Come passare il primo giorno di giugno, che è anche un sabato, quando inizia l’estate meteorologica e a Milano, dopo un maggio che sembrava febbraio, il caldo improvvisamente comincia a farsi sentire? Ma è chiaro, ci vuole una bella gita fuori porta. Si parte sul presto (almeno per essere sabato) e ci si dirige verso una destinazione vicina, eppure poco conosciuta. Non come meriterebbe, se non altro. Un’oretta di pullmino e siamo sui colli tortonesi, poco oltre il confine dove la Lombardia diventa Piemonte e l’Oltrepò Pavese si trasforma e si confonde con questa terra di dolci colline e antiche radici contadine, terra di vino e di ciclisti (ha dato i natali a colui che molti ritengono il più grande di tutti, Fausto Coppi). E terra di pittori, o meglio di un grande pittore: Pellizza da Volpedo, quello del Quarto Stato, quello del quadro-icona della Sinistra, quello che ha ritratto il popolo dei lavoratori in marcia serena ma inarrestabile verso un futuro migliore. O almeno così credeva lui, e così credevano in tanti allora. Poi non è finita proprio così, ma non apriamo questo capitolo, per carità, non è proprio il momento.
Questo è soltanto il racconto per immagini e parole (non troppe, spero) di un sabato di sole piacevole e rilassante, al ritmo lento di un’estate incipiente sui colli tortonesi, con il Pellizza e un suo quadro quasi mai visto e felicemente ritrovato, almeno per un mese, a far da pretesto e da spirito guida.
Siamo in provincia di Alessandria, ma questa zona è chiamata anche delle Quattro Provincie, perché in pochi chilometri ci si sposta e si può andare a finire in provincia di Pavia, di Piacenza o di Genova.
L’organizzazione di questa giornata è come sempre curata da ViaggieMiraggi, e nello specifico dalla mia amica Simona Barranca. Simona è entrata da poco in ViaggieMiraggi a tutti gli effetti, anche se già da tre anni collaborava occasionalmente. Io l’ho conosciuta proprio tre anni fa a Lisbona in occasione della sua prima uscita da accompagnatrice e guida, poi in questi tre anni ci siamo visti abbastanza spesso, anche per l’altro lavoro di Simona, quello con il COE (Centro Orientamento Educativo), una Onlus che si occupa di promozione umana e sociale nei paesi del Sud del mondo attraverso progetti di volontariato, caratterizzati sempre da una forte valenza educativa. Per il COE Simona cura soprattutto l’organizzazione e la comunicazione del Festival del cinema Africano, d’Asia e America Latina, che per me è un appuntamento assolutamente irrinunciabile, già da prima di conoscere lei ed ora ancora di più; ed è un impegno che Simona non ha intenzione di lasciare, ora si sdoppierà tra le due attività, non so bene come ma so per certo che lei ci riuscirà.
Simona è stata con noi per tutta la giornata, con questo piccolo gruppetto che siamo riusciti a mettere insieme: oltre a me c’erano le tre affezionate amiche viaggiatrici Carolina, Maria Grazia e Patrizia. E poi, a guidare il pullmino e a guidare noi tra i paesaggi e le delizie dei colli tortonesi c’era Massimo, che anche lui si sdoppia: per lavoro si occupa di energia e in particolare di fotovoltaico, ma si dedica anche con passione a promuovere questo territorio, di cui non è originario (lui è di Vimercate), ma che ha scoperto qualche anno fa e del quale si è innamorato. Massimo ha viaggiato molto per lavoro, in vari posti del mondo, prima di decidere di “fermarsi” e apprezzare, almeno quando si può, un ritmo di vita più rilassato e un paesaggio ancora bello e vivibile come quello dei colli tortonesi. Qui Massimo e Ilaria, la sua compagna, hanno deciso di aprire un B&B in un posto splendido che, avendolo visto e avendo conosciuto loro, non posso che consigliarvi: le camere sono belle e curate e la vista sui colli è davvero spettacolare. Senza contare che loro propongono anche attività come fare trekking tra i borghi della zona e i canyon del torrente Borbera, fare degustazioni e perfino andare per tartufi con i cani addestrati a scovare il prezioso tubero ovunque si nasconda. Qui trovate tutte le info:

http://www.bandbmontemarzino.it/

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Ma veniamo al racconto della giornata. La prima tappa è stata quella di Viguzzolo, dove abbiamo potuto ammirare, purtroppo soltanto dall’esterno, la pieve romanica dell’XI secolo, dedicata a Santa Maria Assunta. Una delle domande che ci sono venute davanti a questa bellissima chiesetta è proprio: ma perché pieve? Cosa significa? Perché alcune chiesette di campagna si chiamano così? La parola pieve viene da plebe, cioè popolo. La pieve è una chiesa con annesso battistero. Nell’Alto Medioevo la pieve, detta chiesa matrice o plebana, era al centro di una circoscrizione territoriale civile e religiosa. A essa erano riservate alcune funzioni liturgiche e da essa dipendevano altre chiese e cappelle prive di battistero. Dal Basso Medioevo le funzioni proprie della pieve passarono alla parrocchia.
Dopo la caduta dell’Impero Romano e il graduale disfacimento delle istituzioni e delle strutture poste a governo del territorio, l’amministrazione delle pievi passò in gran parte alle autorità religiose, sia nelle aree di campagna sia nei centri abitati di una certa importanza (o perché sedi di mercato o in quanto sedi amministrative o stazioni di posta, oppure ancora insediamenti agricoli di dimensioni maggiori). Il maggiore sviluppo di questa organizzazione territoriale si ebbe in zone in cui l’autorità centrale era più debole, spesso di difficile accesso.
Con l’arrivo dei Longobardi, il termine plebs-“pieve” passò a indicare le popolazioni soggette, tenute a pagare tributi ai conquistatori, i quali, viceversa, si raggruppavano nelle “fare”. Il termine passò dunque a caratterizzare la contrapposizione culturale e sociale fra i sudditi “romani” e la classe dominante longobarda.
Questa Pieve è una costruzione a tre navate con tre absidi semicircolari (l’unica originale è quella centrale, quella di sinistra è stata ricostruita) e tetto a doppio spiovente. La facciata, decorata da archetti pensili divisi irregolarmente da sottili lesene, presenta una porta ad arco a tutto sesto, un occhio circolare e un piccolo campanile a vela, probabilmente di costruzione posteriore. L’aspetto è abbastanza asimmetrico. Da alcuni anni è stato posto nella chiesa un Crocefisso ligneo del XVI secolo: la testa, grazie ad uno snodo, può muoversi dall’alto verso il basso tirando un cordino posto dietro la croce: gli studi effettuati hanno confermato che veniva utilizzato durante i processi dell’Inquisizione, in pratica gli facevano emettere sentenze. Noi purtroppo abbiamo potuto sbirciarlo solo attraverso le fessure della porta perché la pieve, di proprietà del Comune, è quasi sempre chiusa ed è visitabile solo organizzandosi con anticipo, cosa che non abbiamo potuto fare noi. Comunque, una foto l’ho trovata.

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La pieve di Viguzzolo

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A Viguzzolo abbiamo avuto anche una piacevole accoglienza… a sorpresa, sotto forma di ottima frutta che abbiamo potuto assaggiare, ed acquistare, da un produttore locale noto anche come il George Clooney dei colli tortonesi: Fragole, ciliegie, albicocche, pesche. Questa zona è famosa per gli alberi da frutta, tant’è vero che domani a Volpedo c’è la sagra delle fragole, mentre a Garbagna il 9 giugno ci sarà quella delle ciliegie, altrettanto rinomata.

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Noi con “George”

Dopo questo piacevole spuntino di metà mattina, ci siamo poi dedicati anche a quello che è il prodotto per cui la zona è forse più conosciuta, ovvero il vino. Abbiamo visitato la cantina di Luca Canevaro ad Avolasca, dove un ragazzo che studia enologia a Milano e che rappresenta la terza generazione di vignaioli ci ha raccontato le caratteristiche dei vari vini prodotti dall’azienda: i classici (per il territorio) Barbera e Bonarda, ma anche una versione locale del Cortese, che qui è stato rinominato Garbato (i nomi dei vini sono tutti piuttosto azzeccati, giocati spesso sul filo dell’ironia). E poi il Timorasso, un bianco che gli agricoltori di queste zone hanno prodotto fin da tempi remoti, ma che solo in tempi recenti, verso la fine degli anni ottanta, hanno ripreso ad impiantare; e il Ciliegiolo, una varietà di Barbera che si chiama così sia per il colore della bacca che per un certo sentore di ciliegia che sembra sia tra gli aromi sprigionati. Anche qui, inutile dirlo, qualche acquisto ci è scappato. Era un po’ presto per una degustazione, li assaggeremo con calma a casa.

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E se abbiamo parlato di vino, non può mancare la birra. Certo, questo territorio è senz’altro visto come più votato al vino, nell’immaginario collettivo; ma noi, per non farci mancare niente, abbiamo visitato anche un microbirrificio artigianale, quello di Montegioco, che prende il nome da un altro di questi piccoli borghi. Qui Riccardo ci ha spiegato il procedimento di lavorazione e le caratteristiche dei vari tipi di birre che lui, con Carlo e Pigi, produce. E che hanno vinto una sfilza di premi, a quanto è dato vedere dalla loro collezione di targhe e diplomi. Riccardo dà proprio l’idea di uno che la birra ha iniziato a farla perché gli piace berla, prima di tutto; e trovo che sia una bella cosa. Tant’è che quando qualcuno fa un apprezzamento sui nomi delle birre (anche qui molto fantasiosi e divertenti) lui precisa che… li sceglie sempre da ubriaco.
Un’altra caratteristica di queste birre, dice Riccardo, è che sanno anche dell’acqua di queste parti, che è molto minerale; questo perché, per scelta, non si spinge troppo il trattamento di purificazione affinché l’acqua, e quindi la birra, non perda questo che è un po’ un marchio di fabbrica e un legame col territorio.
La gamma di prodotti è vasta, e praticamente tutte le tipologie di birre che l’uomo ha inventato sono coperte, con anche cose decisamente originali; per dirne una, c’è una birra al miele che si chiama Runa di miele (ovviamente, dato che si parla di birra, il riferimento al mondo celtico è quasi d’obbligo). Qui abbiamo avuto la possibilità di fare anche qualche assaggino. Io, ma è una questione puramente di gusto personale, mi sono soffermato sulla rossa “Rurale” e sulla scura (e forte) Bran, che porta un corvo sull’etichetta. Mi dicono che il nome faccia riferimento a un personaggio del Trono di Spade, ma io devo confessare che non frequento. Per altro anche Riccardo, che si dichiara appassionato del genere fantasy ma non tanto del Trono, precisa che Bran non è altro che la parola che significa corvo in un’antica lingua celtica.
Abbiamo scoperto anche che qui, con il patrocinio di questo birrificio, si svolgono ogni anno ben due feste della birra: una a gennaio, nei giorni della Merla, e una alla fine di luglio. In entrambe le occasioni arrivano i rappresentanti (e i prodotti) di birrifici amici da mezza Europa. Ci siamo ripromessi di tornare per approfittarne.

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https://www.birrificiomontegioco.com/

Poi ci siamo fatti una bella passeggiata nel centro di Garbagna, che è uno dei borghi più belli d’Italia, e siamo saliti fino a dove un tempo sorgeva il castello medievale che dominava il borgo. Ora non ne rimane altro che la porta d’accesso, qualche tratto di mura e una torre di avvistamento che risale probabilmente al IX secolo.
L’antico borgo invece, chiamato “la Contrada”, nasce dall’evoluzione del paese da villaggio medievale arroccato sotto il castello, rimasto tale fino alla fine del dominio dei Fieschi, all’inizio del Rinascimento segnato dal dominio dei Doria. I nomi di queste famiglie, rimasti anche nella denominazione di piazze e vie del paese, fanno capire che l’influsso genovese in quell’epoca era molto forte. Percorrendo la Contrada si nota il gran numero di botteghe chiuse, caratterizzate da ante asimmetriche, che coprono la porta d’ingresso e la finestra vetrina. Un tempo queste botteghe ospitavano artigiani di varie attività, negozi di alimenti e affini, caffè, osterie che rendevano la Contrada il centro vitale del paese.

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Il municipio di Garbagna

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Verso la torre di Garbagna

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Da qui ci siamo spostati, per il pranzo, di nuovo a Montegioco, all’Agriturismo Amici della Cantina.
Siamo partiti con un ricco antipasto a base di salumi, tra cui spicca il salame cotto, che tutti abbiamo apprezzato e che tutti non mangiavamo da un po’ di tempo. Poi un bis di primi che dovevano essere “assaggi” ma erano in realtà due piatti, entrambi ottimi: Ravioli al brasato e tagliolini al tartufo “scorzone” nero (meno pregiato di quello bianco, per cui non è stagione, ma dal sapore più delicato). A seguire Roast beef con patate al forno e, per finire, un delizioso tiramisù con fragole preparato dal più giovane della famiglia, che a quanto pare almeno sui dolci si difende già bene.

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Tagliolini al tartufo “scorzone” nero

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Così ben rimpinzati ci siamo avviati a quello che doveva essere, ed è stato, il clou della giornata: la visita al Museo Pellizza da Volpedo e l’inaugurazione in anteprima dell’opera “Sul fienile” del 1893 che torna visibile al pubblico dopo quasi vent’anni. L’opera lasciò l’atelier di Volpedo nel 1896, fu premiata a Monaco di Baviera nel 1901 ma, da allora, è sempre stata in collezioni private; fu concessa in prestito solo per importanti mostre antologiche dell’opera pellizziana, l’ultima quella di Torino del 2000.
Ma prima, abbiamo potuto visitare anche un’altra pieve romanica, quella di San Pietro di Volpedo. Il primo documento che ne testimonia l’esistenza è del 965, ma alla fine del XIV secolo dovette essere parzialmente ricostruita: le coperture lignee, la facciata e le fiancate risalgono presumibilmente a quest’epoca. L’edificio è costituito da tre navate, in origine terminanti con un’abside ciascuna, di cui oggi è rimasta soltanto quella centrale. La facciata è divisa verticalmente da otto lesene di lieve sporgenza, distribuite irregolarmente, che terminano sotto una cornice di mattoni aggettanti.
Fra il XIV e l’inizio del XV secolo la pieve è stata arricchita all’interno con numerosi affreschi dovuti alle mani di diversi artisti e alla generosità di più committenti. È stata riconosciuta però una personalità identificata come il Maestro di Sant’Antonio. Si tratta di dipinti nati per la maggior parte come ex voto, con soggetti ripetitivi e facilmente decifrabili. Rappresentano l’esito di una stagione artistica strettamente legata alla cultura pittorica lombarda ma sviluppatasi in ambito piuttosto periferico: non risentono infatti dei rinnovamenti di cui erano spettatori nel XV secolo i centri maggiori.

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La pieve di Volpedo

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Il Museo didattico permanente del Pellizza è dedicato all’illustrazione della vicenda umana e artistica del pittore. Trova collocazione al piano terra del palazzo del Torraglio, un edificio che insiste su uno dei luoghi di più antico insediamento del paese, al numero civico 1 di piazza Quarto Stato, dove Pellizza ambientò il suo celebre capolavoro. “Sul fienile” rappresenta una sorta di manifesto del divisionismo pellizziano, qui applicato meticolosamente, che segna per l’artista il passaggio ad una nuova fase pittorica. Il fienile rappresentato nell’opera c’è ancora, e l’abbiamo potuto vedere “dal vero” prima di vederlo fissato nel dipinto.
Ambientato nel vecchio portico di casa, Sul fienile rivela una scrupolosa attenzione al vero.
Il pittore stesso, consapevole dell’importanza rivestita da questa opera nel suo iter creativo, la indicò come il vero e proprio inizio di una sua nuova fase pittorica, attenta ai temi sociali e capace di instaurare un più stringente rapporto col vero grazie all’utilizzo della nuova tecnica. Tecnica che è molto evidente se si guarda il quadro da vicino: si nota perfettamente come la divisione del colore sia ottenuta attraverso punti di colore ben visibili. Pellizza poteva così comunicare efficacemente il suo modo di sentire e di porsi nei confronti del vero, in questo caso attraverso la rappresentazione del contrasto eterno tra la vita e la morte: un figlio della gleba, un bracciante stagionale venuto probabilmente dalle montagne, che partito da casa per guadagnare il pane per la sua famiglia si riduce lontano da essa a morire sul fienile, con il sacerdote gli somministra il viatico. Si può immaginare che si sia sentito male durante il lavoro e che sia stato pietosamente adagiato nel fienile; forse è stato chiamato un medico, che non ha potuto far altro che constatare che il poveretto era moribondo. E allora è arrivato il prete a somministrare la comunione e l’estrema unzione.
È una scena fortissimamente simbolica della condizione di un lavoratore “migrante”: non possiamo che notarne anche la sorprendente attualità. È triste constatarlo, ma è passato più di un secolo, i lavoratori ora vengono da terre più lontane, ma per il resto poco è cambiato: muoiono ancora sul lavoro, spesso senza neanche quel conforto e quella pietà umana che si vede nel dipinto, e per di più muoiono anche in mare, prima ancora di poter arrivare a toccare quella terra che per loro è la speranza di una vita migliore.
Restando all’ambito più puramente artistico, abbiamo avuto la fortuna di avere la professoressa Aurora Scotti, curatrice del museo, quasi solo per noi, a spiegarci i segreti di quest’opera. La scena è tutta in ombra, ma la concezione del divisionismo è che le ombre sono colorate. Quindi non c’è neanche un nero, le ombre sono blu, o le ombre sono marroni o rossastre, all’interno del fienile, e questo è quello che dà tutta questa atmosfera. Anche, per esempio, la camicia del moribondo e i paramenti del prete sono bianchi ma nell’ombra del fenile il bianco diventa azzurrato. L’ombra è un colore, insomma.
Nell’atelier sono esposti anche altri oggetti: schizzi preparatori, riflessioni del pittore sui temi dell’opera, lettere, una cartolina, riviste d’arte dell’epoca.

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Pellizza da Volpedo – Sul fienile

Un’intensa immersione nel mondo del Pellizza che non poteva che continuare con quella che è la sua opera più famosa e che, essendo successiva, è anche la continuazione ideale di quella pittura sociale che inizia con Sul fienile: Il Quarto Stato. Ora il Quarto Stato si trova a Milano, nel Museo del Novecento, ma qui si può vedere un breve documentario intitolato “L’umanità in cammino. Il racconto del Quarto Stato” che ne ricostruisce la genesi e le diverse versioni prodotte dal pittore nei circa dieci anni di vita che ha dedicato a questa sua realizzazione.
Ma prima, passeggiando per Volpedo, abbiamo potuto notare che in vari punti del paese che hanno fatto da sfondo alle opere del Pellizza sono state poste riproduzioni delle stesse opere. È un’occasione unica per vedere dal vivo gli scorci e gli scenari che lo hanno ispirato, e per sentirsi come in uno dei suoi capolavori. E infatti anche noi, nella piazza dove il Quarto Stato è ambientato che ora è Piazza Quarto Stato (allora era Piazza Malaspina), abbiamo provato a diventare noi Quarto Stato per un attimo, aiutati in questo dalla presenza nella pavimentazione di mattonelle disposte strategicamente nei punti dove si trovano i personaggi del dipinto. Patrizia, Massimo ed io abbiamo avuto l’onore di “interpretare” le tre figure principali, che camminano davanti agli altri e in qualche modo guidano il corteo. Si sa anche chi furono i modelli: la donna col bambino era la moglie del pittore, con in braccio sua figlia. Qui sì che il Pellizza è stato davvero il nostro spirito guida.
Il film è interessante e ti guida anch’esso nel mondo del pittore, e in generale nel mondo di allora, tracciandone per sommi capi un quadro storico, politico e sociale.
Giuseppe Pellizza dipinse Il Quarto Stato tra 1898 e 1901; l’opera era il frutto di un lungo percorso creativo ispirato alla protesta di un gruppo di lavoratori, per cui fece posare contadini e artigiani scelti fra i suoi compaesani volpedesi. Il percorso era iniziato nel 1891-2 con gli studi per Ambasciatori della fame e proseguito nel 1895-6 con Fiumana. Se un realismo accentuato dalla tersità dei colori caratterizzava Ambasciatori della fame, Fiumana si segnalava per un più colto simbolismo, evidenziato dalla scelta di colori più saturi e contrastanti stesi con una tecnica divisionista, basata su teorie “scientifiche”, e da forme in cui era riconoscibile un’ampia cultura figurativa estesa alla pittura del Quattrocento fiorentino. Fin dal 1891 Pellizza scelse di collocare la sua manifestazione di protesta in Piazza Malaspina a Volpedo, articolando il gruppo di lavoratori in due nuclei: in primo piano aveva posto due uomini di età diversa, affiancati dapprima da un ragazzo e poi da una donna col bimbo in braccio; alle loro spalle, dopo uno stacco luminoso, avanza un gruppo di uomini e donne provenienti dalla Via del Torraglio. Questa massa di persone premente verso il primo piano si trasformò in una composizione più articolata in Quarto Stato. Ai due uomini e alla donna col bambino in braccio del primo piano si accompagna una schiera compatta di uomini e donne disposti su diverse file e concatenati in tre grandi gruppi, con due figure quinta a chiudere ai lati. Il movimento ritmico dei piedi, evidenziato dalle ombre, e la gestualità concatenata delle mani, che sottolinea il dialogo che intercorre fra loro, contestano la fissità e la frontalità della rappresentazione: i lavoratori avanzano in un moto lento e cadenzato verso lo spettatore, chiamato così a sentirsi parte se non controparte. La costruzione delle figure documenta il lungo studio compiuto da Pellizza sull’arte rinascimentale (da Raffaello a Leonardo a Michelangelo). Un divisionismo sapiente costruisce figure e paesaggio in una stesura di piccoli tocchi, lineette e lunghi filamenti, stesi su una base di terre di diverse cromie, selezionate in vista del risultato complessivo, seguendo i criteri della complementarità e del contrasto. La fitta tessitura cromatica si ricompone nell’occhio dell’osservatore in un’armoniosa, diffusa luminosità; dallo sfondo, costituito da macchie di vegetazione su un cielo al tramonto, si passa al primo piano illuminato da una calda luce solare. La rinuncia a raffigurare nello sfondo gli edifici e la pieve, suggerisce l’interpretazione simbolica del quadro: non semplice descrizione di un evento ma rappresentazione del cammino che i lavoratori, uniti e coesi in una protesta determinata e pacifica, possono compiere dirigendosi verso un luminoso futuro; in questa impostazione Pellizza s’avvicinava al socialismo progressista di fine Ottocento. La tela fu esposta nel 1902 alla Quadriennale di Torino; come simbolo della dignità del lavoro ebbe una progressiva fortuna presso le associazioni operaie e le Camere del lavoro; nel 1920 con sottoscrizione pubblica fu acquistata dal Comune di Milano. Nel secondo dopoguerra la sua immagine ha accompagnato gli sviluppi e le trasformazioni della società italiana.
Altra chicca al piano di sopra del museo, i cartoni preparatori delle figure del Quarto Stato.
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Ok, siamo un po’ in pochi per fare il Quarto Stato, ma ci si prova…

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Insomma, che altro dire? Giornata piacevolissima, accompagnata anche da un bel sole (finalmente), e come sempre anche grandi emozioni.
Se volete anche voi scoprire il mondo del Pellizza, il museo e l’atelier sono sempre lì ma Sul fienile resta in visione solo per un mese, fino alla fine di giugno, perciò affrettatevi!

http://www.pellizza.it/

 

Grazie a Simona, Massimo, Ilaria, l’agriturismo Amici della Cantina, Luca Canevaro, il birrificio di Montegioco, il museo Pellizza e in particolare la Prof. Aurora Scotti.
E grazie come sempre della compagnia alle compagne di viaggio.