Un nuovo volo con le Mariposas
Un Capodanno speciale in Sardegna con le Mariposas de Sardinia, alla scoperta delle luci e delle ombre di una Cagliari inedita, vissuta da diverse prospettive e punti di vista. Un racconto dal vivo di una città dalle mille sfaccettature: intreccio di storie quotidiane, di leggende, di persone… che s’incontrano nei luoghi centrali e periferici, “visibili” e “invisibili”.
E improvvisamente ecco Cagliari: una città nuda che si alza ripida, dorata, accatastata nuda verso il cielo dalla pianura all’inizio della profonda baia senza forme. È strana e piuttosto sorprendente, per nulla somigliante all’Italia. La città si ammucchia verso l’alto, quasi in miniatura, e mi fa pensare a Gerusalemme: senza alberi, senza riparo, che si erge spoglia e fiera, remota come se fosse indietro nella storia, come una città nel messale miniato da un monaco. Ci si chiede come abbia fatto ad arrivare là. Sembra la Spagna, o Malta: non l’Italia. È una città ripida e solitaria, senza alberi, come in una miniatura antica. E al tempo stesso simile a un gioiello, un inaspettato gioiello d’ambra a rosetta nudo nel cuore della vasta rientranza.
(D.H. Lawrence, “Mare e Sardegna”)
Il momento di tornare in Sardegna è arrivato prima di quanto mi aspettassi. Pensavo che ci sarei tornato in primavera, per godere del sole, dei colori e dei tepori primaverili e per fare un giro un po’ più lungo, forse nel Sulcis, o in Ogliastra. Ero certo che ci sarei tornato in questo 2019, dopo la prima esperienza della scorsa estate tra la Marmilla, Cabras e la penisola del Sinis. Una prima esperienza che mi ha dato tantissimo, sotto tutti i punti di vista, tutto quello che si può desiderare da un viaggio; e che soprattutto mi ha fatto conoscere quelle quattro meravigliose ragazze delle quali tanto ho parlato a chiunque in questi mesi mi abbia chiesto della Sardegna: le Mariposas de Sardinia. Loro erano le organizzatrici, le guide, l’anima e la poesia di quel viaggio. Non vorrei dilungarmi troppo su quel viaggio, perché se ne parlo rischio di raccontarlo di nuovo tutto. E allora, per chi fosse curioso e non lo avesse ancora letto, vi rimando al diario che ho pubblicato su queste stesse pagine:
Volando con le Mariposas – Prima parte
Vorrei invece dirvi meglio chi sono le Mariposas; sono, in rigoroso ordine alfabetico, Angelica, Laura, Silvia e Viola, quattro amiche che nel 2015 a Mogoro, in Marmilla, hanno fondato un’associazione di promozione sociale che si chiama appunto Mariposas de Sardinia (Mariposas, sia in spagnolo che in sardo campidanese, significa farfalle, per chi non lo sapesse). Ciò che le unisce è l’amore per il loro territorio e la voglia di viverci, scommettendo su nuovi orizzonti di sviluppo possibili e mettendo insieme le loro diverse competenze, professionalità e personalità. Ma lo faccio dire a loro, riportandovi qui la loro autopresentazione:
In questi anni abbiamo lavorato e continuiamo ad impegnarci con pazienza e creatività per promuovere la bellezza e la biodiversità umana e naturale della nostra affascinante isola, attraverso la messa in rete di attori e stakeholders locali. Il nostro obiettivo è quello di rispettare, proteggere, valorizzare e offrire a tutt*, senza barriera alcuna, la possibilità di godere di ciò che già esiste, in modo leggero e non impattante.
Tutti i nostri viaggi e progetti nascono dalla relazione profonda con il territorio e con chi lo abita, perché siamo convinte che solo conoscendo le proprie radici si possa, poi, volare.
Mariposas de Sardinia fa parte della grande famiglia ViaggieMiraggi onlus: cooperativa sociale-tour operator, rete di soggetti e associazioni in Italia e nel mondo, nata alla fine degli anni ‘90 con l’obiettivo di creare un’impresa sociale che si occupasse di stravolgere i paradigmi del turismo e lavorare a contatto diretto con la società civile dei luoghi visitati, con persone ed associazioni direttamente coinvolte in progetti di sviluppo.
Crediamo in un modo gentile di viaggiare, profondo e responsabile, attento alla cultura locale e alla sostenibilità, passo dopo passo.
Bè, insomma, avevo promesso alle ragazze di tornare, pensavo che lo avrei fatto nel 2019 e invece è finita che ci sono tornato già nel 2018… ci sono tornato proprio a salutare l’uno e ad iniziare l’altro. Quando ho scoperto che organizzavano un capodanno a Cagliari, città che l’estate scorsa ho visto solo di sfuggita, con un carattere alternativo e creativo, com’è nel loro stile, e per di più con il cenone organizzato presso un’associazione di solidarietà Sardegna-Palestina, non ho potuto resistere. Il richiamo è stato troppo forte.
E così ora eccomi qua, con un gruppo diverso da quello dell’estate scorsa ma dove ci sono tre miei cari amici e compagni di altri viaggi targati ViaggieMiraggi e Radio Popolare: Patrizia, Antonella e Michele. Anche Patrizia ha già conosciuto le Mariposas, prima ancora di me, in occasione di un tour organizzato da Radio Popolare nel dicembre 2016. Si può dire che sia stata lei a convincermi a venire in Sardegna l’estate scorsa e ora, in qualche modo, sono stato io a convincerla a tornare per questo capodanno. Abbiamo anche la sorella di Antonella, Carolina, con il marito Stefano; poi ci sono Alice, Silvia e Aristide, Cristina, Lorena.
E questo è, più o meno, quello che è successo in questi quattro giorni.
Sabato 29 dicembre 2018
Cagliari ci dà il benvenuto con una mattinata di sole splendido e caldo, un cielo terso che a Milano ce lo sogniamo. In effetti ho detto che pensavo di tornare in primavera, ma a ben guardare forse questa è primavera. La massima prevista per oggi è 16°C.
Ad accoglierci all’aeroporto abbiamo trovato Viola. Prima di abbracciarla le ho detto: “Baciami solo se non hai paura di prendere il raffreddore” perché accidenti, proprio da ieri mi affligge un fastidioso raffreddore, che sicuramente mi porterò dietro per tutti questi giorni. “E non sai quanto mi costa dirti questo” – ho aggiunto. Ma lei mi ha sorriso, ha spalancato i suoi bellissimi occhi azzurro-verdi e abbracciandomi mi ha detto “Tanto ce l’ho già anch’io”. Meno male, mi sono tolto un peso dalla coscienza.
Abbiamo preso poi il treno verso il centro città, non più di cinque minuti. Alloggeremo in un B&B nel quartiere di Stampace, uno dei quattro quartieri storici di Cagliari. Per ora possiamo soltanto depositare i bagagli.
Sia io che gli altri componenti del gruppo siamo di buon umore, anche grazie a questo clima così favorevole, e ansiosi di iniziare a vedere la città. Sappiamo che la vedremo da ogni punto di vista: vedremo la Cagliari sotterranea e saliremo in un trekking “urbano” fino alla Sella del Diavolo per vederla e abbracciarne i confini dall’alto. Ecco, di questa cosa non proprio tutti sono entusiasti. Patrizia, che ha ancora una caviglia malconcia dopo una piccola disavventura capitatale durante il suo recente viaggio in Cina, me lo fa capire parlando di “cracking” anziché di trekking… un lapsus che più freudiano non si può.
Passiamo davanti al liceo Dettori, dove studiò Antonio Gramsci. La targa commemorativa, in maniera appropriata, ricorda l’incipit di una delle sue frasi più famose: “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza”. Poi la frase continuava dicendo: “Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza”.
Viola ci racconta alcuni dei tanti progetti che le Mariposas hanno creato o ai quali hanno partecipato, per esempio un festival sulla sostenibilità ambientale per i ragazzi, o il progetto SensiTour, che è nato nel novembre del 2015 con l’intento di valorizzare e promuovere le peculiarità che territori dell’entroterra sardo, poco conosciuti, sempre più spopolati e spesso dimenticati, ancora oggi, inconsapevolmente, preservano e tramandano, e di farne riscoprire le potenzialità, in primo luogo, agli abitanti stessi. La modalità è quella del viaggio sensoriale e narrativo: 4 itinerari tematici come strumento per raccontare luoghi speciali dell’isola, lontani dai circuiti del turismo di massa, ma ricchi di emozioni ed esperienze vissute.
Racconti e storie, fin dalla notte dei tempi, rappresentano un mezzo comunicativo di una potenza straordinaria, per la loro forte capacità di immedesimazione. Questi racconti a più voci sono evocati da “cantastorie” locali: artigiani, contadini, pastori, associazioni e artisti, referenti turistici, eccellenze enogastronomiche, siti storici e paesaggi naturali, tutti “fotografati” nei gesti e nelle parole quotidiane. Ognuno di loro ha una ricchezza da esprimere, che cessa di essere segreta e si fa condivisione, diventando tappa del viaggio e protagonista della trama. Realtà virtuose che, messe in rete, generano un unico filo conduttore e si fanno narrazione. Ogni narrazione è l’espressione di un senso, che si manifesta di volta in volta diverso a seconda dell’itinerario.
Io ricordo di aver visto le foto della preparazione del viaggio multisensoriale tra olfatto e udito “I volti del Monte Arci”, che si è svolto l’estate scorsa pochi giorni dopo il nostro rientro, e di aver invidiato molto i partecipanti. Il luogo in quel caso era il bosco di Mitza Margiani, alle pendici del Monte Arci appunto, che anche noi avevamo esplorato con l’aiuto di un “cantastorie” d’eccezione, l’ex sindaco di Villaverde Roberto Scema.
Per saperne di più su SensiTour:
https://mariposasdesardinia.netsons.org/2017/10/05/sensitour-racconti-di-viaggio-in-sardegna/
Anche qualche progetto futuro, che deve ancora prendere forma, sembra già molto interessante: un tour sui luoghi sardi di Fabrizio De André, o un viaggio da organizzare per il Carnevale, che in Sardegna ha diversi volti poco conosciuti di una ricchezza storica e culturale unica legata alle culture ancestrali, come la Sartiglia di Oristano o i Mamuthones di Mamoiada.
Ma noi, per ora, pensiamo al nostro tour cittadino. Prima di partire per quella che sarà la prima tappa, abbiamo bisogno di rifocillarci un po’, ma senza appesantirci subito, dato che sicuramente saranno giorni impegnativi anche dal punto di vista… gastronomico.
E allora che c’è di meglio di un bel pranzetto vegetariano? Viola ci porta da Birdi (verde in sardo), un ristorante vegetariano dove le ragazze hanno prenotato per noi. Il menù prevede cous cous con quinoa e curcuma, tortini di ceci con patate e, per finire, frutta disidrata: albicocca, pera, aloe e il pomelo, che è il più antico agrume coltivato dall’uomo ed è ritenuta una delle tre specie da cui derivano tutti gli agrumi oggi conosciuti.
Stefano, che è un carnivoro, lamenta scherzosamente che il pranzo vegetariano sia stato organizzato “a tradimento”, poi azzarda: “E… per dolce una costatina?”, ma non viene esaudito. L’affiatamento del gruppo è già buono.
Viola ha anche una notizia da darci; questo, almeno per un po’, sarà il suo ultimo tour con le Mariposas. Sta per partire per fare sei mesi in Erasmus a Nantes, in Bretagna, dopo di che potrà prendere la laurea specialistica in mediazione culturale e linguistica. Per qualche anno aveva abbandonato, ora ha deciso, secondo me saggiamente, di terminare il percorso di studi. Ma poi tornerà, è soltanto una cosa temporanea; lei, come tutte le altre, è coinvolta profondamente dal progetto Mariposas. Lei è l’unica che non è sarda di origine, anche se ormai lo è di adozione, e parla anche un sardo perfetto. È salentina, di Galatina, ha studiato a Bologna e ha vissuto anche a Lodi, ma poi l’amore per il suo fidanzato sardo l’ha portata a Mogoro.
Dopo pranzo, torniamo al B&B perché dobbiamo ancora prendere possesso delle camere. Ci riposiamo un po’ e poi usciamo con Viola e Silvia, che vengono a prenderci per cominciare il tour vero e proprio.
Partiremo in modo molto alternativo, non dal centro ma da un quartiere periferico, popolare e tuttora “malfamato”, quello di Sant’Elia.
Silvia, detta anche Vizzi dal suo cognome Vizilio, è la più anticonformista del gruppo (anche se tutte lo sono), la più “terzomondista” (ha vissuto in Ecuador e Turchia), la più attenta ai movimenti sociali. Quindi è appropriato che ci sia lei ad accompagnarci all’incontro con un’associazione di donne coraggiose, creative e battagliere, che da anni dà voce alle molteplici problematiche del quartiere, che è uno degli angoli più antichi e contraddittori di Cagliari. È anche guida di trekking, perciò sarà quella che ci accompagnerà nel “trekking urbano” che faremo dopodomani e che partirà non lontano da qui.
Ora Silvia sta frequentando, qui a Cagliari, un corso di formazione specialistica sul turismo responsabile, ma non se ne dichiara troppo soddisfatta. Molte lezioni si risolvono in dibattiti sterili, dice, e il livello non è abbastanza elevato. Del resto, le dico io, forse voi dovreste insegnare in un corso del genere, non imparare. Sul turismo responsabile sono sicuro che siete molto più avanti della stragrande maggioranza delle realtà locali, e anche di molte nazionali.
A Sant’Elia ci andiamo con l’autobus della linea 6, ci sposteremo sempre con i mezzi pubblici in questi giorni. Anche questa è sostenibilità.
La zona di Sant’Elia era abitata fin dal neolitico. Il quartiere, il più meridionale della città, sorge a ridosso di un’area una volta paludosa, vicino al faro di Sant’Elia, e consiste in un intrico di stradine che si snodano fra vecchie case al centro del quale si trova una chiesa. In origine questo era un borgo di pescatori. La via diretta per entrare nel quartiere, che appare come un borgo quasi isolato dal continuum urbano, è il viale Borgo Sant’Elia. Nel piazzale di fronte al mare, il largo Sant’Elia, c’è il Lazzaretto, sorto attorno al 1600 come ricovero per la quarantena ed oggi trasformato in un centro culturale. A nord di questo negli anni settanta è stata costruita un’area nuova, a breve distanza dal nuovo stadio, tutta fatta di palazzi di grandi dimensioni, i classici casermoni di tutte le periferie.
Qui in passato era tutta una palude, la malaria imperversava. Documenti custoditi nell’archivio di stato di Cagliari permettono di datare il primo impianto del lazzaretto al XVII secolo; veniva utilizzato, appunto, per mettere in quarantena gli equipaggi delle navi. Nel 1720, per volere di re Vittorio Amedeo II di Savoia, l’antico lazzaretto venne ampliato e trasformato in un vero ospedale per malattie contagiose, con tanto di regolamento per la preservazione della salute pubblica. Ulteriori ampliamenti vennero operati nel 1835. Verso la fine del XIX secolo, l’edificio perse la sua funzione, in seguito all’acquisizione di nuove conoscenze mediche e al disuso della pratica della quarantena. Nel secondo dopoguerra, i locali del lazzaretto ospitarono un gruppo di sfollati, primo nucleo di abitanti del quartiere Sant’Elia. Dopo un lungo periodo di abbandono e degrado, l’edificio, restaurato dall’architetto veneziano Andrea de Eccher, venne riaperto in occasione della manifestazione Monumenti Aperti, nel 2000, e destinato ad ospitare varie manifestazioni culturali.
Il quartiere soffre delle problematiche di tutti i quartieri-dormitorio periferici, isolati dalla città e non dotati di servizi, neanche quelli di base: manca una scuola, manca un ambulatorio, mancano spazi di aggregazione. A raccontarcelo, e a darci il benvenuto a Sant’Elia, sono Rosa, nota come la poetessa che manifesta con le sue poesie, e Rita. La loro associazione si chiama “Sant’Elia viva”. C’è anche la zia di Silvia, che non vive qui ma che conosce bene il quartiere.
Rita ci dice che l’associazione si chiama Sant’Elia viva perché il quartiere era morto. Si autofinanzia e si occupa di sociale perché, nonostante il quartiere sia abbastanza grande (quasi 14.000 abitanti), non c’è niente: non ci sono spazi per i ragazzi, circoli o altro. Quindi loro si sono date una mossa e hanno cercato una sede per le loro attività. C’è uno stabile chiuso da anni, che è un ex asilo, che loro hanno presidiato dormendo in tenda per cinque mesi. Il Comune aveva deciso di farci un poliambulatorio, ma in effetti sarebbero nate strutture private che al quartiere non servono. Per protesta, loro hanno fatto prima questo presidio con tende all’esterno dello stabile, per dare un segnale forte, ma non succedeva niente ed erano costrette a rimanere lì con 40°C, senza luce né acqua e con l’assalto delle zanzare. Allora sono entrate e hanno dato vita a una struttura che ospitava mamme e bambini per il doposcuola, uno scambio di abbigliamento e alimentari, un laboratorio di cucina tradizionale, insomma una sorta di centro sociale. C’era anche gente che veniva da fuori, non solo del quartiere. L’occupazione è finita perché c’è stato un concordato con il Comune, che si impegnava a realizzare quello che l’associazione chiedeva. Ora sono passati quattro anni, e non è successo nulla. Il comune ha installato sul tetto i pannelli fotovoltaici e nient’altro. Pare che, informalmente, gli stessi funzionari comunali abbiano consigliato alle donne dell’associazione di rioccupare per sbloccare la situazione: un vero paradosso.
Nel frattempo, si riesce a lavorare col nuovo parroco, che è molto bravo e attento al sociale.
Intorno, una parte dell’area è zona militare. C’è la Torre del Prezzemolo, che è una torre costiera situata poco lontano dal fabbricato dell’ex lazzaretto. L’edificio sorge su un angusto spuntone roccioso del colle Sant’Elia, a 34 metri sul livello del mare. Il nome “del Prezzemolo” identificava in passato un’altra torre costiera, la vicina torre di Cala Fighera, non più esistente.
La torre, chiamata originariamente “torre di Capo Bernat” o “di Cala Bernat” o “del Lazzaretto”, ha origini cinquecentesche. Nel 1638 venne dismessa, in seguito alla costruzione della vicina torre di Cala Mosca. Venne riarmata nel XVIII secolo e nel 1793 ebbe un ruolo di rilievo nel respingere lo sbarco dei francesi. Successivamente la torre venne nuovamente e definitivamente dismessa. Lavori di restauro la interessarono nell’anno 1916, mentre nel 1967 si provvide a puntellare la sottostante roccia con l’edificazione di contrafforti.
L’edificio, di forma tronco-conica, è di modeste dimensioni (circa sette metri di altezza per quattro di diametro alla base) e rientrava nella tipologia delle torrezillas, ovvero le torri costiere “minori”, poco armate e con funzione quasi esclusiva di avvistamento. Era in contatto visivo con diverse torri del golfo degli Angeli, tra cui le vicine torri dei Segnali e di Sant’Elia, oltre che col Castello di Cagliari.
Anni fa l’Aga Khan voleva fare qui una specie di Costa Smeralda, ma per il momento non ci è riuscito. In alcuni dei palazzoni, costruiti per i mondiali ’90, vivono poliziotti e carabinieri. Curioso, in un quartiere che ha tuttora la fama di una periferia degradata e violenta.
Dopo una prima passeggiata nel quartiere, pausa-aperitivo con una Ichnusa non filtrata su una terrazza che guarda il mare. Arrivano patatine e pizzette calde in abbondanza; la zia di Silvia strappa applausi cantando per noi “No potho reposare”, un grande classico sardo che hanno cantato in tanti; ma non si può fare a meno di pensare alla voce di Andrea Parodi.
Vale la pena di ricordare che il sardo è una lingua e non un dialetto, e questo si sa; ma anche che esistono diverse varianti della limba sarda: quello che si parla a Cagliari, come in tutto il sud della Sardegna, è il sardo campidanese, che nel 2006 risultava capito da 942.000 persone (96,9% dei residenti) e parlato da 670.000 persone (68,9% della popolazione). Esistono poi il logudorese, il nuorese, il gallurese, oltre a infinite varianti locali che si possono considerare, queste sì, dialetti.
Dopo la pausa ripartiamo verso il borgo, passando dalla chiesa, dove le donne di Sant’Elia Viva hanno allestito un grande e colorato presepe. Così c’è l’opportunità di scambiare anche due parole con il giovane parroco. Ancora due passi ed è ora di andare da Pinella, la sorella di Rita, dove stanno preparando per noi una ricca cena conviviale.
Prima di cena guardiamo tutti insieme, stringendoci un po’ nel salotto davanti al camino, “Sant’Elia, frammenti di uno spazio quotidiano”. Si tratta di un web-documentario realizzato da Maurizio Memoli (Università di Cagliari) e Silvia Aru (Università di Siena), geografi sociali, con il giornalista Claudio Jampaglia (tra l’altro recente acquisto di Radio Popolare) e il regista Bruno Chiaravalloti. Ha vinto il premio speciale “webdoc”, assegnato dall’agenzia “Redattore sociale” nell’ambito del premio “L’Anello debole 2017” al “Capodarco l’altro festival”.
Il film racconta il volto di una “periferia” e di chi la abita attraverso una narrazione corale da parte degli abitanti, in particolare delle donne. Si sentono le voci di Rosa e di Rita. Si può vedere alla pagina:
http://webdoc.unica.it/santelia/index.php
Ovviamente la visione del documentario dà la stura ai ricordi. Per esempio, di quella volta che durante la visita di Paolo VI nel quartiere nel 1970 ci fu una contestazione e ci furono scontri quando venne impedito di manifestare a un gruppo di anarchici. Trecento persone furono fermate e portate in questura, accusate anche di aver rubato l’anello del papa, che però pare fu ritrovato subito.
Da ricordare che proprio qui a Sant’Elia nel 2012 è stato girato anche il film Bellas Mariposas di Salvatore Mereu, tratto dal libro di Sergio Atzeni, che racconta la giornata di due ragazzine che come due farfalle sognano di poter volare via dalla periferia e da situazioni familiari e sociali difficili.
La cena è pronta. Arrivano piatti abbondanti di fregola con le cozze, ai quali si fa onore con grande entusiasmo. Ci dicono che normalmente i sardi mangiano molto di più, quindi non vogliamo essere da meno e fare la solita figura da milanesi… si cerca di finire tutte le cozze che ci sono, accompagnandole con pane carasau. C’è anche la burrida, che però è quella di Cagliari, fatta con i fegatini di gattuccio di mare e le noci tritate, ben diversa da quella di Cabras che avevo gustato l’estate scorsa e che è fatta con le ali di razza.
A grande richiesta, Rosa declama la sua poesia “Amo la mia borgata”, che potete apprezzare in questo video:
E insomma, la serata finisce in allegria, con grande ammirazione per queste donne coraggiose e resilienti; e speriamo che non debbano davvero occupare di nuovo per ottenere quello che dovrebbe essere un diritto.
Eccoci sull’autobus, mentre torniamo a casa.
Domenica 30 dicembre 2018
La colazione del B&B, per qualità e varietà, lascia un tantino a desiderare, c’è da dire. Ma noi abbiamo i nostri angeli con ali di farfalla che hanno pensato a noi e ci hanno lasciato dei buoni dolci di Mogoro…
E a proposito di angeli, oggi sarà Angelica, per tutti Gegia, ad accompagnarci alla scoperta dei quartieri più centrali di Cagliari, sia sopra che… sotto il livello del suolo. Sì, perché il programma prevede anche la Cagliari sotterranea, la vera Cagliari invisibile, che ci permetterà di compiere un viaggio nel tempo, dall’epoca romana fino alla seconda guerra mondiale. Ed è proprio da lì che partiremo.
Gegia insegna lettere, oltre ad essere una mariposa, ed è decisamente la più “social” di tutte. È lei la social media manager che cura il sito, il blog, i profili Facebook e Instagram. Con grande bravura e fantasia, devo dire. Anche quando non c’è, le sue colleghe le mandano le foto e lei, in men che non si dica, sforna “stories” di Instagram come se non ci fosse un domani. Infatti oggi è arrivata attrezzata con… niente meno che il mitico “bastone da selfie”!
Per la mattinata, però, la nostra guida sarà Francesca, di “Sardegna – L’isola che vorrei”, che ci propone un tour dei luoghi più simbolici della Cagliari sotterranea. Si parte da un rifugio che si trova sotto la scuola secondaria di primo e secondo grado “Don Bosco”, dei salesiani. Ma prima Francesca ci dà due dritte essenziali sulla storia di Cagliari.
I fenici fondarono per primi, qui, un porto commerciale, ma la vera storia di Cagliari come città inizia solo con i cartaginesi, che le diedero il nome Karali, che significa “pietra”. E la Cagliari sotterranea che vedremo è, naturalmente, tutta scavata nella roccia calcarea caratteristica di queste parti.
Dopo i cartaginesi, arrivarono i romani. La parte della città dove ci troviamo ora, la parte alta di Stampace, di fronte a quello che ora è l’orto botanico, era quella “residenziale”, ci abitavano i romani ricchi. Qui vicino c’è l’anfiteatro romano, e ci sono i resti di alcune domus. Poi arrivarono i vandali, i bizantini, e poi ci fu quel periodo del medioevo in cui la Sardegna fu indipendente, divisa in quattro aree che erano chiamate Giudicati. Nel XII secolo Cagliari subì diverse incursioni arabe, quindi agli inizi del 1200 la giudicessa Benedetta chiese aiuto a Pisa, allora repubblica marinara con la sua grande flotta. I pisani, in cambio, chiesero la zona alta, quella del Castello, dove fondarono la città medioevale che da allora in poi sarà sempre la più ambita da tutte le dominazioni successive: aragonesi, Regno di Spagna che dura per circa 400 anni e poi i Savoia con il Regno di Sardegna che diventerà Regno d’Italia.
Sotto questa scuola c’è un rifugio antiaereo che venne utilizzato da febbraio a maggio del 1943 perché in quei mesi la città di Cagliari, allora costituita dai soli quartieri storici Marina, Castello, Stampace e Villanova, venne pesantemente bombardata. Gli inglesi iniziarono a bombardare per cercare di creare una sorta di diversivo con cui spostare le truppe tedesche dalla Sicilia, che era il vero obiettivo per il successivo sbarco, alla Sardegna. Attraverso l’intelligence venne fatto ritrovare un cadavere con l’uniforme dell’esercito inglese e con dei documenti secondo i quali lo sbarco sarebbe avvenuto in Sardegna. I tedeschi ci credettero e cominciarono a stanziare truppe a Cagliari, tra l’altro negli stabilimenti del Poetto, la grande spiaggia cittadina. I bombardamenti crearono morte, distruzione, sfollati, e naturalmente la necessità di rifugi. Alcuni rifugi vennero creati appositamente, ma vennero utilizzati anche una cisterna di epoca romana, lo stesso anfiteatro e altre aree monumentali. Molti di questi rifugi vennero utilizzati anche dopo la guerra, quando la città era distrutta. L’anfiteatro, ad esempio, fu utilizzato come alloggio “temporaneo” fino al 1954. A Tuvixeddu, non lontano da qui, una necropoli punico-romana fatta di tombe a pozzo fu usata come abitazione da alcune famiglie addirittura fino agli anni ’70.
La scuola è stata costruita tra gli anni ’20 e gli anni ’30. Quando iniziarono i bombardamenti, aveva bisogno di un rifugio. Parte di quello che vediamo esisteva già come cava di calcina, e venne modificato per poter essere usato come rifugio. Inizialmente, potevano accedervi solo gli studenti e gli insegnanti, poi a un certo punto data la gravità della situazione la scuola decise di aprire. Ma, dopo il sesto segnale di allarme, il rifugio veniva comunque chiuso, per evitare il sovraffollamento.
Entrando nella galleria, illuminata con tante candele appoggiate a terra, si vedono i segni della dinamite usata per scavare. La galleria raggiunge una profondità massima di 7 metri. Nel rifugio ci potevano stare da 200 a 300 persone; secondo disposizioni comunali ci doveva essere un metro quadro a persona, ma era impossibile rispettare questa regola. Si vedono anche gli archi costruiti per rinforzare il soffitto.
Essendo un rifugio privato, quando finivano i bombardamenti veniva chiuso. In altri casi di rifugi pubblici le persone rimanevano anche dopo i bombardamenti, per paura o perché avevano perso la casa. A guerra finita, la scuola iniziò a usare questa galleria come magazzino. Nel 2013 il sotterraneo è stato ripulito dall’associazione di cui Francesca fa parte insieme anche ai ragazzi della scuola ed è stato trovato di tutto. Alcuni di questi oggetti (bottiglie, bicchieri, pentole, materassi) sono stati lasciati qui, però si tratta di oggetti portati dopo, non sono del tempo di guerra.
Lo sfollamento, durante la guerra e immediatamente dopo, coinvolgeva solo le famiglie che avevano parenti nei paesi dell’interno o la disponibilità economica per lasciare Cagliari. Uno dei nonni di Francesca da bambino usò un rifugio, ma non questo, quello sotto i giardini pubblici di Castello. A guerra finita alcune famiglie di sfollati rientrarono in città, altre restarono fuori.
Un’altra curiosità che ci racconta la brava Francesca è che qui una “canadese” è una tuta sportiva, non una tenda, perché le prime tute che si videro qui le indossavano, si dice, i soldati alleati, che a quanto sembra erano in maggioranza canadesi.
Usciamo dal sotterraneo, ma Francesca, dopo averci accompagnati fuori, deve tornare giù a spegnere tutte le candele. Ci offriamo di aiutarla, ma assicura che ormai ha una tecnica collaudata e che fa prima da sola.
Possiamo così spostarci verso la seconda tappa “sotterranea”, quella della cripta di Santa Restituta.
Santa Restituta è una chiesa in stile barocco catalano, che risale al 1600. Di fianco alla chiesa c’è l’ospedale militare.
Nella piazza c’è una targa commemorativa che ricorda il bombardamento del 17 febbraio 1943, che fu il primo a causare danni veramente gravi (ce n’erano stati già altri, meno tragici, alla fine del 1942) e che colpì molte persone (circa 200) che cercavano rifugio proprio qui nella cripta di Santa Restituta.
La cripta è costruita in una grotta naturale, che era già sfruttata ai tempi dei fenici e dei cartaginesi, come deposito di anfore. I romani crearono due cisterne per la raccolta dell’acqua piovana. Durante il V secolo, vennero portate le reliquie di Santa Restituta da parte di alcuni preti nordafricani. Il nordafrica e la Sardegna erano allora dominati dai vandali, che erano di religione ariana. Come tali non riconoscevano la gerarchia Padre-Figlio-Spirito Santo e imponevano a tutti la conversione. Chi rifiutava, come questi sacerdoti, veniva esiliato in Sardegna.
Santa Restituta era una donna nata a Cartagine, convertitasi al cristianesimo e bruciata viva nell’83 d.C. durante le persecuzioni romane. Nel XIII secolo questa cripta divenne una chiesa sotterranea utilizzata da monaci bizantini. Allora tutto il soffitto era affrescato, oggi non ne rimane nulla tranne un piccolo frammento. Poi fu dimenticata per alcuni secoli, finché tra il 1614 e il 1617 iniziò la cosiddetta guerra dei santi e dei martiri tra la diocesi di Cagliari e quella di Sassari, che si contendevano il potere religioso in Sardegna. Si cercavano disperatamente reliquie di martiri sardi; la guerra la vinse Cagliari, anzi la stravinse 179 a 3. C’è da dire che a Sassari furono sicuramente più onesti. Qui a Cagliari, dove c’erano diverse necropoli romane, venivano spesso ritrovate tombe con i nomi delle persone e la scritta B.M., che stava per Buona Memoria. Nel 1600 però queste due lettere venivano interpretate come Beato Martire, moltiplicando così il numero dei martiri da portare per la causa della supremazia della diocesi. Tutte le reliquie di questi 179 martiri, o presunti tali, si trovano oggi nella cripta della Cattedrale di Cagliari.
Nella cripta di Santa Restituta si trova anche la colonna del martirio, ovvero quella colonna alla quale la martire sarebbe stata legata per essere bruciata viva. La storia è falsa, perché in realtà la santa fu bruciata a Cartagine ed arrivò qui già in cenere; e anche la posizione non corrisponde a quella che era stata individuata all’inizio del ‘600 per accreditare una Santa Restituta “sarda”. Tuttavia, nell’800 la colonna diventò oggetto di un culto particolare da parte delle donne di Stampace, che credevano che toccandola come in una sorta di rito fallico si potesse rimanere incinte. Il prete dell’epoca, che non apprezzava troppo questo tipo di culto, fece murare la base della colonna per evitare che ci si potesse avvicinare troppo.
A quel punto, però, le donne iniziarono a credere che fosse la sabbia prodotta dalla roccia calcarea ad avere proprietà magiche. Venivano qui con i bambini malati di vaiolo, li spogliavano e li ricoprivano con questa sabbia. Non serviva a curare il vaiolo, ma a volte la febbre si abbassava o altre malattie minori miglioravano, probabilmente solo perché essendo in un sotterraneo c’era molta umidità e molta muffa, che è la base da cui si ricava la penicillina. Questo comunque contribuiva ad avvalorare la diceria popolare. Ma anche questo vedere bambini girare nudi per la chiesa non era accettabile e perciò la chiesa venne sconsacrata. La cripta rimase quindi chiusa e inutilizzata fino al 1943, quando tornò a essere usata come rifugio antiaereo.
Usciamo e ci spostiamo poco lontano, dove si trova il cosiddetto Carcere di Sant’Efisio.
Quest’altro luogo sotterraneo era una cava di calcare utilizzata già dai cartaginesi: le due colonne che si vedono sorreggevano il soffitto e venivano estratti blocchi di pietra. La scala con la quale si accede è però molto successiva, del 1600. Anche qui in quell’epoca si è riscavato per cercare le reliquie di Sant’Efisio, che non si trovavano qui ma a Pisa. Solo recentemente sono ritornate a Cagliari.
Allora perché questo luogo è conosciuto come carcere di Sant’Efisio? Sant’Efisio era uno dei tanti soldati romani mandati in Sardegna per combattere i cristiani. Era originario di Antiochia. Durante il viaggio in nave, però, avviene la conversione. A quel punto, Sant’Efisio viene messo davanti alla scelta: o rinnega la sua nuova religione o verrà imprigionato. Lui rifiuta di rinnegare il cristianesimo e quindi, una volta giunto a Cagliari, viene gettato in questo sotterraneo. Il martirio, però, non avviene a Cagliari ma a Nora, che in epoca romana era una città importante e che si trova a circa 35 km da Cagliari. Oggi, nel luogo dove si dice che il santo sia stato decapitato, c’è la chiesetta di Sant’Efisio. Il santo, che è il patrono di Nora, si festeggia il 15 gennaio. Ma in realtà, a Cagliari e in tutto il sud della Sardegna, Sant’Efisio è venerato come se fosse il patrono e molti credono che effettivamente lo sia. Il patrono di Cagliari è in realtà San Saturnino, che si festeggia il 30 ottobre.
Ma Sant’Efisio è il patrono della diocesi di Cagliari, ed è importante perché gli sono stati attribuiti diversi miracoli. Innanzitutto, si dice che in punto di morte pregò per Cagliari invocando la protezione di Dio sulla città. Nel 1656, durante un’epidemia di peste, i cagliaritani chiedono a Sant’Efisio di fare il miracolo ed effettivamente la peste finisce. Viene perciò fatto un voto ed ogni anno, il 1° maggio, in periodo di primavera e quindi di rinascita, si celebra una festa per Sant’Efisio con tanto di processione con la quale la statua viene portata in un cocchio da qui a Nora.
Il secondo miracolo di Sant’Efisio si verifica nel 1793, anno in cui i francesi si stanno preparando a invadere la Sardegna e mandano una flotta a sbarcare nella città di Cagliari. La storia racconta che le truppe comandate dal generale Casabianca, circa 4000 uomini, sbarcano nel litorale di Quartu Sant’Elena ma vengono respinte dalle milizie sarde dopo alcuni giorni di combattimento. I francesi decidono quindi di ritirarsi dal sud della Sardegna lasciando solo dei piccoli presidi di poche centinaia di uomini nelle isole dell’arcipelago del Sulcis. Secondo la devozione popolare, tuttavia, fu Sant’Efisio, la cui statua era stata portata al porto, a respingere i francesi provocando una tempesta che impedì alle navi francesi di entrare in porto. Nella realtà, il ruolo delle milizie sarde nella cacciata dei francesi permise alla Sardegna di chiedere più diritti ai Savoia perché, nonostante il Regno si chiamasse Regno di Sardegna, i sardi non avevano alcuna rappresentanza in parlamento.
Nel 1794 un gruppo di nobili sardi va a Torino con una serie di richieste, che però non vengono accolte. Ed ecco che, il 28 aprile del 1794, che viene chiamato sa die de sa Sardigna (il giorno della Sardegna), i piemontesi vengono cacciati. La rivoluzione inizia proprio da qui, da Stampace, e sale poi al Castello. Si aprono le carceri e comincia la caccia ai piemontesi. Si dice che per riconoscerli venisse loro chiesto di pronunciare in sardo la parola cixiri (ceci), particolarmente ostica per i non sardi. Segue un breve periodo di indipendenza; dopo pochi mesi il governo di Torino fa alcune concessioni, viene installato un nuovo viceré e lentamente la situazione si “normalizza”, anche se negli anni successivi ci sono altre rivolte.
Il terzo miracolo arriva durante la seconda guerra mondiale. Il 1° maggio del 1943 non si era sicuri di voler organizzare la processione di Sant’Efisio, perché la città era distrutta. Viene organizzata nonostante tutto ma in tono minore, non con i soliti fasti ma con la statua trasportata su un carretto del latte. E quel giorno la città non viene bombardata. Qui si può vedere un filmato d’epoca di quella giornata, che è rimasta nella memoria storica della città:
Processione di Sant’Efisio, 1° maggio 1943

Francesca e Gegia
Terminata la parte sotterranea, si continua il giro di Stampace alla luce del sole, per concluderlo davanti alla chiesa di Sant’Anna.
Sant’Anna è la principale chiesa parrocchiale del quartiere. La sua costruzione cominciò alla fine del XVIII secolo in stile barocco, per sostituire una precedente chiesa, di modeste dimensioni, risalente al XIII secolo. Ma non era ancora completamente finita quando fu gravemente danneggiata nel 1943 a causa dei bombardamenti (il soffitto fu completamente distrutto), e venne ricostruita nel dopoguerra. Si notano anche nella facciata tre differenti colori, che corrispondono a diversi momenti della sua costruzione. La facciata, incorniciata da due campanili, è preceduta da una caratteristica scalinata.
La chiesa è legata a un noto modo di dire cagliaritano, Sa fabbrica de Sant’Anna (“La costruzione di Sant’Anna”), utilizzato sarcasticamente per etichettare un qualcosa di interminabile, paragonandolo alla lunghissima e travagliata vicenda costruttiva della parrocchiale di Stampace.
La duecentesca chiesa di Sant’Anna si sviluppava nell’area oggi occupata dal transetto del nuovo edificio. Di questa prima chiesa, probabilmente in stile romanico pisano, resta una testimonianza, risalente al 1263, di Federico Visconti, arcivescovo di Pisa, nel resoconto della sua visita a Cagliari.
Nel XVIII secolo si pensò di costruire una chiesa più capiente e il progetto venne affidato all’architetto piemontese Giuseppe Viana, allievo di Benedetto Alfieri. I lavori per realizzare il progetto procedettero a rilento, a causa della mancanza di fondi. Grazie alla mobilitazione di diversi finanziatori, tra cui il viceré Carlo Felice (che volle all’interno di Sant’Anna una cappella dedicata al beato Amedeo di Savoia), si arrivò all’inaugurazione nel 1817, alla presenza del vescovo di Iglesias, monsignor Navoni. La chiesa risultava però ancora incompleta.
Nel dopoguerra si procedette alla ricostruzione, senza ripristinare le decorazioni all’interno. La riapertura al culto si ebbe nel 1951.
Ancora oggi Sant’Anna si può dire incompiuta: nel campanile destro mancano la campana e le lancette dell’orologio. Sembra che questa sia una scelta, perché ormai è talmente proverbiale il suo essere incompleta che secondo alcuni finirla porterebbe sfortuna.
Francesca ci saluta con le diverse possibili interpretazioni del nome di Stampace. La prima è legata al periodo pisano: sarebbe infatti quello dell’omonimo luogo delle mura di Pisa corrispondente alla Porta al Mare, luogo in cui è probabile esistesse nell’Alto Medioevo una chiesa dedicata a Santo Paciano. La seconda, che pare sia la più probabile, viene dal sardo e avrebbe a che vedere con i buchi, con le tante cave che esistevano anticamente: in sardo buco si dice stampu, al plurale stampusu. La terza risale al periodo aragonese: in quel periodo, a Castello potevano vivere solo i nobili spagnoli, ma i cagliaritani durante la giornata potevano entrare per aprire le loro botteghe. Alla sera, al suono della tromba, c’era una sorta di coprifuoco e i cagliaritani dovevano andare via. Chi veniva sorpreso fuori orario poteva essere buttato giù dalle torri o dal bastione di Saint Remy. E allora si diceva “Sta in pace”, da cui Stampace.
Prima di pranzo ci prendiamo una piccola pausa per passeggiare tra le bancarelle nel mercatino natalizio di Piazza Yenne.
Il pranzo è organizzato per noi da Ethnica, ristorante eritreo nel cuore della Marina, il quartiere più multiculturale di Cagliari. Ci accoglie Abeba, che prepara al momento per noi dei ricchi piatti contenenti vari assaggini di specialità eritree come cous cous, purè di lenticchie e altre verdure. Al centro del piatto la specialità eritrea per eccellenza, che si chiama zighinì ed è uno spezzatino piccante di carne (in questo caso di manzo) insaporito con una miscela di spezie, tra cui peperoncino, zenzero, chiodi di garofano e coriandolo. Il tutto è adagiato sul tipico pane eritreo, l’enjera, che è fatto con la farina di teff ed è una specie di crêpe con una consistenza spugnosa e un sapore leggermente acidulo. L’enjera, fatto a pezzetti, può essere usato anche per avvolgere i bocconi da portare alla bocca se si mangia con le mani, ma noi abbiamo coltello e forchetta.

Abeba e Gegia
Dopo questo pranzetto “etnico” e gustoso un tè al cardamomo e siamo pronti a ripartire.
Ci aspetta la visita a un altro quartiere di Cagliari poco battuto ma davvero sorprendente, Villanova (Biddanoa in sardo).
Per arrivarci passiamo davanti al Bastione di Saint Remy, che è una delle fortificazioni più importanti di Cagliari. Il nome deriva dal primo viceré piemontese, Filippo Guglielmo Pallavicini, Barone di Saint Remy. Alla fine del XIX secolo venne trasformato in una scalinata monumentale, sormontata dall’arco di Trionfo, che dà accesso ad una passeggiata coperta e ad una grande terrazza panoramica.
Venne costruito sulle mura antiche della città, risalenti agli inizi del XIV secolo, collegando fra loro i tre bastioni meridionali della Zecca, di Santa Caterina e dello Sperone, per unire il quartiere Castello con quelli sottostanti di Villanova e Marina. L’edificio è realizzato in stile neoclassico, con colonne corinzie, utilizzando la Pietra Forte, un calcare bianco e giallo presente in abbondanza nel territorio circostante. Fu inaugurato nel 1901. La scalinata a doppia rampa, con la quale si entra dalla piazza Costituzione, si interrompe nella passeggiata coperta, e si conclude sotto l’arco di Trionfo, nella terrazza Umberto I. Il 17 febbraio 1943, la scalinata e l’Arco di trionfo vennero danneggiati gravemente dalle bombe americane, ma finita la guerra vennero fedelmente ricostruiti.
Bidda noa significa letteralmente paese nuovo, spiega Gegia; paese perché questo era considerato in passato un borgo a sé stante, ed è diverso da tutti gli altri quartieri. Dal punto di vista dell’architettura, sono tutte case basse, e la fondazione è da ricondurre allo stanziamento di persone provenienti da fuori città, dai paesi del Campidano, che portarono con loro anche una cultura tipicamente di paese, con i forni, i piccoli negozi e i mercati contadini.
Ma la particolarità più evidente del quartiere è un’altra, che ha visto una “fioritura” (si può proprio dire così, è il termine appropriato) negli ultimi anni. Da quando un comitato di quartiere, che lavora per valorizzare, ravvivare e impreziosire questa zona di Cagliari, ha lanciato il concorso “Balconi fioriti a Villanova”. Il concorso, che prevede una vera e propria giuria, si prefigge di incentivare i cittadini a creare allestimenti floreali di balconi, finestre, davanzali, terrazze, ingressi, portoni e ringhiere visibili dall’esterno. Ogni anno, a maggio, viene scelto l’allestimento migliore. Bisogna dire che i residenti del quartiere hanno aderito con grande entusiasmo e si vedono, anche ora che siamo fuori “stagione”, diverse vie che sono veramente un trionfo di fioriere, piante, creazioni manuali con verde e colori.
Nel quartiere vediamo anche due scritte sui muri, forse della stessa mano, che non possiamo che apprezzare. Sì, sì, lo so, non hanno un particolare valore artistico e il messaggio è molto semplice, ma ha una sua efficacia, ancora di più se detto in sardo: “Salvini Bairindi”, cioè “Salvini vattene”.
Cominciamo poi la salita verso Castello, la parte “nobile” della città. In realtà non si tratta di un vero castello, ma piuttosto di una cittadella fortificata.
Salendo a Castello, vediamo la Torre dell’Elefante, la seconda torre medievale più alta di Cagliari dopo la torre di San Pancrazio.
La torre venne costruita nel 1307, su ordine dei consoli pisani Giovanni De Vecchi e Giovanni Cinquini. Nel 1328 venne chiuso il lato nord della torre per creare abitazioni per funzionari e magazzini. In epoca spagnola l’edificio venne utilizzato anche come carcere e alle sue porte venivano appese le teste mozzate dei prigionieri condannati a morte e decapitati nella vicina plazuela (attuale piazza Carlo Alberto), come monito. Oltre a servire come difesa era ed è ancora, insieme alla torre di San Pancrazio, la porta principale per entrare a Castello.
In altezza raggiunge i 30 metri circa che, considerando anche il torrino, si elevano a 35. Invece dal lato di via Cammino Nuovo raggiunge i 42 metri di altezza. si notano diversi stemmi del XIV secolo tra cui quello della città e, su una mensola che sporge dal muro, la piccola scultura raffigurante un elefante (scelto in quanto era uno dei simboli usati da Pisa).
Raggiungiamo Piazza Palazzo, dove si trova il Palazzo Civico, il vecchio palazzo comunale di Cagliari, di epoca spagnola, e che poi sfocia in Piazza Carlo Alberto, dove si trova la Cattedrale.
La Cattedrale è costruita su un’antica chiesa di Santa Cecilia e aveva originariamente una facciata romanica del periodo pisano. Sotto gli spagnoli, venne ricostruita totalmente in stile barocco. La ricostruzione durò fino all’inizio del 1700, quando il barocco si poteva considerare in altre parti d’Italia e d’Europa già superato. Ma la Sardegna è un’isola, sottolinea Gegia, e quindi spesso storicamente anche gli stili architettonici sono arrivati più tardi che nel “continente”. Negli anni ’30 del ‘900 si decise di scrostare completamente la facciata barocca con l’idea di recuperare quella originaria pisana, ma si scoprì che la facciata originaria era stata già completamente scrostata all’epoca del rifacimento barocco, per cui non rimase altro che una cattedrale “senza facciata”. Per sopperire, venne ricostruita una facciata che non ha nulla di originale, né del periodo pisano né di quello barocco, ma è la copia identica di quella della cattedrale di Pisa. Evidentemente, dato che l’intento era quello di recuperare la facciata “pisana”, fu scelto il modello più semplice disponibile.
All’interno della Cattedrale, la parte più interessante è in realtà la cripta, dove si trova il cosiddetto Santuario dei Martiri.
Il santuario, scavato nella roccia, ha volte a botte ribassate e decorazioni in stile barocco. Comprende l’area sottostante il presbiterio e il coro della cattedrale. Fu inaugurato il 27 novembre 1618. Consta di una scala di accesso e di tre cappelle intercomunicanti tutte rivestite di marmo. Contiene complessivamente 179 nicchiette disposte nelle pareti delle tre cappelle, una per ciascuno dei martiri, veri o presunti, con cui la diocesi di Cagliari vinse la “guerra” con quella di Sassari 179 a 3. Sopra ogni nicchietta vi è una formella in marmo a bassorilievo del santo con il relativo nome e i simboli del martirio. Tra i tanti nomi, il curioso San Suino.
Le volte nei tre ambienti sono decorate a rosoni con punte di diamante in rilievo. I rosoni sono 564 e non c’è n’è uno uguale all’altro, ci fa notare Gegia. Francisco de Esquivel, l’arcivescovo dell’epoca, aveva fatto veramente le cose in grande.
Le due cappelle laterali sono dedicate a San Lucifero e a San Saturnino, il vero patrono di Cagliari.
Nella Cappella di San Lucifero sono sistemate 80 nicchie. È dedicata a San Lucifero vescovo di Cagliari. Durante il concilio di Milano Lucifero, insieme a Sant’Eusebio, si oppose alla condanna di Sant’Atanasio di Alessandria da parte dell’imperatore Costanzo II e dei vescovi arianeggianti e per questo venne esiliato. Le ossa del santo, rinvenute il 21 giugno 1623 e traslate il 20 maggio 1626, sono poste sotto la mensa dell’altare. Può sembrare strano un santo che si chiami Lucifero, ma in fondo Lucifero significa portatore di luce, e quel Lucifero era un angelo caduto…
Nella cappella sono inoltre presenti un sarcofago di epoca romana contenente le ossa di Sant’Antioco e il mausoleo in marmo bianco di Maria Giuseppina di Savoia, moglie di Luigi XVIII re di Francia, morta in esilio a Londra nel 1810 e traslata a Cagliari, in rispetto alla sua volontà, nel 1811.
Nella cappella di San Saturnino, più piccola delle altre due, sono poste 33 nicchie. La cappella fu edificata verso il 1620. Sopra l’altare, un sarcofago romano del II secolo (ritrovato nel 1621 nella basilica di San Saturnino) conserva le reliquie del santo. Al di sopra di esso, in una nicchia, è collocata la statua marmorea di san Saturnino. All’incrocio dei costoloni nella volta la gemma anulare raffigura San Saturnino e la chiesa a lui dedicata, così come era nel XVII secolo. Nella cappella sono presenti altri due sarcofagi di epoca romana: uno collocato sopra la porta di ingresso contiene reliquie di 10 santi, l’altro posto sulla parete dietro il monumento dedicato a Carlo Emanuele di Savoia contiene reliquie di 9 santi. Infine, in fondo alla cappella, vi è il mausoleo di Carlo Emanuele di Savoia, morto di vaiolo all’età di due anni.

San Saturnino

San Lucifero
Ci facciamo un giretto anche nella chiesa ortodossa russa, che è proprio a due passi dalla Cattedrale e che ci incuriosisce, e poi ci fermiamo ad ammirare Cagliari dall’alto dalle terrazze del Castello. Spicca nel panorama della città il “cupolone” verde di Sant’Anna.
E qui è tempo che Gegia ci mostri, da par suo, come si usa un bastone da selfie per un selfie di gruppo. Lei insiste, però, a voler prendere anche un po’ di Cagliari…
Dopo di che, ci legge un paio di estratti di “Mare e Sardegna”, il racconto di viaggio che David Herbert Lawrence scrisse dopo aver visitato la Sardegna nel 1921:
“E improvvisamente ecco Cagliari: una città nuda che si alza ripida, dorata, accatastata nuda verso il cielo dalla pianura all’inizio della profonda baia senza forme. È strana e piuttosto sorprendente, per nulla somigliante all’Italia. La città si ammucchia verso l’alto, quasi in miniatura, e mi fa pensare a Gerusalemme: senza alberi, senza riparo, che si erge spoglia e fiera, remota come se fosse indietro nella storia, come una città nel messale miniato da un monaco. Ci si chiede come abbia fatto ad arrivare là. Sembra la Spagna, o Malta: non l’Italia. È una città ripida e solitaria, senza alberi, come in una miniatura antica. E al tempo stesso simile a un gioiello, un inaspettato gioiello d’ambra a rosetta nudo nel cuore della vasta rientranza.
(…)
Sopra ai bastioni la città continua a salire ripida verso la Cattedrale e la fortezza. Quello che è singolare è che questa terrazza o bastione sia così ampia, come un grande campo di gioco, tanto da essere quasi desolata, e non si riesce a capire come faccia a stare sospesa a mezz’aria. Giù in basso c’è il piccolo cerchio del porto. A sinistra una bassa pianura marina, dall’aspetto malarico, con ciuffi di palme e case che sembrano arabe. Da qui parte la lunga lingua di terra che va verso la torre d’avvistamento bianca e nera, la strada bianca striscia in quella direzione. Sulla destra, davvero curioso, una lunga, strana lingua di sabbia corre come una sopraelevata lontano attraverso le secche della baia, col mare aperto da una parte, e vaste lagune, una cosa da fine del mondo, dall’altra. Oltre queste ci sono montagne scure dalle molte vette, proprio come oltre la vasta baia ci sono tetre colline. È un paesaggio davvero strano: come se il mondo finisse qui. La baia è di per sé estesa; e tutte queste cose curiose che accadono sul suo capo: questa strana città scoscesa, simile a una grande colonnetta di roccia coperta di case che si protende verso l’alto dalle secche della baia: e intorno, da un lato, la stanca pianura malarica, simile a quelle arabe desolate e ricoperte di palme, e dall’altro, le grandi saline, proprio dietro lo sbarramento di sabbia, con alle spalle, all’improvviso, montagne serrate e raggruppate, mentre lontano, oltre la pianura, colline sorgono nuovamente verso il mare. Terra e mare sembrano finire entrambi, spossati, sul capo della baia: la fine del mondo. E in questa fine del mondo sorge Cagliari, e su entrambi i lati, improvvise colline dalle creste serpentine.
Ma ancora mi ricorda Malta: persa tra Europa e Africa, appartiene a nessun luogo. Appartiene a nessun luogo, non essendo mai appartenuta a nessun luogo. Alla Spagna e agli arabi e ai fenici, più di tutto. Ma come se non avesse mai veramente avuto un destino. Nessun fato. Lasciata fuori del tempo e della storia.
Lo spirito del luogo è una cosa strana. La nostra epoca meccanica cerca di non tenerne conto. Ma non ci riesce. Alla fine lo strano, sinistro spirito del luogo, così diverso e così avverso in luoghi differenti, manderà in frantumi la nostra identità meccanica, e tutto quello che noi crediamo essere la cosa vera esploderà con un botto, e noi saremo lasciati a guardare con occhi sgranati.”
Cagliari è davvero una strana città scoscesa, che davvero non appartiene a nessun luogo; ma è anche un inaspettato gioiello, non si può che essere d’accordo con il vecchio D.H.; e sperando che davvero un giorno la nostra identità meccanica andrà in frantumi, come diceva lui, noi cominciamo la discesa verso Stampace. Felici che non ci sia un soldato spagnolo a buttarci giù dal bastione perché è arrivata l’ora del coprifuoco.
Questa sera la cena è “libera”, vale a dire senza le nostre farfalline preferite. Noi, seguendo comunque uno dei loro consigli, andiamo a cena da Tziu Lillicu, una trattoria sarda di antica tradizione, fondata nel 1938.
Qui ci lasciamo tentare dagli antipasti, che sono di una tale varietà e soprattutto quantità, che per alcuni il pasto potrebbe anche finire qui: tonno, muggine, fave, frittelle di gianchetti (avannotti di pesce azzurro, in genere acciughe o sardine), cozze, lumache di mare. Ma non si può rinunciare agli spaghetti con arselle e bottarga macinata (altri si orientano sul fritto misto). Insomma, una scorpacciata di ottimo pesce, da concludere con dei dolcetti sardi.
Lunedì 31 dicembre 2018
Oggi si fa colazione presto, perché il programma prevede il temuto (o atteso, a seconda dei casi) trekking urbano.
Usciamo tutti belli vestiti a strati e muniti di scarpe da trekking e di acqua, come da istruzioni ricevute; Silvia ci viene a prendere e ci porta, in autobus, verso il punto di partenza, che è San Bartolomeo. Durante il viaggio, comincia a intrattenerci anticipandoci qualcosa sulle varie erbe e bacche che incontreremo sul percorso, di cui è una grande esperta. Io che invece non ne so assolutamente niente scopro che, addirittura, un olio estratto dalle bacche di lentisco può arrivare a costare 90 euro al litro!
Non saremo soli a “lanciarci” in questa impresa: con noi si è iscritto un nutrito gruppo di cagliaritani, che evidentemente anche loro hanno voglia di un ultimo dell’anno un po’ diverso e a contatto con la natura che loro hanno la fortuna di avere in città. La maggior parte vive a Cagliari, ma c’è anche un gruppetto di persone che sono di origine cagliaritana ma vivono in Germania. Ci sono parecchi bambini e ragazzini di diverse età.
Oltre a Silvia, che è un’esperta trekker reduce da un viaggio in cammino sugli altipiani dell’Etiopia e su queste montagne sarde ha fatto anche un censimento dei cervi, ci accompagnerà anche Sara. Anche lei ha origini sarde ma non è cresciuta qui, si è trasferita qui da Brescia per una scelta di vita che è facilmente comprensibile e della quale è molto convinta.
Silvia ci raccomanda prima di tutto di mantenerci sul sentiero e di cercare di non arrecare troppo danno all’ambiente, per esempio alle orchidee che sono fiori endemici di questa zona e che sicuramente troveremo. Poi ci parla un po’ di questo quartiere di San Bartolomeo, che è uno dei luoghi più antichi di Cagliari. Il promontorio è stato abitato fin dai tempi del neolitico: ci sono delle cavità, delle grotte nel calcare che erano abitate dai primi uomini. Ci sono stati ritrovamenti di ossidiana, schegge, pezzi di oggetti di uso quotidiano. E si sa che mangiavano mitili e vivevano prevalentemente di pesca. Questa zona almeno fino all’800 era una zona paludosa e insalubre: chi ha resistito eravamo noi che eravamo abituati ai mosquitos, scherza Silvia. La strada che porta qui è stata costruita dai cosiddetti “servi di pena”, perché la storia moderna di questo borgo, dove sono state ritrovate tombe fenicie e i resti di un acquedotto romano (si pensa che già i romani lo usassero per farci vivere chi lavorava nelle saline), inizia nel 1841 come colonia penale. Prima si sa che gli aragonesi avevano concesso quest’area al gremio (la corporazione) dei macellai (che erano in realtà allevatori) perché potessero pascolare il bestiame. Infatti, quando appunto nel 1841 il Comune di Cagliari vendette il borgo alla Marina per farci una colonia penale i “macellai” non erano molto d’accordo. I lavoratori forzati, o servi di pena, venivano impiegati nelle vicine saline, e servivano anche a “salvare” gli abitanti di alcuni paesi vicino Cagliari, come Selargius, che altrimenti erano obbligati a lavorare loro nelle saline. La colonia penale fu costruita in un anno, con intorno le case dei militari ma non solo, perché la colonia era autosufficiente. Sembra che allora le condizioni dei carcerati che lavoravano qui fossero considerate migliori di quelle di chi stava nelle torri in città. Avevano almeno tutti da mangiare, perché altrimenti non avrebbero potuto lavorare. Forse i ministri di allora dicevano che stare qui era “una pacchia”, ironizza Silvia. Ogni riferimento a fatti e personaggi di oggi è puramente casuale.
In questo borghetto, intorno alla piazza con la grande fontana, arrivarono a vivere circa 2000 persone. La chiesa che vediamo qui, che dallo stile sembra spagnola, era anche questa del gremio dei macellai; qui si svolgeva una festa che aveva risvolti anche pagani, con una corsa dei tori.
Questo terreno insalubre, grazie ai servi di pena, venne trasformato in una delle prime colonie agricole in Sardegna. Vennero impiantati degli orti, si coltivava grano, si coltivavano orzo, fave, ceci, c’erano frutteti, vigne, uliveti e bestiame. Erano circa 180 ettari e funzionava così bene che spesso anche i privati chiedevano che i condannati lavorassero anche nel loro terreno. Attorno al 1860 si fece l’esperimento della creazione di una sede staccata di questa colonia penale a Geremeas. A fine pena i condannati decisero di vivere lì e si trasferirono lì con le loro famiglie. Con la morte del proprietario, però, questo esperimento felice finì. Anche se le condizioni dei servi di pena vengono descritte come piacevoli, non lo erano poi così tanto. Le leggi del Regno di Sardegna erano molto restrittive. Da qui i condannati partivano con le loro uniformi bianche e nere, li differenziava solo il berretto: nero significava condanna a morte, verde l’ergastolo e rosso le pene più lievi. Incatenati, attraversavano il viale e arrivavano alle saline, dove lavoravano sotto il sole, con i piedi nel sale e in condizioni veramente difficili. I più fortunati invece lavoravano negli orti, nella falegnameria, come fabbri o pascolando gli animali. Si pensò anche di aprire una scuola agraria, ma non si fece mai e anzi nel 1926 la colonia penale venne chiusa e venduta al Ministero fascista della Guerra per 1.500.000 lire. È stata zona militare e carcere fino al 1989. Molti militari ancora ci abitano.
Nel frattempo, ci ha raggiunto anche Laura, per gli amici Lalli, la quarta mariposa, ma solo in ordine… di apparizione. Lei oltre a fare la mariposa da settembre insegna francese (come precaria, ovviamente) in una scuola secondaria inferiore e superiore a Sanluri, non lontano da Mogoro. Poi, quando può, dà una mano nel bar del fidanzato a Mogoro e, non paga di tutto ciò, è quella che nel gruppo si è assunta l’ingrato compito di gestire la parte contabile e amministrativa. Lei rappresenta per me l’anima concreta delle Mariposas, anche se sicuramente pure lei ha i piedi per terra, ma le ali sempre pronte per spiccare il volo.
Il gruppo è completo e possiamo partire, guidati da Sara e Silvia. Il primo tratto in salita, tra orchidee, calendula e malva, ci porta ad un luogo storico della seconda guerra mondiale. Sara ci conferma quello che già sappiamo da ieri e cioè che si pensava che gli alleati fossero sul punto di sbarcare in Sardegna, non in Sicilia. E riuscirono a farlo credere ai nazifascisti. Questo perché la Sardegna si trovava in posizione strategica: vicina alla Francia, quindi era offensiva verso la Corsica e la Francia; poteva controllare i movimenti dalla Francia verso le colonie africane, e soprattutto quelli delle navi inglesi che andavano verso Malta da Gibilterra. Per questo Cagliari venne molto bombardata: è la seconda città italiana più bombardata dopo Napoli.
Qui c’è un edificio, costruito negli anni ’30, che era la sede della Quarta Legione della Difesa Contraerea Territoriale e della MilMaT, la milizia Marittima Territoriale. Qui si decidevano le strategie di difesa della città. Quando arrivava l’informazione sulla presenza di aerei pericolosi, venivano allertate le contraeree, le navi che erano nel porto, e partivano le sirene di allarme per avvertire la città. Fino al 1942 in città non ci si era veramente resi conto del pericolo. C’era più che altro curiosità per la guerra, legata anche alla presenza in città di soldati tedeschi alti e biondi nelle loro uniformi scintillanti, e di soldati italiani: l’aeronautica della Sardegna era il fiore all’occhiello dell’aeronautica italiana. I piloti erano belli, famosi e coraggiosi, facevano sfoggio delle loro divise nel Corso e con loro quelli della contraerea. Questi ultimi, però, erano meno fiore all’occhiello; spesso arruolati tra ex combattenti, non brillavano per efficienza, anche perché non c’era la percezione di un reale pericolo. Si pensava che i tedeschi, superarmati e all’avanguardia, potessero bastare.
Ma le cose cambiarono, soprattutto quando dai bombardamenti inglesi, che erano notturni e mirati su obiettivi militari, si passò ai bombardamenti americani, che avevano tutt’altra tattica: dovevano essere attacchi diurni, ad alta quota, brevi, intensi, a sorpresa e devastanti, mirati anche e soprattutto a colpire i civili. La storia si ripete, commenta qualcuno. Tra febbraio e marzo del ’43 i cagliaritani scapparono letteralmente dalla città, un esodo massiccio. Chi aveva parenti in campagna andò in campagna, chi non sapeva dove andare venne quassù a rifugiarsi nelle grotte. Che furono abitate durante la guerra e, per chi non aveva più un posto dove stare, anche dopo, come del resto era successo per alcuni rifugi in città. Successivamente, le grotte rimasero battute, e in parte lo sono ancora oggi, per incontri amorosi clandestini (anche a pagamento) e con una certa dose di brivido.
Proseguiamo con un passo tutto sommato buono; di tanto in tanto il gruppo si sgrana, ma le nostre guide sono brave a rimetterlo insieme.
Ci si ferma spesso in modo che Silvia ci possa illustrare caratteristiche e proprietà delle piante che incontriamo. C’è il cisto, che secondo Silvia ha un odore maschile; ebbene sì, pare che ci siano piante con odori maschili e altre con odori femminili. Prendetela così. Abbiamo l’euforbia, che è tossica e che era usata per pescare; in sardo si chiama “sa lua” ed è sinonimo di essere un po’ fuori di testa, naturalmente o… con qualche aiuto. Abbiamo il lentisco, l’erica, l’elicriso, che ha odore di liquirizia, e l’acetosella, che sa di limone e per questo piace ai bambini, anche da mangiare.
C’è bisogno però di una pausa, e di mangiare qualcosa di più sostanzioso. Ebbene, Silvia e Sara hanno pensato anche a questo. Dagli zaini saltano fuori dei gustosi papassini in versione un po’… riveduta e corretta. I papassini sono biscotti tipici sardi, tradizionalmente preparati per Ognissanti ma ormai si trovano sempre. La ricetta tradizionale prevede un impasto di pasta frolla e uva passa (papassa in sardo) con mandorle, noci, scorza di limone o arancia, miele, latte, uova, zucchero e spezie a piacere. Questa versione è invece più “light”, con farina integrale e senza zucchero. Ma sono buoni anche così. Da bere c’è una tisana timo e limone.
Abbiamo raggiunto il promontorio. Questa zona è frequentata da varie specie di uccelli, tra cui la tipica sassaiola sarda. Si lega al nome di Sant’Elia in epoca bizantina; le chiese dedicate a Sant’Elia sorgevano sempre sui monti, come il monte Carmelo in Israele, collegato all’eremitaggio del profeta Elia.
Il forte che si trova qui, però, è dedicato a Sant’Ignazio e fu costruito per difendere la Sardegna dall’attacco dei francesi alla fine del ‘700. Pare che il forte, in realtà, non sia mai stato finito e che sia tuttora un’incompiuta. La sola parte coperta fu quella sudest. La cosa strana è che è tutto livellato; nel progetto del forte non erano stati utilizzati dislivelli, come normalmente avveniva. Non c’è una cisterna per l’accumulo di acqua. Non ci sono le latrine. Manca anche la cucina. Tant’è che, durante l’attacco dei francesi, quando qui furono messi dei cannoni a sparare, le munizioni e l’acqua venivano portati dal borgo di San Bartolomeo.
C’è anche un passaggio sotterraneo, con dei bunker e un arrivo diretto al fortino. Qui, durante la seconda guerra mondiale, veniva utilizzato uno strano strumento chiamato aerofono, una sorta di microfono direzionale che serviva (o doveva servire) a captare in anticipo i rumori a lunga distanza e individuare così la direzione di provenienza degli aerei nemici. Per il suo utilizzo venivano impiegati in prevalenza ciechi, per sfruttare la loro presunta maggiore sensibilità uditiva; in questo caso, quelli dell’Istituto San Vincenzo di Cagliari. Chissà cosa sentivano col maestrale, ci domandiamo. Veramente, i classici potenti mezzi dell’Italietta fascista. Negli ultimi mesi del ’43 vennero installati anche dieci radar tedeschi, ma ormai era troppo tardi.
Qui si vedono ancora le basi di molte mitragliatrici e batterie contraeree. Ma i cannoni della contraerea non erano adeguati per colpire gli aerei americani, che volavano molto in alto, e soprattutto era una questione di numeri. L’aeronautica della Sardegna, fiore all’occhiello di quella italiana, aveva in dotazione nel 1940 150 aerei. Nel 1942 ne vengono aggiunti 25, ma ormai comincia a scarseggiare il carburante, le munizioni pure, gli aerei iniziano a essere danneggiati e quindi quando arrivano gli americani la risposta non è più adeguata. Anche perché da febbraio a maggio del 1943 c’è un’escalation di attacchi impressionante. L’ultimo, del 13 maggio, è preceduto da uno scambio di informazioni in sardo tra due funzionari. Cagliari chiede: “Ma quanti sono?” e da Capo Carbonara rispondono: “Mamma mia! Il cielo è pieno! (Su celu è prenu!)”. In poco più di un’ora, voleranno in questi cieli 195 bombardieri e 186 caccia; verranno sganciate qualcosa come 900 bombe da 1000 libbre. Relativamente pochi i morti, ma soltanto perché la città è già vuota.
Scendendo, arriviamo sulla spiaggetta di Cala Mosca, dove la temperatura e piacevolissima e qualcuno sta facendo il bagno, anche senza muta.
Vediamo la torre, che nel 1572 costruirono gli spagnoli; vennero costruite torri spagnole sopra quelle più vecchie, perché c’erano sempre più attacchi dei pirati barbareschi dal nordafrica. Ce ne sono ancora 102 di queste torri in Sardegna; questa oggi è un’abitazione privata. C’è una vecchia canzone popolare che dice che da qui si vede la barbaria, cioè l’Africa. Non è proprio così, ma a quei tempi la paura era tanta.
Dopo una breve pausa in spiaggia ripartiamo per salire verso la Sella del Diavolo. Qui la salita è più dura, ma ormai la meta è vicina e le forze si moltiplicano. Raggiungiamo prima una terrazza naturale panoramica, da cui si vede tutta la spiaggia del Poetto, e verso l’interno le saline. Sulla sinistra, si vedono anche i sette colli che costituiscono il nucleo urbano di Cagliari (come Roma, sì) e che separano le zona umide di Santa Gilla a ovest e Molentargius a est, che termina in mare con altri due colli in corrispondenza del promontorio di Capo Sant’Elia.
Un panorama magnifico. Ci vuole un altro selfie di gruppo. Non c’è Gegia, ma anche Lalli non è da meno, anche se sta ancora imparando l’uso dell’attrezzatura.
Nel promontorio di Capo Sant’Elia sono presenti due SIC (Siti di Interesse Comunitario), quello di Monte Sant’Elia, Cala Mosca e Cala Fighera e quello chiamato Torre del Poetto. Nel complesso ci sono 6 habitat, di cui uno prioritario, 73 specie di uccelli (per 13 di queste sono previste misure di conservazione), 3 di rettili e 6 piante di interesse fitogeografico.
E poi, salendo ancora, si incontrano i resti del tempio fenicio-punico dedicato alla dea Astarte in età punica e a Venere in età romana. Nell’area sono stati rinvenuti materiali ceramici cronologicamente inquadrabili dall’età punica fino a fasi post-medievali, monete di età romana e medievale.
Nel punto più alto ci troviamo a 135 m s.l.m., dove nel 1282 fu eretta dai pisani la Torre di Sant’Elia come punto di avvistamento. Si aveva un orizzonte ottico di circa 40 km, e di notte al piano superiore veniva acceso un braciere per segnalare la presenza del promontorio. C’è anche una torretta di avvistamento del secondo conflitto mondiale.
Intorno a noi piante di agave, che a Silvia ricordano l’Africa, a me il Messico.
Ci fermiamo a fare un’altra bella pausa prima della discesa e a prendere il sole, la giornata è davvero stupenda e abbiamo tolto quasi tutti gli strati. Possiamo anche finire i papassini e fare un altro spuntino a base di frutta, visto che ormai è quasi ora di pranzo.
Per concludere, Silvia ci spiega chi era Astarte. Astarte era la dea della fecondità, ma anche dell’unione sessuale. Qui si esercitava la prostituzione sacra, che era una cosa comune in tutte le città di mare. Le ragazze che entravano a far parte del tempio di Astarte almeno una volta dovevano donarsi a uno straniero, perché era una sorta di rito propiziatorio, non finalizzato al piacere ma a fecondare la terra. Il denaro che veniva dato alla ragazza che in quel momento era una prostituta sacra non andava a lei, ma veniva utilizzato per il tempio. Probabilmente c’era addirittura una scala che collegava il tempio al porticciolo di Marina Piccola, ma non si sa esattamente che struttura avesse il tempio perché nel momento in cui arrivarono i bizantini e costruirono la chiesa dedicata a Sant’Elia per purificare il luogo distrussero il tempio pagano. Costruirono un monastero di cui oggi non resta traccia ma che era ancora visibile nel XIX secolo. Nel 1600, in piena guerra delle reliquie, fu trovata, oltre alla tomba di San Bartolomeo, una lastra che riportava il nome di un certo Elia, anacoreta, morto all’età di 93 anni. Gli ultimi ad occupare la chiesa furono i carmelitani, che nel 1500 se ne andarono per le incursioni dei pirati barbareschi. Fino al 1617 era uso venire qui da Cagliari per celebrare il santo. Poi gli spagnoli vietarono questa pratica, per le incursioni troppo frequenti. Ci sono due cisterne puniche e c’era anche una cisterna romana, perché qui c’era acqua sorgiva.
Sul nome Sella del Diavolo ci sono moltissime leggende. La più conosciuta narra che il golfo che si vede affacciandosi da qui, che si chiama Golfo degli Angeli, fosse talmente bello, un vero paradiso terrestre, che ci vivevano proprio gli angeli. Questo suscitò l’invidia dei diavoli, che quindi vennero qui a molestare le persone, che pure ci vivevano, e gli angeli. Cominciò un grande, epico scontro tra il bene e il male. Alla fine, come in ogni leggenda, il bene vinse grazie all’intercessione di Dio che chiamò l’Arcangelo Gabriele, il quale scese dai cieli e fece un segno della croce. Vedendo questo segno della croce, Lucifero cadde in mare e si dice che la sella sia la sella del cavallo da cui cadde. Si dice anche che dentro la Grotta dei Colombi, che è raggiungibile solo dal mare, ci sia scolpito il viso di Lucifero.
Leggende a parte, il luogo è effettivamente di una bellezza mozzafiato e di una grande suggestione. Noi però, purtroppo, dobbiamo scendere, anche se sarebbe bello passare il pomeriggio qui.
La discesa a volte può essere peggiore della salita, per chi ha problemi alle articolazioni (e qualcuno ce n’è), ma in questo caso fila via abbastanza liscia, salvo per Stefano che arriva sano e salvo ma… senza la suola di una scarpa, che l’ha abbandonato già all’inizio della discesa. Per fortuna il piede è quello… buono; se fosse successo all’altro, dolorante per una fascite plantare, allora sì che si sarebbe messa veramente male.
Ma il vero eroe, salutato da un meritato applauso, è Leosz, un bambino biondo di sei anni appena compiuti, che ha l’accento sardo ma la mamma polacca, che si è fatto tutta la camminata senza un lamento e anzi quasi sempre correndo davanti al gruppo e facendo da “guida”, alla ricerca di acetosella o di altre erbe strane. L’applauso è da estendere anche alla cuginetta Gemma, di poco più grande di lui.
Pian piano, torniamo verso San Bartolomeo, dove c’è il tempo di salutare Sara e di farci un panino veloce per tappare meglio il buco allo stomaco, prima di prendere l’autobus per tornare in centro.
Quel che resta del pomeriggio lo dedicheremo ad un meritato riposo, in attesa della festa di Capodanno, che sarà una festa palestinese.
Stasera ci sono tutte e quattro le Mariposas, finalmente grande reunion.
Per il cenone abbiamo appuntamento presso la sede dell’Associazione Sardegna-Palestina, nella zona nord di Cagliari.
Ad accoglierci, per l’associazione, c’è Mariangela, che è stata la prima presidente. Sardegna-Palestina nasce 21 anni fa all’interno di un circolo di Rifondazione Comunista. Allora, almeno in quell’ambiente, la Palestina era ai primi posti dell’agenda politica, molto più di oggi, e si sentiva l’esigenza di appoggiarne la causa in modo più concreto. Anche oggi l’associazione fa spesso attività di aggiornamento sulla situazione politica generale, ma soprattutto fa quello per cui è nata, cioè sostenere le rivendicazioni del popolo palestinese. È un’associazione culturale iscritta al registro regionale del volontariato, quindi una Onlus, che partecipa a bandi istituzionali per progetti sia culturali che di cooperazione internazionale. Hanno realizzato diversi progetti di cooperazione in Palestina, attività che continua anche nei campi profughi palestinesi situati in altri paesi. E progetti culturali, tra cui spicca un festival di cinema documentaristico palestinese, giunto alla sedicesima edizione, che si chiama Al Ard (la Terra). Si terrà a marzo, durerà una settimana e come sempre ospiterà diversi registi palestinesi; è un festival che è cresciuto molto, negli ultimi anni.
Ma c’è anche l’attuale presidente, che è palestinese e si chiama Fawzi. Lui ci racconta che l’associazione è un po’ atipica, nel senso che è nata già mista. Non ci sono solo palestinesi e sardi, ma anche persone di altri paesi, prevalentemente arabi, che sostengono la causa palestinese. Stasera abbiamo qui una ragazza libanese e un ragazzo egiziano. È un laboratorio di scambio culturale. L’obiettivo, fin dall’inizio, è fare qualcosa per far conoscere il più possibile la situazione reale. Nel 1997, quando è nata l’associazione, si parlava molto di pace, un sogno che allora sembrava possibile ma poi non si è concretizzato. L’idea, anche oggi, è quella di dire le cose come stanno, non dire quello che piace alla gente. Gli italiani, e gli europei in generale, soffrono un po’ di eurocentrismo, e tendono a pensare che quello che fanno gli europei è sempre giusto, dice Fawzi. I criteri di logica, e di morale, che funzionano in Europa, non necessariamente funzionano altrove. I governi europei di fatto appoggiano Israele, che è un prodotto dell’Europa, non solo dell’ebraismo. È di fatto un progetto coloniale, che non poteva essere chiamato col suo nome e perciò si è preferito chiamarlo ritorno alla Terra Promessa. Sono state trovate delle parole d’ordine per convincere le persone e distogliere l’attenzione dal dato reale, e cioè che si impadronivano della terra di un altro popolo sulla base di un presunto diritto basato su una presenza di tremila anni fa. L’obiettivo dell’associazione è anche portare la discussione su questo punto, per sottolineare che non è un discorso religioso, come si vuole far credere. La religione c’è, in vari passaggi del conflitto, ma tutto nasce da un progetto coloniale. E i primi ad adottare un approccio di tipo religioso sono stati gli israeliani, dicendo che era la terra degli ebrei. Anche oggi è così, con Netanyahu che addirittura proclama esplicitamente Israele come stato ebraico, con l’appoggio più convinto che mai degli USA di Trump.
E il colonialismo continua, più aggressivo che mai, nella certezza assoluta dell’impunità. Molti di noi hanno esperienze in Palestina, lo abbiamo visto e quasi toccato con mano, avremmo molte cose da raccontare. Ma questa è una serata di festa, di solidarietà e di festa. Gegia spiega il senso di questa serata nell’ambito di un viaggio che ha come tema la Cagliari invisibile, che ci ha fatto conoscere realtà resilienti come le donne di Sant’Elia. Che cercano con rabbia, ma anche con creatività, di portare avanti un messaggio di verità e di lotta per superare una situazione difficile. Anche le Mariposas raccontano la verità di un territorio, raccontano il bello ma senza nascondere gli aspetti più critici, ad esempio nel Sulcis, dove la miniera ha lasciato dietro di sé tanti morti e un territorio devastato.
Ora è giusto che la festa inizi. Il buffet è ricco e naturalmente fatto di molti sapori di Palestina: hummus, falafel, cous cous, foul (fave secche, cucinate a fuoco lento e servite con tanto olio di oliva, prezzemolo, cipolla, aglio e spremuta di limone). E addirittura un piatto palestinese meno noto, che raramente si vede fuori dalla Palestina; io l’ho mangiato a Hebron, preparato dalle donne di un’associazione locale. È il maklouba, un piatto a base di riso, agnello e verdure. Il nome maklouba, in arabo capovolto, deriva dalla fase finale della preparazione in cui il contenuto della pentola viene appunto rovesciato sul piatto. Non manca lo yogurt, che è il complemento fondamentale di questo piatto.
Tra tanta Palestina, il vino però è sardo. Le ragazze hanno portato dei bottiglioni di vino rosso di Mogoro, poi abbiamo una bella scorta di bottiglie di Cannonau. Ci sarebbe anche del filu ‘e ferru, la grappa sarda, ma alla fine ci scateniamo nelle danze e… ce lo dimentichiamo. Tanto per darvi un’idea, subito dopo la mezzanotte era questo il clima:
Dopo aver fatto festa per un po’ qui, ci sarebbe l’idea di fare anche un giro in centro, per vedere com’è l’atmosfera. Stasera su un palco tra Piazza Yenne e Largo Carlo Felice suonano i Subsonica, c’è chi spera di poterli ancora ascoltare ma per andare da qui al centro un po’ di tempo ci vuole. Quando arriviamo è l’una passata, c’è ancora in corso solo un DJ set che verso l’1.30 finisce. C’è tantissima gente, i casteddai (così si chiamano in sardo i cagliaritani) hanno risposto con entusiasmo; ci si muove con difficoltà. A questo punto, preferiamo salire a Castello, dove c’è un po’ meno casino e possiamo tirare tardi con delle buone birre artigianali in un baretto molto carino che è gestito da un amico delle Mariposas. Si chiama Muzak.
Abbiamo saputo poi che nel frattempo, nel B&B dove si erano rifugiati quelli che preferivano andare a letto un po’ più presto, si svolgeva una specie di “Tisana party”…
Martedì 1° gennaio 2019
Ci alziamo con calma perché, chi più chi meno, tutti abbiamo fatto piuttosto tardi.
L’idea sarebbe di andare a passare una mattinata rilassante sulla spiaggia del Poetto, in attesa dell’appuntamento del pomeriggio per la visita alle saline.
Ma l’idea si rivela più complicata del previsto da mettere in atto, perché i mezzi pubblici che funzionano, data la giornata festiva, sono pochi e quei pochi viaggiano con frequenze di 30-40 minuti. Per di più, con un’idea non felicissima, la CTM, l’azienda dei trasporti municipali di Cagliari, ha messo i cartelli di avviso non alle fermate degli autobus ma dentro gli autobus. Così, finché l’autobus non passa, non si sa niente. Il sito non dice nulla, il call center non risponde. È una situazione piuttosto surreale, noi la prendiamo con filosofia ma i cagliaritani che devono muoversi, magari per lavoro, sono meno propensi alla tolleranza.
Proviamo a prendere la “circolare” e scendiamo sul ponte Vittorio, dove dovrebbe passare la “litoranea” che va al Poetto. Ma non si capisce bene quando dovrebbe passare, sembra tra 40 minuti, probabilmente è appena passata. Dopo un tentativo di autostop non coronato da grande successo, decidiamo di prendere un taxi, ma anche questo non è così banale. La signora del radiotaxi vorrebbe un numero civico, ma noi siamo su un ponte, non ce l’abbiamo. Antonella, che si è incaricata di telefonare, spiega molto chiaramente dove siamo ma, non si sa come, il primo taxi va a finire in Corso Vittorio, invece che sul ponte Vittorio.
Alla fine, sia pure con difficoltà, riusciamo ad approdare al Poetto. La giornata è stupenda anche oggi, il sole è caldo e più di una persona fa il bagno, per onorare la tradizione che vuole che ci si bagni a Capodanno. Le condizioni sono senza dubbio favorevoli.
Noi facciamo uno spuntino in un bar sulla spiaggia, dove ci raggiunge Lalli per accompagnarci all’appuntamento con Silvia Congiu, che sarà la nostra guida per le saline.
Silvia è un architetto, nel 1996 si è laureata con una tesi sulle saline, che verteva su un progetto di sistemazione molto interessante che però purtroppo non è mai stato realizzato, neanche in parte, per varie ragioni. Lei spera ancora di poter vedere realizzato qualcosa di quel progetto che era originale e ben costruito, c’erano ad esempio strutture da realizzare apposta per l’osservazione degli uccelli, dove si poteva aprire una finestra con un sistema pensato per impedire che la luce filtrasse all’esterno e li spaventasse. Avrebbe bisogno di qualcuno disposto a finanziarla, noi le auguriamo di trovarlo.
Silvia, naturalmente, conosce perfettamente la storia delle saline, che sono chiuse dal 1984 e ora fanno parte del parco naturale del Molentargius, un’area umida estesa su un territorio di circa 1600 ettari, una delle più importanti in Europa, caratterizzata da grande ricchezza floro-faunistica. Nel 1977 l’area del parco è stata inclusa, in base alla Convenzione di Ramsar, tra le zone umide di importanza internazionale come habitat naturale per gli uccelli acquatici.
L’estensione delle sole saline è di 836 ettari. La salinità si misura in gradi Baumé. Il Mar Morto, che è il mare più salato al mondo, ha una salinità di circa 7 gradi Baumé (ogni grado Baumé corrisponde a circa 11 grammi/litro). Qui siamo a 3 gradi Baumé. Quest’acqua, ancora oggi, viene presa tramite un’idrovora, che non serve più a produrre sale ma a mantenere ancora in parte attivo questo sistema. I primi a produrre sale furono i fenici, con un deposito naturale di queste acque negli stagni.
Il processo delle saline, in epoca moderna, era finalizzato ad arrivare alla nevicata di sale, che si ha quando si arriva a saturazione e il sale, che non può più essere diluito, si deposita. L’idrovora storica non c’è più, ora è sotterranea. L’acqua veniva pompata a circa 350 m, presa attraverso delle stazioni di sollevamento, e faceva tutto il percorso fino allo stagno chiamato Bellarosa Maggiore, che ha una forma ad imbuto. Qui l’acqua passava a circa 7 gradi Baumé, poi c’era la stazione di sollevamento del Rollone, che è ancora visibile, che prendeva l’acqua e la portava a Quartu. Da lì, naturalmente, c’era una piccola discesa che lentamente portava l’acqua allo sfioramento. Era un sistema molto complesso, soprattutto nel periodo in cui erano state installate le idrovore, a partire dal Regno Piemontese e poi negli anni ’30. La produzione avveniva tra maggio e settembre, nello stesso periodo della raccolta nei campi. Questo luogo è sempre stato un buco nella storia di Cagliari. Un buco perché è sempre stato un luogo in cui le persone venivano forzate a lavorare, senza essere pagate. Da tutti i paesi limitrofi le persone erano costrette a venire qui a raccogliere sale, era un obbligo che si doveva allo Stato. Poi, a metà del 1800, i piemontesi misero fine alle obbligazioni e fecero nascere la colonia penale di San Bartolomeo, che abbiamo visto ieri con l’altra Silvia, la nostra mariposa. Sarà compito dei dannati del sale, dei carcerati, continuare questo lavoro. Ancora oggi gli anziani usano dire “Bai a piga’ i sali” (vai a raccogliere il sale) ed è il peggiore augurio che si possa fare. Ora vediamo che gli argini sono quasi scomparsi. Il lavoro era paragonabile, come tempi, all’agricoltura, perché c’era la preparazione del suolo argilloso, la semina, che anziché avvenire attraverso i semi e l’aratura era fatta facendo entrare le acque portate con le idrovore dal Bellarosa Maggiore, e poi la crescita, che non era visibile come quella di una pianta ma lavorava sott’acqua; man mano che le discese si susseguivano si arrivava alla zona di prima evaporazione e poi alla zona dove avveniva la nevicata di sale, e quindi le acque madri lasciavano cadere il sale, con uno spessore da 10 a 20 cm. Le acque madri poi venivano prese e ributtate in mare oppure venivano ancora fatte “camminare” perché rilasciassero ancora un po’ di sale allo stato solido.
Era considerato il sale più prezioso al mondo. Veniva portato con dei vagoni e buttato sui nastri trasportatori, che lo portavano in cima e lo scaricavano formando una vera e propria piramide di sale. Poi arrivavano i camion per caricarlo. La piramide c’era sempre, in pratica. Quando veniva erosa, rimaneva sempre una piramide più piccola e faceva parte del paesaggio anche d’inverno. Poi d’estate ritornava a crescere e diventava di nuovo enorme. Anche alla chiusura, nel 1984, la piramide era rimasta e ci ha messo anni a sparire completamente.
C’erano, qui, diverse industrie che sversavano e inquinavano l’acqua. C’era anche il depuratore di Cagliari, che è ancora qui e tuttora funzionante.
All’interno del parco, nella zona di Is Arenas, si vedono ancora diverse case costruite in un’area che non sarebbe edificabile ma purtroppo non è mai stata realmente protetta ed è stata colpita dall’abusivismo.
Oggi, la maggior parte della gente viene qui per vedere i fenicotteri rosa, e anche a noi non dispiacerebbe. Purtroppo, oggi, la giornata non sembra delle migliori. Riusciamo a vederne qualcuno negli stagni più lontani dalla strada, ma solo col binocolo, che per fortuna Cristina ha portato, dobbiamo ringraziarla. C’è molta gente che, purtroppo, usa le strade pedonali del parco come se fossero delle piste ciclabili. Le bici sfrecciano e per gli uccelli non è sicuramente la situazione più favorevole. Ci sono dei “pulli” qui vicino a noi, dei piccoli di fenicottero, ma quando sono così piccoli sono ancora bianchi, diventano rosa solo mangiando un particolare gamberetto, e questi evidentemente devono ancora mangiarne parecchi. La particolare colorazione delle saline è dovuta infatti, oltre che alla diversa concentrazione di sali, alla presenza di un microscopico crostaceo chiamato artemia salina, di cui appunto si nutrono i fenicotteri rosa.
Comunque, anche vedendoli col binocolo sono belli: quando aprono le ali sono di una grazia incredibile. Non per niente fenicottero in spagnolo si dice flamenco, e si dice che il nome del ballo e dello stile musicale sia nato proprio da questo uccello così elegante il cui movimento è così pieno di poesia. Questa foto ovviamente non è mia, l’ho presa dalla pagina facebook del parco, così per darvi un’idea.
Il loro becco dalla forma ricurva si è adattato appositamente per separare fango e silice dal cibo che consumano e questi uccelli lo usano, unici nel loro genere, in posizione capovolta. Il filtraggio di cibo è possibile grazie a strutture pelose, dette lamelle, che allineano le mandibole e la grande lingua dalla superficie ruvida. I fenicotteri sono inoltre noti per stare in equilibrio su una sola zampa mentre stanno in piedi e si nutrono.
Quest’anno qui ne sono nati da 16.000 a 18.000. Non sono né tipicamente migratori stagionali né stanziali, di fatto hanno “stanze” in tutto il mediterraneo, hanno diversi habitat tra cui si spostano. Meno male che almeno loro possono ancora spostarsi, migrare se vogliamo usare questa parola che in questa Europa triste, chiusa nel suo sordo rancore, è diventata un tabù; per tutti quelli che “non sono razzista ma…”, mi spiace ma loro che hanno le ali possono ancora andare un po’ dove gli pare.
E non ci sono solo i fenicotteri. Silvia ha visto ieri il raro pollo sultano.
Comunque, anche senza vedere da vicino i fenicotteri, questo luogo ha qualcosa di unico. Ci si sente come in un mondo a parte, sospeso fuori dal tempo e dallo spazio. Soprattutto quando, con l’approssimarsi del tramonto, tutto si accende di una luce calda, molto particolare. I colori cambiano, e si notano di più i giochi di luce creati dai riflessi dei muri a secco nelle acque degli stagni e dei canali.
Silvia ci saluta mettendoci tutti in cerchio, facendoci chiudere gli occhi e spruzzando su ognuno un intenso profumo di rosmarino, la rugiada del mare. Poi ci chiede una parola, una sola, per descrivere la nostra sensazione delle saline. A me viene in mente subito una sola parola: luce. La luce di questo pomeriggio alle saline e la luce che ho visto nel modo in cui Silvia ce le ha raccontate.
Per rientrare verso il centro, vista la carenza di mezzi pubblici di oggi, ci danno un passaggio in macchina Lalli e Silvia. Il traffico è intenso, siamo al tramonto e tanta gente che ha passato qualche ora qui sta lasciando il Poetto per tornare in città.
Ormai il nostro viaggio nella Cagliari invisibile volge al termine. Ci resta solo un’altra cena “libera”, domani a ore diverse partiremo. Anche stavolta scegliamo uno dei posti consigliati dalle ragazze, si chiama “Sa Schironada”, che vuol dire qualcosa come “la spiedata”, un piatto di carni allo spiedo.
Io, dato che è l’ultima sera, scelgo un menù che più sardo non si può: culurgiones (ravioli con ripieno di patate e pecorino), porceddu con patate al forno e per finire una seada, un altro tipico dolce sardo che è anche questo una specie di raviolone fritto ripieno di pecorino, ma si mangia in genere con sopra il miele, o al massimo con lo zucchero. Bè, Stefano confessa divertito che una volta ha comprato delle seadas ma, non sapendo che erano dei dolci, le ha fatte… burro e salvia!

Culurgiones

Porceddu
Riusciamo così a finire la serata in allegria, anche se domani mattina ci dovremo salutare.
Io, prima di andare a dormire, faccio gli ultimi ritocchi a una “poesiola” stupidella, due rime con cui ho deciso di salutare e ringraziare le mie farfalline predilette. Sono recidivo in questo senso, ho dei… precedenti. Già l’estate scorsa, quando dopo il concerto di Dee Dee Bridgewater a Oristano eravamo andati a berci l’ultima birra insieme, avevo letto per loro una piccola dedica in rima scritta qualche ora prima. Dato che, per qualche strano motivo, a loro era piaciuta molto, voglio continuare con questa tradizione. Purtroppo stasera loro non ci sono, ma non importa, ho deciso che gliela manderò via whatsapp domattina.
E, cari lettori, scusate se non ho trovato un finale migliore, mi rendo conto che non è granché ma la userò anche per prendere commiato da voi e ringraziarvi per avere avuto la pazienza di leggere fin qui. Vi meritereste di meglio, ma accontentatevi. Comunque, penso che ci saranno altre puntate della mia tardiva scoperta della Sardegna. Anche questa volta sono stato bene, e quindi non posso che confermare quello che avevo scritto nel finale del diario della scorsa estate: un pezzetto del mio cuore resta in Sardegna; lo lascio a loro, alle Mariposas, perché lo custodiscano fino al mio ritorno. Alla prossima, sempre citando Francesco, 82enne pescatore cabrarese: Deu bollada… e is carabineris! (lo voglia Dio, e i carabinieri non ci si mettano di mezzo).
Le farfalle volano nel blu
Le farfalle son belle
Ma le nostre sono di più
Sono quattro stelle.
Le ho conosciute un’estate in Marmilla
E subito è scoccata la scintilla
Ho capito che erano speciali
Al primo loro battito d’ali.
E così ho deciso di tornare
Era l’unica cosa da fare
Perché di loro e della Sardegna, comunque sia,
Con l’inverno e la nebbia era troppa la nostalgia.
Con un altro gruppo son tornato
Per vedere la Cagliari invisibile
Voi direte: è impossibile
E invece proprio così è stato.
Abbiam visto la città da ogni lato
Di sopra e di sotto
Abbiam camminato, mangiato, bevuto, ballato
È stato davvero un Capodanno col botto.
Che questo 2019
Ci porti buone nuove
Ce lo possiamo solo augurare
Ma una cosa la possiamo affermare.
Che qui a Cagliari ci siam divertiti
Ci siamo sorpresi, ci siamo arricchiti
Siamo stati accompagnati
E anche molto coccolati.
Abbiamo nutrito il cuore e la mente
Con un Capodanno resiliente.
Abbiamo capito che dappertutto c’è il bello
Anche a Sant’Elia, non solo al Castello.
E adesso che tutti abbiam visto le farfalle volare
Penso di poterle a nome di tutti ringraziare.
E anch’io forse per un po’ potrò farne senza
Almeno fino alla prossima crisi di astinenza.
Grazie a:
L’associazione Sant’Elia Viva, Sardegna-L’isola che vorrei, Francesca, Sara, l’associazione Sardegna-Palestina, Silvia Congiu, il Parco Regionale Molentargius-Saline.
Grazie a ViaggieMiraggi.
Grazie a tutto il gruppo, siete stati degli ottimi compagni/e di viaggio.
E soprattutto grazie a loro, le dolci farfalline-fatine: Gegia, Lalli, Silviz e Viola.