29/5/2017 – Quarto giorno: Nel quale iniziamo a navigare il Delta e incontriamo i Lipoveni

Facciamo colazione nelle nostre case questa mattina, non prestissimo per fortuna, visto che la serata è stata abbastanza lunga.
È l’occasione per fare due chiacchiere con la famiglia di Daniel, per tutti Dani, il fratello del sindaco. Ieri sera non c’è stata l’opportunità, per mancanza di tempo e anche perché a cena ci ha accompagnato sua moglie, che non parla molto bene l’italiano. Lui invece lo padroneggia perfettamente, e ce ne spiega anche il motivo: è uno dei tanti che, da Greci, sono partiti verso l’Italia dopo la caduta del regime. Curiosamente, sono finiti quasi tutti in provincia di Torino. Lui, per parecchi anni, ha fatto il camionista; portava l’olio dalla Spagna, o anche dalla Tunisia. Olio che veniva venduto poi come olio toscano, ci racconta.
Sua moglie ha preparato per noi dei buoni dolcetti, e abbiamo caffè in abbondanza. Lei è incinta di cinque mesi, si vede un accenno di pancia anche se non è ancora evidentissimo. Il bambino, un maschietto, nascerà in ottobre. È il loro primo figlio. Lui ne è orgogliosissimo, dice che era ora visto che ha passato i quaranta… ma lei è più giovane, precisa sorridendo.
Non so come, il discorso va a finire sugli stranieri, l’emigrazione e tutti gli annessi e connessi. Dani fa quella premessa che, anche se fatta con le migliori intenzioni, mi rende sempre, diciamo, non particolarmente ben disposto nei confronti di chi la fa: “Io non sono razzista, ma…”. A questa premessa, infatti, in genere segue un’affermazione (o spesso più di una) con la quale la premessa stessa viene completamente smentita. Non dico che questo sia il caso di Dani, però insomma si capisce che è stato in Italia e che ha respirato un bel po’ della nostra aria. Perché qui un problema di immigrazione recente non esiste, tutte le comunità straniere che sono in questo territorio ci sono da almeno un secolo. Anzi, il Delta si sta spopolando, negli ultimi 30-40 anni la popolazione si è dimezzata e ora non supera le 15.000 persone. Ma lui si riferisce all’Italia, è chiaro, e più in generale all’Europa. I concetti di base sono degli evergreen: non possiamo accogliere tutti, non c’è lavoro neanche per noi, dovremmo aiutarli a casa loro. Sintetizzando e semplificando forse non gli rendo giustizia, lui in realtà non ragiona affatto male. Dice che ha visto un documentario sulla BBC, dove si vede che in Inghilterra, in Francia, in Belgio ci sono villaggi completamente in mano a immigrati musulmani, potenziali terroristi, dove la polizia non ha neanche il coraggio di entrare. Non si può neanche dire che sia del tutto falso, forse solo un po’ ingigantito, ma certo il contrasto con l’immagine di ieri sera di Otilia e Nagia è stridente e non posso fare a meno di farglielo notare. Ma come, gli dico, voi qui siete un esempio che la convivenza di diverse etnie e religioni è possibile, e tu mi dici questo? Lui ribatte che è diverso, che oggi con questi che arrivano dai paesi islamici è troppo difficile, che qui è diverso da una grande città (e su questo non posso dargli torto)… bisogna anche capirlo, probabilmente quando escono da questo piccolo mondo così particolare cambiano anche il modo di ragionare, fatalmente è così.
Per cambiare argomento gli chiedo del fratello sindaco, gli dico che intanto è una bella cosa che il sindaco sia italiano, visto che tutto sommato ora sono una piccola minoranza, e poi gli chiedo se è contento, se si ricandiderà… probabilmente no, dice lui. Spiega che il fratello è un imprenditore prestato alla politica, che ha fatto il suo dovere per la comunità ma alla fine del mandato lascerà a qualcun altro. Si è sentito in dovere di dare una mano perché le cose andavano troppo male, i politici locali sono degli incapaci (anche questo discorso mi sembra di averlo già sentito, non so dove…), ma ora è troppo stressato, si è reso conto che la politica non fa per lui. Forse è un po’ eccessivo per un paese di tremila anime, ma Dani sostiene che in Romania, a tutti i livelli, c’è troppa corruzione e poca competenza. Il paese, secondo lui, risente ancora dei disastri del periodo comunista. I comunisti – dice – hanno ammazzato tutti gli uomini di cultura e hanno messo al potere gli ignoranti. Anche questa visione non è certamente infondata, ma suscita da parte nostra qualche perplessità. È vero che lui quel periodo l’ha vissuto, ma era un ragazzino… comunque il confronto è interessante, in fondo siamo qui anche per questo, per capire cosa pensano le persone che vivono qui.
Dani e sua moglie ci portano nella piazza del paese, dove, davanti al mercato agricolo, abbiamo appuntamento per la partenza. Salutiamo loro, Otilia e tutti gli altri e siamo pronti per incamminarci verso Tulcea, dove finalmente ci imbarcheremo.
Eugenio ci racconta che, con il tipo in maglietta mimetica, hanno festeggiato e bevuto fino a notte fonda. Lui ogni tanto cercava di staccarsi per andare a dormire (lui ha dormito lì, dove abbiamo mangiato ieri sera: è una struttura per i visitatori del parco) ma invariabilmente gli offrivano un altro bicchiere di rum. E anche quando finalmente è riuscito a salire nella sua stanza, ha continuato a sentire il rumore della festa. Quindi oggi, forse, non sarà al massimo della forma. Guardandolo può darsi, ma io conto sulle sue capacità di recupero.
Oggi il sole splende. Il nostro ballerino preferito Florin ci porta, finalmente senza navigatore, verso Tulcea. Arriviamo in tempo per prendere un caffè di metà mattina e depositare i bagagli in un hotel che ce li terrà in custodia durante le nostre scorribande in barca sul Delta. Dato che gli spazi in barca sono ridotti, infatti, ognuno di noi si può portare solo un bagaglio essenziale, quelli più grandi verranno lasciati qui fino a quando ripasseremo, fra tre giorni. Io, visto che il mio zaino è di dimensioni contenute e soprattutto non è rigido, sono stato autorizzato da Eugenio a portarlo con me.
Tulcea è una città di circa 90.000 abitanti, piuttosto anonima, per quanto possiamo vedere, dal punto di vista delle architetture, non è ancora il Delta ma ne rappresenta un po’ la porta. È qui che anche noi ci imbarcheremo; il viale che conduce al porto fluviale è orlato di palazzoni e hotel per turisti internazionali, ma per noi rappresenta pur sempre il primo contatto visivo col Grande Fiume che da mesi aspettiamo di tornare a solcare. Qui il Danubio, citando ancora una volta Magris, comincia a spargersi e ad effondersi come vino da rotto cratere. E, anche qui, non è esattamente blu come vuole la visione romantica del valzer di Strauss. E neanche biondo, “a szöke Duna”, come dicono gli ungheresi. Tende più al verde-grigio.
Sul lungofiume, dove passeggiamo in attesa del pranzo, campeggia un monumento allo storione, altra conferma che stiamo proprio per entrare nel Delta. Ma prima, ci aspetta la seconda degustazione di vini in due giorni. Stavolta il produttore è italiano, marchigiano per la precisione, ma vive qui già da parecchi anni e ha impiantato qui la sua azienda, La Sapata, che produce vini biologici sia da vitigni romeni che internazionali.
Per la degustazione, e per il pranzo “leggero” che la accompagna, ci fermiamo da Ivan Pescar, un ristorante tradizionale di pesce. Il menù prevede, per iniziare, un tagliere con insalata di uova di pesce, spratto marinato, merluzzo e carpa affumicati, verdure e pane tostato. Poi zuppa di pesce, e per finire pasticcio di formaggio e torta di miele e mirtilli.
Anche qui, come in tutti i posti dove abbiamo mangiato finora, è previsto un apposito menù per i vegetariani, che sono un piccolo drappello guidato ovviamente da Cecilia, e vengono diligentemente prese in considerazione le esigenze degli intolleranti al lattosio o ad altro. Il gruppo non è dei più semplici da gestire, da questo punto di vista, ma Eugenio come sempre è attento a tutto e bisogna dire che i ristoratori lo seguono, anche se a volte si vedono camerieri un po’ spaesati.
Qui incontriamo anche Cristian, uno specialista in ornitologia del WWF romeno, che ci seguirà per tutti i tre giorni del Delta, e Ana, detta Anca o Ancuța, che è la sua interprete. In realtà Cristian qualche parola di italiano la butta già lì, e andrà migliorando col passare dei giorni. Ma Ancuța non parla solo un ottimo italiano, ha anche un master nel settore turistico, perciò può farci anche lei un po’ da guida, anche se è specializzata su Costanza, che è la sua città. Cristian, invece, è di Tulcea.
Arriva finalmente il momento di imbarcarci. Siamo diretti a Mila 23, a 23 miglia marine dalla foce del Danubio. I bracci principali in cui il fiume si divide, a partire da Tulcea, sono tre: Quello di Chilia, a nord, che entra nel mare attraverso quarantacinque bocche, e versa due terzi dell’acqua e dei detriti del Danubio; quello centrale, che navigheremo noi, il braccio di Sulina, che si getta dritto nel Mar Nero grazie alla canalizzazione operata fra il 1880 e il 1902, che ne rende agevole la navigazione e simbolicamente rettilineo e deciso il percorso; quello di Sfintu Gheorghe (San Giorgio), a sud, serpentino e attorcigliato, al quale il Danubio deve la lunghezza canonica attribuitagli nei manuali.
Per arrivare a Mila 23 ci addentreremo nei piccoli canali, alcuni tra i più spettacolari. In questi canali non si può entrare con barche da 15-20 persone, quindi dobbiamo dividerci in due gruppi: abbiamo una barca un po’ più grande, che si chiama Lolita, e una un po’ più piccola, senza nome. Per sicurezza, dobbiamo metterci i giubbotti salvagente. Io salgo su quella più piccola, con Eugenio, mentre l’altro gruppo, con Cecilia e con Cristian, parte con Lolita. La presenza di Cristian è importante perché il Delta è un punto di incrocio delle migrazioni di uccelli, sei direzioni migratorie in primavera e cinque in autunno. C’è ad esempio la rotta pontica, che seguono gli uccelli dell’Europa centrosettentrionale, la rotta sarmatica e quella carpatica. Più di trecento specie di uccelli. Gru, cicogne, storni, anitre, oche, colombe, aquile, falchi, marangoni, folaghe, aironi, gruccioni, garzette, cormorani, pellicani. Solo per citarne alcuni.
Anche Paolo, il nostro compagno di viaggio, è un grande appassionato di ornitologia, e ha portato con sé un libro pieno di foto di tutte le specie che potremmo avvistare, se siamo fortunati. Forse, tenendo conto di questo, avremmo potuto fare in modo che lui stesse su una barca e Cristian sull’altra, ma al momento non è andata così. A posteriori è sempre tutto facile.
Ma comunque, quando lasciamo il braccio principale per imboccare i canali più piccoli, l’impatto col Delta è davvero fortissimo. È uno spettacolo naturale incredibile. Avanziamo lentamente tra giunchi e canneti, ma spesso anche alberi che si riflettono nell’acqua. In certi punti è un tappeto di ninfee, sormontate da piccoli fiori gialli. Eugenio li chiama nannuzzoli, ma scopriremo poi che si chiamano nannuferi. Nel gruppo, quando l’abbiamo scoperto, c’era incredulità: Allora anche lui è umano! Può sbagliare…
Ma torniamo allo spettacolo della natura. Anche qui temo che le mie parole non siano adatte per descriverlo, ammesso che ce ne siano di veramente adatte. Io non lo so, se ce ne sono, ma ancora una volta mi faccio aiutare da Claudio Magris:
“Il Danubio si confonde con i prati in una grande e inestricabile giungla d’acqua, folti alberi si chinano sul fiume formando grotte liquide, dimore profonde e labili, verdecupo e blu come la notte, nelle quali non è possibile distinguere la terra dall’acqua e dal cielo. La vegetazione copre ogni cosa, s’inerpica e s’attorciglia dovunque, in una proliferazione esuberante e cedevole, gioco di specchi che si rimandano i loro riflessi.”
Attraversiamo il lago Fortuna, dove abbiamo, davvero, la fortuna di vedere un volo di uccelli che non ha bisogno di alcuna spiegazione.

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Nel tardo pomeriggio arriviamo a Mila 23, che appunto si chiama così perché si trova a 23 miglia marine dal punto zero di Sulina, da quello che convenzionalmente è considerato, ebbene sì, esiste, il punto dove finisce il Danubio.
Mila 23 è un villaggio di circa quattrocento abitanti, dove molte case sono case tradizionali del Delta, costruite con un impasto di paglia e fango, o in legno dipinte di bianco e di azzurro, con i tetti di giunchi. Anche la nostra pensione è così, piena di atmosfera, e naturalmente sulla riva del fiume. Qui tutto è sulla riva del fiume, non esiste altro. E non esistono strade, ci si può arrivare solo in barca. Siamo entrati davvero nel microcosmo del Delta.
Qui lavora l’associazione Ivan Patzaichin, che si propone di realizzare e promuovere progetti di sviluppo sostenibile di interesse locale e regionale. L’associazione è stata fondata su iniziativa dell’ex campione di canoa Ivan Patzaichin e applica i principi dello sviluppo sostenibile: proteggere l’ambiente e la biodiversità, promuovendo l’uso sostenibile delle risorse naturali e contemporaneamente sostenendo la crescita economica e l’occupazione.
Questo attraverso progetti e programmi incentrati sul turismo che fa vivere la natura e la cultura, ma anche lo sviluppo di programmi e strategie per migliorare la qualità della vita della comunità.
Dopo una lunga e importante carriera di sportivo plurimedagliato e allenatore, Ivan Patzaichin, classe 1949, ha deciso di utilizzare così la sua reputazione, per promuovere la cultura della sua terra natale e favorire una vita sana in un ambiente sostenibile.
È Cristian che ce lo spiega, con la traduzione di Ancuța. Gli chiedo se ancora oggi esiste, da queste parti, un vivaio di campioni di canoa. Non è solo il 4 volte campione olimpico e 8 volte campione del mondo Ivan Patzaichin, infatti. Qui davanti a noi, sui cartelloni dell’associazione, abbiamo un lungo elenco di campioni che sono nati da queste acque, tutti con un palmares invidiabile. Mi risponde che purtroppo no, non c’è più, la tradizione si è persa. Cristian non lo dice, ma è finita con la caduta del comunismo, che notoriamente aveva tra i suoi principi la creazione di una cultura sportiva che ha prodotto tante storture ma anche, soprattutto per gli sport “minori”, una serie di successi che non ha più trovato un seguito negli anni del “post”.
È sempre l’associazione che ha organizzato per noi una cena tradizionale. Anche stasera mangiamo all’aperto, sotto le stelle, nel bellissimo cortile di una casa tipica del Delta. Dopo un antipasto a base di pesce gatto fritto, insalata di uova di pesce e insalata di sgombro, il piatto forte è rappresentato da abbondanti porzioni di carpa e pesce siluro, condite con l’immancabile, onnipresente salsa all’aglio. Anche qui, come già avevamo visto in Serbia l’anno scorso, il siluro non è, nella considerazione popolare, il pesce infestante, razziatore di fiumi e immangiabile che è da noi, ma è molto apprezzato.
La cena e il dopo cena sono allietati da un coro lipoveno, di cui abbiamo avuto ieri una piccola anticipazione sul pullmino, ma devo dire che sono meglio dal vivo. Anche perché i costumi tipici russi e i sorrisi delle ragazze e delle signore (sono tutte donne, con alcuni bambini e bambine) fanno la loro parte.
Qui i lipoveni sono una presenza storica; Patzaichin stesso è un lipoveno, quindi il coro è sicuramente in tema.
Nel XVII secolo il patriarca della chiesa russa, Nikon, corresse i passi dei testi liturgici in disaccordo con l’originale greco, quelli che a suo parere erano errori dei copisti insinuatisi col passare del tempo. Nikon tolse anche le icone diverse dal modello bizantino, cambiò la grafia del nome di Gesù, la forma del segno della croce, il numero delle prostrazioni. Fu vietato toccare la terra con la fronte. Accadde che molti fedeli rifiutarono questa riforma “purista”. Erano i Vecchi Credenti.
Ma subito da Mosca partì contro questo rifiuto un anatema terribile: deportazioni, roghi, lingue mozzate. Allora, i contadini russi non ebbero dubbi: era arrivato il regno dell’Anticristo. Tanti risposero con il suicidio di gruppo, per fame, pugnale o annegamento. Alcuni si seppellirono nella terra o si bruciarono vivi. Altri presero con sé i libri, le icone addobbate di perle, i testi dei canti originali, le preghiere, e andarono lontano, fino ai confini dell’Impero. Portarono con sé la voce dell’antica Russia per conservarla così com’era.
Questa è la storia dei lipoveni, ed ecco come e perché partirono a più riprese, spinti da varie persecuzioni. Ma perché qui? Perché i lipoveni erano pescatori, e quindi dove se non qui potevano trovare il loro nuovo ambiente naturale? I lipoveni, scrive Magris, ora sono il popolo del fiume, vivono nell’acqua come i delfini o gli altri mammiferi del mare. Sulle rive, le loro barche nere assomigliano ad animali che riposano sulla spiaggia e al sole, foche pronte a tuffarsi e a sparire fra le onde al minimo segnale. Sull’acqua sono le loro case di legno e di fango e paglia, coperte di canne, i loro cimiteri con le croci azzurre, le scuole che i loro bambini raggiungono in canoa.
Al nostro ritorno a casa, poi, abbiamo scoperto che una banda di pescatori lipoveni emigrati da Tulcea agiva sui fiumi lombardi (Adda, Lambro e Ticino) con metodi non proprio ortodossi: stordivano i pesci con la corrente elettrica prodotta da batterie di camion, massacrando di tutto e devastando i fiumi. Ma a noi, ovviamente, piace molto di più questa immagine romantica e sappiamo che questi delinquenti sono solo un’eccezione.
Capiamo ogni giorno di più che il Delta è sempre stato rifugio di irregolari, reietti, perseguitati e scacciati. Il Delta, per Sadoveanu, è anche un bacino di popoli e genti, come se il Danubio portasse al mare e spargesse intorno a sé, traboccando sulle rive, detriti di secoli e di civiltà, frammenti di Storia. Ma questi residui hanno vita breve, si rovesciano dalle sponde nella stagione dell’inondazione e spariscono nella terra, come foglie e altre scorie portate dal fiume. Le storie del Danubio, dice Sadoveanu, nascono e spariscono in un soffio, come una pozzanghera che si asciuga.

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Il repertorio del coro, insieme ad altri pezzi belli ma meno conosciuti, annovera tutti i grandi classici russi, da Kalinka a Oci Ciornie a Katjuša, che potete ascoltare e vedere qui in quella che è stata la loro applauditissima esibizione finale:

 

 

Usciamo nella sera e ci accorgiamo che, ora che il coro tace, c’è un altro coro che si fa sentire, con un rumore fortissimo e incessante: sono le rane, ma anche un uccello, ci dice la padrona della casa dove abbiamo cenato salutandoci sulla porta.
Torniamo alla pensione. Il resto della serata passa tra qualche chiacchiera e un bicchiere di palinca, gentilmente offerto da… Claudio Agostoni! Sì, veniamo a sapere che proprio lui ha comprato la bottiglia che troviamo qui e l’ha lasciata in eredità al gruppo che sarebbe venuto dopo, cioè a noi… e allora, come si fa non approfittarne? Sarebbe offensivo nei suoi confronti.
La grappa dovrebbe facilitare la digestione e conciliare il sonno, ma mi accorgo che non è così facile. Ho lasciato socchiusa la porta-finestra che dà sul giardino per far entrare un po’ d’aria, ma il frastuono delle rane che gracidano è davvero incredibile e all’inizio mi dà fastidio. Non l’ho mai sentito così forte. Mi alzo e chiudo, ma fa troppo caldo. Mi alzo di nuovo, riapro e torno a letto. Mi accorgo che, piano piano, il frastuono diventa una musica che mi culla. Non ho mai dormito così bene in questo viaggio.

 

(Continua…)