Viaggio a piedi nella selvaggia Valle Cervo, in montagna tra sentieri e borghi storici – con ViaggieMiraggi.
La Valle Cervo è una piccola valle incastonata tra Val Sesia e Valle d’Aosta, nell’entroterra montano biellese. I suoi minuscoli borghi in pietra punteggiano la valle, ricca di boschi di faggi e castagni. La Val Sesia è a est; a ovest, oltre le montagne, la Valle di Gressoney.
Io ci sono arrivato il sabato di Pasqua con un piccolo gruppo, guidato dal mio amico Enrico De Luca, che di Biella e del biellese è appassionato cantore, dedito a farne scoprire le meraviglie nascoste. I più affezionati tra voi forse ricorderanno le mie prime due incursioni in territorio biellese: un weekend di scoperta, dalla Fondazione Pistoletto al birrificio Menabrea al Ricetto di Candelo e molto altro (Biella che cambia); e poi, pochi mesi dopo, una giornata di approfondimento tutta dedicata al Piazzo, la città alta di Biella, il suo cuore storico anch’esso pieno di sorprese (Tutti pazzi per il Piazzo – Ritorno a Biella).
E una meraviglia nascosta è anche la valle Cervo. Chi di voi ne aveva sentito parlare alzi la mano. Eppure merita sicuramente una visita, lo scopriremo insieme. Enrico l’ha scoperta molti anni fa, 17 ormai. Quando, come già aveva raccontato a noi affezionati viaggiatori, ha fatto quella che sembrava una pazzia giovanile: ha comprato quello che allora era poco più di un rudere, una vecchia casa in pietra con il tetto sfondato, l’ha ristrutturata con le sue mani, con l’aiuto del fratello architetto e di una decina di amici disposti a caricarsi in spalla tre travi di legno da 350 kg l’una e portarle su per la mulattiera, e ci è andato a vivere. Allora era l’unico abitante della frazione. Oggi non ci vive più in pianta stabile – con una compagna e due bambini era un po’ più dura – ma continua a passarci le estati, quando non accompagna viaggi in giro per il mondo. Piccolo particolare: quella vecchia casa era di proprietà della Chiesa, e per averla Enrico non ha dovuto solo trattare col parroco ma anche avere l’approvazione del Vaticano, una specie di bolla papale senza la quale nessun bene di Santa Romana Chiesa può essere alienato. Ma rispetto alla richiesta iniziale di 15.000 euro, che possono sembrare pochi ma per una casa in quelle condizioni in una frazione spopolata di montagna non lo erano affatto, ha ottenuto uno sconto più che sostanzioso. E anche questo ha del miracoloso.
Ma con noi, in questi tre giorni, non c’era solo Enrico. C’era anche Pietro, Guida Ambientale Escursionistica, fotografo freelance e docente di lingua inglese. I genitori di Pietro si sono conosciuti in Botswana dove il padre, originario della Valle Cervo, si era trasferito per lavoro. Dalla mamma, che è sudafricana, Pietro ha imparato l’inglese e un po’ di afrikaans. Poi, nel 1995, quando lui aveva nove anni, la famiglia è ritornata in Valle Cervo. Un salto non certo facile per lui, un drastico cambiamento di clima e di paesaggio, dagli spazi sconfinati dell’Africa a questa valle stretta e aspra, con i monti che incombono, fatta di pendii scoscesi su cui stanno tenacemente abbarbicati piccoli borghi in pietra. Ma oggi Pietro è profondamente affezionato alle peculiarità del patrimonio culturale e naturalistico che contraddistinguono il territorio, tant’è vero che vive in Valle Cervo tutto l’anno. Per scelta.
Disponevamo di due pullmini, con i quali abbiamo raggiunto la valle da Biella e ci siamo poi spostati tra i borghi della valle quando proprio la distanza lo richiedeva. Per il resto, abbiamo camminato abbastanza, tenendo fede allo scopo di questo fine settimana pasquale.
Ci ha ospitato per due notti un luogo molto suggestivo, il santuario di San Giovanni di Andorno, unico santuario dell’arco alpino dedicato a un santo uomo, in mezzo a tanti santuari mariani. Siamo intorno ai 1000 m di quota e non lontano da qui c’è il forse più famoso santuario di Oropa.
L’ospizio-santuario risale, per quanto riguarda l’inizio della sua costruzione, ai primi anni del Seicento e, nella sua forma attuale, è il frutto del lavoro di generazioni di valligiani e della generosità di molte persone abbienti che decisero di devolvere all’ospizio parte delle loro fortune.
La chiesa, costruita tra il 1602 e il 1606 su un preesistente antico sacello, ampliata e sopralzata nel 1742, rappresenta il cuore del complesso. Nel 1608 furono realizzate la rettoria e l’hosteria. Nel 1680 il marchese di Andorno fece costruire il grande fabbricato sul lato orientale che nel 1713 divenne sede delle scuole unificate della valle e poi collegio maschile, che venne chiuso nel 1935. Nel 1718 fu ampliata l’hosteria con un nuovo fabbricato adibito a palazzo dei religiosi e utilizzato per i pellegrini e per gli esercizi spirituali. Nel 1766 si completò la saldatura sul lato nord tra gli edifici per l’ospitalità e la chiesa, con la creazione dell’ala dei pellegrini.
Oggi l’ospitalità è curata da una cooperativa, che ne ha da poco rilevato la gestione e che è formata da quattro ragazzi tutti sotto i 30 anni: Bruno, Federico, Laura e Romina.
La valle è famosa soprattutto per le sue cave di sienite, una pietra vulcanica simile al granito ma con quantità di quarzo piccole o piccolissime, che ha una eccezionale resistenza meccanica e agli urti. Questa pietra è stata, in passato, l’unica grande ricchezza della valle, che per le sue caratteristiche morfologiche non ha grandi porzioni di territorio pianeggianti da dedicare all’agricoltura o al pascolo. La sienite veniva estratta e lavorata in grandi quantità per essere utilizzata come materiale da costruzione nei borghi della valle, ma anche in tutta Italia e all’estero: è fatto di sienite, ad esempio, il basamento della statua della Libertà.
Insieme alla pietra la Valle Cervo ha prodotto ed esportato abili scalpellini che, anch’essi, sono andati a lavorare in ogni parte del mondo: nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento la valle è stata terra di grande emigrazione. Lo spopolamento dei suoi paesi continua ancora oggi, anche se ora si sta tentando con fatica di invertire la tendenza. Le cave hanno chiuso per la maggior parte negli anni ’80, l’ultima pochi anni fa. L’estrazione è ormai troppo costosa, non più sostenibile economicamente. È rimasta una gru, dipinta di verde per cercare di ridurne l’impatto visivo nel panorama della valle; anche in questo caso, smantellarla costerebbe troppo. E sono rimasti i piccoli borghi fatti di case in pietra, che sono una ricchezza da preservare e da far rivivere. In fondo, fino a non molti anni fa d’estate la valle si riempiva di villeggianti che venivano a passare le ferie nelle loro seconde case, non solo i vecchi abitanti ma anche “forestieri” da Biella, da Milano e da Torino.
Noi abbiamo iniziato il nostro percorso da Rosazza, un borgo “esoterico”, come lo ha definito Enrico. E proprio dal luogo più esoterico di tutti, il cimitero monumentale. Come quasi tutto il paese, che ora ha una novantina di abitanti ma ne ha avuti anche 1300, il cimitero è stato voluto e realizzato da Federico Rosazza Pistolet, figlio ovviamente della più influente famiglia del borgo, tanto da dare il nome al borgo stesso. Notaio e impresario edile, nella seconda metà dell’Ottocento fu senatore del Regno d’Italia e munifico benefattore del paese e della valle.
Federico nacque il 4 marzo 1813 a Rosazza. Iniziò gli studi in Valle Cervo e poi nel seminario di Biella, orientato ad abbracciare la carriera ecclesiastica. A quindici anni abbandonò il seminario e chiese alla propria famiglia di essere impiegato in un cantiere di Genova, città nel cui ampliamento ottocentesco l’impresa familiare ebbe un ruolo notevole. Frequentò il collegio presso i padri Somaschi ed entrò poi all’università laureandosi in giurisprudenza nel 1835. Nel corso dei suoi studi strinse amicizia con vari patrioti liguri tra i quali Giuseppe Mazzini ed aderì alla Giovine Italia. Il ricordo della moglie e della sua unica figlia, entrambe morte prematuramente, lo spinsero ad agire a favore della propria terra d’origine e della popolazione locale. Nell’ultimo trentennio dell’Ottocento realizzò a proprie spese numerose opere pubbliche per migliorare la vita dei propri concittadini ed abbellire Rosazza e la Valle Cervo. Collaborò con lui in quest’opera il suo amico Giuseppe Maffei, che era pittore ma si trasformò anche in architetto. Furono impiegate sempre maestranze e materiali locali, contribuendo così allo sviluppo economico di questa area montana.
La fede mazziniana di Rosazza e i suoi legami con la massoneria gli alienarono le simpatie di parte degli ambienti ecclesiastici, nonostante il fatto che tra le opere da lui finanziate fossero compresi anche alcuni edifici religiosi (primo fra tutti la chiesa di Rosazza). Il 21 novembre 1892 fu nominato Senatore del Regno; morì a Rosazza il 25 settembre 1899.
L’appartenenza alla massoneria, oltre all’interesse per l’alchimia e in generale il mondo esoterico, lo portarono a riempire di simboli legati a quel mondo tutte le opere da lui realizzate, chiese e cimiteri compresi.
E infatti il cimitero è proprio la migliore dimostrazione di questo, fin dal ponte sul torrente Cervo che conduce al cimitero dalla strada principale. Le prime colonnine di pietra che formano la balaustra del ponte, a destra e a sinistra, portano incisa una clessidra, che rappresenta naturalmente il passare del tempo, quindi il passaggio dal tempo della vita terrena al tempo della vita eterna, e il ciclo continuo tra la vita e la morte, o tra il cielo e la terra. Anche sul selciato all’ingresso del ponte un’altra clessidra. Attraversando il ponte, inoltre, si possono contare tredici cerchi: il numero non è casuale, ma rappresenta i dodici apostoli più Gesù.
Tutto il cimitero, poi, è disseminato di simboli: stelle (che rappresentano la conoscenza), punte, sfere, rose e altri più o meno visibili.
Pare che Rosazza e Maffei fossero assidui frequentatori del mondo dell’occulto, e che prendessero molte decisioni solo dopo essersi consultati con i loro spiriti guida attraverso le sedute spiritiche che spesso facevano.
Non so quale spirito abbia “guidato” la realizzazione del finto castello neogotico che c’è a Rosazza, ma è davvero curioso. La costruzione del castello fu avviata nel 1883 con l’innalzamento della torre guelfa e della palazzina sottostante, poi ampliata in due successive fasi, ed ebbe termine nel 1899, anno della morte di Federico. L’edificio fu progettato da Giuseppe Maffei sfruttando il tema dell’estetica della rovina: false mura sbrecciate trattate con acido nitrico, finti colonnati ed architravi allo scopo di richiamare gli antichi templi di Paestum e, anche qui, chiari riferimenti esoterici alla massoneria.
L’arco di accesso al castello riproduce quello della città di Volterra; qui campeggiano le teste di tre valligiane con una stella a cinque punte tra i capelli. Altre false rovine di Paestum ed uno dei due orsi scolpiti in pietra locale, collocati intorno al laghetto del giardino, furono portati via da una piena nel maggio 1916.

Il castello neogotico

Qui perfino le tubature possono essere di pietra…
Anche nella chiesa, fuori e dentro, non mancano simboli interpretabili come massonici, dalla volta a cielo stellato alle corde con cui sono decorate le colonne, che simboleggiano la fratellanza. Non c’è da stupirsi che il vescovo, al tempo, si fosse rifiutato di dare la sua benedizione formale a questa chiesa. C’è perfino una svastica (da ricordare che per gli induisti è il simbolo associato con il Sole e con la ruota del mondo che gira intorno ad un centro immobile, quindi emblema di Vishṇu).
Federico realizzò anche comode mulattiere per migliorare il collegamento pedonale tra la Valle Cervo e le vallate circostanti. Ma l’infrastruttura viaria più importante fu senza dubbio il collegamento stradale tra i santuari di San Giovanni d’Andorno e di Oropa tramite una galleria che sottopassa il Colle della Colma. Il traforo e la strada di accesso furono costruiti fra il 1889 e il 1898 e sono utilizzati ancora oggi. Vanno infine ricordati numerosi interventi minori tra i quali fontane e abbeveratoi sparsi per le borgate della valle ed alcune belle incisioni rupestri nel vallone della Gragliasca e attorno al Lago della Vecchia.
Ci siamo presi anche una piacevole pausa con una ricca merenda a base di prodotti del territorio in quello che Enrico ci ha presentato come “il bar più piccolo del mondo”, ma di questo primato non abbiamo prove. Sicuramente la baita è molto piccola, tant’è vero che abbiamo mangiato fuori.
E di sicuro è interessante la storia di Beba, che il posto lo gestisce e che, dopo aver girato il mondo come ballerina della Scala e di altri importanti teatri a livello internazionale, ha deciso di tornare qui in valle e di aprire questo piccolo spazio che è diventato anche sede di molte iniziative artistiche e culturali, piattaforma per laboratori, concerti e performance. Il cibo è take away prevalentemente messicano. Il nome “Autobahn William Wilhelm Caffee Dallas” è una strana fusione, dove si parte da un qualcosa di molto lontano da questa valle come un’autostrada, che quindi fa contrasto con l’ambiente intorno, passando per l’omaggio che Beba ha voluto fare a due suoi maestri, per poi arrivare a Dallas, che richiama la nota soap opera degli anni ’80 ma in qualche modo si avvicina anche al Messico, o almeno allo stile Tex-Mex.

Beba davanti al suo bar
Dopo la merenda, una breve camminata in salita, partendo dall’abitato di Piedicavallo, per raggiungere i casolari di Rosei, a 1179 m di quota. Questo era il più importante agglomerato stagionale dell’alta Valle Cervo, dove con il poco bestiame nei mesi estivi convivevano le donne e i bambini che lo accudivano. Oggi è ancora utilizzato come punto d’appoggio in primavera per le mandrie e i greggi in attesa di salire agli alpeggi più alti, o in autunno quando ridiscendono.
Ad accudire il bestiame erano principalmente le donne perché gli uomini spesso non c’erano, lontani per lavoro per mesi o per anni. Le donne hanno svolto quindi un ruolo fondamentale nel tessuto sociale ed economico della valle. Nel 1800, ma anche all’inizio del 1900, gran parte degli uomini emigravano, almeno stagionalmente; questa è una delle tante parti d’Italia da cui la gente se ne andava in cerca di una vita migliore, anche se oggi in troppi lo hanno dimenticato. Alle donne perciò toccava non solo badare alla famiglia, ma anche alle bestie e ai terreni, per ricavarne quel poco che bastava alla vita frugale di allora. Fatica e pericolo accompagnavano le “siunere”, cioè le donne che con la caratteristica gerla si recavano nei punti più impervi a tagliare l’erba, il fieno selvatico detto “siun”, utile per il nutrimento invernale degli animali.
Da qui, salendo ancora un po’, avremmo potuto raggiungere il Lago della Vecchia, che è un landmark simbolico della valle anche perché è lì che si svolge la leggenda della vecchia e dell’orso, un’antica leggenda popolare di cui esistono almeno tre versioni. Enrico e Pietro ci avevano promesso di raccontarne almeno una, ma poi… non c’è mai stato il tempo giusto, il posto giusto… alla fine abbiamo concluso che l’unico posto dove è giusto raccontarla è proprio il lago, dove la si trova anche incisa su una grande pietra. Io, per la verità, l’ho trovata “nell’Internet”, come si dice, perché ero troppo curioso; credo di aver trovato anche tutte e tre le versioni. Ma non ve la voglio svelare, preferisco che la scopriate andando in Valle Cervo. Sappiate solo che è una storia d’amore, sofferenza e… stregoneria. Ma non fraintendete: la storia d’amore non è tra la vecchia e l’orso…
A Piedicavallo ci siamo fermati anche per la cena, che è iniziata con un ricco antipasto a base di formaggi e salumi locali. Poi si poteva scegliere tra vari primi e vari secondi, ma in parecchi abbiamo deciso di provare la principale specialità della valle, che è polenta e moja, ovvero quattro palline di polenta rustica annegate in una salsa di maccagno, il formaggio locale. Veramente da non perdere! Il posto si chiama La Rosa Bianca.

Polenta e moja
La mattina dopo, che poi tecnicamente era anche Pasqua, era per noi la mattina del “giorno più lungo” di questo ponte pasquale. Non esagererò dicendo che ci siamo alzati presto, perché non sono capace di mentire. Però, ecco, neanche tardi: colazione e poi, alle 9, eravamo pronti a partire, in compagnia di Chiara Fiorina, pedagoga e antropologa che ne sa veramente a bizzeffe su qualsiasi cosa abbia a che fare con la vita e la cultura della Valle Cervo di ieri e di oggi. E non si stanca mai di raccontarla, la valle; abbiamo avuto modo di sperimentarlo, ed è stata senz’altro una fortuna.

Chiara con Enrico
Siamo partiti dalla storia del santuario e della chiesa, che non avevamo ancora visitato. Tutto nasce dal ritrovamento di una statua di San Giovanni Battista da parte di alcuni pastori; la statua era stata poi spostata più volte, ma secondo il racconto che si è tramandato la ritrovavano sempre lì, segno che era proprio lì che il santo voleva che si costruisse una chiesa. La prima chiesetta nacque in una grotta, poi all’inizio del 1600 fu costruita una vera chiesa, con il marmo portato da una cava che si trova due montagne più in là e con il concreto aiuto del marchese di Andorno, che era un personaggio importante non solo per la valle: fu anche uno di quelli che si mossero, in quel periodo, per andare a combattere l’avanzata dei turchi. Si iniziò poi a pensare a dare un rifugio ai pellegrini e ai mercanti, con la costruzione dell’hostaria. L’ospizio divenne poi scuola fino al 1935 e in seguito casa di villeggiatura per bambini, una sorta di colonia montana.
La statua che attualmente si trova nella chiesa è una copia, l’originale è andato distrutto.
Un’altra particolarità di San Giovanni d’Andorno è il suo campanile, il Campanone, eretto in posizione distaccata rispetto al santuario e più elevata, per fare in modo che il suo rintocco potesse riecheggiare in tutta la Valle Cervo. La campana pesa 17 quintali, il che spiega il nome; è la più grande del biellese e si narra che, in tempo di guerra, fu sotterrata per evitare che l’esercito la portasse via per utilizzare il metallo per la costruzione di armi.
Dopo aver visitato la chiesa, siamo partiti per percorrere un tratto del “Sentiero che unisce”. Che unisce quasi tutte le frazioni dei tre comuni di San Paolo Cervo, Campiglia Cervo e Quittengo, e che unisce i due versanti della valle che confluiscono nel torrente Cervo: la Banda Veja, cioè la parte “buia”, più in ombra, e la Banda Soulia, la più soleggiata. Ma c’è un’altra unione ancora più interessante, da queste parti: qui passa la linea ideale che unisce quella che, dal punto di vista geologico, era la zolla africana con quella euroasiatica. Perciò, camminando nella valle succede che, in un certo senso, ci si sposta dall’Europa all’Africa e viceversa. Se lo sapesse Salvini…
La giornata era tutto sommato bella, il meteo ci è venuto in aiuto accompagnandoci anche con un po’ di sole: non troppo caldo, altrimenti il cammino sarebbe potuto diventare più difficile, ma abbastanza da rendere superflui piumini e pile pesanti.
Lungo il percorso abbiamo trovato la chiesetta di Santa Maria di Piediclosso (XII secolo), che è la chiesa più antica di tutta la valle. Così antica che nel tardo medioevo aveva già perso la sua giurisdizione parrocchiale. Divenne successivamente un oratorio campestre, dipendente dal santuario di San Giovanni di Andorno. Nel Seicento divenne un piccolo santuario mariano, poi tornò ad essere un semplice oratorio e nel 1787 fu sottoposta a importanti interventi di restauro che le diedero in pratica l’aspetto odierno.
È a pianta rettangolare, con l’unica navata divisa in due campate che porta al presbiterio a pianta quadrata. Dietro l’altare si può vedere un affresco con la Madonna in trono con il Bambino e due angeli risalente all’inizio del XVI secolo e attribuito al pittore Gaspare da Ponderano. È una madonna insolita, bionda e con le trecce, tanto che dalla gente del posto era chiamata “la uita”, termine che in dialetto indica una donna della Val d’Aosta. Ma c’è anche un altro affresco, non altrettanto ben conservato ma ancora visibile, che raffigura un cavaliere, forse un templare.
Ogni anno il 1° maggio a Santa Maria si celebra una festa molto partecipata, durante la quale alla Santa Messa segue un incanto dei prodotti gastronomici.
Questa valle è sempre stata zona di passaggio e di confine, e per questo ha subito moltissime diverse influenze, sia culturali che linguistiche. Ne è un esempio questa parola BÜRSCH che significa “la casa” nell’antico dialetto Walser, simile al tedesco e ancora di più allo svizzero-tedesco, e che identifica la comunità montana dell’alta Valle Cervo. Non per niente Chiara Fiorina è autrice, oltre che di “Vita da volpe”, anche di un libro che si intitola “Invisibili confini”… o forse ha a che vedere col confine tra le placche d’Africa e d’Europa?
Comunque sia, Chiara ci ha spiegato che la Valle Cervo si incunea tra la Val Sesia e la Val d’Aosta, che nel medioevo erano una sorta di autostrade per gli eserciti e i mercanti. Era (ed è) un po’ più scomoda ma brevissima, permetteva di raggiungere sia la Svizzera che la Val d’Aosta ed era quindi utilizzata come via di fuga da banditi ed eretici.
La nostra fuga, solo… dalla città, è stata molto più breve ed è continuata camminando per boschi di faggi e castagni. Il castagno, che specie nei comuni di San Paolo Cervo e Quittengo formava grandi boschi, fino a non molti decenni fa era un’importantissima risorsa sia per l’alimentazione degli animali, sia per la costruzione delle case, sia come legna da ardere. Era chiamato “Arbo”, la pianta per eccellenza, e la castagna, con i latticini, costituiva il nutrimento fondamentale delle famiglie, che dovevano con l’emigrazione controllare la crescita demografica e rapportarla alle riserve di alimenti necessarie alla sopravvivenza.
Il frutto raramente si mangiava fresco, bollito o arrostito: doveva servire per l’intero anno e, per renderlo durevole, si faceva perciò essiccare al sole e all’aria. Dal tronco scortecciato del castagno selvatico si ricavavano travi per tetti e solai, pavimenti, serramenti e mobili.
Il tannino contenuto nella corteccia era utilizzato per la concia delle pelli e la tintura dei tessuti. Pietro ci ha spiegato che il tannino si trova anche nelle ghiande di roverella, altra specie molto diffusa in valle, e che può trovare uso anche in alcuni farmaci.
Abbiamo trovato anche bellissime vecchie fontane, e lavatoi. E poi un’antica carbonaia, dove la legna si ammucchiava fino a formare una cupola alta circa due metri; alla catasta si sovrapponevano prima rami piccoli, poi foglie e zolle di terra, che dovevano impedire all’aria di filtrare all’interno. Si accendeva il fuoco e poi la si chiudeva. La combustione doveva essere il più lenta possibile. Il carbonaio era pronto a tappare le fessure, ma creava lo sfogo per il fumo e se occorreva bagnava le zolle di terra lavorando in mezzo a polvere e fumo su un terreno molto caldo. Doveva alimentare il “focone” una volta di giorno e una volta di notte aggiungendo legna dalla bocca, che poi richiudeva.
La combustione lenta durava circa una settimana. Il fumo della legna bagnata è biancastro, diventa celeste quando si ottiene il carbone: a quel punto si lasciava raffreddare il cumulo per almeno 24 ore. Si toglieva la copertura di notte, per individuare subito le faville che potevano ancora scaturire, infine si separava il carbone dalla terra. Da un quintale di legna si ricavavano fino a 20 kg di carbone, se la legna era stagionata e se la combustione era stata lenta.

La carbonaia
Abbiamo raggiunto Balma, sull’altro lato del torrente (quello “soleggiato”), dove Marielle ci aspettava nel suo piccolo laboratorio per darci ristoro e permetterci di mangiare con calma, seduti e al coperto, il panino che è stato il nostro pranzo di Pasqua. Con l’aggiunta di una banana, di un ovetto sodo a km zero e, a piacere, di una fetta di colomba e/o qualche ovetto di cioccolato. Lei poi ci ha offerto anche un bicchierino di kir preparato con prosecco e crema di Cassis, che è un liquore francese ottenuto dalla macerazione del ribes nero in alcol con l’aggiunta di sciroppo di zucchero. Marielle, che è di origini francesi, lavora il feltro ed è una delle persone che con Enrico, Pietro, Chiara, Beba ed altri cercano di animare la vita comunitaria e culturale della valle, valorizzandone le specificità e facendola rivivere, per contrastare lo spopolamento. Il loro intento è di aprirsi al cambiamento, contrastando quella che è la mentalità a volte per forza di cose un po’ troppo chiusa dei valligiani, ma senza perdere assolutamente di vista la tradizione e senza snaturare la valle, la cui ricchezza sta anche ovviamente nella conservazione del suo patrimonio storico e culturale. È un punto di equilibrio, come sempre, non facile da trovare. Qui, da Marielle, si riuniscono e qui hanno costruito il loro albero dei sogni, che ci auguriamo si realizzino tutti prima o poi, ma meglio prima.

L’albero dei sogni
Dopo pranzo il gruppo si è diviso; le scelte possibili erano tre: fare un bel laboratorio del feltro con Marielle e poi tornare in macchina al santuario, tornarci a piedi facendo la strada più breve o tornarci dopo aver fatto un’altra bella camminata: 300 m di dislivello in salita, altri 300 in discesa e per finire 300 in salita. Io, che avevo voglia di camminare, ho scelto quest’ultima opzione e così con un gruppetto di “coraggiosi”, guidato da Pietro, siamo saliti a buon passo fino a Oriomosso, e poi al belvedere del Monte Pila. Da lì siamo scesi passando per Albertazzi, Quittengo e Campiglia, per poi risalire al santuario facendo la via detta delle Cinque Cappelle.
Le cinque cappelle che costituiscono questo sacro monte, realizzate alla fine del Seicento e disposte in corrispondenza dei tornanti della mulattiera, riprendono lo schema di percorsi devozionali più noti.
Presentano un porticato antistante per favorire la sosta, il riposo e la preghiera al riparo dalle intemperie dei pellegrini. Le pitture murali interne sulle pareti e sulle volte, come le statue in gesso, fatte oggetto di atti di vandalismo in epoche passate (le statue sono praticamente tutte senza testa), richiederebbero costosi interventi di restauro.
Le edicole furono descritte e disegnate in una bella veduta, comprendente l’intero percorso, nella fondamentale opera “Historia di S. Giovanni Battista” del grande benefattore Don Giovanni Battista Furno, parroco di Campiglia Cervo e priore della chiesa di San Giovanni Battista per ben 52 anni (dal 1654 al 1706).
Salendo abbiamo scoperto la curiosa storia di Sant’Ilarione, un santo eremita palestinese.
Ilarione di Gaza (Tabata, 291 – Pafo, 371) è stato un monaco cristiano romano, originario della Palestina, che trascorse parte della sua vita come eremita.
Secondo l’agiografia, compì gli studi ad Alessandria, dove si convertì al cristianesimo e fu battezzato. Desideroso di dedicarsi alla vita ascetica, incontrò Sant’Antonio l’anacoreta e quindi tornò in Palestina dove, dopo aver scoperto della morte dei propri genitori, donò tutti i suoi averi ai poveri. Dopo aver introdotto l’ascetismo nel territorio circostante Gaza, si dedicò alla vita monastica viaggiando per tutto l’Impero Romano. Nel 330 si imbarcò per la Sicilia, dove visse come eremita in una grotta a Cava Ispica.
Verso la fine della sua vita, i suoi miracoli gli diedero fama di guaritore e viaggiò, dal 365, ininterrottamente per l’Italia, la Croazia e Cipro, inseguito da folle di ammalati. Morì a Pafo nel 371.
Il suo culto rimane attualmente circoscritto solo ad alcuni ambiti locali. Godette tuttavia di un’ampia popolarità in epoca medioevale, al punto che diversi monasteri attribuirono al santo la loro fondazione.
Ma poi c’è anche Sant’Onofrio, un altro eremita. Forse di origine nobile, appare sempre come un uomo selvatico, con il volto sofferente, i folti capelli lunghi ed inanellati, la barba incolta e molto lunga, il perizoma di foglie. Anche questo non è niente male; peccato che il busto e la testa siano stati spezzati dai vandali e siano ancora a terra.

Cappella di Sant’Onofrio
Bella anche la cappella di Santa Maria Maddalena, qui rappresentata dal pittore Pietro Lace nella gloria degli angeli. Accanto su un altare la croce, simbolo delle sofferenze di Cristo, e il teschio, a ricordare i limiti della vita terrena. La curiosità è che sullo sfondo si nota la città di Marsiglia, secondo la tradizione legata alla santa che, dopo la morte di Gesù, sarebbe approdata sulla costa francese per portare il messaggio cristiano. La città appare circondata da alte mura, con campanili e moschee, particolari dell’epoca dell’autore del dipinto e non certo della vita della santa.

Cappella di Santa Maria Maddalena
Dopo una bella doccia, che ci voleva, cena con… sorpresa. Sì, perché al ristorante del santuario sono avanzate parecchie porzioni di agnello, dato che un gruppo di dieci persone non si è presentato al pranzo di Pasqua. E allora noi, che avevamo prenotato altri piatti, abbiamo in parecchi deciso di approfittarne. Ne è valsa la pena, perché era veramente speciale, come ottimo era anche il risotto ai formaggi; tant’è vero che alla fine Bruno, il cuoco, è stato chiamato fuori dalla cucina a furor di popolo e, insieme a Romina, la sua aiuto-cuoca, ha preso gli applausi e ha dispensato consigli per ricette da fare anche a casa.
Ci resta da raccontare il lunedì di Pasquetta, giornata sicuramente più fresca ma ancora con tempo più che accettabile, che abbiamo passato ancora in cammino ma in maniera più rilassata, raggiungendo la frazione Ballada di Quittengo, dove si trova la magione di Enrico, il suo Buen Retiro se preferite. È lì, infatti, che per chiudere in bellezza ci ha ospitato per un ricchissimo “pic-nic” di Pasquetta. Il menù era il seguente:
Ottimi i Samosa alle verdure preparati dalla mamma di una famiglia originaria del Bangladesh che la famiglia di Enrico ha praticamente “adottato”, ma tutto era di grande qualità e a km zero (tranne forse l’ananas…).
Foto di gruppo e poi, sempre con calma e godendoci gli ultimi scampoli di questo paesaggio e di quest’aria, siamo tornati verso i pullmini, che ci hanno poi riportato a Biella.

Foto di gruppo con Pietro in primo piano
C’è stato il tempo per scoprire, grazie a Pietro, altre cose che solo in una valle così si possono trovare, come le
“autostrade dei caprioli”, ovvero i percorsi che gli animali usano per spostarsi tra i boschi e che sono talmente “battuti” da essere molto riconoscibili.
Abbiamo imparato a distinguere l’abete bianco dall’abete rosso. Pietro è uno che, per dirne una, ti sa dire anche quanto tempo ci mette l’ago dell’abete rosso a diventare humus.
Abbiamo parlato dei vari usi della canapa: quello tessile, quello medicinale-ricreativo, ma anche, meno noto, quello alimentare: dalla canapa si ricava anche una farina. E dato che ha tutti questi usi, sarebbe bello che la canapa tornasse ad essere uno dei prodotti di punta della valle, come ai tempi in cui la canapa si coltivava quasi ovunque in questo territorio.
Abbiamo scoperto anche che in Valle Cervo si svolgono diverse gare di corsa in montagna, tra cui la Biella-Piedicavallo e la Balma-Piedicavallo.
Che altro dire? È una valle decisamente da ri-scoprire. E quindi per concludere non posso fare altro che invitarvi ad andare in Valle Cervo, anche per farvi raccontare sul posto la leggenda della vecchia e dell’orso…
Grazie a ViaggieMiraggi, a Enrico De Luca, Pietro Ostano, Maria Chiara Fiorina, Beba, Marielle, i ragazzi del santuario di San Giovanni e a tutte le compagne e tutti i compagni di viaggio.
Sono “capitata” di recente in valle Cervo per la prima volta e sono molto incuriosita; trovare questo post è stato molto interessante, ho letto un po’ di corsa ma lo rileggerò con più attenzione, grazie per la condivisione, quante curiosità!
"Mi piace""Mi piace"
Di niente. Sono contento che sia stato utile. 🙂
"Mi piace"Piace a 1 persona