Con ViaggieMiraggi a Leopoli, la piccola Vienna dell’Ucraina occidentale, la città dove i confini si annullano.
Venerdì 10 maggio 2019: La vecchia Leopoli e i suoi scrittori
Nella notte, il gruppo è cresciuto di due unità: si sono aggiunte Fabiola e Luisa, che per varie traversie hanno perso il volo, una da Milano e l’altra da Venezia, ma sono riuscite a raggiungerci con i successivi voli serali.
Dopo una buona colazione, ci prepariamo a fare un bel giro del centro della città per cominciare ad entrare in contatto più da vicino con le sue molte anime. Purtroppo per ora il meteo non ci è amico, ma in realtà rispetto alle previsioni della vigilia andiamo già meglio: sembrava che stessimo andando incontro all’inverno siberiano, in realtà pioviggina e fa freschino, ma niente di drammatico.
A farci da guida la bionda Viktoria, che inizia a raccontarci (in perfetto italiano) la storia della sua città in uno dei suoi luoghi più simbolici, davanti al Teatro dell’Opera, un gioiello costruito ai primi del ‘900 mentre si avvicinava la Finis Austriae, il tramonto dell’Impero, di cui la provincia di Galizia e Lodomiria faceva parte, rappresentandone come abbiamo già detto il confine orientale. Secoli prima, sotto il dominio ungherese, questo era il Regno di Galizia e Volinia. Il nome Galizia deriva dall’antica città di Galych (o Halych, esistono diverse traslitterazioni), che esiste ancora oggi e che ne era la capitale. Sia il nome della città che quello della regione hanno dentro la parola gal, che significa sale. Siamo quindi nella terra del sale, dell’oro bianco che era a quei tempi la ricchezza di questo territorio.
La città di Leopoli fu fondata nel 1226. Il “compleanno” della città è stato festeggiato pochi giorni fa, in occasione della festa di San Giorgio che qui si celebra il 6 maggio. San Giorgio è il santo protettore di Leopoli, a lui è dedicata la Cattedrale Greco-Cattolica. La città prende il nome da Leo o Lev, che era un principe ruteno, figlio maggiore del re Daniel. Ruteni erano anticamente chiamati gli ucraini, ed è un nome che è rimasto in uso fino al crollo dell’Impero asburgico. Ma di quella prima città non restano in pratica tracce, perché poi nel 1340 arrivò il re polacco Casimiro III, che voleva queste terre ricche di sale; Casimiro conquistò la città e ne bruciò il castello, quello che è tuttora ricordato come Castello Alto (Vysokyi Zamok). Bruciò anche le chiese ortodosse, per instaurare la religione cattolica. Alla fine del XIV secolo Leopoli con tutta la Galizia fa parte del regno polacco. Comincia in quel periodo la costruzione della città medievale, che è patrimonio UNESCO dal 1998. Il regno polacco diventa poi confederazione polacco-lituana, all’epoca uno dei più potenti regni d’Europa.
La Galizia ne fa parte fino al 1772, anno in cui la Polonia viene spartita tra Russia, Prussia e Austria, che si prende appunto la Galizia. Leopoli diventa allora capitale della provincia di Galizia e Lodomiria.
Il sontuoso teatro che ci troviamo davanti è il Teatro dell’Opera e del Balletto di Leopoli, intitolato ora alla grande cantante ucraina Solomiya Krushelnytska. Venne costruito sul terreno paludoso dove scorreva il fiume Poltva, ora interrato, e ci vollero tre anni per portare a termine i lavori, dal 1897 al 1900.
Alla fine del XIX secolo, i leader locali decisero che c’era bisogno di un grande teatro; nel 1895, il governo della città lanciò un concorso di architettura, che raccolse un gran numero di progetti. Una giuria indipendente scelse il progetto del polacco Zygmunt Gorgolewski, laureato all’Accademia di Berlino e rettore del Politecnico di Leopoli. Gorgolewski sorprese la giuria collocando il suo progetto nel centro della città, nonostante l’area fosse già densamente costruita. Per risolvere il problema dello spazio, coraggiosamente propose di interrare il fiume e, invece di usare delle fondamenta tradizionali, usò una base in cemento rinforzato, per la prima volta in Europa.
Furono usati materiali locali ovunque fosse possibile, ma i marmi arrivarono da Vienna e il moderno impianto luci elettrico fu realizzato dall’austriaca Siemens. L’impianto idraulico che regolava i movimenti del palco, però, fu costruito dall’officina ferroviaria della città polacca di Sanok. Il costo totale dei lavori arrivò alla cifra di sei milioni di corone austriache.
La grande inaugurazione, il 4 ottobre del 1900, vide l’élite culturale della città – pittori, scrittori e compositori – accorrere in massa, insieme a delegazioni da vari teatri d’Europa.
Il teatro è costruito in uno stile classico e tradizionale, con forme e dettagli di architettura rinascimentale e barocca, conosciuto anche come stile neo-rinascimentale viennese. Gli stucchi e le pitture a olio dei muri e del soffitto ne arricchiscono gli interni. L’imponente e opulenta facciata è decorata con numerose nicchie, colonne corinzie, pilastri, balaustre, cornici, statue, rilievi e fregi in stucco. Nelle nicchie ai lati dell’ingresso principale due figure allegoriche rappresentano la Commedia e la Tragedia. L’edificio è coronato da grandi statue di bronzo, che simboleggiano la Poesia, la Musica e al centro la Gloria, con un grande ramo d’alloro.

Il Teatro dell’Opera
Ma questo non è l’unico teatro di Leopoli. Il “vecchio” teatro, che è proprio qui, appena voltato l’angolo, è tre volte più grande del “nuovo” ed è il terzo più grande d’Europa. Leopoli ha tuttora ben otto teatri.
Ma, teatri a parte, cos’è rimasto di quella Leopoli? Sappiamo che dopo la Seconda Guerra Mondiale la popolazione è radicalmente cambiata, addirittura per l’80%. Prima la maggioranza era polacca, anche durante il periodo di dominio austriaco; c’era una forte presenza ebraica (circa un terzo) e gli ucraini erano appena il 15%. Ora invece è una città quasi completamente ucraina, per poco meno del 90%. E Viktoria ce lo conferma: anche i suoi nonni arrivarono qui dopo la guerra. Oggi Leopoli conta circa 800.000 abitanti.
Le architetture fanno senz’altro pensare alla piccola Vienna, come lo stile di alcuni hotel e caffè, che sono sopravvissuti anche all’epoca sovietica o sono stati (ri)costruiti dopo imitando quello stile. Come il Palazzo delle Belle Arti, con i suoi bassorilievi che rappresentano le stagioni. Ma Leopoli non era la piccola Vienna solo per questo. Scrive Martin Pollack, nel suo libro “Galizia”:
«Leopoli era sede delle più alte autorità della regione, sia statali sia autonome, e di numerosi enti. Qui si riuniva il sejm, il parlamento locale della Galizia; qui risiedevano l’imperialregio governatore, tre arcivescovi, uno cattolico romano, uno cattolico greco e uno cattolico armeno, e un rabbino capo; qui Gran Bretagna, Francia, Germania, Russia e Danimarca avevano un consolato e c’erano svariati hotel di prima categoria con tanto di luce elettrica, ascensore, telefono, acqua corrente. Il più elegante era l’Hotel George, sulla piazza Maria, ma c’era anche un hotel ruteno, il Narodna Hostynnycia, all’angolo tra le vie Sykstuska e Kosciuszko, “arredato all’europea”, come garantivano gli annunci pubblicitari sui giornali ruteni. La capitale del paese ospitava un’università e un politecnico, nei quali le lezioni si tenevano in polacco, quattro licei polacchi, uno tedesco e uno ruteno. Un liceo ebraico fu istituito solo dopo la Prima Guerra Mondiale. Leopoli era una sede amministrativa e gli imperialregi funzionari animavano la vita nelle strade e nei caffè “viennesi” del centro. Erano quasi tutti polacchi. »
Dopo la capitale, dopo Budapest, Praga e Trieste, Leopoli era ormai la quinta città dell’Impero per ordine di grandezza. Geograficamente posta nella parte orientale dell’Impero, Leopoli, definita “grande città polacca, avanguardia della civiltà occidentale sulla steppa ormai quasi asiatica”, era considerata in modo diverso a seconda dei punti di vista: per l’Occidente era una città orientale, ma per l’Europa Orientale era una città di
tipo occidentale e in realtà possedeva le caratteristiche di entrambe le culture.
La convivenza di diverse etnie e culture faceva di Leopoli una città del tutto particolare: qui esisteva perfino un gergo urbano chiamato bałak. Era una secolare combinazione della terminologia nata dalle lingue usate dagli abitanti di questa città, conteneva quindi parole provenienti dal polacco, dall’ucraino, dall’yiddish, dal tedesco, dall’italiano, dal greco, dall’ungherese, dal tartaro, dal turco, con anche qualche espressione prestata dal gergo della malavita. Era usato da tutti i ceti sociali di Leopoli, a cominciare dalla servitù fino ai professori universitari. Szolginia lo descrive con grande tenerezza:
«Parlano in modo strano – dolcemente, usano i loro accenti, usano le parole, che non riesci a trovare in nessun vocabolario […] In questa parlata c’è così tanto amore e così tanta chiarezza, che non esiste nella poesia tempestata dalle parole piene di brillanti. Da questa parlata si riconoscono come gli uccelli che cantano in maniera simile.»

Al mercato

Una cioccolateria

Il Palazzo delle Belle Arti
Adesso di austriaco, architetture a parte, non c’è più molto. Qualcosina di più, forse, di polacco. Alla comunità ebraica e alla sua storia dedicheremo praticamente quasi un intero giorno, il quarto. Ora la lasceremo un attimo da parte, e proveremo invece a cercare le tracce di un’altra importante comunità, quella armena.
Dopo un breve passaggio dal mercato, ci addentriamo proprio nel quartiere armeno, che rappresenta la parte più antica di Leopoli sopravvissuta a tutti i mutamenti. L’arrivo degli armeni in questa città risale al XIII secolo e, nonostante la crisi religiosa di metà Seicento, sino alla fine del XVIII secolo vi fu una comunità assai ben organizzata. Un privilegio del re Casimiro III del 1356 riconobbe agli armeni locali un’amministrazione municipale autonoma, che venne però soppressa nel 1469 e fu sostituita – sino al 1784 – da un’amministrazione autonoma guidata da un ecclesiastico. Nella città esisteva, del resto, un vescovo armeno sin dal 1364. La popolazione armena di Leopoli era piuttosto consistente: nel 1407, su un totale di 1593 abitanti, 301 erano armeni. Nel 1575 l’ambasciatore veneziano Lippomano parlò di 60 famiglie armene residenti nella città. Altre fonti parlano di 100 famiglie nell’anno 1600. Intorno al 1630 la comunità armena a Leopoli doveva contare circa 2500 persone tra la città e i villaggi limitrofi. In questo periodo la presenza armena era del resto consistente in tutta l’Ucraina occidentale, dove esistevano numerose altre colonie.
Nei decenni successivi, però, la popolazione armena di Leopoli e dell’intera Ucraina diminuì rapidamente a causa dei violenti contrasti religiosi che la coinvolsero allorché l’arcivescovo Nikołos T‘orosean (Torosovyč) impose nel 1634 ai suoi connazionali riluttanti l’unione con la Chiesa cattolica. L’avversione della maggior parte della comunità armena di Leopoli all’Unione provocò una forte emigrazione e nel 1674 erano rimaste in città solo 14 famiglie armene, che sarebbero peraltro aumentate nei decenni successivi, tornando ad essere 73 nel 1704 e 61 nel 1734. Tuttavia, si trattava ormai soprattutto di armeni cattolici che si assimilarono progressivamente, sino alla sostanziale scomparsa della comunità armena a Leopoli e nell’Ucraina occidentale nel corso dei secoli XVIII e XIX.
Resta, però, anche se gli armeni oggi sono sì e no un migliaio, la cattedrale armena, che vale sicuramente la pena di vedere. Nella parte più antica, di pietra bianca (una piccola chiesa armena fu costruita qui tra il 1363 e il 1370), vediamo croci e mosaici, ma la maggior parte di quello che si vede oggi, compreso il soffitto in legno, è frutto di un restyling realizzato all’inizio del XX secolo sulla chiesa che era stata già ampliata nel 1630 e ricostruita nel 1723. Si sono conservate anche alcune antiche lapidi del vecchio cimitero armeno.
La chiesa nacque come ortodossa, per poi diventare cattolica nel ‘600, al momento dell’Unione con la Chiesa Cattolica armena. Gli affreschi e l’altare, in particolare, riflettono un’impostazione tipicamente cattolica; nelle chiese armene ortodosse generalmente non ci sono affreschi ed è tutto molto più semplice. Ora invece è ritornata ortodossa, dalla metà degli anni ’90, dopo essere stata chiusa per un lungo periodo. Nel 1945 le autorità dell’URSS decisero di cancellare l’arcidiocesi cattolica e arrestarono il suo ultimo amministratore, il Rev. Dionizy Kajetanowicz (assassinato in un gulag nel 1954), e altri tre sacerdoti. Quasi tutti gli armeni polacchi furono espulsi verso ovest, verso l’attuale Polonia. La cattedrale venne chiusa e usata come magazzino per gli arredi sacri confiscati.
Le iscrizioni, in polacco, risentono della “polonizzazione” avviata fin dai tempi della Confederazione polacco-lituana e poi con lo Stato polacco del periodo tra le due guerre. Ci sono anche alcune iscrizioni in armeno ma, ci racconta Viktoria, gli armeni “polonizzati” di cento anni fa non conoscevano ormai più la lingua dei loro antenati.
Anche i dipinti attualmente visibili sono dell’inizio del XX secolo: sono un capolavoro del 1923 del famoso pittore polacco Jan Henryk Rosen, che impiegò 4 anni per dipingere tutta la chiesa da solo, come un moderno Michelangelo. Nel cenacolo dietro l’altare spiccano i classici colori armeni: rosso e oro, soprattutto. Anche Gesù ha i capelli rossi; il rosso richiama il sole, o il fuoco. Gli apostoli sono tutti vestiti di bianco tranne Giuda, che è vestito di nero. In un altro dipinto è rappresentato il funerale di un prelato: si vedono i sacerdoti trasportare la salma, ma insieme a loro, elemento decisamente insolito, camminano delle anime, trasparenti come fantasmi.

La Cattedrale Armena
Il quartiere armeno è vivace e ricco di landmark curiosi, ognuno dei quali ha la sua storia. Uno è il ristorante Bartolomey, intitolato a Bartolomey Zimorov, borgomastro della Leopoli seicentesca che, secondo la leggenda, amava la birra di un birraio armeno al punto da stabilire con un editto che la ricetta non potesse essere mai cambiata. Poi c’è Dzyga (la trottola), che è un bar piuttosto alternativo ma anche una piccola galleria d’arte. Davanti c’è il piccolo e curioso monumento al Sorriso, che rappresenta un pesce che ride dotato di mani umane al posto delle pinne. Ma la più significativa è forse un’altra scultura, quella di Ignaty Lukasevych, il farmacista che inventò la lampada a kerosene a Leopoli nel 1853, dopo aver sviluppato un metodo per distillare il kerosene dal petrolio. Qui c’è anche un caffè-museo con più di duecento lampade a petrolio.
Martin Pollack ricorda che nel 1855, per la prima volta in Austria-Ungheria, l’ospedale pubblico di Leopoli introdusse in via sperimentale l’illuminazione a kerosene, e tre anni più tardi toccò ai viennesi beneficiare di quel prodigio proveniente dai monti della Galizia: la stazione Nord di Vienna fu il primo edificio pubblico a essere illuminato con il kerosene di Drohobycz. Era nata l’industria petrolifera di Drohobycz; la regione intorno a questa piccola città era chiamata “Pennsylvania della Galizia”. La Galizia che nel medioevo è stata la terra del sale e che in epoca più moderna, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, ha vissuto questa età dell’oro… nero.

Bartolomey

Ignaty Lukasevych

Viktoria e il monumento del sorriso
Un’altra chiesa importante è quella dei domenicani, che ora è una chiesa greco-cattolica. La Chiesa greco-cattolica ucraina è una Chiesa di rito orientale (ortodosso) e di lingua liturgica ucraina, presente anche in altri paesi del mondo, che mantiene la comunione con la Chiesa di Roma ed è considerata una Chiesa sui iuris nell’ambito della Chiesa cattolica. La Chiesa ha per primate l’arcivescovo maggiore di Kiev-Halych; la sede della Chiesa è stata ufficialmente trasferita dalla storica sede di Leopoli alla capitale Kiev il 21 agosto 2005. Oggi, a Leopoli e in Ucraina, la Chiesa greco-cattolica è quella maggioritaria (a Leopoli il 56% della popolazione è di fede greco-cattolica).
Una delle differenze più evidenti tra una chiesa ortodossa e una greco-cattolica è che in una chiesa ortodossa la funzione si segue in piedi, mentre in una greco-cattolica, come da tradizione cattolica, ci sono le panche.
Davanti alla chiesa, un’installazione per celebrare la Pasqua fatta con decine di grandi e coloratissime uova decorate con disegni e motivi di tutti i tipi.
Leopoli era convivenza di etnie, di lingue e di religioni. Lo si vedeva da tante cose. Come la consuetudine di andare per le case, in occasione delle differenti festività, prima dalle famiglie cattoliche, poi da quelle greco-cattoliche, intonando canti natalizi o augurando Buon Anno; usanze alle quali partecipavano insieme bambini cattolici, greco-cattolici e perfino ebrei. Questa mescolanza culturale e religiosa fu caratteristica tipica della Galizia Orientale. Al funerale del rabbino Schreier nella vicina città di Drohobycz, per esempio, era presente tutta “la nazionalità galiziana”: ebrei, polacchi e ucraini e, oltre ai rabbini, non mancarono nemmeno i sacerdoti cattolici e i greco-cattolici (Chciuk 2002).

La chiesa dei Domenicani
Un altro edificio religioso tra i più belli e suggestivi della città, ancorché annerito dal tempo, è la cappella funeraria della famiglia di origine ungherese Boim, costruita tra il 1609 e il 1615.
La cappella combina una varietà di stili: olandese, tedesco e naturalmente polacco. Ha una cupola a base ottagonale sovrastata da un’altra piccola cupola, su cui si trova una curiosa statua di Gesù seduto, in una posa tra il pensoso e l’afflitto.
La facciata è densamente coperta di figure e sculture ornamentali in arenaria. La parte superiore è decorata con due colonne corinzie, quella inferiore con sei. Ci sono statue degli apostoli Pietro e Paolo, dei profeti e citazioni dalla Bibbia in latino. Altre sculture dedicate alla Passione di Cristo sono chiamate “La Bibbia dei poveri”, perché potevano essere capite anche dagli analfabeti.
Ai lati del portone, un messaggio (in ucraino e in inglese) chiede la liberazione dei prigionieri politici ucraini in Russia, e in particolare del regista Oleg Sentsov, che in seguito all’annessione russa della Crimea nel 2014 è stato arrestato e condannato da una corte russa a 20 anni di prigione, con la falsa accusa di aver complottato per organizzare atti di terrorismo.
https://www.amnesty.org/en/latest/campaigns/2018/07/oleg-sentsov/
La piazzetta davanti alla cappella è da sempre considerata uno dei luoghi più romantici di Leopoli, posto ideale per gli appuntamenti tra innamorati; tant’è vero che un cartello segnala un “Kiss Place”.

La cappella della famiglia Boim
E da qui, pochi passi e siamo in Piazza Rynok, la piazza più grande e centrale, anticamente la piazza del mercato. La parola Rynok deriva dal tedesco ring ed è quindi un’eredità austriaca. C’è il palazzo del Municipio, che domina la piazza con la sua torre. C’è una farmacia del 1735, con annesso museo. C’è il palazzo di Roberto Bandinelli, un mercante fiorentino che nel ‘600 aprì qui a Leopoli il primo ufficio postale nel territorio dell’odierna Ucraina. Il nonno di Roberto, Bartolomeo “Baccio” Bandinelli, era un pittore e soprattutto scultore emulo di Michelangelo, di cui si era autoproclamato rivale. C’è il palazzo del re polacco Jan Sobieski. C’è Palazzo Korniakt, con un cosiddetto “cortile italiano”, che ospita anche un museo storico. E c’è anche il mitico Caffè Atlas, di cui abbiamo parlato nel primo capitolo.
Il leone, simbolo della città, campeggia un po’ ovunque, scolpito nel timpano di una finestra o “disegnato” con i fiori in un’aiuola.

Putin-zerbino: la scritta dice semplicemente “Pulisciti i piedi!”

Il Caffè Atlas

Il cortile italiano
C’è un’altra chiesa dove vale la pena di fare una breve tappa: è quella dei gesuiti, che ora è diventata greco-cattolica ed è la chiesa dei militari. Entrando, infatti, tra i ponteggi dei lavori di restauro in corso, è un profluvio di bandiere e stendardi di corpi dell’esercito ucraino. All’interno della chiesa si trova anche una mostra fotografica dedicata alla guerra nel Donbass, e in particolare ai bambini rimasti orfani, con foto e dediche tenere e struggenti dei figli ai papà morti in battaglia. Qui siamo lontanissimi dal Donbass, ma il conflitto è stato ed è ancora molto sentito dalla gran parte del popolo ucraino; ha provocato una ulteriore crescita del nazionalismo, che era già forte, e del sentimento anti-russo. La situazione nelle autoproclamate repubbliche indipendenti di Donetsk e Lugansk, dove nel 2014, dopo i fatti di Maidan, le rivendicazioni autonomiste della popolazione russofona si sono tradotte in un conflitto armato, non si può certo definire tranquilla, anche se in Europa occidentale non se ne parla praticamente più. Al massimo si può parlare di un conflitto a bassa intensità. Qui tutti additano apertamente Putin come responsabile, tant’è vero che la sua immagine compare su zerbini e rotoli di carta igienica venduti sulle bancarelle. Del resto, non è un segreto per nessuno che le milizie delle due repubbliche siano state ampiamente foraggiate da Mosca e annoverino paramilitari russi e ceceni filorussi. Questa è una delle tante situazioni di guerra in cui non ci sono i buoni e i cattivi, ci sono i cattivi e i pessimi; e non è neanche facile stabilire chi siano davvero i pessimi, considerando che alcuni gruppi ultranazionalisti ucraini sono in odore di neonazismo.

La chiesa dei Gesuiti
Finiamo il giro con Viktoria, che tra una chiacchiera e l’altra ci racconta di aver vissuto per un periodo a Napoli. Tra le tante curiosità c’è quella che nel ‘500 era stato posto un limite al numero di finestre per piano che potevano avere le case private: non più di tre. È per questo che, se ci guardiamo intorno, possiamo notare che le dimore più antiche hanno invariabilmente tre finestre per piano. Il senso era di garantire una ricostruzione equilibrata e ordinata, senza inutili sfoggi di ricchezza, dopo il grande incendio del 1527. Solo il clero e i nobili erano privilegiati, potendo arrivare fino a sei finestre per piano, il doppio dei borghesi e dei ricchi commercianti.
Salutata e ringraziata la simpatica Viktoria, ci avviamo verso il pranzo. Nel frattempo, siamo riusciti a cambiare un po’ di soldi: la moneta locale si chiama grivnia e vale 3,3 centesimi. Quindi più o meno 1 euro = 30 grivnia (non mi chiedete come si fa il plurale).
Ci aspettano alla birreria ceca Stargorod, un posto di taglio decisamente popolare. Fuori un maialino gira sullo spiedo, dentro, nell’ampio salone, ci sono schermi televisivi dappertutto, che rimandano le immagini di una partita di calcio. Perfino nel bagno degli uomini, sopra gli orinatoi, c’è una fila di schermi, per non perdersi neanche un minuto di partita. Il calcio è importante e seguito in Ucraina. La Dinamo Kiev è stata una delle squadre più titolate dell’URSS ed era l’ossatura dell’ultima nazionale sovietica forte che si ricordi, quella di Valery Lobanovskiy. In tempi più recenti, l’alfiere del calcio ucraino è stato il grande attaccante del Milan Andriy Shevchenko, che all’estero e soprattutto in Italia è sicuramente molto più popolare del suo illustre omonimo Taras, il padre della letteratura ucraina.
Per il pranzo io scelgo un piatto che mi incuriosisce, una zuppa a base di birra (e carne di maiale) servita in una scodella fatta di pane. E ovviamente una buona birra.
Dopo pranzo, abbiamo in programma, presso il Center for Urban History, un incontro con lo scrittore Yuriy Vynnychuk dal titolo “Leopoli città di libri e scrittori”. Martin Pollack ci spiega che «Leopoli non era solo un centro dell’apparato burocratico, era anche una “Bibliopoli”, come dicevano pieni d’orgoglio i galiziani colti, una città di case editrici e librerie anche antiquarie, critici e autori.»
Un altro apprezzato caffè di Leopoli, l’Imperial, metteva a disposizione più di centocinquanta giornali. Ma i librai antiquari di Leopoli erano tutti, senza eccezioni, ebrei. E questo spiega perché oggi, purtroppo, non se ne vedono in giro…
Il centro che ci ospita è un’istituzione privata, che si occupa di ricerca storica a Leopoli dal 2006. Si occupa non solo di Leopoli, ma di tutta l’Europa centrale e Orientale. La peculiarità è che cercano di vedere la storia dal punto di vista delle città. i principali filoni di ricerca sono tre: quello dell’attività accademica, quello della storia umanistica digitale e quello della storia pubblica generale.
Yuriy, coadiuvato dalla puntuale traduzione di Mariana, parte da lontano, dalla storia d’amore tra un italiano di nome Michelini e una ragazza di qui, Pelagia, nella Leopoli della fine del ‘500. Erano i Romeo e Giulietta leopolitani. A loro è stato dedicato un monumento in città. La storia, inevitabilmente, è molto triste: Pelagia si ammalò di peste e lui, che non poteva starle lontano, finì per essere anche lui contagiato. Sono sepolti insieme e sulla loro tomba è scritto che neanche la morte poté separarli.
Un altro personaggio storico legato a questa terra è Roksolana, una ragazza galiziana rapita dai turchi e diventata concubina e poi moglie di Solimano il Magnifico. Roksolana fu in grado di ottenere ciò che nessuna concubina prima di lei aveva ottenuto. Divenne ufficialmente moglie del sultano, quando anche se non esistevano leggi che proibissero i matrimoni tra sultani e concubine tutta la corte ottomana era contraria, perché Solimano non aveva rispettato le tradizioni. Probabilmente il matrimonio ebbe luogo a giugno del 1534, anche se la data esatta è a tutt’oggi sconosciuta.

Yuriy e Mariana
Andando su cose più vicine a noi, si passa poi al racconto di una leggendaria sfida… alcolica tra lo scrittore russo Aleksej Tolstoj (solo lontano parente del più famoso Lev) e alcuni colleghi leopolitani. Questi ultimi, giocando in casa, ebbero anche il privilegio di scegliere l’arma, per così dire, e scelsero di bere medukha, proprio quello che abbiamo bevuto anche noi ieri sera. Un liquore che è dolce, che sembra leggero ma che ti tradisce se non lo conosci: si sente poco nella testa, ma si sente molto nelle gambe. E così Tolstoj perse la sfida e dovettero portarlo a braccia fino alla sua stanza, perché non si reggeva in piedi.
Un breve accenno anche su Leopold Von Sacher-Masoch, colui al quale si deve la parola masochismo. Nacque proprio qui a Leopoli e, sebbene sia ricordato come scrittore austriaco, si sentiva anche ucraino e ha descritto nei suoi romanzi erotici molte donne galiziane.
Ma il cuore della mini-conferenza che Yuriy Vynnychuk tiene per noi è quello che riguarda i tanti scrittori che hanno vissuto a Leopoli, l’hanno raccontata e ne sono stati influenzati. Due su tutti: Joseph Roth e Bruno Schulz.
Joseph Roth fu il grande cantore della finis Austriae, della dissoluzione dell’impero austro-ungarico che aveva riunito popoli di origini disparate, con lingue, religioni, tradizioni diverse. Nacque nel 1894 a Brody, nei pressi di Leopoli, in una famiglia ebraica. Il padre aveva gravi problemi di salute mentale, fu dapprima ricoverato e poi spedito da una sorta di rabbino-guaritore; la madre si comportava come una vedova: il marito viveva ancora, ma era considerato disperso. Nell’ambiente ebraico ortodosso della Galizia la pazzia era considerata un castigo di Dio, che pesava sull’intera famiglia e peggiorava le prospettive matrimoniali dei figli; perciò nella famiglia non si parlava della sorte del padre e si preferì diffondere la voce che Nachum Roth si fosse impiccato.
Dopo la maturità (maggio 1913), Roth si trasferì a Leopoli, dove si iscrisse all’Università.
A Leopoli vi erano acute tensioni, non solo tra le varie nazionalità (all’Università ci furono scontri tra studenti polacchi e ruteni), ma anche all’interno del mondo ebraico fra Chassidismo, Haskalah (Illuminismo ebraico) e il movimento sionista che stava diventando sempre più forte. A Brody l’anno di Roth era stato l’ultimo con lezioni in tedesco, e all’Università di Leopoli dal 1871 il polacco era la lingua d’insegnamento. Questa può essere la ragione per cui Roth (che vedeva la sua patria letteraria nella letteratura tedesca) decise di lasciare Leopoli e di iscriversi all’Università di Vienna.
Durante la Grande Guerra, Roth fu mandato alla 32ª divisione in Galizia. Nel 1917, e fino alla fine della guerra, fu assegnato al servizio stampa nella zona di Leopoli.
Dopo la fine della guerra, Joseph Roth dovette interrompere lo studio e concentrarsi su come procurarsi da vivere. Lavorò come giornalista a Vienna e a Berlino.
Il 5 marzo 1922 Roth sposò a Vienna Friederike (Friedl) Reichler, conosciuta tre anni prima. Friedl era una donna attraente e intelligente, ma non era un’intellettuale né era adatta alla vita irrequieta e mondana al fianco di un giornalista di successo che viaggiava di frequente. Per di più Roth mostrò sintomi di una gelosia quasi patologica. Dal 1926 erano apparsi in Friedl i primi segni di una malattia mentale, che nel 1928 divenne evidente. La malattia della moglie provocò in Roth una profonda crisi. Non era preparato ad accettare la disgrazia, sperava in un miracolo, si incolpava della malattia. In questo periodo cominciò a bere troppo (si ubriacava bevendo quantità smodate di Pernod) e anche la situazione finanziaria peggiorò. L’alcol sarebbe stata poi una costante della sua vita: non è un caso che la sua opera più famosa sia La leggenda del santo bevitore.
La sistemazione di Friedl presso i genitori non portò alcun miglioramento, e poiché la malattia si trasformò in una grave apatia fu ricoverata dal 1930 in diverse cliniche a Vienna. Nel 1935 i suoi genitori si trasferirono in Palestina e Roth chiese il divorzio. Nel 1940, Friedl Roth fu mandata a Linz, ma non c’è traccia del suo arrivo là: fu vittima del programma di eutanasia dei nazisti.
Anche se in seguito la malattia della moglie fu per Roth fonte di sensi di colpa e afflizione, egli si liberò relativamente in fretta da quella situazione senza speranza. Conobbe diverse donne con le quali ebbe relazioni di varia durata.
Il 30 gennaio 1933, il giorno in cui Hitler divenne cancelliere del Reich, Roth lasciò la Germania.
Presto anche i suoi libri furono dati alle fiamme. Roth scelse come luogo del suo esilio dapprima Parigi, ma nel corso degli anni seguenti non si trattenne costantemente in Francia. Fece diversi viaggi, anche di alcuni mesi, per esempio nei Paesi Bassi, in Austria e in Polonia. Diversamente da quanto accadde a molti altri scrittori emigrati, Roth non solo rimase attivo, ma ebbe anche la possibilità di pubblicare le sue opere, soprattutto nei Paesi Bassi.
Negli ultimi anni la salute e la situazione economica di Roth peggiorarono rapidamente. Nel 1937 dovette lasciare l’Hotel Foyot, dove aveva vissuto per dieci anni, perché pericolante. Il 23 maggio 1939 fu trasferito all’Ospedale Necker (l’ospizio dei poveri), dopo uno svenimento al “Café Tournon” (presumibilmente, in seguito alla notizia del suicidio dell’amico Ernst Toller, aveva ancora una volta bevuto troppo). Il 27 maggio, abbandonato nelle mani di infermieri e medici inetti, morì per una polmonite bilaterale non diagnosticata tempestivamente. L’esito fatale della malattia fu favorito da una crisi di delirium tremens.
Il tramonto dell’Austria come perdita della patria e la sua elaborazione da parte di Roth richiama l’attenzione sulla precoce perdita del padre. Questo sentimento di perdita e sradicamento viene visto però anche in altro modo, cioè come senso della vita degli Ebrei galiziani e degli Ebrei in genere, per esempio nel saggio Juden auf Wanderschaft (Ebrei erranti).
Roth, molto vicino alla fine, ha trasformato in direzione cattolica la nostalgia di un ritorno alla sicurezza (anche religiosa) della cultura ebraica dello “Shtetl” (il piccolo villaggio ebraico) nella Legende vom Heiligen Trinker (La leggenda del santo bevitore), dove per miracolo e grazia divina il senzatetto ubriacone Andreas Kartak trova nella morte liberazione e ritorno a casa.
Bruno Schulz (1892-1942) è stato scrittore ma anche pittore. I suoi disegni e dipinti sono spesso un po’ inquietanti e hanno un che di masochistico, dice Yuriy riallacciandosi a Sacher-Masoch. È uno scrittore molto raffinato, non solo da leggere ma proprio da gustare, assaporando ogni singola parola.
Con il poetico titolo di “Le botteghe color cannella” sono raccolti, e noti in tutto il mondo, i suoi ventotto racconti tradotti anche in italiano. Se non fosse stato trucidato, perché ebreo, dai nazisti e il suo romanzo illustrato, Il Messia, non fosse andato misteriosamente perduto, la sua importanza e la fama sarebbero oggi forse pari a quella di Franz Kafka, scrive Francesco Cataluccio.
La singolarità di Schulz consiste non soltanto nella sua fantasmagorica prosa, che spesso sembra una sorta di poesia continuata in forma di racconti, ma anche nella straordinaria, e rara, simbiosi che operò tra i suoi scritti e i suoi misteriosi e inquietanti disegni. Schulz viveva immerso in una sorta di mondo fantastico, dove la natura era animata di una bizzarra vita propria e le tradizioni religiose dei suoi antenati lo riportavano continuamente indietro nel passato.
Bruno Schulz era nato a Drohobycz, nella Galizia orientale: un cittadino di lingua polacca, e di nazionalità ebraica, dell’Impero austroungarico. Trascorse tutta la vita a Drohobycz, tranne brevi soggiorni a Varsavia, Cracovia e Vienna, e una puntata a Parigi (nel 1938).
Drohobycz non era affatto un povero shtetl affollato: aveva la più grande Sinagoga in pietra della regione (che si è miracolosamente salvata fino ad oggi) e grazie anche alla scoperta del petrolio nelle vicinanze era un crocevia di affari e movimenti di uomini che la tenevano a contatto con le città del Moderno, e in particolare con Vienna.
Alcuni dei più sarcastici racconti di Schulz mostrano proprio la nuova faccia della cittadina: piena di vita, affari e truffe. L’opera di Schulz, se anche rappresenta un mondo quasi fuori dal tempo (che poi è il mondo mitizzato dell’infanzia), vive le contraddizioni di una realtà urbana e sociale che va rapidamente mutando volto.
Nel 1910, Schulz era andato a studiare architettura al Politecnico della vicina Leopoli, ma la scarsa salute, la povertà e la nostalgia lo fecero rientrare dopo tre anni al paese. La morte del padre, dopo una lunga malattia (nel 1915), mise fine all’unico periodo sereno della sua vita. La povertà e l’angoscia non lo abbandonarono più. Unica garanzia di sostentamento per sé e la sua famiglia fu il suo impiego (dal 1924) come insegnante a contratto di applicazioni tecniche e disegno al ginnasio di Drohobycz.
Dopo la scomparsa del padre ci furono anni molto difficili. La creatività di Schulz iniziò a manifestarsi con i disegni e le incisioni. Nel 1920 dette vita, con una ventina di incisioni, a un racconto in forma di disegni, con didascalie, la sua prima storia autobiografica: Xięga Bałwochwalcza (Il Libro idolatrico). Un corteo di ominidi, tra i quali compare sempre anche Schulz, sovente nelle sembianze di un abbacchiato cagnetto, striscia adorante ai piedi di figure femminili belle, sicure di sé, sessualmente disinibite.
Per arrivare ai racconti dovranno passare ancora dieci anni, nei quali Schulz resusciterà un po’ alla volta suo padre mitizzandolo, all’interno di un ambiente ebraico fino a quel momento a lui abbastanza estraneo. Schulz infatti, in gioventù, era vissuto lontano dal mondo ebraico, anche per educazione famigliare: non conosceva neppure la lingua dei suoi antenati. La sua rielaborazione del lutto avvenne parallelamente al ritorno in vita delle sue radici ebraiche. Iniziò così a narrare le straordinarie storie di suo padre e della gente ebrea del paese. Decisivo per la scrittura dei racconti che composero il primo volume fu l’incontro, nel 1930, con la scrittrice yiddish Debora Vogel (1902-1942), nata a Leopoli e appartenente a una famiglia dell’intelligencija ebraica di lingua polacca. Debora aveva viaggiato molto in Europa e si era dedicata inizialmente alla critica d’arte. Solo dopo gli studi universitari iniziò a studiare yiddish (suo padre, che le aveva insegnato l’ebraico, considerava l’yiddish una lingua del popolino). Scelse questa lingua per scrivere le sue prime poesie e divenne tra le animatrici della vita culturale ebraica di Leopoli, che si raccoglieva attorno alla rivista yiddish “Cusztajer” (Il dono). Schulz, nelle lettere che le scrisse a partire dal 1931, iniziò ad aggiungere lunghi “post-scriptum” dove narrava le straordinarie storie del padre, riscoprendo quel mondo ebraico-orientale che costituisce qualcosa di molto più che lo sfondo de Le botteghe color cannella.
Debora Vogel fu quindi una sorta di “levatrice” della scrittura di Schulz: lo incoraggiava e gli dimostrava, oltre che una vicinanza sentimentale, un’affinità artistico-culturale.
Scrive Schulz nella lettera (4 marzo 1936) al critico Andrzej Plesniewicz:
«Quello che Lei dice della nostra infanzia artificialmente prolungata, l’immaturità, mi disorienta un poco. Giacché mi sembra che il genere d’arte che mi sta a cuore, sia proprio una regressione, un’infanzia reintegrata. Se fosse possibile riportare indietro lo sviluppo, raggiungere di nuovo l’infanzia attraverso una strada tortuosa – possederla ancora una volta, piena e illimitata – sarebbe l’avveramento dell’“epoca geniale”, dei “tempi del Messia”, che ci sono stati promessi e giurati da tutte le mitologie. Il mio ideale è “maturare verso l’infanzia”. Questa soltanto sarebbe l’autentica maturità.»
Il primo libro di racconti di Schulz, appunto Sklepy cynamonowe (Le botteghe color cannella), uscì nel 1933 grazie all’interessamento di Debora Vogel e di alcuni amici.
In questi racconti il padre Jakub diventa soggetto di una serie di strane metamorfosi che sono sempre originate da un bisogno fortissimo, viscerale, di vicinanza con la materia vivente. Ma le metamorfosi non si capisce mai quanto siano volontarie o provocate da un eccesso di questa vicinanza. In Schulz abbiamo a che fare con un gioioso carnevale pagano trattato, e subìto, dagli altri membri della famiglia come qualcosa di naturale. Essi assistono così, continuamente, alle varie metamorfosi di Jakub, che si trasforma in: condor impagliato dall’enorme testa senile; volpe irsuta, tutta ciuffi e batuffoli di pelo grigio e lunghi pennacchi di setole; scarafaggio; mosca mostruosa dagli azzurri riflessi metallici; essere a metà tra un gambero e un grosso scorpione, che finirà cotto in una salsetta gelatinosa…
Il commerciante di tessuti Jakub ha anche molte idee in comune con i “cabbalisti” e aspira lui stesso ad essere simile a un creatore di golem come il Rabbi Jehudah Loew ben Bezalel di Praga o a un “apprendista stregone”, oppure al Dottor Faustus; il padre di Schulz incarna la rivolta dell’uomo contro la sua condizione e, alla fine, l’inutilità dello sforzo di interrogare: il circolo vizioso che, inesorabilmente, riporta l’uomo al punto di partenza.
Dopo aver tentato di riappropriarsi disordinatamente del magico mondo ebraico, Schulz sembrò a un certo punto, sotto la spinta dei suoi tormenti sentimentali, sbandare verso la ricerca di un percorso spirituale completamente nuovo, che costituisse una risposta ai suoi problemi di identità. Al 1938 risalgono le poche notizie di un avvicinamento di Schulz al cattolicesimo.
Tutti i racconti di Schulz sono l’anticipazione del romanzo Il Messia. Esso doveva essere il capitolo finale di un faticoso ed esaltante percorso creativo alla ricerca di un’identità che si basava sul Padre, il Libro e la Tradizione, e di conseguenza sulla speranza dell’arrivo della Salvezza.
Ma Schulz, che era protetto da Felix Landau, ufficiale della Gestapo, venne ucciso nel 1942, durante uno dei vari eccidi di ebrei. Si dice che il nazista che gli sparò si volesse vendicare dell’uccisione di un suo «schiavo ebreo» da parte di Landau: «Tu hai ucciso il mio ebreo e io uccido il tuo». Anche Debora Vogel venne uccisa con tutta la sua famiglia e il Messia, che doveva essere quasi finito, andò perduto.
Yuriy, dopo averci raccontato che da qui nel 1933 passò anche Marinetti (fu messo in scena un suo testo teatrale, messa in scena che lui apprezzò al punto di dire che la trovava migliore di quelle italiane), passa alla parte più leggera e divertente della sua presentazione.
Ad esempio, tornando nel clima della Leopoli tra le due guerre, ci riporta una gustosa “maledizione” usata dai Batiar: “Che ti cadano tutti i denti tranne uno che ti farà male tutta la vita!”.
In quest’ultima parte ci parla un po’ anche di sé stesso. Lui scrive da molti anni, ed era quindi già attivo ai tempi dell’URSS, ma non poteva pubblicare a causa della censura. In quel periodo lui, che era critico verso il regime sovietico, faceva circolare i suoi scritti solo clandestinamente. Allora ci racconta di come, pur di pubblicare qualcosa e beffare il sistema, si era inventato un falso poema scritto da un monaco irlandese del 1200, che diceva di aver scovato e tradotto e che riuscì a pubblicare. Solo pochi anni fa, tra la sorpresa generale di chi ci aveva creduto, ha rivelato che il monaco irlandese non è mai esistito.
In tempi più recenti Yuriy ha avuto ancora problemi con il governo filorusso di Yanukovych, che lo aveva messo sotto tiro. La sua opera più recente, purtroppo non tradotta in italiano, è il romanzo “Tango of Death”, che racconta le vite di quattro amici fraterni (uno ucraino, uno polacco, uno ebreo e uno tedesco) nella Leopoli di prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, fino ai giorni nostri. Nella storia di finzione, ispirata agli avvenimenti storici di quegli anni, sono presenti vari personaggi realmente esistiti. Tra questi i musicisti che formavano l’orchestra del campo di concentramento di Yaniv, alla periferia di Leopoli, e che erano costretti dai nazisti a suonare un tango durante le esecuzioni di prigionieri che si svolgevano nel campo.
Terminato l’incontro, abbiamo un po’ di tempo libero che possiamo sfruttare per bighellonare un po’ liberamente per la città e concederci qualche attività un po’ più rilassante.
Passiamo, tra l’altro, davanti a un caffè molto… singolare. Ad accogliere i clienti c’è una statua di Leopold Von Sacher-Masoch con un buco in corrispondenza della tasca dei pantaloni che incuriosisce un po’ tutti, ma sono soprattutto le donne che vengono invitate a infilarci la mano… anche questo ha a che vedere con la peculiarità di questo locale.
Illuminato da una soffusa luce rossa, il Sacher-Masoch Cafe è pieno di parafernalia e cimeli storici. Nel salone dove c’è il banco del bar, ci sono dei murales ispirati ai disegni masochisti di Bruno Schulz. Può succedere che, per rendere onore alla specialità del posto, ti vengano inferte dalla cameriera delle frustatine scherzose. Per avere un trattamento più serio – cera colata sul petto, vere scudisciate sulla schiena nuda… – bisogna ordinare non una semplice birretta, ma cocktail più costosi con nomi come Blow-job. Niente di spinto, in realtà. Il Sacher-Masoch Cafe è frequentato da giovani turisti in vena di foto e scherzi. Per chi volesse saperne di più, è uscito un bell’articolo su un giornale “insospettabile” come il Sole 24 ore:
(Grazie a Patrizia che me lo ha segnalato)
Un bel momento leggero ce lo concediamo assaggiando un liquore locale alla ciliegia che sembra molto apprezzato, a giudicare dal numero di avventori che staziona più o meno costantemente fuori dal locale con l’insegna “P’yana Vishnya” (ciliegia ubriaca). Effettivamente è piacevole, non eccessivamente forte e non troppo dolce, un po’ meno della Ginjinha lisboeta alla quale a me e alle mie amiche Elena e Gabriella viene immediato accostarlo (loro sono state mie compagne di viaggio anche a Lisbona, ndr). Comunque per noi diventa subito (anche per qualche difficoltà nell’imparare il nome vero) “la Ginjinha di Leopoli”. Anche il locale, arredato con gusto vintage, è molto bello, e altrettanto le bottiglie.
Poi qualche acquisto, doccetta e siamo pronti per la cena.
Il ristorante è il polacco Baczewski, che era una fabbrica di liquori. Il menù è il seguente.
Antipasto: Tre tipi di paté, piatto di verdure, carne affumicata
Piatto principale: Coniglio
Dolce: Cheese cake
Vino rosso Kolonist (Odessa)
A cenare con noi, oltre a Mariana, c’è anche Yuriy, ed è proprio lui che cerca di convincerci (e, almeno per quanto riguarda me e altri quattro o cinque, ci riesce) a provare una sorta di Bloody Mary locale, che qui sostiene sia davvero speciale. In effetti anche la preparazione è scenica al punto giusto, con il cameriere che elenca gli ingredienti; non sono solo i classici vodka, succo di pomodoro, tabasco, sedano, sale, pepe nero e succo di limone, ma sono ben 13 ingredienti. Purtroppo non li ricordo tutti, ad essere onesto non è neanche il mio cocktail preferito, ma è un’esperienza che andava fatta.
Dopo di che, breve passeggiata e poi, per concludere la serata mantenendo un corretto tasso alcolico, con Eugenio e alcuni altri irriducibili ci facciamo una vodka liscia, rigorosamente ucraina, sulla terrazza panoramica dell’hotel. Budmo!
(To be continued…)