Con ViaggieMiraggi a Leopoli, la piccola Vienna dell’Ucraina occidentale, la città dove i confini si annullano.
Domenica 12 maggio 2019: La Leopoli ebraica, l’Olocausto e la diaspora

Questa giornata, purtroppo l’ultima che passeremo a Leopoli, è dedicata interamente alla Leopoli ebraica, un tema che finora abbiamo sfiorato, soprattutto parlando di autori come Joseph Roth e Bruno Schulz che sono tra i massimi rappresentanti e cantori di quella cultura, ma che non abbiamo ancora approfondito come si deve.
Oggi avremo la possibilità di farlo partendo da un altro incontro che si svolgerà al Center for Urban History con la storica Irina Starovoyt.
Ma prima, quasi come introduzione, mi piace farvi leggere la mini-prefazione che Joseph Roth scrisse per il suo libro “Ebrei erranti”, un appassionante reportage che non sapeva di essere un’ultima celebrazione di una
grande civiltà alla vigilia della sua scomparsa, dove Roth ci parla, con amore ma senza indulgenza, di quegli ebrei orientali ai quali egli stesso apparteneva e di cui in quegli anni gli ebrei di Leopoli erano un’immagine quasi paradigmatica:
“Questo libro rinuncia al plauso e al consenso, come pure alla protesta e persino alla critica di coloro che detestano, disprezzano, odiano e perseguitano gli ebrei orientali. Né si rivolge a quegli ebrei occidentali che, solo perché cresciuti fra ascensore e water-closet, si credono in diritto di raccontare storielle insulse su pidocchi rumeni, cimici galiziane e pulci russe. Questo libro rinuncia a quei lettori «obiettivi» che dall’alto delle torri traballanti della civiltà occidentale sbirciano con comoda e acida benevolenza il vicino Oriente e i suoi abitanti; che per puro umanitarismo deplorano l’insufficienza delle fognature e per timore di essere contagiati rinchiudono gli emigranti poveri in baracche in cui la soluzione di un problema sociale è affidata alla morte in massa. Questo libro non vuole essere letto da coloro che rinnegano i propri padri o antenati scampati alle baracche per puro caso. Né è scritto per quei lettori che accuserebbero l’autore di trattare il suo tema con amore invece che con quella «obiettività scientifica» che è anche detta noia. A chi dunque è destinato questo libro? L’autore nutre la folle speranza che esistano ancora lettori davanti ai quali non sia necessario difendere gli ebrei orientali; lettori che abbiano rispetto del dolore, della grandezza umana e di quella sporcizia che ovunque si accompagna alla sofferenza; europei occidentali che non siano fieri dei propri materassi puliti, sentano che dall’Oriente ci sarebbe molto da ricevere e magari sappiano anche che dalla Galizia, dalla Russia, dalla Lituania arrivano grandi uomini e grandi idee, peraltro utili (dal loro punto di vista) perché contribuiscono al consolidamento della civiltà occidentale e alla sua crescita – e non soltanto quei borsaioli, definiti «ospiti d’Oriente» dal più infame prodotto dello spirito europeo occidentale, ossia dalla cronaca locale.”
Io sono così, non sono fiero del mio materasso pulito. Spero che non lo siate neanche voi, perché è indispensabile per capire chi erano gli ebrei di Leopoli e quanto era falsa l’immagine stereotipata su cui nazismo e fascismo riuscirono purtroppo a porre le premesse per il più spaventoso sterminio di massa che la Storia ricordi.
A Leopoli la stragrande maggioranza degli ebrei parlava in Yiddish, quel “gergo barbaro” che secondo i fautori dell’assimilazione non aveva la minima ragion d’essere. Gli abitanti del quartiere di Leopoli che sorgeva intorno alla vecchia sinagoga poeticamente chiamata Gildene Rojse (Rosa d’oro) si distinguevano a stento dagli abitanti del “Vicolo degli Ebrei” dei piccoli villaggi della Galizia orientale.

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Il mercato dei fiori

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Irina Starovoyt e la nostra Mariana

Irina Starovoyt inizia dicendo che sotto l’impero austroungarico le comunità non si odiavano. Gli ebrei non erano una minoranza. Non erano neanche maggioranza, ma erano una comunità assai numerosa. Si può dire che a Leopoli la globalizzazione sia arrivata molto prima che nel resto del mondo, con tutte le domande sulla convivenza tra diverse comunità.
Dopo la Prima Guerra Mondiale, nella Leopoli polacca tra le due guerre, la strada vincente era essere polacco e cattolico. Essere polacco ma non cattolico, essere cattolico ma non polacco, non essere cristiano, essere ebreo, o anche ucraino, erano tutte posizioni svantaggiose. Gli ebrei credettero che parlando polacco e sentendosi polacchi avrebbero avuto maggiori possibilità. Ma negli anni ’30 in tutta Europa cambiò la situazione. Crebbe l’antisemitismo e ci furono, anche qui, casi di persecuzione e situazioni in cui alle persone si impediva di occupare certe posizioni o di studiare.
Anche Bruno Schulz negli anni ’20 e ’30 si sentiva polacco al 100%, ma con l’arrivo dei nazisti nel 1941 venne fuori che era un ebreo. Molte famiglie ebree importanti erano completamente assimilate: non erano considerati ebrei dalla stessa comunità ebraica. Ma in quel momento tutti si ritrovarono nel ghetto, ritornato tale date le nuove condizioni. Cominciarono i trasferimenti nei campi di lavoro forzato, o direttamente nei campi di concentramento dove gli ebrei venivano uccisi. Altri ebrei vennero uccisi qui, sul posto. Schulz fu fucilato sulla strada per Drohobycz il 19 novembre 1942. I suoi amici raccontavano che lui, dopo l’inizio dell’occupazione, cominciò in qualche modo a cercare la morte. Smise di credere che sopravvivere fosse la cosa più importante. Una delle ragioni era la morte precoce di Debora Vogel, una donna che come abbiamo già visto fu estremamente importante per lui. Debora, che era stata tra le prime donne galiziane a poter studiare e che si era laureata in filosofia, fu uccisa con tutta la sua famiglia al museo ebraico dove lavorava. Negli ultimi anni la sua figura è stata riscoperta ed è uscita dall’ombra di Schulz, dove era stata sempre relegata. Le sue opere (poesie, racconti e saggi di critica letteraria) sono state tradotte dall’Yiddish in ucraino e in inglese. Scrivere in Yiddish era qualcosa di rivoluzionario per la stessa comunità ebraica, che lo considerava un dialetto e non gli attribuiva dignità di lingua letteraria; a maggior ragione non era accettato facilmente dalla società polacca. Si può dire quindi che Debora abbia contribuito a modernizzare la cultura ebraica, che lei stessa considerava troppo arretrata. Durante la guerra svolse anche un’importante attività di volontariato a sostegno dei rifugiati ebrei provenienti da altre parti della Polonia.
Un’altra storia pazzesca è quella raccontata nel libro di Arthur Allen “Il fantastico laboratorio del dottor Weigl”.
Questi i protagonisti principali delle vicende: due scienziati, il dottor Rudolf Weigl e il dottor Ludwig Fleck; i pidocchi, che trasmettono il batterio Rickettsia prowazekii; il tifo petecchiale, di cui il batterio è causa, che falcidiò gli eserciti della prima guerra mondiale e che per questo motivo divenne l’oggetto principale degli studi e degli sforzi di ricerca degli scienziati e dei microbiologi tra le due guerre, soprattutto dei due sopra citati, che riuscirono a realizzare un vaccino efficace contro la malattia.
I luoghi più importanti in cui si svolsero i fatti dall’autore ricostruiti sono essenzialmente Leopoli e Buchenwald.
Ebreo leopolitano era Ludwig Fleck, mentre Rudolf Weigl, nato in una città ceca della Moravia asburgica e trasferitosi a Leopoli, era un polacco di origine tedesca, che continuò a rivendicare la propria identità polacca anche quando, dopo l’arrivo della Wehrmacht, egli fu considerato dagli occupanti un Wolksdeutsche, cioè un uomo di etnia tedesca, ma di altra cittadinanza.
A Buchenwald, dopo la reclusione nel ghetto di Leopoli e una prima deportazione ad Auschwitz, arrivò Ludwig Fleck.
I due portarono avanti le ricerche dei loro laboratori e la loro professione di uomini di scienza, Weigl in libertà a Leopoli, ma sotto stretto controllo del medico ed igienista della Wehrmacht Hermann Eyer, Fleck ridotto in schiavitù a Buchenwald dal medico delle SS Erwin Ding-Schuler. Aiutarono quante più persone riuscirono a coinvolgere e ad arruolare nelle attività di studio sul tifo e di produzione del vaccino, che le autorità politiche e militari tedesche – e perfino le SS nei lager – giudicavano di primaria importanza e conseguentemente non ostacolavano. Infine ingannarono e sabotarono la Wehrmacht, le SS e le forze di occupazione naziste, ora facendo arrivare clandestinamente grossi quantitativi di vaccino al ghetto di Leopoli o di Varsavia e alla popolazione civile, ora producendo una versione depotenziata, e quindi inefficace, del vaccino stesso da inviare alle truppe tedesche impegnate sul fronte orientale. In situazioni estreme e, in particolare per l’ebreo Fleck, disperate, lottarono innanzi tutto per sopravvivere, ma al tempo stesso anche per difendere la propria identità di uomini, oltraggiata o negata, e lo fecero rifugiandosi nella libertà dell’attività teoretica della ricerca scientifica, quando intorno a loro la prassi della barbarie totalitaria e dello sterminio politico e razziale travolgeva l’idea stessa di civiltà. Lo fecero affinché non si consumasse quel “divorzio tra la scienza e l’umanesimo”, che – come ci spiega Allen – era ciò che più preoccupava Fleck filosofo ed epistemologo, oltre che scienziato, “poiché considerava la scienza come l’attività democratica per eccellenza”.
Ma i veri protagonisti del libro sono i pidocchi, insetti che per secoli hanno accompagnato i soldati nei loro spostamenti, accampamenti, battaglie. Spesso hanno provocato più morti le “truppe” di questi artropodi dei veri e propri soldati. E Rudolf Weigl, per realizzare il suo vaccino, trasformò, per la prima volta nella storia della scienza, questo insetto in un animale da esperimento, allevando, nutrendo, facendo riprodurre, infettando con il batterio del tifo una incalcolabile quantità di pidocchi, gelosamente custoditi nel suo laboratorio.
Nel 1914, Fleck e Weigl, entrambi sudditi dell’Impero austro-ungarico, furono arruolati e abbandonarono Leopoli per entrare nel corpo medico dell’esercito, per il quale Rudolf Weigl diresse il laboratorio militare di Przemyśl, dove continuò a lavorare anche a guerra conclusa e dove, nel 1919, assunse come suo collaboratore Ludwig Fleck. L’antisemitismo via via crescente nella nuova Polonia di Piłsudski non facilitò certo la carriera professionale dell’ebreo Fleck, che si ritrovò ai margini del mondo accademico, mentre non incontrarono questo tipo di ostacolo le ricerche di Weigl, la notorietà del quale crebbe sia in patria sia a livello internazionale.
Di grande interesse storico-scientifico risultano le parti del libro che ricostruiscono il “metodo Weigl” di produzione del vaccino contro il tifo e le attività del suo laboratorio di Leopoli, dove, sia negli anni precedenti lo scoppio del secondo conflitto mondiale sia in quelli successivi al 1° settembre 1939, il centro di gravitazione dell’intero lavoro erano proprio i pidocchi, in un bizzarro rovesciamento di ruoli tra gli addetti del laboratorio e gli insetti stessi, che di fatto fece dei primi (gli addetti) delle cavie dei secondi (i pidocchi).
A causa della difficoltà dei microbiologi del tempo di crescere in brodi di coltura artificiali o in topi ed altre cavie il batterio Rickettsia prowazekii, Weigl pensò di produrne in quantità sufficiente, prima per lo studio e poi per la produzione del vaccino, usando i pidocchi ed alimentandoli con sangue umano, sia prima sia dopo averli infettati con il batterio del tifo, inoculandolo direttamente nel corpo degli insetti stessi. In tal modo a Leopoli nacque la professione di “alimentatore di pidocchi”. “Eravamo conigli da esperimento” – disse anni dopo un “alimentatore” di Weigl – “ma non ce ne curavamo”. Innanzi tutto “c’erano i coltivatori, i quali allevavano i pidocchi a partire dalle uova […]. Il livello successivo della piramide era costituito dagli alimentatori, suddivisi in due categorie: gli aristocratici, che nutrivano i pidocchi infetti, e i plebei […], che nutrivano quelli sani. […] Poi venivano gli inoculatori e quindi i dissettori. In cima alla piramide stava il Professore, il gran sacerdote dell’arte magica del tifo”. Queste parole del poeta e romanziere Mirosław Żuławski, a sua volta impiegato come “alimentatore”, e riportate da Allen, rendono efficacemente l’idea di come apparisse agli occhi di un abitante di Leopoli il “fantastico laboratorio del dottor Weigl”: un luogo misterioso, ma nelle attività del quale si riponevano grandi speranze di debellare una malattia terribile; un luogo pericoloso, ma al tempo stesso un porto sicuro, perché chi vi accedeva riceveva una retribuzione (più alta nel caso di un alimentatore “aristocratico”), del cibo e soprattutto l’Ausweis, la tessera da esibire ai posti di blocco della Gestapo e che rendeva il suo possessore una persona utile allo sforzo militare tedesco e quindi lo proteggeva dall’arresto e dalla deportazione. I pidocchi, chiusi in piccole gabbiette di legno con un lato consistente in un retino/setaccio, venivano applicati alle gambe degli alimentatori e “a ciascun alimentatore era possibile attaccare fino a 44 gabbiette […]. I pidocchi succhiavano il sangue per 45 minuti al giorno per un periodo di 12 giorni. […] In media una persona nutriva 25.000 pidocchi al mese, dalla schiusa delle uova alla maturità”. Poi intervenivano gli inoculatori che, con uno strumento pensato e realizzato dallo stesso Weigl, immobilizzavano i pidocchi e inoculavano nell’ano dell’insetto una goccia microscopica di soluzione di Rickettsia prowazekii. I pidocchi infettati dovevano, con lo stesso metodo, essere alimentati, ma da persone sopravvissute al tifo e quindi immuni; infine venivano i dissettori, che estraevano l’intestino del pidocchio, quando la popolazione di batteri era cresciuta a sufficienza e da questo era possibile produrre il vaccino.
La tesi della (pseudo)medicina razziale nazista per cui il tifo sarebbe una malattia essenzialmente ebraica, di cui gli ebrei sarebbero, esattamente come i pidocchi con cui la propaganda antisemita li identificava sistematicamente, il vettore razziale e geografico, contribuì in modo decisivo a legittimare l’iniziativa, per dir così, di igiene e profilassi consistente nella costruzione dei ghetti chiusi, che a loro volta produssero proprio le condizioni migliori affinché si scatenassero terribili epidemie di tifo, che sembravano confermare il pregiudizio antisemita nazista. E così “le profezie autoavverantisi dei dottori nazisti cominciarono dunque ad avverarsi”. Il ghetto quindi rendeva gli ebrei identici al volgare paradigma di loro tratteggiato dall’odio antisemita.
Nel febbraio del 1943 Ludwig Fleck e la sua équipe furono trasferiti nel Blocco 10 di Auschwitz. Contrariamente a quanto accadde a centinaia di migliaia di altri deportati da ogni parte d’Europa, Fleck ad Auschwitz riuscì a sfruttare a proprio vantaggio il bisogno che i tedeschi avevano delle sue competenze scientifiche. Ma nel dicembre del 1943 le competenze di Fleck furono richieste dal dottor Erwin Ding-Schuler, medico sadico e criminale di Buchenwald, che intendeva produrre un vaccino contro il tifo, col quale sperava di ottenere riconoscimenti accademici ed avanzamenti di carriera.
Quando Fleck arrivò nel terribile lager nei pressi di Weimar, il laboratorio di Ding-Schuler applicava, in modo inconcludente e con esiti negativi, la procedura di produzione del vaccino Giroud, quindi non quella di Weigl, utilizzando una concatenazione di cavie da infettare e per ultimi i conigli. Solo l’arrivo di Fleck e la fornitura di materiale adeguato dal laboratorio di Cracovia di Eyer consentì infine di arrivare all’agognato risultato, che illuse Ding-Schuler di poter ottenere le promozioni sperate e che permise agli uomini del laboratorio di sopravvivere, sì da schiavi, ma in condizioni incomparabilmente migliori degli altri internati ed infine diede loro l’occasione anche di mettere in atto una clamorosa operazione di sabotaggio, ancor più temeraria di quella di Weigl e del suo laboratorio di Leopoli. Non avendo il centro di Fleck a Buchenwald la possibilità di produrre grandi quantità di vaccino, fu presa la decisione di realizzarne di due tipi ben diversi: uno efficace, prodotto in piccole quantità da utilizzare per gettare fumo negli occhi ai nazisti in occasione dei controlli di routine e per vaccinare alcuni gruppi di prigionieri del campo, l’altro del tutto inefficace e quindi inutile, prodotto nelle quantità richieste da Ding e inviato alla Wehrmacht per la vaccinazione dei soldati.
(tratto da “I pidocchi contro il Terzo Reich: tra ricerca scientifica e resistenza nella Polonia occupata dai nazisti” – di Armando Lancellotti)
Stanislaw Lem, un altro grande scrittore ebreo polacco nato a Leopoli, riuscì a coniugare la fantascienza con il romanzo filosofico. Riuscì a sopravvivere agli anni terribili della guerra, ma poi lasciò la città per non tornarvi mai più. Nella sua opera gli astronauti rappresentano una metafora dei sopravvissuti che hanno vissuto esperienze così estreme che ritengono di non poter essere capiti e per questo non ne vogliono parlare.
Qui dopo la guerra rimasero pochissime persone che avessero un legame con la città di prima: dei 100.000 ebrei ne rimasero solo 882, i polacchi furono in gran parte deportati verso i territori rimasti sotto la giurisdizione polacca, molti ucraini non vollero rimanere in un’Ucraina sovietica. Ci fu un cambio di popolazione pressoché totale che ha pochi uguali nella Storia. La Starovoyt lo chiama “effetto bomba al neutrone”: Leopoli è una città che rispetto ad altre non subì distruzioni così estese; gli edifici rimasero in piedi, ma furono le persone a sparire. Tutto questo costituisce un grande trauma storico, un trauma della memoria, individuale e collettiva. A proposito dei centomila ebrei che hanno vissuto qui, lei parla della memoria come diritto umano, il diritto di queste persone ad essere ricordate. Si sa qualcosa di un numero tutto sommato ridotto di intellettuali, ma gli altri sono solo un numero, di loro non resta nulla. Per questo è sorto il primo monumento all’Olocausto. Ma ancora oggi di fatto all’università si studia la storia della città solo dal punto di vista ucraino.
Oggi la città è una città solo ucraina, mono-comunità per così dire, e quella ricchezza derivante dalla complessità è andata perduta. È una città ucraina anche in contrapposizione ad altre città del paese dove l’influenza russa è stata ed è più forte. Questo complica le cose anche nello sforzo di ritrovare la memoria, perché molti ucraini faticano ad accettare che la loro storia non sia l’unica o la più importante, ma ci sia anche la storia delle altre comunità. Nonostante tutto, però, lentamente le cose si muovono. Solo vent’anni fa la creazione di un memoriale dell’Olocausto nel posto dove sorgeva la vecchia sinagoga non sarebbe stata possibile, e ora c’è. La memoria sta entrando nella coscienza collettiva della città, perciò è stato possibile per le autorità cittadine in collaborazione con la comunità ebraica lanciare il concorso che ha portato poi alla realizzazione del memoriale. Si sono tenuti qui al Centro di Storia Urbana diversi eventi ed è stata creata una mappa interattiva dei luoghi della memoria. Durante il periodo sovietico non si parlava mai di Olocausto, c’era una completa rimozione; poi, con l’indipendenza ucraina, il tema è tornato a riaffiorare ma come un qualcosa di lontano, che non era successo qui ma altrove. Gli studenti sapevano più di Auschwitz che del campo che si trova proprio dentro la città, e che nel pomeriggio vedremo. Ora nelle scuole si studia una nuova materia chiamata storia locale, e tra una settimana proprio qui si terrà una conferenza dedicata agli insegnanti delle scuole.
È davvero molto complicato ricostruire la memoria di una comunità che praticamente non c’è più. Ma come sempre, senza un’elaborazione del passato e senza memoria non c’è futuro, questo è il messaggio finale di Irina Starovoyt, molto condivisibile.

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Dopo l’incontro e prima di iniziare il tour dei luoghi della Seconda Guerra Mondiale, ci concediamo un caffè o una cioccolata in un locale che è stato teatro di un’altra incredibile storia della Leopoli polacca tra le due guerre, a cui si è fatto cenno durante l’incontro, e che esiste ancora: il Caffè Szkocka.
Le realizzazioni dei matematici polacchi di quel periodo costituiscono un elemento importante nell’ambito dell’attività matematica internazionale; esse hanno lasciato un’impronta indelebile in molti campi della ricerca matematica.
Un famoso locale di Leopoli era appunto il caffè “Szkocka” [Scozzese], che si trovava in Piazza Accademia, vicino all’Università. Qui, quasi tutti i giorni, l’illustre matematico Stefan Banach (1892 – 1945) si incontrava con amici, collaboratori e studenti, fra i quali Stanislaw Ulam, Hugo Steinhaus, Alfred Tarski, Wladyslaw Orlicz, Stanislaw Mazur, Antoni Lomnicki e altri. Essi, uniti dal comune interesse per le scienze e in particolare per la matematica, trascorrevano parecchie ore fra caffè, cognac, sigarette, buona musica, partite a scacchi, racconti, barzellette e aneddoti. Ma il vero motivo per trovarsi là era quello di lavorare divertendosi. Spesso qualcuno di loro proponeva dei difficili problemi di matematica, di astronomia, di fisica e si cercava di risolverli insieme anche scrivendo sul piano di marmo bianco del tavolino. Qualche volta tornando il giorno dopo per continuare il lavoro su qualche quesito lasciato in sospeso, il gruppo trovava il tavolino pulito dalla cameriera e il lavoro distrutto. Col tempo il proprietario imparò a lasciare questi scarabocchi, affinché gli scienziati potessero proseguire con il loro lavoro nei giorni successivi. Per chi fosse riuscito a risolvere uno dei problemi, erano previsti dei bizzarri premi: birra, 100 g di caviale, caffè, vino, spumante, whisky e perfino un’oca viva.
Grazie alla sua genialità e ad un carattere semplice Banach, anche se era il più giovane di tutti, era riuscito a creare a Leopoli una scuola matematica, cioè un gruppo di persone che avevano in comune una grande passione per le scienze.
Durante una delle tante conversazioni al caffè, Mazur sollevò la questione riguardante l’esistenza di un automa che, dato un supporto costituito da un materiale inerte, fosse in grado di replicare se stesso. Si discutevano questi problemi a livello molto astratto ed alcune delle idee, mai messe per iscritto, erano precorritrici di moderne teorie come quella di von Neumann sugli automi finiti. Erano frequenti le speculazioni sulla possibilità di costruire calcolatori che avrebbero potuto fare calcoli numerici da utilizzare nell’esplorazione di congetture e di proprietà di particolari oggetti matematici o, addirittura, che fossero anche in grado di eseguire operazioni simboliche come quelle dell’algebra formale.
Banach veniva da una famiglia povera, e all’inizio aveva avuto un’istruzione regolare piuttosto limitata. Quando si iscrisse all’Istituto Politecnico, era essenzialmente un autodidatta. Si dice che Steinhaus scoprì per caso il suo talento ascoltando una discussione matematica fra due giovani seduti su una panchina in un parco. Uno di essi era Banach, l’altro Nikodym, che diventò poi professore di matematica al Kenyon College.
Le competenze matematiche di Banach erano vaste. I suoi importanti contributi riguardano la teoria delle funzioni di variabili reali, la teoria degli insiemi e, soprattutto, l’analisi funzionale e la teoria degli spazi ad infinite dimensioni.
Secondo la testimonianza di Ulam, queste discussioni matematiche erano frammiste a un gran numero di digressioni scientifiche di carattere generale (in special modo di fisica ed astronomia), pettegolezzi universitari, discussioni di politica generale e di politica interna polacca; ovvero, per usare un’espressione cara a von Neumann, discutevano del «resto dell’Universo». L’ombra degli eventi che sarebbero presto sopraggiunti, l’ascesa di Hitler in Germania e il presentimento di una guerra mondiale incombevano in modo sinistro.
Banach era ancora a Lwow durante l’occupazione tedesca e viveva in condizioni miserabili. Sopravvisse tanto da assistere alla sconfitta della Germania, ma morì nel 1945 di una malattia al polmone, probabilmente un cancro; fumava quattro o cinque pacchetti di sigarette in un giorno.
Una volta, fra il 1933 e il 1934, Banach portò allo Scottish Café un grosso blocchetto per appunti, per scrivere in una forma più duratura enunciati di nuovi problemi e risultati delle discussioni. Questo quaderno era tenuto permanentemente al caffé. A richiesta un cameriere lo portava al tavolo e vi si potevano trascrivere problemi e commenti, dopodiché il cameriere cerimoniosamente lo riprendeva in consegna e lo riponeva in un nascondiglio segreto. Questo taccuino di appunti diventò più tardi famoso col nome di The Scottish Book. Molti problemi portano una data anteriore al 1935. Molto spesso i problemi venivano risolti sul campo e le risposte venivano anch’esse annotate. Pochi anni dopo, la città di Lwow e The Scottish Book furono travolti da un tumultuoso destino. L’ultima data che appare nel libro è quella del 31 maggio 1941 e l’ultimo problema è il n. 193 che contiene un insieme piuttosto enigmatico di risultati numerici ottenuti da Steinhaus e riguardanti la distribuzione del numero dei fiammiferi in una scatola! Dopo l’inizio della guerra fra Germania e Russia, la città fu occupata dalle truppe tedesche nell’estate del 1941 e gli appunti si interruppero. Secondo Steinhaus il libro fu portato a Wroclaw dal figlio di Banach. Evidentemente il manoscritto dello Scottish Book sopravvisse in buono stato, dal momento che Steinhaus ne inviò una copia a Ulam dopo la guerra.
Al Caffè Szkocka si può vedere una riproduzione dello Scottish Book, ma purtroppo i tavolini di marmo bianco sono stati sostituiti da tavolini di legno. La cioccolata è ottima, però.

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Il Caffè Szkocka

Intanto ci ha raggiunto Inna, che ci farà da guida nel nostro tour tra i landmark più significativi della Leopoli occupata durante la Seconda Guerra Mondiale.
Il percorso inizia davanti a un edificio dell’università, che ospita diversi musei di varie facoltà. Qui Inna ci spiega, in inglese con la traduzione di Eugenio, che nel 1921 Leopoli era tornata ad essere una città polacca, caratterizzata però fondamentalmente dalla presenza di tre comunità: quella polacca, maggioritaria, quella ebraica che superava il 30% e quella ucraina che si attestava intorno al 15%. Questo era l’edificio principale della vecchia università fin dal 1851. Steinhaus, Fleck e tutti gli esponenti della scuola dei matematici di Leopoli hanno studiato qui.
Con l’occupazione sovietica, all’inizio della guerra nel 1939, vengono promulgati quattro decreti: il primo dice sostanzialmente che l’unico governo legittimo è quello sovietico. Il secondo proclama questo territorio parte della Repubblica Sovietica di Ucraina. Il terzo riguarda l’espropriazione di tutte le terre, che vengono collettivizzate. Il quarto nazionalizza aziende e proprietà immobiliari. Inizia un periodo visto come un’era di violenza, deportazioni ed eccidi di massa, ed è tutto vero, dice Inna. Ma inizia anche, in parallelo, un processo di ucrainizzazione. L’ucraino diventa la lingua ufficiale obbligatoria anche nelle università. Così gli ucraini diventano vittime del loro stesso sogno, perché hanno sì finalmente una lingua e una nazionalità ucraina, ma in un’Ucraina sovietica, molto diversa da quella che volevano. È molto conflittuale la memoria rispetto a questo primo periodo di 21 mesi di occupazione sovietica, che viene chiamata appunto occupazione ma omettendo che questo è anche il momento che permette alla popolazione ucraina di emergere. Dice Inna che è ancora in corso la ricerca di una parola per spiegare alle nuove generazioni chi erano le persone che contribuirono alla nascita dell’Ucraina sovietica senza definirli collaboratori o collaborazionisti.

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Mariana, Eugenio e Inna

La seconda tappa è il monumento al grande poeta romantico polacco Adam Mickiewicz, considerato dai polacchi anche un padre della Patria. Martin Pollack ci dice che questa piazza, che all’inizio del ‘900 si chiamava Piazza di Maria, era il punto più trafficato della città, con il monumento al centro e con i raffinati hotel, il George, il De France, l’Europe, eleganti negozi, ristoranti, librerie. Era anche un classico punto di ritrovo per manifestazioni e raduni di tutti i tipi: qui risuonavano canti rivoluzionari in polacco, ruteno e Yiddish, i nazionalisti inveivano contro lo “strozzinaggio ebraico”, i sionisti promettevano fiumi di latte e miele in Palestina.
Qui Inna ci racconta che il 26 novembre 1940, nell’anniversario della morte del poeta, una delegazione di comunisti locali e sovietici, insieme a scrittori e letterati della città, deposero dei fiori alla base del monumento, e questo gesto segnò un cambio di atteggiamento da parte delle autorità sovietiche nei confronti dei polacchi. Scelsero Mickiewicz come simbolo perché si prestava molto bene: era un eroe risorgimentale polacco, che però si batté contro l’impero zarista. Per i sovietici ciò che contava era la lotta di classe, mentre per gli abitanti della città la questione nazionale era quella più sentita; si trattò quindi di un tentativo di fondere le due istanze per ottenere l’appoggio della popolazione polacca locale. Nella visione sovietica del mondo basata sulla mobilitazione delle masse contro il nemico di classe, in cima alla classifica dei nemici c’erano i grandi proprietari terrieri, che erano polacchi, e subito dietro la borghesia, fatta prevalentemente di commercianti ebrei. Gli “amici”, invece, erano i proletari, che in questa città erano praticamente tutti ucraini.
I movimenti di resistenza all’occupazione erano due, perché al movimento polacco si aggiungeva quello formato dagli ucraini che volevano un’Ucraina indipendente anche dall’Unione Sovietica. Ma in realtà vennero perseguitati, arrestati e mandati in Siberia anche parecchi comunisti locali, sia polacchi che ucraini che ebrei, semplicemente perché considerati “non abbastanza sovietici”, cioè non allineati alla visione totalitaria del comunismo stalinista.

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Ci spostiamo nella Piazza Rynok per raccontare un altro momento di svolta fondamentale, legato nell’immaginario a un balcone situato sopra l’entrata di un caffè, dove il 30 giugno 1941 i leader delle organizzazioni nazionaliste ucraine proclamarono un atto di rinascita dello Stato ucraino in questa città.
Nei vent’anni trascorsi dal passaggio della Galizia alla Polonia, sancito dalla Grande Guerra e poi dalla breve guerra ucraino-polacca, si era mantenuto vivo nella popolazione ucraina un forte senso di umiliazione e frustrazione. C’erano pochi partiti ucraini legali, dei quali il più grande era il Partito Democratico Nazionale Ucraino, rappresentato nel parlamento polacco e che mirava all’indipendenza per via democratica e pacifica. Ma c’erano anche molti giovani che volevano l’indipendenza immediatamente ed erano pronti a usare mezzi non legali per ottenerla. Ci fu nel campo ucraino una scissione e si formarono due gruppi, uno dei quali, quello radicale, era capeggiato da Stepan Bandera, figura assai nota da queste parti e controversa. Per i leader del nazionalismo ucraino il principale alleato era la Germania. Bandera venne incarcerato più volte dai polacchi e liberato solo all’inizio dell’occupazione sovietica. I nazionalisti ucraini filonazisti riuscirono ad arrivare per primi, quando ci fu l’occupazione nazista nel 1941, e a proclamare Leopoli città ucraina proprio da questo balcone. Ma la Germania nazista rifiutò di riconoscere legittimità a questa proclamazione. Così quest’ultimo giorno di giugno del ’41 segnò la fine della collaborazione dell’organizzazione di Stepan Bandera con i nazisti e l’inizio della sua storia come movimento clandestino.
Il gruppo legato a Bandera, che uscì dal patto con i tedeschi, fu poi quasi del tutto sgominato con l’arresto di tutti i leader, tra cui lo stesso Bandera, spediti prima a Berlino e poi in un campo di lavoro in Germania. Una parte del movimento nazionalista ucraino rimase invece fedele ai nazisti e collaborò durante tutto il periodo di occupazione, sperando di poter ottenere l’indipendenza alla fine della guerra in caso di vittoria tedesca.
Questa data rappresenta quindi uno dei momenti chiave in cui il popolo ucraino alza la testa e rivendica la propria indipendenza. Ma è una memoria molto ambigua perché queste milizie che rimasero legate agli occupanti tedeschi finirono per collaborare anche a tutti i pogrom contro gli ebrei, che iniziarono quasi subito con l’arrivo delle truppe naziste.
Anche la figura di Bandera resta controversa perché, sebbene faccia molto comodo al nazionalismo ucraino considerarlo un eroe senza macchia (e il suo curriculum in questo senso appare a prima vista perfetto, essendo stato perseguitato dai nazisti e dai sovietici, che in seguito riuscirono ad assassinarlo), in realtà le macchie ci sono. Bandera venne sì internato come prigioniero politico dai nazisti, ma secondo altre fonti venne anche poi liberato nel 1944 perché dirigesse azioni di resistenza all’Armata Rossa. Inoltre l’UPA, l’esercito insurrezionale ucraino da lui fondato, si rese responsabile di deportazioni e uccisioni di polacchi ed ebrei, attuate però mentre Bandera era prigioniero dei tedeschi. La sua famiglia subì invece pesanti ritorsioni dai sovietici e dai polacchi, oltre che dagli stessi tedeschi. Alla fine della guerra Bandera si rifugiò in Germania Ovest con la moglie e i figli, sotto la protezione degli angloamericani, ma fu appunto assassinato a Monaco di Baviera da un agente del KGB nel 1959.

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Ed eccoci al quartiere dove sorgeva la vecchia sinagoga, la Gildene Rojse. Così ne parla Martin Pollack, citando Hermann Blumenthal:
“I vicoli e vicoletti nei pressi della vecchia sinagoga di Leopoli formano una piccola città a sé stante. Qui lo sviluppo della grande città sembra essersi arrestato un secolo fa. Solo di rado il sole arriva in questi vicoli stretti e tortuosi. Le case sono vecchie e i cortili sporchi e bui. E ogni cortile è una strada a sé, con pezzi di case in rovina e frontoni bizzarri e cadenti, che nell’oscurità sembrano mostri accovacciati. Per la paura, i passanti quasi non si azzardano a camminare dritti, in ogni momento i vecchi muri potrebbero crollare…
Queste case sono abitate dalla soffitta fino alle cantine da povere famiglie di ebrei. Tutti vivono di commercio. I piccoli negozi bui sono stipati di ogni oggetto possibile. Ci sono mobili e attrezzi per la casa, libri e giocattoli. Scarpe e cappelli di tutte le forme, vecchi vestiti, livree e uniformi usate di ogni taglia e colore giacciono e sono appesi ovunque in un disordine colorato. Ciò che in città è diventato frusto e inservibile, viene portato qui, dove niente è troppo malandato per trovare un acquirente.
Per strada è una fiera permanente. Una bancarella dopo l’altra. Ebree con la parrucca e un fazzoletto sudicio sulla testa, vecchie e invecchiate precocemente, vendono per pochi soldi frutta, verdura e dolci. Accanto ai venditori al dettaglio ci sono i ciabattini, chini al lavoro. Subito dopo c’è un libraio che vende vecchi giornali, libri di preghiere e romanzetti da quattro soldi. Tra i banchi si aggira un’orda di compratori e mediatori. Ebrei con volti polverosi e sporchi si infilano in mezzo alla folla. Hanno miseri, vecchi cilindri in testa e logori ombrelli in mano… storpi e mendicanti cercano di farsi avanti nella confusione lamentandosi a voce alta…
Agli angoli delle strade ci sono lustrascarpe, facchini e giovani ebrei che fanno l’elemosina nei loro laceri caffettani, con le facce pallide e affamate.
Giorno per giorno infuria la lotta per un pezzetto di vita… com’è scarso il guadagno della gente che il destino ha radunato in questo lembo di terra. Si danno un gran daffare solo per placare la fame. Pochi centesimi di guadagno li rendono felici e li rinvigoriscono. C’è una donna con delle mele. Tutta quanta la sua merce vale forse una corona. Deve vivere con il ricavato di quella frutta e per tutto il giorno non si allontana dal suo posto. Non la smuovono né il caldo né il freddo… poco più in là un uomo vende il gelato, “un centesimo al cucchiaio”. Altri offrono bottoni, spazzole, pece da calzolaio, lucido da scarpe e fiammiferi… […]
Nessuno ha un lavoro preciso… Oggi si va in giro con il carretto della frutta, domani si commercia in vestiti usati…
Il vicolo è tutto un andirivieni dalla mattina alla sera, fino al sabato. Il sacro giorno di riposo per questi disgraziati. In quel giorno sono esseri umani… dormono e mangiano e chiacchierano su quello che accade nel mondo…”
Oggi di tutto questo non resta nulla, ed è perfino difficile immaginarselo guardando la parete scrostata che è tutto quello che rimane della vecchia sinagoga della Rosa d’Oro. Qui, in un’area di tre ettari, sorgevano anche la grande sinagoga cittadina e la scuola ebraica Beis Midrash. Erano perle architettoniche note in tutta Europa che segnavano lo skyline della Leopoli ebraica, distrutte dai tedeschi insieme con decine di altre sinagoghe e proprietà ebraiche in tutta la città. Dal dopoguerra è sempre stato un luogo di rovine, ma mai raccontato e spiegato come una rovina, una distruzione, un trauma.
In questo spazio nel 2016 è stato costruito il memoriale dell’Olocausto. Memoriale che, in piccolo, con le sue lastre di pietra nera (intervallate da alcune chiare) ricorda molto quello ben più noto di Berlino. Questo monumento ha richiesto impulso intellettuale, attivismo politico, infinite discussioni in consiglio comunale e una competizione internazionale affinché il progetto dell’architetto paesaggista tedesco Franz Reschke potesse essere scelto e realizzato. Sono state conservate le rovine e installate queste lastre di pietra, sulle quali si possono leggere scritti autobiografici di ebrei di Leopoli, dei pochi che sopravvissero e dei molti che perirono, in tre lingue: in quella originale, che sia Yiddish, ebraico, polacco o tedesco, in ucraino e in inglese. Tra questi Debora Vogel e Inka Katz, che è un personaggio legato a “La strada verso Est”, un libro scritto dal giurista inglese Philippe Sands, che insegna diritto internazionale a Londra e che è nipote di un ebreo di Leopoli. Il nonno di Sands, sopravvissuto all’Olocausto, come tanti non ne volle mai parlare. La ricerca narrata in questo libro parte quindi dalla spinta a colmare il vuoto nella storia di famiglia e insieme dal desiderio di ripercorrere i retroscena – storici, politici, giuridici, filosofici – del processo di Norimberga, che rinnovò il diritto internazionale e pose le basi del movimento per i diritti umani. E, se le vicende private si fanno emblematiche della tragedia di un popolo, a queste si intrecciano la vita e il lavoro dei due giuristi che studiarono alla stessa università, quella di Leopoli, pur senza mai incontrarsi e che elaborarono i due concetti giuridici su cui costruire l’accusa a Norimberga: quello di «genocidio» e quello di «crimini contro l’umanità».
Mi colpisce la testimonianza di una donna del ghetto su cos’era la fame in quei giorni: “La fame è quando ti senti come se una bestia infuriata ti stesse strappando le viscere, e cominci a vedere delle cose. Ci sedevamo intorno al tavolo, ricordando come prima della guerra i nostri piatti erano pieni di vari cibi diversi. Io avevo solo un desiderio: mangiare un piatto pieno d’orzo dopo la guerra”. Noto anche che, purtroppo, qualcuno ha già provveduto a imbrattare una delle lastre con una svastica e una croce celtica, per fortuna piccole.
È un posto che, come ha scritto Irina Starovoyt, comunica immediatamente una sensazione di vuoto, di assenza, di dolorosa mancanza di un’esistenza bruscamente interrotta.
Qui Inna ci racconta la sorte dei circa 100.000 ebrei che abitavano in questa città prima della guerra, dei quali solo poco più di 800 sopravvissero. Leopoli fu l’unica città in questa parte d’Europa ad avere nel suo territorio sia un ghetto che un campo di concentramento. Il ghetto fu creato nel novembre 1941 nella zona più povera, dietro il Teatro dell’Opera, dove il 70% della popolazione era di origine ebraica. Si calcola che, in totale, circa 136.000 ebrei morirono nel territorio di Leopoli durante la Seconda Guerra Mondiale. Considerando anche il campo di Janowska, si arriva a 250.000.
La liquidazione del ghetto avvenne con varie “aktionen” (azioni di rastrellamento) tra il 1942 e il 1943, per concludersi nel giugno del ’43. Durante una delle ultime azioni scoppiò una rivolta, che fece aumentare ulteriormente il numero delle vittime. Una delle questioni tabù e in gran parte rimosse è la partecipazione degli ausiliari ucraini, arruolati come guardie sia del ghetto che del campo.
Nelle scuole del periodo sovietico la Seconda Guerra Mondiale era insegnata in maniera semplicistica e schematica: l’Armata Rossa eroica, i nazisti spietati criminali e in mezzo il popolo presentato come “sovietico”, senza distinzioni di nazionalità e senza approfondire. Anche successivamente, nell’Ucraina indipendente, quando si parlava dei campi di sterminio situati in Polonia si ometteva di dire che vi erano stati mandati a morire anche molti ebrei di Leopoli. Solo ora si sta iniziando ad affrontare la questione senza rimozioni. La comunità ebraica di Leopoli oggi conta circa 3.000 persone, ma in maggioranza sono gli eredi di ebrei arrivati nel secondo dopoguerra da altre parti dell’Unione Sovietica. I cittadini “attivi”, dice Inna, stanno cercando di lavorare con queste persone per ristabilire un collegamento ideale tra la comunità del periodo prebellico e la comunità di oggi. Questo memoriale, in questo senso, è un primo passo.

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Davanti alla cattedrale greco-cattolica, con un sottofondo di canti di chiesa (non dimentichiamo che oggi è domenica), Inna ci racconta che la Chiesa greco-cattolica era in tempo di guerra l’unica istituzione riconosciuta che rappresentava l’Ucraina. Per gli ucraini la persona più importante era il metropolita di questa chiesa, Andriy Sheptitsky, che fu l’unico arcivescovo o cardinale della Chiesa cattolica che scrisse una lettera a Himmler per dirgli che uccidere gli ebrei non era accettabile ma era un grande peccato. Scrisse anche che coinvolgere gli ucraini nella persecuzione degli ebrei era un grave peccato. Contribuì poi a salvare più di 150 bambini ebrei, tra i quali un futuro Ministro degli Esteri polacco.
La guerra finì ufficialmente il 9 maggio del ’45; per questo giovedì, quando siamo arrivati, erano ancora in corso i festeggiamenti, si celebrava questo anniversario. L’unione Sovietica, riconosciuta come potenza vincitrice, fu autorizzata ad annettersi la Galizia orientale e Leopoli; ma in realtà non era ancora finita. Dopo la guerra vi furono molte ritorsioni da parte sovietica contro gli abitanti della città, accusati di aver collaborato con i nazisti, a volte anche per il solo fatto di aver vissuto in un territorio occupato. Per questo molti, soprattutto polacchi ma anche ucraini, preferirono andarsene. I polacchi, come sappiamo, furono addirittura vittime di vaste operazioni di deportazione forzata verso i territori che rimanevano sotto il controllo della Polonia, mentre gli ucraini che vivevano in Polonia furono spinti a trasferirsi in Ucraina. Per questo tutti gli abitanti della Leopoli di prima della guerra sono stati di fatto protagonisti di una diaspora che li ha spinti verso le più varie destinazioni, d’Europa e del mondo. E tutti hanno continuato per anni a soffrire di nostalgia verso la loro città, perfino un po’ idealizzata nel ricordo.
Con il passare del tempo, l’amore, la nostalgia e anche la rabbia della gente di Leopoli esiliata e dispersa per tutto il globo produssero innumerevoli testimonianze, sotto varie forme letterarie, come racconti, poesie, memorie, aneddoti, che con malinconia ricordano il loro mondo scomparso per sempre. Per i primi decenni questi testi poterono essere pubblicati solo all’estero, in quanto nella Polonia comunista erano considerati argomenti proibiti. Nacque così l’immagine di una Leopoli che, fino al 1939, era stata una città unica nel suo genere, una città straordinaria, una città pressoché magica, quasi surreale, con un clima singolare.
Marian Hemar, ad esempio, ha scritto:
“Perché solo noi, quelli di Leopoli, vecchi e giovani, polacchi, ebrei, o ruteni, maschi e femmine, ricchi o poveri, ci lasciamo trascinare così dalla nostra esaltazione nostalgica, senza distinzioni, sia che, in quegli anni, fossimo stati meglio o peggio, più o meno felici? […] Doveva esserci stato qualcosa in questa città che ci aveva incantato fino alla fine. In questa piccola città viveva una popolazione con l’intelligenza e l’educazione di una città grande, con temperamento e curiosità, con le buone maniere, l’umore e le usanze di una città grande. La gente di Leopoli era povera, doveva stare attenta a come spendeva i soldi, ma come nessuno in Polonia comprava libri e quadri, faceva collezioni di argenteria e di porcellana, frequentava teatri e concerti. Leopoli aveva tutti i pregi di una città piccola e tutti i pregi di una città grande – e non aveva i difetti di nessuna delle due. […] Doveva essere qualcosa che non riesco a spiegare a nessuno che non sia di Leopoli, e a nessuno di Leopoli c’è bisogno di spiegarlo”.

E a proposito dello spirito di Leopoli, vi vorrei raccontare un’altra storiella ebraica: si narra che il signor Izydor Rechen si recò al cimitero dal suo socio, scomparso di recente. Trovata la tomba vi lesse questo epitaffio: “Qui riposano le spoglie mortali di Salomon Kugelschwanz, un buon cittadino e un commerciante onesto.” Asciugatosi le lacrime, il signor Izydor pensò con commozione al suo collega scomparso che, poverino, doveva
stare troppo stretto in una tomba che condivideva con altre due persone!

Salutata Inna, abbiamo un po’ di tempo libero, almeno fino a metà pomeriggio. Per il pranzo s’è fatto un po’ tardi, e poi in questi giorni ci siamo già abbuffati in lungo e in largo… e allora io e le mie amiche Grazia, Patrizia e Piera preferiamo passare direttamente al dolce e metterci alla ricerca di un’eredità austriaca: lo strudel. Ci hanno detto che a Leopoli si trova, e anche buono. Effettivamente si trova, anche se la ricerca non è semplicissima. Alla fine troviamo un posto carino dove ne fanno uno ottimo… e non solo quello classico di mele, ma anche di ciliegie!

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Strudel di ciliegie

Dopo di che, ci aspetta l’ultima tappa del percorso nella Leopoli in guerra, con la visita al sito dove si trovava il campo di Janowska. Oggi si vede poco di quello che c’era allora, anche se il fatto che qui ci sia ancora un carcere, con mura e filo spinato, un po’ di impressione la fa, anche vedendolo solo da lontano. L’area però non è stata mai in alcun modo musealizzata, tanto che molti cittadini di Leopoli non sanno che qui c’è stato un campo di concentramento. Tutto quello che c’è sono due cartelli installati recentemente che invitano alla memoria e alla riflessione su quello che è stato. Uno, più duro, invoca anche l’eterna maledizione sui carnefici che qui “lavorarono”, tra i quali si racconta di un comandante del campo che amava sparare ai prigionieri dal balcone in una sorta di macabro tiro al bersaglio, come si vede anche in una scena di “Schindler’s list”.
C’è anche una foto che è l’immagine di copertina di Tango of Death di Yuri Vynnychuk, le cui vicende si svolgono proprio in questo campo.

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Ci accompagna Marta, dell’Università di Leopoli, che ha fatto delle ricerche su Janowska. Anche lei ci spiega, con la traduzione di Mariana, che tra gli internati c’erano un professore del conservatorio, il direttore dell’orchestra di Leopoli e altri musicisti, che erano costretti a suonare durante le esecuzioni. Qui vicino, allora, c’era un cimitero. Il medico del campo riusciva, a volte, a salvare le persone più deboli dichiarandole morte e facendole gettare nelle fosse comuni, da cui poi riuscivano a uscire. Ma succedeva anche che i prigionieri venivano fatti correre sui sassi aguzzi e chi cadeva veniva fucilato. Si dice anche che ci fosse una macchina che triturava i cadaveri, nella quale sarebbero stati ritrovati cento chili di oggetti d’oro, ma non si sa se sia vero.
Qui sono morti più di centomila ebrei provenienti da Leopoli o dalla Galizia, ma anche più di mille ucraini, polacchi e persone di altre nazionalità. Per la maggior parte degli ebrei, questo era un campo di transito dove venivano fatti lavorare come schiavi prima di essere deportati al campo di sterminio di Belzec. Si calcola che di qui siano passate diverse centinaia di migliaia di persone.
Potrebbero essere passati di qui, e morti qui, anche i soldati italiani protagonisti di un’altra storia tristissima, dimenticata e ancora controversa: quella dei morti di Leopoli.
Alcuni appunti inediti di Nuto Revelli, autore de “L’ultimo fronte”, dove si occupava della sorte di 60.000 dispersi mai ritornati dalla ritirata di Russia, rivelano le manovre politiche per “insabbiare” la realtà storica di un eccidio. Migliaia di soldati del contingente italiano in Russia scomparvero, vittime dei tedeschi, e si arrivò a negarne l’esistenza. In questi scritti inediti Revelli, che è scomparso nel 2004, continuava a testimoniare e a cercare la verità sulla distruzione dell’Armir, il corpo di spedizione in Unione Sovietica, e sulla sorte dei dispersi. In questa documentazione hanno un particolare rilievo le carte relative alla cosiddetta commissione ministeriale Leopoli, istituita nel 1987 dall’allora ministro della Difesa Giovanni Spadolini con il compito di fare luce, che tuttavia non venne fatta, sul massacro di almeno duemila soldati italiani da parte dei tedeschi a Leopoli, dopo l’8 settembre ’43. Dell’eccidio avevano parlato agenzie e giornali dell’URSS, ma già nel 1960 Jas Gawronski aveva raccolto per Epoca le dichiarazioni di alcune persone che, a Leopoli, avevano visto con i loro occhi i tedeschi che uccidevano i militari italiani.
Revelli fece parte della commissione. E, insieme a Lucio Ceva e a Mario Rigoni Stern, scrisse il testo della relazione di minoranza, in assoluto dissenso con le conclusioni della maggioranza che, nel 1988, decretò che a Leopoli, dove peraltro era di stanza il comando logistico della nostra armata, non era avvenuta alcuna strage. Ragioni di Stato, pressioni internazionali, “armadi della vergogna” in cui erano stati imboscati i fascicoli sulle stragi naziste in Italia, concorsero a occultare la verità su Leopoli.

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Noi, conclusa anche quest’ultima tappa del percorso nella Leopoli in guerra e augurandoci che presto questo luogo venga fatto anch’esso conoscere nell’ambito del recupero della memoria storica della città, ci dirigiamo verso il Caffè Jerusalem (non poteva essere altrimenti), dove questa giornata “ebraica” si concluderà in modo un po’ più ludico.

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Prima di tutto, c’è il concerto della band di musica Yiddish Varnitshkes, dove spicca la voce di Sasha, coadiuvata dal marito che suona la chitarra e all’occorrenza canta anche lui. Sasha è anche molto simpatica e ci tiene a spiegarci tutti i pezzi che il gruppo si appresta ad eseguire.
Si parte con una canzone che le mamme cantano ai bambini, poi tra l’altro ascoltiamo la canzone che dà il titolo al film polacco del 1936 “Der Yid mitn fidl” (L’ebreo col violino) interpretato dall’attrice Molly Picon, una vera diva di quei tempi, e una canzone tratta da una poesia di Anna Margolin, poetessa Yiddish nata a Brest nell’attuale Bielorussia.
Poi una dove si racconta della figlia del ciabattino che incontra il suo amore la notte nel bosco, una ninna nanna per un bambino che diventerà commerciante di mandorle e uvetta, e una canzone in ebraico dedicata alla mamma, cantata dal marito di Sasha.

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Ma il gran finale arriva, ed è quello che vorrei proporvi, con una vivace canzone che racconta di come la melodia del nonno, nascosta in un bicchiere di vino, si tramandi alle nuove generazioni proprio attraverso quel bicchiere di vino: chi lo “bacia” e lo beve la impara subito.

Esibizione piacevolissima, dopo di che il gruppo si ferma con noi ad apprezzare una autentica cena ebraica ashkenazita, preparata per noi dalla chef Lola Landa, che incontriamo di nuovo piacevolmente dopo averla già conosciuta per la prima cena a “casa” di Ivan Franko. Ecco il menù:
Gefilte (pesce stufato)
Forshmak (piatto a base di aringhe, noci e mela)
Gribenkas (pezzetti di pelle d’oca fritti in padella nel loro grasso)
Salsa di caviale
Hummus con funghi
Insalata di stagione
Helzel (pelle del collo di pollo ripieno con un impasto a base di farina)
Varnichkes (contorno di pasta di grano saraceno e tzimes – stufato – di carote)
Piatto principale: Sgombro in salsa d’olive e uvetta con patate arrosto
Dolce: Torta di ciliege preparata seguendo la ricetta della nonna di Lola.
Come tutte le cose belle anche questa serata, e questo viaggio, finiscono, e così si torna verso l’albergo, dove ci ritroviamo ancora una volta con gli ultimi irriducibili a bere qualcosa dando un ultimo sguardo al panorama dalla terrazza. Questa volta, per cambiare, un whiskey irlandese consigliato da Rosa.
Che dire ancora? Resterebbe da raccontare un’ultima mattina libera dedicata chi a qualcuno dei tanti musei cittadini chi allo shopping, ma direi che possiamo anche chiuderla qui, ho approfittato fin troppo della vostra pazienza.
Per concludere non posso che consigliarvi di visitare Leopoli (forse ora sapete dov’è e ne sapete qualcosa di più).
Era sicuramente la città dei confini annullati, forse ora non lo è più ma mantiene un fascino incredibile che, parafrasando uno dei leopolitani nostalgici, è difficile da spiegare a chi non la conosce, ma a nessuno che ci sia stato c’è bisogno di spiegarlo. Si percepisce guardandola, ma anche chiudendo gli occhi, lasciandosi trasportare ed ascoltando le sue storie. Qualcuna ho provato a raccontarvela io, come ho potuto; le altre (perché ce ne sono molte altre, ne sono convinto) scopritele voi.

Grazie per quest’altro viaggio sorprendente a ViaggieMiraggi e soprattutto a Eugenio Berra.
Grazie a Mariana, che come ho detto è stata ben più di una traduttrice.
Grazie anche a Viktoria, Yuri, Artem, Irina, Inna, Marta e tutte le altre persone che abbiamo conosciuto. Loro non leggono l’italiano ma spero che qualcuno glielo riferisca.
E grazie di cuore a tutte le compagne e tutti i compagni di viaggio, unici come sempre.