analfabeta per cui scrivo”, lo dedicò citando una poesia peruviana. Ma proprio per questo fu accusata di fare un’operazione commerciale, accusa molto lontana dalla realtà. Fu criticata per aver scritto un romanzo un po’ di stampo ottocentesco e anche, da sinistra, per aver descritto la Storia (con la s maiuscola) come un potere che travolge i più umili, senza dar loro scampo. Una visione che poco corroborava le promesse di “magnifiche sorti e progressive” fatte ai lavoratori dal PCI.
Comincia poi il nostro percorso tra le location di Accattone (1961), il primo film di Pasolini, che continuerà domani al Pigneto. Qui a Testaccio c’è da vedere dove fu girata la scena finale, quella della morte di Accattone (lo so, per chi non l’ha visto è spoiler, ma non me ne vogliate). Vediamo prima la strada dove Accattone e i suoi compari commettono l’ultimo furto rubando da un camion delle mortadelle, che poi si portano via su un carretto nascoste tra i fiori. Ma i poliziotti in borghese che li stanno pedinando da tempo li fermano, e allora Accattone cerca di scappare rubando una moto. Il punto è riconoscibile perché all’angolo, sullo spigolo delle pareti del palazzo, c’è un’immagine della Madonna. Pochi secondi dopo si sente uno stridore di gomme e un botto, e capiamo che c’è stato un incidente: Sul ponte di Testaccio, inseguito dalla polizia, Accattone è caduto sbandando in curva. Nel film questo però non lo vediamo; vediamo solo i compari, già in manette, arrivare correndo sul posto e trovare Accattone a terra, che ha il tempo solo di dire “Mo’ sto bene”, e poi muore. Il film finisce sull’immagine dell’amico di Accattone chiamato Er Balilla che, ammanettato, si fa il segno della croce. Così si chiude la vita, vissuta ai margini della società, di un figlio del sottoproletariato urbano che tenta di riscattarsi ma non ci riesce, l’esito del suo disperato tentativo non può essere che la morte, unica via di fuga e unico modo per raggiungere la pace.



Ed ecco che arriviamo al Mattatoio, costruito nel 1888 e ormai dismesso da molti anni (fu chiuso nel 1975). In parte è ancora abbandonato, ma un’altra parte è stata recuperata con un restauro avvenuto tra il 2006 e il 2010, e oggi ospita la Scuola Popolare di Musica del Testaccio, aule della Facoltà di Architettura, esposizioni estemporanee e il Centro sociale Villaggio Globale.



Saliamo poi al Monte Testaccio, che Pasolini descriveva anche nelle “Ceneri di Gramsci” come lurido, pieno di immondizia e di prostitute. Ed è stato davvero così, abbandonato all’incuria più totale, almeno fino a metà degli anni ’70. Così appare anche in un capolavoro dimenticato che ci ha segnalato Gabriella, “I giorni contati” di Elio Petri, un film del 1962, un anno dopo Accattone. Oggi non è più un luogo così ai margini come a quei tempi, ma ancora si possono vedere, qua e là, situazioni abitative decisamente irregolari e altre in stato di abbandono, insieme ad altre povere ma dignitose. La popolazione è cambiata, nel senso che ai migranti dal sud Italia si sono sostituiti i migranti dal sud del mondo.


Scendiamo verso il quartiere Ostiense, dove finirà il nostro giro. Il quartiere è punteggiato di murales, a volte di street artist famosi come Blu, che ne ha realizzato uno sull’ex caserma dell’Aeronautica, che da molti anni è un palazzo occupato da famiglie senza casa: Un’opera mastodontica e ancora abbastanza integra, nonostante i 13 anni di età. Claudio fa notare che, essendo Blu uno degli street artist non solo più noti ma anche più “duri e puri”, c’è rispetto da parte dei writer urbani che non vanno a ricoprire di tag una sua opera. Di fronte a quello di Blu, sullo stesso incrocio, c’è un intervento totalmente diverso, del 2018, finanziato dai condomini: è il murale più grande d’Europa, realizzato con un tipo di vernice che attraverso un processo chimico assorbe i gas inquinanti dall’aria.



Proseguendo sulla Via Ostiense, si incontra la zona dei gasometri, tra cui quello costruito in epoca fascista, nel 1938, che era fino alla dismissione il più grande d’Europa con i suoi 89 metri di altezza e 63 di diametro. Oggi, naturalmente, dei gasometri rimane solo lo scheletro, ma nella luce del tramonto creano un effetto suggestivo.

Poco distante, la Centrale Montemartini, che oggi è un museo ma era una grande centrale termoelettrica, che prende il nome da colui che la fece costruire, Giovanni Montemartini, assessore della giunta del sindaco Ernesto Nathan dal 1907 al 1911. Il museo, secondo Gabriella uno dei più belli di Roma (e dopo averlo visto non posso che confermare), nasce da un esperimento, cioè dall’allestimento di una mostra negli anni ’90 con gli “scarti” dei musei capitolini: statue romane e greche che stavano nelle cantine, perché dato il numero esorbitante non era possibile esporle tutte. L’esperimento è riuscito così bene che è diventato un museo permanente, il cui grande fascino sta nel contrasto che c’è tra i macchinari restaurati all’interno della centrale e le statue antiche.

Ancora pochi passi ed eccoci al Biondo Tevere, un ristorante che Pasolini frequentava abitualmente e dove mangiò con Pino Pelosi l’ultima sera della sua vita. In realtà, per essere precisi, mangiò soltanto Pelosi, perché lui, Pasolini, aveva già cenato. Erano le 23.30. Spaghetti aglio olio e peperoncino, pollo arrosto e una birra. Il proprietario di oggi, Roberto Panzironi, è il figlio dell’oste che li servì quella sera.
Qui salutiamo la bravissima Gabriella, che rivedremo domani mattina per un altro giro tra il Pigneto e il Mandrione.

Nel locale, tra i vari memorabilia, spicca l’opera del pittore francese Ernest Pignon intitolata “Pasolini Pietà”, realizzata nel 2015 per i 40 anni dalla morte. E se si fa un giro sulla terrazza (oggi è stata una giornata calda ma la serata è piacevolmente fresca), eccolo lì il biondo Tevere, tra la vegetazione, che scorre come sempre.


Stasera mangeremo qui anche noi, era una tappa irrinunciabile: il menù prevede carciofi alla giudia e mezze maniche all’amatriciana. Ce le gustiamo mentre ci fa da sottofondo la musica dal vivo anni ’60 – ’70 che viene dalla festa della CGIL che si svolge in terrazza. Non sarebbe neanche male, se non fosse che a un certo punto hanno la malsana idea di partire con il karaoke…
Per tornare prendiamo la metro a San Paolo; siamo di nuovo a Termini che è quasi mezzanotte, ma ancora non abbiamo voglia di andare a dormire e quindi ci concediamo il bicchiere della staffa in un bar della zona dall’impronta decisamente latina, nel senso di latinoamericana. Dentro impazzano salsa e reggaeton, ma noi siamo seduti fuori a sorseggiare chi un mojito e chi un rum con ghiaccio. Due chiacchiere con un gruppo di cubani, e poi la serata può davvero finire.
(TO BE CONTINUED…)