Andare a Leopoli. Da che stazione per Leopoli,
se non in sogno all’alba, quando la rugiada
luccica su una valigia, quando i treni espressi
e i rapidi nascono. Partire in fretta
per Leopoli, di notte o di giorno, in settembre o a marzo.
[…] e c’era troppa Leopoli,
non ci stava nei recipienti,
faceva scoppiare i bicchieri, straripava
da stagni e laghi, fumava da ogni camino,
si mutava in fuoco, in temporale,
rideva col fulmine, diventava docile,
tornava a casa, leggeva il Nuovo Testamento,
dormiva sul divano accanto al tappeto dei Carpazi,
c’era troppa Leopoli e ora non ce n’è più,
[…] e la cattedrale tremava, la gente si diceva addio
senza fazzoletti, niente lacrime, la bocca
così secca, non ti vedrò mai più, così tanta morte
ci attende, perché ogni città
deve diventare Gerusalemme e ogni uomo un ebreo,
e ora, in fretta, soltanto fare le valigie, sempre, ogni giorno,
e andare senza fiato, andare a Leopoli, dopotutto
esiste, calma e pura come una pesca. È ovunque.

(Adam Zagajewski)

 

Prologo

Andare a Leopoli. Così ha scritto il grande poeta polacco Adam Zagajewski, questo rappresentava Leopoli per lui. Già. Ma per noi? Perché andare a Leopoli? Me la son sentita fare varie volte questa domanda, negli ultimi mesi, quando dicevo a qualcuno di avere in programma questo viaggio.
Prima di tutto c’è l’ovvia difficoltà ad individuare Leopoli sulla carta geografica; e non migliora certo la situazione se dici “Galizia”… lì, nel migliore dei casi, pensano alla Galizia spagnola, regione che per altro amo perché somiglia all’Irlanda, per molti aspetti. Tra l’altro, non pochi galiziani di quella Galizia inorridirebbero nel sentirla definire “spagnola”, però come dirlo altrimenti? Ma non divaghiamo. Per questo ho imparato subito, prima di andare avanti, a premettere “Ma non la Galizia spagnola, eh?”. A questo punto in genere è il buio totale. E anche se aggiungi “La Galizia che era una provincia dell’impero austroungarico” non funziona, la situazione non migliora. Almeno, per me non ha funzionato, ma forse non ho amici e colleghi abbastanza eruditi, può essere. Tra l’altro, alla precisazione “Leopoli è in Ucraina”, mi aspettavo la reazione “Ma come, vai in un paese in guerra?!”, per cui avevo pronta la risposta “Sì, ma Leopoli è a 1300 chilometri dalla zona in guerra”. E invece… è servita solo pochissime volte: si contano sulle dita di una mano, segno evidente che quasi nessuno si ricorda più che in Ucraina c’è il conflitto del Donbass, per quanto oggi lo si possa definire a bassa intensità.
Per dirla tutta, anch’io non sapevo dell’esistenza di quest’altra Galizia fino a non molti anni fa. Direi fino a quando non ho letto il bellissimo libro di Paolo Rumiz (che, detto en passant, è uno dei miei idoli letterari) intitolato “Come cavalli che dormono in piedi”. Dove Rumiz racconta, cercando di ripercorrerne i passi, l’epopea galiziana di suo nonno che, in quanto triestino, era stato arruolato dall’Austria durante la Grande Guerra; e che, sempre in quanto triestino e quindi “italiano”, non era stato mandato sul fronte italiano, dove sarebbe stato a rischio di “intelligenza col nemico”, ma sul fronte russo, il più lontano possibile. E il fronte russo allora passava proprio per la Galizia, che era l’ultima propaggine dell’Impero, l’ultimo avamposto al confine con la Russia zarista. Come nonno Rumiz, molti triestini e trentini furono mandati da queste parti, e non tutti furono fortunati come lui, che riuscì a tornare. Questa è una delle tante storie che passano per Leopoli e la Galizia, non certo l’unica, come vedremo.
E qui stiamo cominciando ad arrivare al nocciolo, alla risposta alla fatidica domanda “Perché andare a Leopoli”. Perché è un limes, è un confine geografico, storico, antropologico tra due mondi, tra Est e Ovest. E come tutti i confini ha un grande fascino, derivante proprio dal sovrapporsi e dal confondersi di etnie, lingue, culture, religioni. Come tutti, insomma… forse anche un po’ di più. Non è davvero facile trovare una città così complessa e stratificata, con una storia così travagliata e forse proprio per questo ricca. Basti pensare solo all’ultimo secolo, o giù di lì. Il Novecento inizia con Leopoli che, appunto, è l’ultimo avamposto dell’Impero austroungarico prima della Grande Russia. Durante la Prima Guerra Mondiale viene occupata proprio dalla Russia, poi l’Impero si sfalda e Leopoli diventa Polonia. Nel 1939 è occupata dall’Unione Sovietica, poi nel 1941 dalla Germania nazista. Alla fine della guerra è di nuovo URSS e poi, dal 1991, Ucraina. Sei cambi di bandiera in un secolo appena.
Ma è più bello dirlo con questa storiella ebraica che ho sentito raccontare da Artem, che è stato una delle nostre guide in questo viaggio; lo conosceremo più avanti, in una delle prossime puntate. Per ora vi basti sapere che l’identità ebraica è una di quelle che fanno parte della storia di questa città, dove viveva una comunità ebraica numerosissima, purtroppo decimata dall’Olocausto. Un’identità forte, che ha dato molto alla città soprattutto sotto il profilo artistico e letterario. La storiella dice così:
C’è un vecchio commerciante ebreo nato negli anni ’10 del novecento che, ultranovantenne, muore e va in paradiso. Dio gli chiede: “Tu di dove sei?”. E lui risponde: “Io sono nato nell’Impero austroungarico, ho fatto l’asilo nella Russia zarista, ho fatto le scuole in Polonia, poi ho cominciato a lavorare in Unione Sovietica. Ma sono diventato veramente uomo sotto il Terzo Reich tedesco, a cui sono sopravvissuto a stento. Mi sono sposato e ho avuto figli ancora in Unione Sovietica, sono diventato vecchio e sono morto in Ucraina.
“Hai viaggiato molto nella tua vita!” esclama Dio. E il vecchio: “Mah, veramente non mi sono mai mosso da Leopoli.”
È per questo che la città ha molti nomi. Per noi “latini” è Leopoli. Ma è anche L’viv in Ucraino, L’vov in Russo, L’wow in polacco, Lemberg in tedesco. È una città di confine, ma è anche la città dei confini annullati, dove i confini spariscono e tutto si mescola e si confonde: così l’ha definita Joseph Roth, un grande scrittore ebreo galiziano.
A noi piacciono questi posti, è inutile dirlo. Voglio dire, a noi che viaggiamo con ViaggieMiraggi e con Radio Popolare (non in questo caso con Radio Pop, ma con molti compagni di viaggio ci siamo conosciuti così, non dimentichiamolo). Non ci piacciono i muri, ci piacciono i ponti, veri e metaforici, i ponti tra mondi e culture.

Insomma, per non farla troppo lunga, questa città ha una storia complicata. E dentro questa Storia grande, con la “S” maiuscola, ci sono tante, tantissime storie con la “s” minuscola; non immaginate quante, di letterati, artisti, politici, militari, architetti, cantanti, musicisti… e chi più ne ha più ne metta. Ma anche di persone comuni. Non riuscirò a raccontarle tutte, sarebbe impossibile. E poi questo è solo un (modesto) diario di viaggio. Ma, se avrete la pazienza di seguirmi, proverò ad accennarne qualcuna. Per scoprire le altre non vi resterà che… andare anche voi a Leopoli, cosa che fin d’ora vi consiglio. E speriamo che alla fine abbiate capito che c’era, e c’è, un perché: vorrà dire che, nel mio piccolo, sono riuscito a spiegarvelo.
Ma adesso cominciamo.

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Giovedì 9 maggio 2019: Il genio multiforme di Ivan Franko e una cena a casa sua, allietata dalla musica dei Batiar

Arriviamo a Leopoli nel pomeriggio con un volo Austrian via Vienna. Ci accoglie la scritta “Welcome to the Future”, di cui non mi è chiaro il senso, ma si sa, son cose da aeroporto. Forse fa riferimento a una sorta di distretto del digitale ucraino che pare si stia creando in questa zona.
Avrete già capito che anche questo è un viaggio targato ViaggieMiraggi, architettato come sempre nei minimi dettagli dal nostro guru dei Balcani Eugenio Berra, che come sempre ci aspetta all’aeroporto. Anzi, per essere precisi questo viaggio è targato anche Confluenze a Sudest, che è la nuova creatura di Eugenio. Questo è per me il quarto viaggio con lui, dopo il Danubio serbo, il delta del Danubio e Transilvania-Maramureş. Questa volta si è spinto un po’ più in là, al di fuori di quelli che sono i Balcani propriamente detti. Ma ci spiega subito il perché: con questo viaggio ha raggiunto, e definito, quello che è uno dei suoi confini geopoetici (e vi prego di apprezzare la finezza del neologismo): quello che delimita il “suo” mondo a nord, mentre il delta del Danubio lo delimita a sud.
Anche Eugenio ha un suo perché, quindi, per essere qui, che è un po’ anche il nostro. E noi non vediamo l’ora di cominciare questo nuovo viaggio. Viaggio, come ho già detto, preparato minuziosamente. Eugenio ci ha già fornito una bibliografia sterminata, era impossibile leggere tutto. Ma un libro in particolare ci ha consigliato di leggere: “Galizia” di Martin Pollack, uno scrittore austriaco che ha voluto intraprendere un viaggio più lungo del nostro, che copre tutta la regione. Un viaggio immaginario che si svolge ai primi del Novecento e che ci guida tra i popoli, le culture e le storie che abitano questi luoghi. Un vademecum indispensabile per calarsi in questo mondo piccolo ma complesso, stracolmo di citazioni letterarie dei tanti scrittori che in vari modi, con vari stili e in varie lingue questo mondo lo hanno raccontato. Io ho seguito il consiglio e l’ho letto, per la verità quasi tutti l’abbiamo letto. È molto bello, valeva davvero la pena; e del resto, ha avuto la postfazione di un signore che si chiama Claudio Magris, non mi sembra un endorsement da poco. Quindi anche in questo caso abbiamo un libro guida dal quale, ogni tanto, estrapolerò qualche pezzetto particolarmente significativo, che mi venga in aiuto quando le mie parole saranno troppo povere per rendere l’idea.
Ma Eugenio, ovviamente, non si è fermato qui. All’arrivo ci ha immediatamente consegnato una copia a testa della sua classica “dispensa”, che contiene una preziosa raccolta di estratti di saggi, articoli, poesie e altro materiale letterario idoneo alla bisogna, cioè a fornire in (relativamente) poche pagine una miriade di spunti.
Il gruppo è composto da una ventina di persone, tra le quali ci sono molte mie care amiche e compagne di altri viaggi. Parlo al femminile perché, effettivamente, ancora una volta il gruppo è costituito in maggioranza da donne. La rappresentanza maschile, tolto Eugenio, è ridotta a sole tre unità. La provenienza è varia: c’è ancora una certa predominanza milanese-lombarda, ma abbiamo anche Roma e dintorni, Padova, Trieste, Rimini e Sant’Arcangelo di Romagna… e perfino una rappresentanza dall’estero anche se Rosa Maria, che ora vive in Irlanda, è di Genova (ma la sua famiglia è in parte serba, per dare un ulteriore tocco di internazionalità e di… balcanicità).

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Arriviamo in città il 9 maggio, che qui è il giorno della Liberazione, la festa che celebra la fine della Seconda Guerra Mondiale, quindi il 25 aprile locale, per dirla così. Ma di questo non si vede ancora traccia nella teoria di palazzoni di epoca sovietica, in tipica architettura funzionalista, che accompagna il nostro tragitto dall’aeroporto verso il centro città. Le periferie di Leopoli non sono diverse da quelle delle altre città dell’Est Europa che mi è capitato di vedere.

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Ma il centro sì che è diverso, non per niente è patrimonio dell’Umanità UNESCO. Sono rimaste poche tracce di gotico dopo due grandi incendi del ‘500, ma c’è un po’ di barocco e per il resto è tutto un fiorire di edifici costruiti nel periodo asburgico (dal 1772 al 1918), che vanno dal neoclassico all’Art Nouveau/Jugendstil nello stile tipico della Secessione Viennese. Il soprannome di Piccola Vienna è più che meritato.
Noi ci sistemiamo in due hotel in pieno centro: io starò al Panorama, che è abbastanza anonimo come atmosfera ma tiene fede al nome con una terrazza al settimo piano da cui si gode una spettacolare vista sul Teatro dell’Opera, uno dei principali fiori all’occhiello della città.

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La vista dal settimo piano dell’Hotel Panorama

Anche se il volo non è stato lungo, una doccia e un breve riposino ci vogliono ma poi siamo pronti per lanciarci nella prima serata leopolitana, che inizia presto con la visita alla casa-museo di Ivan Franko, dove a seguire faremo anche aperitivo e cena, sotto il patrocinio di Slow Food Ucraina.
E chi è Ivan Franko (che tra l’altro si pronuncia Frankò, con l’accento sulla o)? – Vi chiederete voi. Ecco la risposta, tratta da un articolo di Massimiliano Di Pasquale.
Ivan Franko, nel pantheon degli eroi nazionali ucraini, occupa un posto di assoluto rilievo. Solo un gradino sotto, forse, a quello di Taras Shevchenko.
Figlio di un fabbro di Nahuyevitsi, piccolo villaggio vicino a Drohobych, in Galizia, Ivan Franko studiò letteratura all’Università di Leopoli che oggi porta il suo nome e fu uno dei più lucidi intellettuali di fine ‘800. Punta di diamante del rinnovamento letterario ucraino, ma anche autorità riconosciuta del pensiero politico dell’intera area slava. Franko, nel cui nome i sovietici nel 1962 ribattezzarono l’antica Stanyslaviv in Ivano Frankivsk con il semplice scopo di tenere a freno il movimento nazionalista ucraino, è stato per decenni vittima di letture fuorvianti imposte dal regime.
Lo scrittore, che studiò a fondo il marxismo, arrivò presto alla conclusione che avrebbe schiuso le porte a uno stato totalitario. In un saggio sostenne profeticamente che il marxismo è “una religione dogmatica fondata sull’odio e la lotta di classe”. Dimostrando lungimiranza fuori dal comune, Franko – che morirà alla vigilia della rivoluzione del 1917 – profetizzerà l’avvento di un gigantesco regime poliziesco, fondato sui principi del marxismo, che avrebbe superato per spietatezza gli imperi dell’epoca.
L’ideale di Franko è piuttosto un socialismo antico, un socialismo che, come ha sottolineato acutamente Oxana Pachloska, “si fonda sulla crescita etica e culturale delle masse popolari, sulla diffusione dell’istruzione, della scienza, del senso critico, della libertà individuale e nazionale, e non sul dogmatismo partitico, non sul dispotismo…”. Ed è proprio all’interno di questo socialismo “dal volto umano” che l’intellettuale galiziano auspica sin dal 1899 la costituzione di uno stato ucraino libero e democratico.
Franko, nato nel 1856, è cresciuto orfano. Suo padre, Jacob Franko, morì nel 1865. A quel tempo, il ragazzo aveva solo 9 anni. Più tardi, nel 1872, morì anche sua madre, Maria Kulchitskaya. Nonostante la difficile situazione finanziaria, Ivan studiò.
Leggere era la sua attività preferita. Trovava libri dove poteva: nelle biblioteche, dai compagni, e talvolta, dopo aver risparmiato un po’ di soldi, comprava edizioni economiche. Nel 1875 ricevette una borsa di studio dalla Fondazione Glowinski.
Tuttavia, nei primi anni di università Ivan Franko divenne un personaggio pubblico, e un socialista. Fu accusato di aver creato una società socialista segreta e condannato a sei settimane di carcere.
Riuscì comunque a laurearsi, a Leopoli, e fece anche un dottorato in letteratura a Cernivci, in Bucovina, e poi a Vienna. Ebbe anche un titolo onorario di Dottore in letteratura russa dall’Università di Kharkiv, nell’Ucraina orientale.
Fu ancora arrestato a Kolomiya nel marzo 1880 e trascorse tre mesi in prigione, poi un nuovo arresto a Leopoli nell’agosto del 1889. Questa volta fu accusato non solo di socialismo, ma anche di spionaggio a favore della Russia. Tuttavia, le accuse si rivelarono infondate. In prigione scrisse un ciclo poetico di sonetti.
Nel 1886, Ivan si sposò con una ragazza di Kiev, Olga Khoruzhinskaya. Ebbe quattro figli, ma il benessere della famiglia iniziò a crollare nel 1902 quando la moglie di Ivan cominciò ad accusare disturbi mentali, che si intensificarono nel tempo.
La casa che ora è diventata il suo museo era bella ma molto costosa: Ivan per costruirla dovette chiedere soldi in prestito alla banca, fu aiutato in parte dai suoi studenti che gli fecero un regalo per festeggiare i suoi 25 anni di attività accademica, ma fu solo dopo la morte di Ivan che suo figlio riuscì a finire di pagarla. Bella ma fredda, questo lo aggiungo io: solo una delle numerose stanze era riscaldata con una stufa; anche in parecchie altre stanze ci sono stufe, ma non funzionanti, né oggi né allora. In tutto il resto della casa si ghiacciava, e questa è una delle cose che lasciano più scioccati i visitatori, ci racconta la nostra giovane guida del museo.
Franko nell’aprile del 1908 andò a farsi curare a Lipik, che si trova nella moderna Croazia, per una grave malattia reumatica, che allora non era diagnosticabile né curabile: entrambe le sue mani erano paralizzate. Inoltre, anche lui aveva sintomi di un disturbo mentale. Successivamente, tornato a casa, dormiva in camera col figlio maggiore, che lo aiutava in tutto e scriveva per lui sotto dettatura. Ma poi il figlio morì prematuramente, e questa tragedia fu causa di un forte aggravamento dei problemi mentali della moglie Olga.
Esaurito da malattie, problemi sociali e familiari, mancanza di denaro, il nostro eroe morì a Leopoli, nella sua casa, il 28 maggio 1916. La sua tomba si trova nel cimitero di Lychakiv.

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La targa del Museo Ivan Franko

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Eugenio con la guida del museo

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Lo scrittoio di Ivan Franko

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Ivan Franko apparve per la prima volta nel 1874 come poeta. La sua biografia è segnata dalla creazione di poesie fino agli ultimi giorni di vita, fino al 1916. Molte delle sue poesie sono dedicate al ragionamento su Dio e sulla religione. Il poema “Mosè” del 1905 è considerato il suo capolavoro. In questo lavoro, la cui base è la storia biblica, viene presentata l’ascesa del popolo ucraino, che ha iniziato la lotta per la sua indipendenza.
Ivan Franko però non era solo un poeta, ma anche uno scrittore di prosa. In questi lavori si concentrava sui problemi della vita galiziana a lui contemporanea. Fu il primo scrittore ucraino a rappresentare la vita degli operai che lavoravano nei campi petroliferi, nonché degli imprenditori ebrei che erano i loro antagonisti di classe.
Ha scritto anche diverse fiabe notevoli e ha lavorato a traduzioni di varie opere della letteratura mondiale. Le sue traduzioni comprendono opere in greco antico, arabo antico, antica letteratura indiana, antica poesia babilonese. Per quanto riguarda la letteratura moderna, si può citare il Faust di Goethe. Ivan Franko lo tradusse nel 1882. Era interessato ad altre opere tedesche, francesi, polacche, inglesi e italiane.
Fin dall’inizio della sua attività creativa Franko ha mostrato un interesse per il folklore. Pubblicò “I proverbi popolari galiziani-russi”, così come “Studi sulle canzoni popolari ucraine” e numerosi documenti e studi etnografici e folcloristici.
Insomma, davvero un intellettuale poliedrico oltre che conoscitore di innumerevoli lingue. È un peccato che fuori dall’Ucraina sia poco conosciuto e poco tradotto (in italiano per niente).
E a proposito di traduzioni, per cena ci raggiunge Mariana Prokopovych, che sarà spesso con noi in questi giorni per svolgere un fondamentale ruolo di supporto al nostro Eugenio, che conosce ormai bene il serbo (vive a Belgrado da 5 anni) e mastica altre lingue balcaniche, ma con l’ucraino non è ancora a suo agio. L’ucraino, tra l’altro, è molto meno simile al russo di quanto si pensi; è assolutamente una lingua a sé stante, che stando a quanto abbiamo scoperto ha maggiori parentele con altre lingue slave come il ceco o il polacco che non con il russo. Ad ogni modo, per noi è decisamente poco potabile. Io riesco a leggere il cirillico, che è già qualcosa, ma poi mi fermo lì, a meno che la parola non abbia qualche assonanza con le poche parole che conosco di altre lingue slave. Ho imparato almeno che grazie non si dice spasiba (il russo mai!), ma djakuju, che in effetti è simile al ceco djekuji e al polacco dziekuje. E poco altro.
Mariana, che è di Leopoli, parla un italiano pressoché perfetto e di traduzioni se ne intende: ha tradotto in ucraino molti dei più importanti autori italiani: Umberto Eco, Cesare Pavese, Primo Levi, Luigi Pirandello, Italo Svevo, Italo Calvino… tanto per fare qualche nome. E perciò anche lei ci sarà di grande aiuto nel capire… cosa stiamo mangiando, dato che ci aspetta il primo contatto con la cucina ucraina.
Ma prima di cena ci vuole un aperitivo, che in questo caso è abbastanza… fortino. Ci offrono un bicchierino di medukha, che è una specialità dell’Ucraina occidentale. È un distillato ricavato dal miele, simile alla vodka ma un po’ meno alcolico. In Ucraina, peraltro, è molto diffusa anche la vodka aromatizzata al miele, come avremo modo di scoprire. È l’occasione per scoprire anche come si brinda in Ucraina, che chissà perché è come sempre una delle prima cose che ci interessa capire. Be’, qui si dice Budmo. Se si vuole fare un brindisi particolarmente rituale, chi propone il brindisi ripete due volte Budmo, e tutti rispondono ogni volta “Hey!”. E poi “Budmo, Budmo, Budmo!” seguito da “Hey, Hey, Hey!”.
C’è da dire che forse non è forte come la vodka classica ma anche questa, a stomaco vuoto, può dare un po’ alla testa, almeno a chi non è abituato. E allora converrà riempirlo al più presto, lo stomaco. Il menù di questa sera prevede:

Tagliere di formaggi (formaggio Jersey diversi tipi + formaggi di Irina Demyanyuk)
Tagliere di affettati (carne Shkvarka)
Piatto principale: Nel calderone – giovane borsch
Diversi tipi di pane al rafano, olio di erbe e olio di agrumi
Dolce di L’viv

Senza nulla togliere agli antipasti, tutti molto buoni (c’è anche una salsiccia di cavallo), e alle varie salsine e marmellatine di contorno (tra cui da segnalare melone + lampone e ribes nero + menta), il clou è senz’altro il borsch, che viene infatti preparato all’aperto, ai piedi della scalinata di casa Franko, con il giusto tocco scenografico. Il borsch è la tipica zuppa ucraina a base di barbabietole; qui è la madre di tutte le zuppe, ma è diffusa anche in altri paesi slavi come la Polonia e la Romania. Ogni regione, ogni territorio, ogni città, quasi ogni famiglia ha il suo borsch. Ci sono quelli classici e quelli fatti per la stagione, o per l’occasione. Ad esempio, in quaresima si mangia il borsch vegetariano. Il borsch verde è quello fatto con le prime erbe che arrivano quando inizia la primavera.
Nel nostro caso è un borsch giovane (anche se non giovanissimo), perché è comunque vegetariano, ma non è molto rosso, perché c’è poco pomodoro; il colore, infatti, è più quello della barbabietola. Gli altri ingredienti sono aglio, cipolla, cavolo, rabarbaro fermentato.
È il piatto delle feste, ad esempio dei matrimoni, e si mangia insieme a una torta salata a base di grano saraceno e patate. Che anche lei non è male, ma più di tanto non se ne può mangiare… e ne hanno fatta veramente in quantità industriale, come tutto del resto. Capiamo che se questa è solo la prima cena, ci aspetta un tour de force non indifferente anche a livello… gastronomico.
Il tutto avviene sotto l’attenta supervisione di Yulia di Slow Food, che anche lei parla un buon italiano e si prodiga per spiegarci tutto di ogni piatto.

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Prima e durante, la cena è allietata da un quartetto di musicisti Batiar: voce e tamburello, clarinetto, fisarmonica e il cimbalom, uno strumento a corde percosse con bacchette molto simile all’antichissimo santur persiano, da cui probabilmente deriva.

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Ma che significa Batiar? Be’, la parola di per sé è forse di derivazione ungherese e, almeno per come la usava la nonna di Mariana, vuol dire monello, giovane scapestrato. Ma a Leopoli ha un significato ben preciso: si riferisce a una sottocultura urbana, o per meglio dire una cultura di strada, che si diffuse nel periodo tra le due guerre, periodo in cui Leopoli faceva parte della Polonia; e infatti molti dei testi sono in polacco, anche se ce ne sono anche in ucraino. Anche l’abbigliamento dei musicisti è chiaramente anni ’20-’30, ispirato proprio a quel periodo. I Batiar amavano bere, corteggiare le ragazze, divertirsi facendo scherzi e giochi provocatori, ma non erano violenti. Ogni tanto ci poteva scappare una rissa da bar, ma nulla di più. Oggi forse li definiremmo più una tribù giovanile che una gang, erano ragazzi di strada con le loro regole, il loro codice d’onore.
Le radici del fenomeno sono ancora più antiche, datando addirittura a metà del XIX secolo, anche se l’apice lo toccarono appunto tra gli anni ’20 e gli anni ’30, per poi declinare rapidamente sotto il regime sovietico. Inizialmente erano anche teppisti e borseggiatori, ma poi questi comportamenti vennero abbandonati e i Batiar si caratterizzarono più per il loro gusto nel ridicolizzare il potere dell’Impero austroungarico. Più tardi presero un’attitudine più giocosa e romantica. Il loro motto era: “Amare Leopoli, amare le donne e gli scherzi”.
Alcuni Batiar parteciparono alla guerra polacco-ucraina del 1918-19 dalla parte polacca e il loro ruolo nella vittoria polacca venne forse mitizzato andando un po’ oltre la realtà, amplificandone la popolarità nel periodo della Leopoli polacca. Ci fu perfino uno show radiofonico che andò in onda in tutta la Polonia dal 1933 al 1939 il cui titolo suonava più o meno come “Sull’allegra onda di Leopoli”.
La Leopoli moderna ha ereditato parte di questo folklore Batiar sotto forma di storie, aneddoti e canzoni con testi umoristici. Che sono quelle che questo gruppo prova a far rivivere. Eccovene un piccolo assaggio:

 

In quegli anni ruggenti di Leopoli il locale più famoso, fulcro della vita culturale e sociale, era il Caffè Atlas, che si trovava sulla piazza più importante di Leopoli, la piazza Rynok (dal tedesco Ring).
Il suo nome proveniva dal primo proprietario, l’ebreo M.L. Atlass, che era anche un creatore di ottima vodka.
Questo locale era una scuola di vita, accademia di letteratura, di bon ton e di umorismo, luogo per concorsi di oratoria e di recitazione, concerti e dispute artistiche, incontri quotidiani e per festeggiare delle ricorrenze, fucina di barzellette e di battute pungenti. Costituiva un mondo a sé e senza soluzione di continuità, qui
venivano i padri e in questo mondo introducevano i loro figli. Qui si potevano incontrare tutte le celebrità di Leopoli e non solo.
Le sue pareti erano ricoperte di caricature, accompagnate da poesie, scritte da famosi poeti e artisti. Qui, a questi celebri clienti del locale, si poteva anche commissionare una poesia per qualche ricorrenza familiare, dei versi d’amore, un quadro o un’orazione per un funerale. L’“Atlas” aveva anche un suo “regolamento”, composto da 20 punti, di carattere artistico e umoristico:
1. Gli ospiti che casualmente, o per sbaglio, pagano il conto in contanti, hanno lo sconto del 100%.
2. Il credito è illimitato per tutti fino alla sua revoca da parte del proprietario.
3. Dopo la revoca del credito, le pietanze e le bevande saranno servite solo dopo aver depositato un pegno (orologio, cappotto, non necessariamente propri).
4. Il proprietario concede volentieri agli ospiti prestiti fino a mille złoty per chi intende restituirli, invece per quelli non restituibili fino a cinquanta złoty.
5. I piatti, i bicchieri e le sedie non possono essere usati come argomentazione delle proprie opinioni politiche o religiose.
6. Agli ospiti di norma è proibito portare a casa i coltelli e le forchette; in caso contrario, non più di un paio al mese.
7. Non è permesso bere meno di una birra piccola e più di quarantanove birre grandi.
8. Una certa quantità di alcool consumata dà diritto ad essere riaccompagnati gratuitamente al proprio domicilio.
9. Se il cliente rimane nel locale un’ora, la ditta risponde per i suoi denti, il cappello, la borsa, il bastone ed eventualmente l’amante.
10. L’ospite innervosito può picchiare il proprietario (nei limiti di un lieve danno al corpo), e nello stesso tempo al proprietario non spetta il diritto di difesa o di rivalsa.
11. Sparare nel locale è permesso solo agli ospiti in possesso del porto d’armi, ma solo alla condizione di avvisare prima il proprietario della propria intenzione, a causa dell’alto prezzo del sapone.
12. Nel caso di un servizio scadente si chiede ai gentili ospiti di aver pazienza, aspettare, mangiare, bere e lasciare il locale senza litigare e senza pagare.
13. (Questo paragrafo non esisteva nel regolamento, in quanto il tredici, come risaputo da tutti, è sempre ferale.)
14. I rapporti con la signora della toilette devono essere pagati e devono essere decorosi, senza proposte indecenti.
15. Per gli ospiti che non osano chiedere credito al proprietario, si consiglia di chiederlo quando lo stesso è partito per la stazione termale all’estero per sciacquare i reni e i piedi.
16. L’incitamento a far partire il grammofono è sottoposto alla pena pecuniaria da venti a cento złoty.
17. A tutti gli ospiti che pranzano nel locale si consiglia di iscriversi alla Società di Buona Morte e di assicurarsi.
18. Il proprietario, anche se padroneggia tutte le lingue della Galizia Orientale, è libero di parlare come vuole.
19. L’onomastico del proprietario è nei seguenti giorni: santi Edward, Lazzaro, Batory, Mechl e Tutti i Santi. Si può tentare anche negli altri giorni, si potrebbe ottenere qualcosa.
20. Contro chi definisca il locale una bettola, il proprietario assolutamente ricorre al tribunale.

All’“Atlas” si incontrava l’élite di Leopoli e dintorni: poeti, attori, pittori, politici e tanti, tanti altri. Ma soprattutto, come ricorda A. Chciuk, ciò che lo caratterizzava era un’atmosfera cosmopolita:
Era qui che tutto questo coesisteva insieme e insieme conviveva in accordo, in quanto questo era un locale sovranazionale, sovrapolitico e sovrareligioso, quasi extraterritoriale. Qui si sedevano, bevevano insieme e motteggiavano, un poeta tradizionale con un giovane d’avanguardia o con un cupo futurista, un pittore accademico con un inintelligibile astrattista. Seduti fianco a fianco vi si potevano trovare un rivoluzionario e un comunista, chi proveniva dalla nobiltà di campagna o da una ricca famiglia ebrea; e poi con loro fraternizzavano generali di Piłsudski e professori universitari, o del politecnico o della scuola superiore per il commercio estero, sacerdoti, redattori, un quasi-fratello, ubriaconi, petrolieri, consoli […] scultori, musicisti e uomini di stato, studenti e attori: era un vero cosmo. […] Era pieno di calore e della fantasia propria di quella terra, di quelle persone, di quei giorni.
Il Caffè Atlas esiste ancora, anche se ha sicuramente perso l’atmosfera di quegli anni. Sarebbe comunque interessante farci un salto, ma lo faremo domani. Per oggi come primo giorno può bastare, è il momento di andare a nanna.

 

(To be continued…)